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Maria Vittoria Legnardi

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DA RIVEDERE L’EQUAZIONE DELLA “LEGGE DI REDDENING” SULLA MATERIA INTERSTELLARE 

 Pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society lo studio di un team di ricercatori dell’Università di Padova in cui è emerso che “legge di reddening”, l’equazione matematica in grado di predire come la materia interstellare modifichi la luminosità e il colore dei corpi celesti, sia molto diversa da quella che fino ad oggi era ritenuta valida.

Sulla base della nuova ricerca, un gran numero di studi basati sull’equazione tradizionale dovrebbe essere rivisto.

Equazione legge di reddening materia interstellare
Forma della materia interstellare

Prima del XX secolo l’umanità riteneva che lo spazio che separa gli astri celesti fosse vuoto. Il famoso astronomo americano Edward Emerson Barnard (1857-1923) fu il primo a comprendere che le regioni di cielo apparentemente vuote di materia non lo erano affatto. Lo spazio tra le stelle, detto interstellare, è permeato da una miriade di particelle che interagiscono con la luce delle stelle situate al di là di esse.

La materia interstellare si trova ovunque nella Via Lattea, persino in quei remoti pezzetti di cielo che, pur osservati con i più grandi telescopi, ci appaiono completamente oscuri. Queste microscopiche particelle di polveri e gas rarefatti che permeano le galassie danno origine a nubi oscure e informi. Sebbene intangibile, la materia interstellare interagisce con la luce emessa dai corpi celesti e ne cambia drammaticamente le proprietà: li rende meno luminosi e ne altera i colori. Di conseguenza queste nubi interstellari influenzano la nostra comprensione di una vasta gamma di fenomeni astrofisici che va dallo studio dei pianeti extrasolari, alle reazioni termonucleari che avvengono nelle stelle, fino alle proprietà dell’Universo su larga scala e al suo destino finale.

È essenziale, infatti, capire quanta luce sia stata assorbita dalle nubi interstellari per poter studiare qualsiasi corpo celeste. Tracciare con precisione la distribuzione della materia interstellare nella via Lattea e comprenderne le proprietà rappresenta, quindi, una delle sfide più avvincenti dell’astrofisica. Ma anche tra le più impegnative, proprio per il fatto che le nubi sono invisibili all’occhio dell’uomo e ai suoi telescopi.

Recentemente, una ricerca pubblicata sulla rivista «Monthly Notices of the Royal Astronomical Society» dal titolo “Differential reddening in the direction of 56 Galactic globular clusters” ha permesso di compiere un grosso balzo in avanti in questo settore. Si tratta del lavoro condotto da oltre due anni da un gruppo di ricerca guidato da Maria Vittoria Legnardi, una giovane dottoranda al dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova. Il team di Legnardi ha messo a punto una tecnica innovativa che sfrutta le straordinarie capacità del telescopio spaziale Hubble per ricavare delle mappe ad altissima risoluzione delle nubi interstellari.

Maria Vittoria Legnardi e Sohee Jang
Maria Vittoria Legnardi e Sohee Jang

«Le immagini di Hubble che usiamo – dice Maria Vittoria Legnardi – riprendono un gran numero di ammassi stellari, ovvero agglomerati di decine di migliaia di stelle gemelle, che si trovano oltre le nubi. Le nubi interstellari non sono affatto visibili nelle immagini, ma siamo riusciti a ricostruirle grazie a una lunga e laboriosa analisi della luce proveniente dalle stelle che le attraversa».

«La materia interstellare può assumere delle forme molto bizzarre – continua Sohee Jang, astronoma dell’Università di Seoul che ha trascorso gli ultimi due anni a Padova per studiare gli ammassi stellari e la materia interstellare –.  È un po’ come sdraiarsi su un prato a sognare e guardare le nuvole: animali, volti di persone, o persino un grande cuore che batte possono apparire ai nostri occhi».

«Il risultato più sorprendente – commenta Emanuele Dondoglio, coautore dell’articolo e anche lui dottorando a Padova – riguarda però la cosiddetta “legge di reddening”, ovvero l’equazione matematica in grado di predire come la materia interstellare modifichi la luminosità e il colore dei corpi celesti».

