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INDIVIDUATE NUOVE TRACCE DI SOSTANZE ORGANICHE NEI SOLFATI SU MARTE

Tracce di composti organici associati a solfati sono state individuate sulla superficie di Marte. A riportare la scoperta è un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature Astronomy, basato su dati raccolti dallo spettrometro Sherloc a bordo del rover Perseverance della NASA, in campioni prelevati nel cratere marziano Jezero. Non è possibile escludere che queste molecole organiche siano residui derivanti dalla degradazione di materia microbica antica, sebbene l’origine più probabile sia considerata abiotica, più specificamente attraverso reazioni di gas magmatici con ossidi di ferro presenti nelle rocce vulcaniche. A guidare il team è Teresa Fornaro, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

Vista 3D del target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio deltizio di Jezero crater, dove lo strumento Sherloc del rover Perseverance della NASA ha rilevato firme spettrali compatibili con idrocarburi policiclici aromatici all’interno di grani di solfato, suggerendo la preservazione di molecole organiche complesse in matrici minerali evaporitiche. Crediti: Teresa Fornaro, Andrew Alberini, Giovanni Poggiali, con modello 3D del target Pilot Mountain da: "M2020 WATSON -- Pilot Mountain, sol 874" (https://skfb.ly/oJWWx) by Mastcam-Z is licensed under Creative Commons Attribution (http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/)
Vista 3D del target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio deltizio di Jezero crater, dove lo strumento Sherloc del rover Perseverance della NASA ha rilevato firme spettrali compatibili con idrocarburi policiclici aromatici all’interno di grani di solfato, suggerendo la preservazione di molecole organiche complesse in matrici minerali evaporitiche. Crediti: Teresa Fornaro, Andrew Alberini, Giovanni Poggiali, con modello 3D del target Pilot Mountain da: “M2020 WATSON — Pilot Mountain, sol 874” (https://skfb.ly/oJWWx) by Mastcam-Z is licensed under Creative Commons Attribution (http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/)

La ricerca di molecole organiche su Marte è centrale per capire se il pianeta abbia mai offerto condizioni favorevoli alla vita. Alcuni composti organici possono infatti rappresentare nutrienti, mentre altri, più complessi, potrebbero costituire vere e proprie biofirme. Nonostante in passato siano già state individuate molecole organiche, la loro origine e conservazione restano ancora poco chiare.

Proprio per questo il cratere Jezero, antica area deltizia che un tempo ospitava un lago e che potrebbe aver avuto un alto potenziale di abitabilità, è oggi uno dei luoghi più interessanti da studiare. Qui, lo strumento Sherloc (Scanning Habitable Environments with Raman and Luminescence for Organics and Chemicals) a bordo del rover Perseverance ha rilevato segnali Raman forti e complessi associati a solfati, in particolare nelle aree denominate Quartier e Pilot Mountain, rispettivamente sul fondo del cratere e sul ventaglio deltizio.

“Quando Sherloc ha rivelato forti segnali Raman nella regione spettrale degli organici nel target Quartier, ci siamo entusiasmati. Questi segnali erano associati spazialmente a solfati di magnesio e calcio, che sulla Terra mostrano grandi capacità di preservazione della materia organica”, sottolinea Teresa Fornaro. “L’associazione con i solfati era davvero un enigma affascinante e mi ha spinta a esaminare uno per uno gli 839 spettri acquisiti da Sherloc in cui sono stati rilevati solfati sul fondo del cratere e sul ventaglio deltizio di Jezero, alla ricerca di segnali potenzialmente indicativi di composti organici. In questo modo, ho scoperto che il target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio, mostra segnali Raman simili a quelli osservati in Quartier”.

Per verificare l’ipotesi che i segnali osservati sono effettivamente dovuti a molecole organiche, il team ha condotto esperimenti nel Laboratorio di Astrobiologia dell’INAF a Firenze. Sono stati utilizzati materiali analoghi marziani e strumenti simili a Sherloc, riproducendo processi naturali in condizioni controllate. Il confronto con i dati acquisiti in situ ha permesso di consolidare l’interpretazione organica.

“Il Laboratorio di Astrobiologia di Arcetri, grazie al supporto dell’INAF e dell’Agenzia Spaziale Italiana, ha acquisito nel corso degli anni strumentazioni all’avanguardia che ci hanno permesso di ritagliarci un ruolo di rilievo nel contesto internazionale per quanto riguarda i temi dell’astrobiologia” spiega John Brucato dell’INAF, responsabile del laboratorio e coautore dello studio. “Siamo in grado di caratterizzare i composti organici presenti nei materiali che ci giungono dallo spazio, come le meteoriti o i campioni riportati a terra dalle missioni, e di simulare le condizioni e i processi chimico-fisici che possono verificarsi sulla superficie di Marte. Grazie alla partecipazione alle missioni marziane con i rover Perseverance della NASA e Rosalind Franklin dell’ESA, il nostro ambizioso obiettivo è riuscire a trovare le biofirme di una vita extraterrestre”.

“Nello specifico, abbiamo mescolato minerali solfati con molecole organiche aromatiche facilmente rilevabili da Sherloc, utilizzando metodi che imitano processi naturali potenzialmente avvenuti in passato in un ambiente acquoso a Jezero, seguiti da essiccazione. Successivamente, abbiamo analizzato i campioni preparati con strumenti analoghi a Sherloc”, spiega ancora Fornaro. “Questo metodo ci ha permesso di acquisire un set di dati di riferimento da confrontare direttamente con le osservazioni in situ, essenziali per interpretare correttamente i complessi segnali provenienti da Marte. Sulla base di queste indagini, abbiamo potuto attribuire questi segnali a idrocarburi policiclici aromatici preservati all’interno dei solfati”.

Il Cratere Jezero su Marte ripreso dalla sonda Mars Express dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA). Crediti: ESA/DLR/FU Berlin
Il Cratere Jezero su Marte ripreso dalla sonda Mars Express dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Crediti: ESA/DLR/FU Berlin

Il rilevamento in rocce vulcaniche suggerisce che gli idrocarburi policiclici aromatici possano essersi formati attraverso processi magmatici e, in seguito, essere stati mobilizzati dall’acqua e intrappolati nei solfati. I fluidi circolanti, comprese possibili acque idrotermali, avrebbero favorito il loro accumulo selettivo e la conservazione nelle rocce del cratere Jezero. Questi risultati si aggiungono a precedenti evidenze da meteoriti e dal cratere Gale, rafforzando il ruolo dei solfati nella conservazione della materia organica marziana.

“Sebbene non siano state trovate prove che questa materia organica sia di origine biologica, non è possibile escludere completamente che le sostanze organiche rilevate in queste rocce possano derivare dall’alterazione chimica di antichi composti biotici” conclude Fornaro“In attesa di un possibile futuro ritorno di questi campioni marziani per analisi più dettagliate sulla Terra, stiamo continuando a indagare sulla natura delle altre componenti di questi segnali complessi, la cui origine è ancora da chiarire del tutto”.

Riferimenti bibliografici:
L’articolo Evidence for polycyclic aromatic hydrocarbons detected in sulfates at Jezero crater by the Perseverance rover, di Teresa Fornaro, Sunanda Sharma, Ryan S. Jakubek, Giovanni Poggiali, John Robert Brucato, Rohit Bhartia, Andrew Steele, Ashley E. Murphy, Mike Tice, Mitchell D. Schulte, Kevin P. Hand, Marc D. Fries, William J. Abbey, Andrew Alberini, Daniela Alvarado-Jiménez, Kathleen C. Benison, Eve L. Berger, Sole Biancalani, Adrian J. Brown, Adrian Broz, Wayne P. Buckley, Denise K. Buckner, Aaron S. Burton, Sergei V. Bykov, Emily L. Cardarelli, Edward Cloutis, Stephanie A. Connell, Cristina Garcia-Florentino, Felipe Gómez, Nikole C. Haney, Carina Lee, Valeria Lino, Paola Manini, Francis M. McCubbin, Michelle Minitti, Richard V. Morris, Yu Yu Phua, Nicolas Randazzo, Joseph Razzell Hollis, Francesco Renzi, Sandra Siljeström, Justin I. Simon, Anushree Srivastava, Nicola Tasinato, Kyle Uckert, Roger C. Wiens, Amy J. Williams, è stato pubblicato su Nature Astronomy.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

Da Pantelleria a Marte: in un lago siciliano si sperimenta l’origine della vita

Nell’isola siciliana, un team di ricercatori italiani ha identificato un ambiente naturale con analogie geologiche con Marte e che potrebbe simulare anche le condizioni della Terra primordiale. Lo studio, pubblicato sull’International Journal of Molecular Sciences, è frutto della collaborazione tra Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), Istituto nazionale di astrofisica (INAF) e le Università della Tuscia e Sapienza di Roma, finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI).
In una lettera del 1871 al suo amico Joseph Dalton Hooker, Charles Darwin ipotizzava che la vita potesse essere nata in ‘un piccolo stagno caldo’. Oggi, a oltre 150 anni di distanza, quell’ipotesi trova maggiori conferme grazie allo studio che un team interdisciplinare di scienziati italiani ha effettuato sull’isola di Pantelleria, in particolare presso il piccolo lago termale chiamato ‘Bagno dell’Acqua’: Questo luogo si è rivelato un laboratorio naturale ideale per simulare ambienti simili a quelli che potrebbero essere esistiti miliardi di anni fa sia sulla Terra che su Marte, offrendo preziosi indizi sui meccanismi universali dell’origine della vita.
Immagine satellitare con esperimenti
Immagine satellitare con esperimenti

La ricerca, pubblicata sull’International Journal of Molecular Sciences, è stata condotta da ricercatori e ricercatrici del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), dell’Università della Tuscia, dell’Istituto nazionale di astrofisica (INAF), dell’Università Sapienza di Roma, con la collaborazione dell’Ente Parco nazionale Isola di Pantelleria e finanziata dall’Agenzia spaziale italiana (ASI)  con i progetti ‘ExoMars’ e ‘Migliora’.

“Il lago ‘Bagno dell’Acqua’ si distingue per la combinazione unica di alta alcalinità, attività idrotermale, diversità mineralogica e attività microbica. Utilizzando l’acqua del lago, ricca di minerali, siamo riusciti a sintetizzare molecole di RNA (una delle due molecole, assieme al DNA, fondamentali per la vita) a partire da alcuni suoi precursori: i nucleotidi contenenti la guanina, una delle quattro famose basi azotate”,
spiega Giovanna Costanzo, biologa molecolare dell’Istituto di biologia e patologia molecolari del CNR (CNR-IBPM).
“A Pantelleria, in un’ambiente esterno al laboratorio, dove solitamente si svolgono le nostre attività, abbiamo verificato la possibilità di condurre esperimenti di astrobiologia, sfruttando le proprietà chimiche e fisiche di un lago con caratteristiche simili sia a quelle ipotizzate per la Terra primitiva, ovvero il nostro pianeta circa 4,5 miliardi di anni fa, che a quelle rilevate in aree marziane di grande interesse astrobiologico, come il cratere Jezero e la regione di Oxia Planum, attualmente considerati prioritari per la ricerca di antiche forme di vita”.
I ricercatori sono riusciti a sintetizzare non solo l’RNA, ma anche tutte le basi azotate presenti sia nel DNA che nell’RNA.
“Inoltre, sono stati ottenuti anche componenti del PNA (Acido Peptidico Nucleico), un potenziale precursore degli attuali acidi nucleici, che potrebbe aver rappresentato un ponte tra genetica e metabolismo” spiega il chimico organico Raffaele Saladino dell’Università della Tuscia di Viterbo. “La vita, pertanto, avrebbe potuto avere una modalità di origine chimica comune sia nel lontano passato di Marte che sulla Terra primitiva”.
Il progetto Migliora (‘Modeling Chemical Complexity: all’Origine di questa e di altre Vite per una visione aggiornata delle missioni spaziali’) si inserisce all’interno di un programma nazionale di astrobiologia che Asi sta coordinando già dal 2020.
“I risultati di questo progetto costituiscono un tassello fondamentale nella conoscenza dell’origine della vita sulla Terra” sottolinea Claudia Pacelli, Responsabile Scientifico del progetto per Asi. “Riteniamo che queste ricerche contribuiranno inoltre a rafforzare il ruolo della comunità scientifica italiana nel contesto della ricerca astrobiologica internazionale”.
microbialite Pantelleria
microbialite Pantelleria
Riferimenti bibliografici:
Valentina Ubertini, Eleonora Mancin, Enrico Bruschini, Marco Ferrari, Agnese Piacentini, Stefano Fazi, Cristina Mazzoni, Bruno Mattia Bizzarri, Raffaele Saladino, Giovanna Costanzo, “The “Bagno dell’Acqua” Lake as a Novel Mars-like Analogue: Prebiotic Syntheses of PNA and RNA Building Blocks and Oligomers”, International Journal of Molecular Sciences, 2025, 26, 6952. https://doi.org/10.3390/ijms26146952
Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Marte: uno studio rivela la struttura interna e l’età della sua calotta ghiacciata

Una ricerca internazionale, a cui ha contribuito la Sapienza, ha fornito nuove informazioni sulla composizione del sottosuolo marziano e ha definito le caratteristiche dei ghiacciai che ricoprono il polo nord del pianeta.  I risultati, pubblicati su Nature, si basano su un’analisi geofisica simile a quella utilizzata sulla Terra per studiare la deformazione della crosta sotto il peso delle masse glaciali.

La superficie della Terra e quella di Marte, come degli altri pianeti terrestri, è costituita perlopiù da roccia e metalli. Nonostante l’aspetto apparentemente inalterabile, la crosta di questi pianeti è soggetta a una serie di deformazioni. Ma rispetto al mantello terrestre, quello marziano risulta essere molto più resistente: a questa scoperta, recentemente pubblicata su Nature, ha contribuito il Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza. Gli scienziati sono partiti dallo studio del polo nord di Marte per capire come la superficie del pianeta risponda alla pressione esercitata da una vasta calotta di ghiaccio, documentando per la prima volta in ambito planetario processi di isostasia post-glaciale.

La calotta polare di Marte, con uno spessore di circa 3 km e un’età relativamente giovane, deforma la crosta marziana in modo simile a quanto osservato sulla Terra, dove la crosta si solleva gradualmente dopo lo scioglimento delle calotte glaciali. Questo processo, noto come assestamento isostatico glaciale, è stato studiato sulla Terra per stimare la viscosità e la struttura del mantello. L’applicazione di questo metodo a Marte ha rappresentato una sfida significativa a causa della limitata disponibilità di dati.

Se sulla Terra si possono sfruttare sismometri distribuiti in una rete complessa per monitorare con precisione la risposta della crosta al carico glaciale, su Marte le opportunità di osservazione sono molto più limitate. Ad oggi, infatti, è stato posizionato solo un sismometro sul pianeta rosso, a bordo della missione InSight. Per superare questa difficoltà, il gruppo di ricerca ha combinato le misure provenienti dal sismometro con l’analisi delle variazioni temporali delle anomalie gravitazionali su Marte. A ciò si aggiungono modelli di evoluzione termica, che insieme hanno permesso di ottenere informazioni fondamentali sulla deformazione della crosta marziana, e quindi sulle caratteristiche della struttura interna.

“Grazie a questo approccio combinato, è stato possibile misurare il tasso di deformazione della crosta marziana, che risulta estremamente lento – spiega Antonio Genova della Sapienza – Le nostre stime indicano che il polo nord di Marte sta attualmente cedendo ad una velocità massima di 0,13 millimetri all’anno, un valore che riflette la viscosità del mantello superiore, compresa tra dieci a cento volte quella terrestre. Questo implica che l’interno di Marte è estremamente freddo e resistente alla deformazione”.

Lo studio fornisce informazioni importanti sulla struttura interna di Marte, un pianeta che potrebbe offrire ulteriori indizi sull’evoluzione dei pianeti rocciosi, compresa la Terra. Inoltre, i risultati indicano che la calotta polare marziana, con un’età stimata in questo studio tra 2 e 12 milioni di anni, è significativamente più giovane rispetto ad altre grandi strutture della superficie del pianeta. Questa scoperta apre nuove prospettive per le future missioni spaziali, come Oracle, proposta e concepita dal gruppo di Sapienza, e MaQuIs, che potranno approfondire la comprensione della storia geologica del pianeta, del suo passato climatico e della sua potenziale abitabilità.

Riferimenti bibliografici:

Broquet, A., Plesa, AC., Klemann, V. et al. Glacial isostatic adjustment reveals Mars’s interior viscosity structure, Nature (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-024-08565-9

Marte Curiosity cratere
Immagine da Curiosity. Foto NASA/JPL-Caltech/MSSS in pubblico dominio

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Nuova mappa della calotta polare di Marte rivela informazioni sull’evoluzione climatica 

Uno studio italiano coordinato dal Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza ha confrontato i dati geofisici acquisiti da differenti missioni spaziali per determinare la quantità di acqua ancora presente sul pianeta rosso. Il lavoro, pubblicato su Icarus, getta nuova luce sull’evoluzione del clima marziano e dei pianeti terrestri.

Lo studio accurato delle calotte polari di Marte rappresenta uno degli obiettivi fondamentali delle missioni spaziali che esplorano il pianeta rosso in quanto conservano informazioni cruciali sull’evoluzione del clima marziano. Sebbene la presenza di acqua sulla superficie in ere geologiche passate sia stata dimostrata attraverso vari dati, i processi che hanno portato alla perdita di acqua dalla superficie e dall’atmosfera sono ancora poco conosciuti. La misurazione accurata della concentrazione dei tre principali elementi nelle calotte polari – polvere, ghiaccio secco e ghiaccio d’acqua – è quindi un risultato fondamentale per determinare la quantità di acqua ancora presente sul pianeta rosso.

Un team di ricercatori del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale e dello Space Robotics Investigation Group (SPRING) della Sapienza Università di Roma ha utilizzato nuovi metodi e modelli matematici combinando dati geofisici acquisiti da differenti missioni spaziali per fornire, per la prima volta, una mappa accurata della distribuzione del ghiaccio d’acqua nel polo sud di Marte. Il lavoro, pubblicato sulla rivista Icarus, ha importanti implicazioni nello studio dell’evoluzione del clima dei pianeti terrestri.

I risultati ottenuti hanno consentito di vincolare la concentrazione e la distribuzione del ghiaccio d’acqua nel polo sud marziano: le stime indicano che l’80% della superficie di questi depositi presenta una concentrazione di acqua pari o superiore al 50%. È stato inoltre possibile stimare il volume d’acqua nella calotta polare, che si attesta circa tra 1 e 1.3 milioni di chilometri cubi.

La mappatura della presenza di polvere mostra inoltre una frazione di volume molto elevata nelle zone occidentali, confinanti con i probabili resti di una calotta polare formata in ere geologiche precedenti. Si ritiene che l’asse polare di Marte abbia subito una migrazione dalla posizione della calotta polare più antica a quella attuale, probabilmente a causa di un impatto. La presenza di polveri potrebbe confermare la formazione di tali depositi in epoche precedenti.

“La conoscenza accurata della composizione della calotta polare rappresenta uno degli obiettivi scientifici principali per comprendere l’evoluzione del clima marziano – spiega Antonio Genova, coordinatore dello studio. “Comprendere le cause naturali che hanno determinato variazioni temporali delle condizioni climatiche su pianeti analoghi è di grande rilevanza e si inserisce nel contesto della ricerca sul cambiamento climatico terrestre”.

Riferimenti Bibliografici:

Water ice concentration and distribution in the Martian south polar layered deposits constrained by the lateral variations of their bulk density – Antonio Genova, Flavio Petricca, Simone Andolfo, Anna Maria Gargiulo, Davide Sulcanese, Giuseppe Mitri, Gianluca Chiarolanza – Icarus 2024. https://doi.org/10.1016/j.icarus.2024.116025

Marte Curiosity cratere
Nuova mappa della calotta polare di Marte rivela informazioni sull’evoluzione climatica; lo studio ha confrontato i dati geofisici acquisiti da differenti missioni spaziali. Immagine da Curiosity. Foto NASA/JPL-Caltech/MSSS in pubblico dominio

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Intitolato un cratere di Marte a Giovanni Picardi

Il riconoscimento è stato attribuito dall’Unione Astronomica Internazionale al professore della Sapienza, punto di riferimento nel mondo delle applicazioni spaziali di tecnologie radar, scomparso nel 2015.

Lo IAU Working Group per la nomenclatura del sistema planetario ha assegnato il nome di Giovanni Picardi a un ampio cratere di Marte.

“Un riconoscimento per il contributo che il nostro docente ha dato allo studio e alla conoscenza del Pianeta rosso – ha dichiarato la rettrice Antonella Polimeni – e per i nostri ricercatori e le nostre ricercatrici che quotidianamente lavorano per rendere lo spazio meno lontano e sconosciuto”.

Giovanni Picardi è stato punto di riferimento per tutti i radar dell’Agenzia spaziale italiana, a partire dal programma X-SAR sviluppato in collaborazione con l’Agenzia spaziale tedesca e presente in tre voli dello Space Shuttle. Ma ha avuto un ruolo fondamentale anche per i radar presenti in diverse missioni interplanetarie, da Mars Express – di cui è stato responsabile scientifico del radar MARSIS – a Mars Reconnaissance Orbiter fino a Cassini.

Il lavoro scientifico di Picardi, ampiamente riconosciuto a livello internazionale in particolare presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA, ha prodotto innovativi concetti di sistema in grado di svelare gli aspetti più nascosti di mondi quali Marte e Titano; nonché di contribuire  a realizzare l’avanzato e innovativo sistema italiano COSMO-SkyMed per l’osservazione della Terra con tecniche radar.

Il contributo del docente della Sapienza è stato fondamentale anche nell’ambito della formazione e della didattica. Come fondatore e primo direttore del Dipartimento di Scienza e tecnica dell’informazione e della comunicazione, poi confluito nel Dipartimento di ingegneria dell’informazione, elettronica e telecomunicazioni, Picardi è stato un “maestro” per almeno tre generazioni accademiche di studenti e ricercatori nel settore delle telecomunicazioni e creatore di un nuovo dottorato interdisciplinare in Telerilevamento.

Marte Curiosity cratere
Immagine da Curiosity. Foto NASA/JPL-Caltech/MSSS in pubblico dominio

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

UNO SPETTROMETRO ITALIANO CI DARÀ RISPOSTE DECISIVE SULLA PRESENZA DI VITA SU MARTE

Progettato per studiare la mineralogia e le proprietà fisiche del sottosuolo marziano, lo spettrometro italiano Ma_MISS a bordo del rover Rosalind Franklin della missione ESA ExoMars potrà rivelare anche la presenza di sostanze organiche tra cui l’acido benzoico, sostanza già trovata su Marte dal rover Curiosity. Lo dimostra uno studio pubblicato su Astrobiology, guidato da ricercatori e ricercatrici dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e dell’Università Aix-Marseille.

Il sistema di misurazione di DAVIS, il nuovo modello di laboratorio dello strumento Ma_MISS.
Crediti: INAF/ASI/Ma_MISS team

Uno degli strumenti a bordo del rover Rosalind Franklin dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), che esplorerà Marte nell’ambito del programma ExoMars, è l’italiano Ma_MISS (Mars Multispectral Imager for Subsurface Studies), realizzato da Leonardo, con il finanziamento e coordinamento dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e la supervisione scientifica dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). La missione si propone di rispondere a uno degli interrogativi più affascinanti mai affrontati dall’umanità: c’è, o c’è mai stata, vita sul Pianeta rosso?

Spettrometro italiano Ma_MISS darà risposte sulla presenza di vita su Marte
Uno spettrometro italiano darà risposte sulla presenza di vita su Marte. Dettaglio del trapano e di un campione di test trivellato: si nota la luce che fuoriesce dalla finestra di zaffiro dello strumento Ma_MISS.
Crediti: INAF/ASI/Ma_MISS team

Ma_MISS è uno spettrometro miniaturizzato a fibra ottica, operante nelle lunghezze d’onda del visibile e del vicino infrarosso, montato all’interno del trapano del rover che perforerà il suolo marziano, per la prima volta, fino a una profondità di due metri. Il suo principale obiettivo scientifico è quello di ricostruire l’evoluzione geologica di Oxia Planum, una delle più estese e antiche pianure argillose del pianeta, selezionata per l’atterraggio e le esplorazioni del rover Rosalind Franklin. Per farlo, Ma_MISS studierà in situ la composizione delle rocce del sottosuolo e le proprietà ottiche e fisiche dei materiali, come ad esempio la dimensione dei grani. Lo strumento contribuirà inoltre alla ricostruzione dei profili verticali dei siti di perforazione per arrivare a definire i processi geologici che hanno caratterizzato l’area di studio, ricavando importanti informazioni come la mineralogia e l’eventuale presenza e distribuzione di acqua e ghiaccio nel sottosuolo. In quest’ottica, la performance dello strumento era stata inizialmente testata solo su campioni geologici per la caratterizzazione di materiale inorganico. Ora un nuovo studio guidato da ricercatori e ricercatrici dell’INAF, dell’ASI e dell’Università Aix Marseille (Francia), ha dimostrato che Ma_MISS potrà avere un ruolo fondamentale per obiettivi ancora più ampi che rappresentano il focus principale della missione: la ricerca di tracce di vita su Marte. I risultati sono pubblicati sulla rivista Astrobiology.

“Lo strumento Ma_MISS sarà l’unico ad operare realmente in situ nel sottosuolo marziano, perché l’altro spettrometro a bordo del rover (MicrOmega) opererà sul campione prelevato in profondità successivamente ad un trattamento di macinazione, che ne modifica le caratteristiche originarie” spiega Marco Ferrari dell’INAF, primo autore del lavoro. “Allora ci siamo chiesti se Ma_MISS potesse in qualche modo dare informazioni non solo mineralogiche, ma anche relative alla presenza di sostanze organiche direttamente nel sottosuolo, ovvero prima del prelievo del campione, restituendo così una informazione completa del sottosuolo inalterato. E la risposta è stata affermativa: i dati di Ma_MISS sul sottosuolo inalterato potrebbero essere fondamentali nella scelta della profondità di prelievo dei campioni della missione. L’eventuale rilevamento di materia organica da parte di Ma_MISS risulterebbe quindi cruciale nella selezione del campione di una missione deputata alla ricerca di tracce di vita passata o presente nel sottosuolo marziano”.

Per questo lavoro, il team ha condotto dapprima un primo studio della composizione di Oxia Planum attraverso dati di missioni precedenti: questo ha permesso la preparazione di una serie di campioni, partendo da analoghi della composizione del suolo marziano con l’aggiunta di sostanze organiche in diverse quantità. In particolare, i campioni analoghi marziani sono stati arricchiti con la glicina (il più semplice tra gli amminoacidi); l’asfaltite (una forma di asfalto, o bitume, presente in natura); il poliossimetilene (un polimero cristallino); e l’acido benzoico (un composto aromatico che si trova naturalmente in molte piante). I ricercatori hanno quindi ottenuto uno spettro dei diversi campioni in laboratorio, utilizzando il modello di laboratorio dello strumento Ma_MISS disponibile presso l’INAF a Roma, per poi analizzare e interpretare i dati raccolti.

“Questa ricerca mostra le potenzialità dello strumento italiano Ma_MISS nel rilevamento di sostanze organiche all’interno di campioni minerali” aggiunge Maria Cristina De Sanctis, principal investigator di Ma_MISS e co-autrice del nuovo lavoro. “Solitamente, tramite la spettroscopia, le sostanze organiche vengono rivelate intorno ai 3 micron. Con Ma_MISS invece abbiamo tentato di rivelarle nell’intervallo tra 0.5 e 2.3 micron. Come risultato abbiamo ottenuto che Ma_MISS è in grado di rilevare diverse sostanze organiche all’interno di una miscela minerale quando queste sono presenti fino alla quantità minima dell’1% in peso”.

“Inizialmente, il compito di Ma_MISS era quello di fornire un contesto mineralogico per i campioni  prelevati nel terreno marziano e che sarebbero poi stati analizzati nel laboratorio analitico presente sul rover”, dichiara Eleonora Ammannito, ASI Project Scientist dello strumento Ma_MISS e co- autrice dello studio. “Con questo studio abbiamo dimostrato che Ma_MISS può fare molto di più cioè, ovvero può fare l’identificazione diretta di alcuni tipi di materiale organico. Questo risultato dimostra la centralità dello strumento Ma_MISS rispetto all’obiettivo primario della missione Rosalind Franklin che è quello di trovare eventuali tracce di vita presente o passata sul pianeta Marte”.

Dopo la sospensione e il successivo annullamento del lancio a marzo 2022, l’ESA sta ridefinendo i dettagli della missione ExoMars Rosalind Franklin insieme a partner internazionali e industriali, con nuovi elementi europei. La partenza è attualmente prevista per il 2028.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Constraining the Rosalind Franklin Rover/Ma_MISS Instrument Capability in the Detection of Organics”, di M. Ferrari, S. De Angelis, M.C. De Sanctis, A. Frigeri, F. Altieri, E. Ammannito, M. Formisano, e V. Vinogradoff, è stato pubblicato online sulla rivista Astrobiology.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

DA ATACAMA A MARTE IN CERCA DI VITA

Identificare segni inequivocabili di vita su Marte è uno degli obiettivi che spinge gli scienziati a inviare missioni spaziali sul Pianeta Rosso. Studi effettuati in uno dei luoghi più aridi del nostro pianeta – Piedra Roja, in Cile – suggeriscono che scoprire le tracce di vita su Marte sarà più difficile del previsto. Da quanto è emerso, gli attuali strumenti di rilevamento di tracce biologiche già presenti sulla superficie di Marte o in fase di progettazione, potrebbero non essere abbastanza sensibili per mettere in evidenza tracce di vita estinta. Questo è quanto mette in luce sostanzialmente uno studio appena pubblicato sulla rivista Nature Communications firmato da un team internazionale di ricercatori di istituti sparsi in tutto il mondo, tra cui l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

deserto di Atacama vita Piedras Rojas. Crediti: Armando Azua-Bustos
Da Piedras Rojas, nel deserto di Atacama, a Marte, in cerca di vita. Crediti: Armando Azua-Bustos

Piedra Roja è una regione estremamente inospitale per la vita: si tratta del delta di un ventaglio alluvionale formatosi in condizioni aride nel deserto di Atacama in un periodo che si estende dal Cretaceo inferiore al Giurassico superiore (163-100 milioni di anni).  Il sito è caratterizzato da rocce sedimentarie ricche di ossidi di ferro, ematite e fanghi contenenti argille come vermiculite e smectiti, e quindi geologicamente analogo a Marte.  I campioni prelevati presentano un numero importante di microrganismi con un insolito alto tasso di indeterminazione filogenetica – ciò che viene definito microbioma oscuro – e un mix di “firme biologiche” di microrganismi esistenti e antichi che sono a malapena rilevati con le più moderne attrezzature di laboratorio.

Questi risultati sottolineano l’importanza di riportare a Terra i campioni provenienti da Marte, al fine di utilizzare le più potenti tecniche di rilevamento a oggi disponibili nei laboratori.

Le analisi condotte con strumenti di prova che si trovano o saranno inviati su Marte rivelano che, sebbene la mineralogia di Piedra Roja corrisponda a quella rilevata dagli strumenti a terra sul Pianeta Rosso, livelli altrettanto bassi di sostanze organiche saranno difficili, se non impossibili, da rilevare nelle rocce marziane, a seconda dello strumento e della tecnica utilizzati. I risultati di questo studio sottolineano quindi l’importanza del ritorno dei campioni sulla Terra per stabilire con certezza se la vita sia mai esistita su Marte.

Dall’analisi del DNA dei microrganismi presenti in queste rocce è emerso un dato particolarmente interessante: circa il 9% è risultato non classificabile, mentre a circa il 41% è stato possibile assegnare solo il dominio o al massimo l’ordine, mettendo in evidenza che non sono chiare le relazioni di parentela evolutiva rispetto agli organismi terrestri noti. Si ritiene possano essere specie viventi che non sono ancora state individuate altrove sulla Terra, o in alternativa comunità superstiti di specie microbiche che un tempo abitavano il delta del fiume, delle quali però non sono conosciute specie parenti attualmente esistenti.

Inoltre, sono state rivelate biofirme molecolari di vita estinta e presente che potrebbero provenire da solfobatteri e fototrofi come i cianobatteri, ma che sono in concentrazioni ai limiti della sensibilità di strumentazione d’avanguardia presente nei nostri laboratori terrestri, difficilmente rilevabili con strumenti miniaturizzati come quelli a bordo dei rover marziani.

John Brucato, astrobiologo dell’INAF di Arcetri e tra i firmatari dell’articolo, osserva: “Questo è il classico esempio di come si lavora nell’ambito dell’astrobiologia, perché si tratta di un lavoro corale, che comprende la collaborazione di molteplici istituti di ricerca sparsi in tutto il mondo, in ognuno dei quali c’è una particolare expertise. Sono stati messi insieme risultati che riguardano la geologia, la petrologia, la mineralogia, la chimica, la biologia e la planetologia proprio perché questo tipo di lavori saranno utili per lo studio di Marte. Il lavoro congiunto dei diversi gruppi di ricerca è stato coordinato in maniera tale da raggiungere nuove conoscenze attraverso diverse tecniche, per capire la natura di questi microrganismi che vivono in un ambiente completamente arido. La regione in cui sono stati fatti questi prelievi è infatti il deserto più arido in assoluto che si possa trovare sulla Terra e questi microorganismi sembrano essere davvero peculiari e molto diversi da tutti gli altri conosciuti finora, se consideriamo che la quantità di microorganismi è talmente elevata che se ne scoprono continuamente di diversi. In questo caso, si tratta di una classe veramente nuova che ha permesso di capire la loro adattabilità in condizioni estreme che le può far considerare simili a quelle marziane”.

Teresa Fornaro, ricercatrice dell’INAF di Firenze, sottolinea: “Ci siamo occupati in particolare dell’analisi dei campioni utilizzando la tecnica di spettroscopia infrarossa a trasformata di Fourier di riflettanza diffusa (Drifts). Questo ci ha permesso di analizzare i campioni in modo analogo a strumenti a bordo di missioni marziane, come lo strumento SuperCam a bordo del rover Perseverance della missione della NASA Mars 2020 e lo strumento MicrOmega che volerà sulla futura missione dell’ESA ExoMars /Rosalind Franklin. Le nostre analisi hanno confermato la composizione mineralogica di queste rocce, ma la rivelazione di composti organici è stata possibile principalmente nella regione spettrale del medio infrarosso che non corrisponde a quella investigata dagli strumenti SuperCam e MicrOmega. Nella regione spettrale di SuperCam e MicrOmega abbiamo rivelato solo una banda a 1.36 μm che potrebbe essere dovuta a vibrazioni non fondamentali degli organici. La capacità quindi di questi strumenti di rivelare organici su Marte in concentrazioni basse come quelle di Piedra Roja è limitata”.


 

Per saperne di più:

L’articolo “Dark microbiome and extremely low organics in Atacama fossil delta unveil Mars life detection limits” di Armando Azua-Bustos, Alberto G. Fairén, Carlos González-Silva, Olga Prieto-Ballesteros, Daniel Carrizo, Laura Sánchez-García, Victor Parro, Miguel Ángel Fernández-Martínez, Cristina Escudero, Victoria Muñoz-Iglesias, Maite Fernández-Sampedro, Antonio Molina, Miriam García Villadangos, Mercedes Moreno-Paz, Jacek Wierzchos, Carmen Ascaso, Teresa Fornaro, John Robert Brucato, Giovanni Poggiali, Jose Antonio Manrique, Marco Veneranda, Guillermo López-Reyes, Aurelio Sanz-Arranz, Fernando Rull, Ann M. Ollila, Roger C.Wiens, Adriana Reyes-Newell, Samuel M. Clegg, Maëva Millan, Sarah Stewar Johnson, Ophélie McIntosh, Cyril Szopa, Caroline Freissinet, Yasuhito Sekine, Keisuke Fukushi, Koki Morida, Kosuke Inoue, Hiroshi Sakuma, Elizabeth Rampe, è stato pubblicato su Nature Communications.

Testo dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

Campidoglio, il Planetario di Roma riapre le porte al pubblico
Agli inizi del 2022 la struttura tornerà visitabile, con una nuova tecnologia all’avanguardia

Roma28 settembre 2021 – Tecnologia digitale, database aggiornabile in tempo reale, esperienze immersive e appuntamenti per pubblici di tutte le età. A sette anni dalla chiusura, avvenuta nel 2014 per lavori di riqualificazione e messa in sicurezza, il Planetario di Roma, ospitato all’interno del Museo della Civiltà Romana, agli inizi del 2022 riaprirà finalmente le sue porte al pubblico, dopo un approfondito intervento di manutenzione.

Un modo per restituire alla città una delle sue eccellenze, invitare curiosi e appassionati a scoprire nuovi modi di “guardare” l’universo e, magari, affascinare i giovanissimi, crescendo gli astronomi di domani. L’iniziativa è promossa da Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Servizi museali Zètema Progetto Cultura.

Molte le sorprese, tra tecnica, comfort ed eventi. Cardine degli interventi, che hanno interessato la struttura negli ultimi anni e, in parte, sono ancora in corso, è la strumentazione. Il vecchio proiettore ottico supportato da un solo canale digitale proiettato su finestre cederà, infatti, il passo a un software all’avanguardia.

Il nuovo planetario digitale, con un articolato sistema di videoproiettori ad altissimo contrasto, con risoluzione 4K, sarà in grado di ricostruire con estremo realismo la superficie di Terra, Luna e Marte, nonché di andare oltre, nei luoghi più lontani dell’universo, tra galassie e nebulose.

La possibilità di archiviare una grande mole di dati e di effettuare aggiornamenti in tempo reale, in base alle novità astronomiche, inoltre, permetterà di seguire le scoperte della comunità scientifica. Obiettivo, far sì che i visitatori possano essere incuriositi, divertirsi ed essere informati sulle più recenti scoperte sull’universo.

Planetario di Roma riapre

Informazioni e conoscenze non saranno oggetto di lezioni o conferenze, ma nello stile caratteristico del Planetario di Roma Capitale saranno al centro di veri e propri spettacoli astronomici. Realismo e immersività, anche tramite un sistema audio studiato ad hoc, sono le chiavi del progetto, concepito per offrire al pubblico la possibilità di interagire con il “cielo”, diventando protagonista della scena, ovviamente sempre nel pieno rispetto delle dinamiche reali.

Planetario di Roma riapre

L’interazione non sarà solo tra astronomi del Planetario e visitatori. Il software consentirà pure di dialogare con una community internazionale di planetari condividendo, anche dal vivo, tramite cloud, esiti di ricerche e studi, nonché spettacoli, modalità di narrazione, soluzioni creative al servizio della divulgazione scientifica. Peculiarità del Planetario di Roma è, infatti, il linguaggio interdisciplinare creato nel corso di questi anni dallo staff scientifico. Il nuovo software non modificherà approccio e filosofia, ma consentirà di promuovere una programmazione culturale e scientifica all’avanguardia, in un gioco di suggestioni immersive, contaminazioni tra linguaggi differenti, sperimentazioni. La riapertura del Planetario segnerà anche la ripresa di attività ed eventi, incentrata sulla trasversalità dei linguaggi, spaziando dall’astronomia alla storia, dalla geologia all’arte.

Non soltanto tecnologia. Gli interventi hanno interessato pure l’atrio con i propilei esterni e le scalinate, oltre ad ambienti di servizio e destinati agli uffici. Senza trascurare le finiture dell’edificio e della sala. Sono state sostituite le poltrone, mantenendo però la disposizione circolare per valorizzare l’esperienza del “viaggio” immersivo, evitando l’effetto cinema. Ed è stata effettuata la pulizia della cupola. Tutto il complesso del Museo della Civiltà Romana, che ospita il Planetario, è stato interessato da una serie di importanti interventi. Grazie a un finanziamento di Roma Capitale, si è provveduto al risanamento degli impianti, della pavimentazione esterna e delle coperture, oltre ai lavori finalizzati alla riapertura del Planetario.

Planetario di Roma riapre

Il restauro della sala del plastico ricostruttivo di Roma in età costantiniana, realizzato dall’architetto Italo Gismondi, sarà oggetto di un intervento per cui Roma Capitale ha previsto uno stanziamento di 1.100.000 euro.

Un’importante fase dei lavori è compresa nel PNRR con l’assegnazione di 18 milioni di euro destinati a interventi di manutenzione straordinaria e di restauro e risanamento conservativo del museo e della collezione, con l’obiettivo di realizzare nuovamente un’esposizione organica e consentire un’esperienza immersiva nella vita di età romana, offrendo un archivio di conoscenze per la comunità scientifica e per gli utenti anche non specialisti.

Tra le altre finalità, assicurare la conservazione dell’edificio, il rinnovo degli elementi che abbiano mostrato criticità, l’efficientamento energetico, la revisione del percorso espositivo con ulteriori spazi e servizi a disposizione del pubblico, come attività laboratoriali e aree di sosta e riposo, l’allestimento di un laboratorio di restauro e di riproduzione tridimensionale.

Riapre il Planetario di Roma
Riapre il Planetario di Roma

Un articolato piano di lavori concepito per permettere ai romani e non solo di tornare a godere pienamente della struttura e a contemplare i suoi tesori.

Planetario di Roma riapre
Riapre il Planetario di Roma

Testo, foto e video da Ufficio Stampa Zètema Progetto Cultura

Riapre il Planetario di Roma
Riapre il Planetario di Roma

COME CAMBIANO LE FUNZIONI COGNITIVE IN ASSENZA DI GRAVITÀ

RICERCATORI DI UNITO IMPEGNATI IN VOLI PARABOLICI
CON L’AGENZIA SPAZIALE EUROPEA

Il Dipartimento di Psicologia dell’Ateneo torinese è capofila del progetto internazionale GraviTo. I risultati saranno utili alle future missioni nello spazio profondo, come ad esempio quelle su Marte

GraviTo
La campagna voli 2019. Foto Courtesy ESA

Il 26, 27 e 28 aprile un team di ricercatori guidato dall’Università di Torino effettuerà una campagna di voli parabolici per testare gli effetti dell’assenza di peso e della microgravità sulle funzioni cognitive degli esseri umani. Gli esperimenti saranno svolti a bordo di un Airbus A310 Zero-G, e il volo sarà effettuato dalla società francese Novespace all’aeroporto di Bordeaux Mérignac.

I ricercatori fanno parte del progetto GraviTo (Spatial Attention and Motor Awareness in Altered Gravitational Environments), che ha vinto un bando dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ed è stato presentato dal Dipartimento di Psicologia di UniTo insieme alla Université Catholique de Louvain (UCLouvain, Brussels, Belgio), alla Medical University of South Carolina (MUSC, Charleston, USA), e a Vastalla srl, una PMI italiana.

Gli studi previsti dal progetto rientrano nelle sperimentazioni di quella che può essere definita la “Neuropsicologia dello Spazio”. GraviTo ha, più precisamente, l’obiettivo di indagare come cambiano l’attenzione spaziale e la consapevolezza motoria in condizioni di gravità alterata, due funzioni di rilievo per astronauti e piloti. Il progetto scientifico è coordinato dalla Prof.ssa Raffaella Ricci (UniTo e MUSC), docente di Psicobiologia e Psicologia Fisiologica del Dipartimento di Psicologia di UniTo, insieme alla Dott.ssa Adriana Salatino (UniTo e UCLouvain) e al Dott. Stefano T. Chiadò (Vastalla). Il team del Dipartimento di Psicologia è inoltre composto dalla Prof.ssa Annamaria Berti e dai Dott.ri Roberto GammeriClaudio Iacono ed Emanuele Cirillo.

In questa campagna di voli (75esima ESA Parabolic Flight Campaign) i diversi progetti selezionati dall’ESA, tra cui GraviTo, sono condotti durante tre voli effettuati in tre giorni distinti. Negli esperimenti di voli parabolici le condizioni a gravità ridotta sono create effettuando una manovra di volo parabolico che produce periodi di assenza di peso di circa 22 secondi. Ogni parabola inizia (pull-up) e finisce (pull-out) con un periodo di ipergravità (a 1,8 g; g è il simbolo che indica l’accelerazione di gravità) di circa 20 secondi. Un volo tipico dura due o tre ore e comprende 30 manovre paraboliche.

La campagna voli 2019. Foto Courtesy ESA

La comprensione dei cambiamenti cognitivi che avvengono nell’uomo in ambiente a gravità alterata permetterà di individuare efficaci contromisure da applicare nelle future missioni a lungo termine nello spazio profondo, come ad esempio quelle su Marte, il Pianeta rosso.

Durante il volo spaziale, gli effetti della gravità non si avvertono più (assenza di peso o microgravità) o sono ridotti (gravità parziale rispetto alla gravità terrestre – 1 g) come accade sulla superficie della Luna (0,16 g) o su quella di Marte (0,38 g). Le alterazioni di gravità offrono sfide uniche per la ricerca di base e quella applicata. Considerate le limitate opportunità di volo spaziale, sono necessari esperimenti che utilizzino modelli terrestri di gravità ridotta per comprendere meglio i meccanismi di adattamento e per prepararsi ai futuri voli spaziali. Sulla Terra è possibile ricreare uno stato di assenza di peso o di gravità parziale utilizzando il volo parabolico, inizialmente utilizzato per l’addestramento degli astronauti e ora anche per le sperimentazioni scientifiche di tipo tecnologico o di fisiologia umana.

Quella che si svolgerà nei prossimi giorni non è la prima campagna di voli parabolici per il team internazionale guidato da UniTo; una precedente si è svolta, infatti, nel novembre del 2019. E ci sono già i primi parziali risultati. Sulla Terra a 1g, in condizioni fisiologiche normali, siamo in grado di orientare l’attenzione verso stimoli rilevanti e salienti e siamo consapevoli delle azioni che compiamo volontariamente. Due importanti componenti di queste funzioni sono quella visiva e quella vestibolare. In microgravità la componente vestibolare è alterata e il nostro cervello fa principalmente affidamento sulla componente visiva, producendo delle anomalie che i ricercatori del progetto GraviTo stanno individuando e studiando.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino

WFIRST (Wide Field InfraRed Survey Telescope) – da poco ribattezzato Roman Telescope in onore dell’astronoma statunitense Nancy Grace Roman, affettuosamente chiamata “la mamma di Hubble” – è un progetto NASA designato ad indagare su alcuni grandi misteri dell’Universo come la materia e l’energia oscura e per cercare nuovi mondi in orbita attorno ad altre stelle della nostra galassia.

ScientifiCult ha l’onore di poter intervistare il dott. Valerio Bozza, ricercatore presso l’Università degli Studi di Salerno e attualmente impegnato a collaborare con la NASA per la realizzazione del Telescopio Roman.

Valerio Bozza
Il dott. Valerio Bozza

Può raccontarci i momenti della Sua carriera professionale che ricorda con più piacere?

In vent’anni di ricerca ho avuto la fortuna di vivere tante soddisfazioni e di lavorare con le persone che hanno scritto i libri su cui ho studiato. Certamente, partecipare alle discussioni nello studio di Gabriele Veneziano al CERN con i cosmologi più importanti del mondo e poter assistere alla nascita di idee geniali su quella lavagna è stata un’esperienza formativa fondamentale. Quando ho avuto il mio primo invito a relazionare ad un workshop all’American Institute of Mathematics sul gravitational lensing di buchi neri e ho ricevuto i complimenti di Ezra T. Newman, ho capito che potevo davvero dire la mia anche io.

Ricordo ancora le notti di osservazioni allo European Southern Observatory a La Silla in Cile, sotto il cielo più bello del pianeta. Ricordo l’invito al Collège de France a Parigi da parte di Antoine Layberie per un seminario, che poi ho scoperto di dover tenere in francese! Poi non ci dimentichiamo la notizia della vittoria al concorso da ricercatore, che mi ha raggiunto mentre ero in Brasile per un altro workshop sulle perturbazioni cosmologiche. Infine, ricordo con una certa malinconia le notti e i giorni di lavoro all’Osservatorio Astronomico UNISA per mettere su un programma di ricerca competitivo. Tutto è finito con la copertina di Nature sulla scoperta del pianeta KELT-9b, il più caldo mai visto, e la distruzione dell’Osservatorio nel febbraio 2019, una ferita ancora aperta.

Adesso, però, è ora di concentrarsi sullo sviluppo del nuovo telescopio spaziale WFIRST della NASA, che il 20 maggio scorso è stato rinominato Nancy Grace Roman Space Telescope (o semplicemente “Roman”, in breve), in onore della astronoma che ha contribuito alla nascita dei primi telescopi spaziali della NASA.

Infine, ricordo con una certa malinconia le notti e i giorni di lavoro all’Osservatorio Astronomico UNISA con il Prof. Gaetano Scarpetta, per mettere su un programma di ricerca competitivo.

Ci sono degli aggiornamenti sulla data del lancio di Roman?

Il lancio del telescopio Roman era programmato per il 2025, ma diverse vicende hanno giocato contro in questi ultimi anni: il ritardo nel lancio del JWST, lo shutdown del governo americano ad inizio 2019 e soprattutto l’epidemia di COVID-19, che sta provocando ritardi su tutte le scadenze nella tabella di marcia. A questo punto, direi che uno slittamento all’anno successivo possa essere plausibile. Tuttavia, l’interesse verso questa missione sta continuando a crescere sia dentro che fuori l’ambito accademico, mettendola al riparo da eventuali tagli di budget.


Roman viene spesso paragonato al telescopio spaziale Hubble. Quali sono le differenze e le somiglianze? E con il JWST?

Si tratta di tre telescopi spaziali che spesso vengono citati insieme, ma sono tutti e tre profondamente diversi: Hubble opera nella banda del visibile e nell’ultravioletto, mentre non è molto sensibile all’infrarosso. Al contrario, sia JWST che Roman opereranno nel vicino infrarosso. JWST avrà un campo di vista molto più piccolo anche di Hubble, perché il suo scopo è fornirci immagini con dettagli mai visti prima di sistemi stellari e planetari in formazione. Roman, invece, avrà un campo di vista cento volte più grande di Hubble, perché il suo scopo è quello di scandagliare aree di cielo molto grandi alla ricerca di galassie o fenomeni transienti. La grande novità è che Roman condurrà queste survey a grande campo con una risoluzione di 0.1 secondi d’arco, simile a quella di Hubble! Quindi, avremo la possibilità di condurre la scienza di Hubble su enormi aree di cielo contemporaneamente. JWST, invece, condurrà osservazioni con un dettaglio molto migliore di Hubble e di Roman, ma su un singolo oggetto in un’area molto limitata.

Roman telescope Valerio Bozza
Immagine 3D del veicolo spaziale Roman (luglio 2018). Immagine NASA (WFIRST Project and Dominic Benford), adattata, in pubblico dominio


Quali sono i target scientifici della missione e come vengono raggiunti?

A differenza di Hubble e JWST, Roman avrà poco spazio per richieste estemporanee di osservazioni. Sarà un telescopio essenzialmente dedicato a due programmi principali: una survey delle galassie lontane e una survey del centro della nostra Galassia. La prima survey effettuerà delle immagini di tutto il cielo alla ricerca di galassie deboli e lontane. Queste immagini consentiranno di capire meglio la distribuzione della materia nel nostro Universo, fissare le tappe dell’espansione cosmologica e chiarire i meccanismi alla base dell’espansione accelerata, scoperta venti anni fa attraverso lo studio delle supernovae Ia. I cosmologi si aspettano che Roman possa fornirci risposte fondamentali sulla natura della cosiddetta Dark Energy, che è stata ipotizzata per spiegare l’accelerazione del nostro Universo, ma la cui natura è del tutto sconosciuta.

Il secondo programma osservativo è una survey delle affollatissime regioni centrali della nostra galassia. Monitorando miliardi di stelle, ci aspettiamo che, almeno per una frazione di queste, la loro luce verrà amplificata da effetti temporanei di microlensing dovuti a stelle che attraversano la linea di vista. Il microlensing è un’amplificazione dovuta al ben noto effetto “lente gravitazionale” previsto dalla relatività generale di Einstein. Se la stella che fa da lente è anche accompagnata da un pianeta, l’amplificazione riporterà delle “anomalie” che potranno essere utilizzate per studiare e censire i sistemi planetari nella nostra galassia. Roman sarà così sensibile da rivelare anche pianeti piccoli come Marte o Mercurio!

microlensing
Il fenomeno del microlensing: la sorgente (in alto) appare più brillante quando una stella lente passa lungo la linea di vista. Se la lente è accompagnata da un pianeta, la luminosità mostra anche una breve anomalia. Credits: © ESA


Quali differenze tra le caratteristiche dei pianeti extrasolari che andrà a scoprire
Roman e quelle dei pianeti che ha osservato Kepler e che osserva TESS?

Il metodo del microlensing, utilizzato da Roman, è in grado di scoprire pianeti in orbite medio-larghe intorno alle rispettive stelle. Al contrario, sia Kepler che TESS, utilizzano il metodo dei transiti, in cui si misura l’eclisse parziale prodotta dal pianeta che oscura parte della sua stella. Questi due satelliti, quindi, hanno scoperto tipicamente pianeti molto vicini alle rispettive stelle.

Ipotizzando di osservare una copia del Sistema Solare, Kepler e TESS potrebbero vedere Mercurio o Venere, nel caso di un buon allineamento. Roman, invece, avrebbe ottime probabilità di rivelare tutti i pianeti da Marte a Nettuno.

Un’altra differenza è che Roman scoprirà pianeti distribuiti lungo tutta la linea di vista fino al centro della Galassia, consentendo un’indagine molto più ampia della distribuzione dei pianeti di quanto si possa fare con altri metodi, tipicamente limitati al vicinato del Sole. Purtroppo, però, i pianeti scoperti col microlensing non si prestano ad indagini approfondite, poiché, una volta terminato l’effetto di amplificazione, i pianeti tornano ad essere inosservabili e sono perduti per sempre.

In definitiva, la conoscenza dei pianeti nella nostra Galassia passa per il confronto tra diversi metodi di indagine complementari. Ognuno ci aiuta a comprendere una parte di un puzzle che si rivela sempre più complesso, mano mano che scopriamo mondi sempre più sorprendenti.

 

Nancy Grace Roman, in una foto NASA del 2015, in pubblico dominio