Un risultato emozionante riguarda questa legge matematica. Infatti dallo studio del gruppo di Legnardi è emerso che tale legge, ricavata dalle loro mappe ad alta risoluzione, sia molto diversa dall’equazione che fino ad oggi era ritenuta valida.

«Alla luce di questa nuova scoperta – conclude Maria Vittoria Legnardi – un gran numero di studi basati sull’equazione tradizionale dovrà essere rivisto. È possibile dunque che alcune nozioni sull’Universo locale e a larga scala potrebbero subire importanti cambiamenti nei prossimi mesi o anni».

Link alla ricerca: https://academic.oup.com/mnras/article/522/1/367/7111343

Titolo: “Differential reddening in the direction of 56 Galactic globular clusters” – «Monthly Notices of the Royal Astronomical Society» 2023

Autori: M. V. Legnardi, A. P. Milone, G. Cordoni, E. P. Lagioia, E. Dondoglio, A. F. Marino, S. Jang, A. Mohandasan, T. Ziliotto.

 

Testo e immagini (ove non indicato diversamente) dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

COSÌ ERANO LE NUBI NELL’UNIVERSO PRIMORDIALE

Lo straordinario potenziale di informazioni contenute negli ammassi globulari ci fornisce l’immagine dell’Universo neonato

NGC6362

Oltre tredici miliardi di anni fa, cioè al tempo della grande esplosione (Big Bang) in cui si sarebbe generato l’Universo, le immense nubi di gas che permeavano l’Universo primordiale fecero accendere le prime stelle dando origine a primitivi agglomerati stellari. In quell’epoca nacquero concentrazioni sferiche composte da centinaia di migliaia di stelle, dette ammassi globulari (globular clusters), che sono sopravvissute fino ai giorni nostri.

Sebbene l’origine dei globular clusters sia ancora ignota, è ormai assodato che le stelle appartenenti agli ammassi globulari siano nate appena poche centinaia di milioni di anni dopo il Big BangComprendere la composizione chimica delle nubi primordiali è certamente uno degli obiettivi più ambiziosi e complessi dell’astrofisica moderna. La difficoltà nasce principalmente dal fatto che gli ammassi globulari che osserviamo oggi hanno perduto una parte considerevole della materia gassosa che li aveva generati. Inoltre le poche tracce di gas primordiale tuttora sopravvissute al loro interno sono state contaminate dal materiale espulso da decine di migliaia di stelle durante la loro evoluzione perdendo irrimediabilmente la memoria della loro composizione iniziale.

Il Team di Maria Vittoria Legnardi

Un gruppo di astronome e astronomi di Italia, Australia e Stati Uniti ha svelato l’oscura composizione chimica delle nubi primordiali da cui si sono formati i globulari. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista «Monthly Notices of the Royal Astronomical Society» nell’articolo dal titolo con il titolo Constraining the original composition of the gas forming first-generation stars in globular clusters e portano la firma di Maria Vittoria Legnardi, una giovane dottoranda del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova che a soli 24 anni ha rivestito il ruolo di leader del team internazionale.

Maria Vittoria Legnardi ammassi globulari
Maria Vittoria Legnardi

«Nella nostra ricerca abbiamo rilevato delle variazioni nel contenuto di metalli che caratterizza le stelle di prima generazione. Poiché la composizione chimica di queste stelle riflette direttamente la chimica delle nubi da cui si sono formate, questo implica che anche le nubi fossero chimicamente disomogenee, contrariamente a quello che ci si aspettasse. Grazie alle straordinarie immagini ottenute dal telescopio spaziale Hubble – spiega Maria Vittoria Legnardi – abbiamo ricostruito le cosiddette mappe cromosomiche di circa il 25% degli ammassi globulari conosciuti. Si tratta di mappe in cui i colori delle stelle vengono combinati tra loro in modo tale creare dei super-colori indicativi del contenuto di alcuni elementi chimici. In sintesi, le mappe cromosomiche sono costituite da combinazioni di colori estremamente sensibili alla composizione chimica delle stelle negli ammassi globulari. Sulle ascisse è indicato il contenuto di elio delle stelle mentre sulle ordinate si può leggere il contenuto di azoto. In questo modo è possibile separare facilmente le stelle di prima generazione, l’oggetto principale di questo studio, da quelle di seconda generazione che presentano invece una composizione chimica riscontrata esclusivamente negli ammassi globulari. Sebbene sia pressoché impossibile ottenere informazioni dirette sulla composizione chimica delle nubi primordiali studiando il gas residuo tuttora presente negli ammassi, in questa ricerca abbiamo sviluppato una tecnica innovativa per poter far luce sugli ambienti di formazione degli ammassi basata sulle stelle di prima generazione. Queste stelle – sottolinea Legnardi –  si sono formate direttamente dal gas primordiale e dunque conservano memoria della composizione chimica delle nubi primordiali da cui si sono formati gli ammassi globulari agli albori dell’Universo. Le immagini di Hubble sono state fondamentali poiché hanno una risoluzione migliore e sono molto nitide. Grazie ad esse abbiamo potuto studiare in dettaglio le regioni centrali degli ammassi, dove la densità di stelle è estremamente elevata. Inoltre – rileva Maria Vittoria Legnardi – il telescopio Hubble permette di ottenere immagini attraverso diversi filtri che isolano la luce delle stelle dall’ultravioletto al vicino infrarosso passando per l’ottico. Combinando in modo opportuno le informazioni provenienti da diverse regioni dello spettro elettromagnetico è possibile sviluppare dei super-colori – ad esempio quelli delle mappe cromosomiche – che sono estremamente sensibili alla composizione chimica delle stelle negli ammassi».

«Questa tecnica innovativa – dice Lucia Armillotta, ricercatrice dell’Università di Princeton – ci ha permesso di isolare non solo le stelle che sono nate per prime e che conservano quindi la composizione originale della nube madre, ma anche le stelle delle generazioni successive. Le mappe cromosomiche rivelano che le nubi erano per lo più costituite della stessa materia originatasi con il Big Bang, ma contenevano già tracce di altre specie chimiche come il carbonio, l’azoto, l’ossigeno e altri elementi su cui si basa la vita stessa».

«Uno dei risultati più sorprendenti – aggiunge Giacomo Cordoni, un altro autore della ricerca e afferente al Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova – è che, contrariamente a quello che ci si aspettava, le nubi che hanno originato le prime stelle non erano chimicamente omogenee. Il loro contenuto di metalli, infatti, varia da una regione all’altra dell’ammasso e queste fluttuazioni implicano che le nubi originarie occupavano vaste regioni dell’Universo primordiale ed erano poco dense. Al contrario, il gas da cui si sono formate le stelle più giovani, nate centinaia di milioni di anni dopo le stelle di prima generazione, si è scoperto essere più omogeneo. Questo significa che le seconde generazioni di stelle si formarono in regioni in cui la densità del gas raggiungeva valori estremi».

«L’unicità di queste nubi spiegherebbe anche le strane proprietà di queste stelle, caratterizzate da abbondanze chimiche che non si osservano in nessun altro luogo della Galassia. Le stelle di seconda generazione presentano un contenuto di elio, sodio e azoto maggiore rispetto alle stelle che si trovano nella Galassia. Al contrario, presentano un contenuto ridotto di carbonio e ossigeno. Stelle con una simile composizione chimica sono state osservate esclusivamente all’interno degli ammassi globulari. È affascinante prendere atto – conclude la team leader Maria Vittoria Legnardi – dello straordinario potenziale di informazioni contenute negli ammassi globulari, questi dati sono stati capaci di tracciare un’immagine dell’Universo neonato. I colori delle stelle che osserviamo oggi al loro interno, infatti, ci permettono di intuire quali fossero i principali ingredienti che componevano le nubi primordiali che permeavano l’Universo poche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang».

Titolo e link alla ricerca: “Constraining the original composition of the gas forming first-generation stars in globular clusters” – «Monthly Notices of the Royal Astronomical Society» 2022

Autori: M. V. Legnardi*, A. P. Milone, L. Armillotta, A. F. Marino, G. Cordoni, A. Renzini,E. Vesperini, F. D’Antona, M. McKenzie, D. Yong, E. Dondoglio, E. P. Lagioia,M. Carlos, M. Tailo, S. Jang, and A. Mohandasan.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova