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PALMA DI GOETHE: ALL’ORTO BOTANICO DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA È STATO SEQUENZIATO IL SUO GENOMA

È il primo sequenziamento genomico di alta qualità a livello cromosomico della palma nana del Mediterraneo, unica nativa dell’Europa continentale e specie con la distribuzione più a nord tra tutte le palme. Nel suo DNA vi sono molte sequenze ripetute: tracce di antichi adattamenti.

È stato pubblicato su «Scientific Data» con il titolo Chromosome-level assembly of the 400-year-old Goethe’s Palm (Chamaerops humilis L.) lo studio, coordinato da Francesco Dal Grande dell’Università di Padova e frutto della collaborazione con il Centro per la Biodiversità Genomica di Francoforte e altri partner internazionali, in cui è stato effettuato il primo sequenziamento genomico di alta qualità a livello cromosomico della palma nana del Mediterraneo ed è stato effettuato sulla “Palma di Goethe” all’Orto Botanico dell’Università di Padova.

Il rapido declino della biodiversità globale mette in luce la necessità di aumentare gli sforzi di conservazione. I giardini botanici di tutto il mondo svolgono un ruolo cruciale nella conservazione ex situ delle piante. In particolare, le piante monumentali hanno un grande valore ecologico e culturale, che deve essere tutelato.

L’esemplare di palma nana o palma di San Pietro (Chamaerops humilis L.), messa a dimora nel 1585, è la pianta più antica dell’Orto botanico di Padova ed è nota come Palma di Goethe. Dopo averla ammirata il 27 settembre 1786, infatti, il poeta tedesco ne trae ispirazione per formulare una intuizione evolutiva nel suo saggio La metamorfosi delle piante del 1790, legando così il suo nome a quello della palma “padovana”, per sempre. Nel tempo, la Palma di Goethe è diventata simbolo del legame profondo tra scienza, cultura e natura. La palma nana cresce spontaneamente lungo le coste del Mediterraneo occidentale in formazioni a macchia degradata, spesso in luoghi inaccessibili per sfuggire allo sfruttamento e sottrarsi così alle azioni invasive messe in atto dall’essere umano. Eredità della flora italiana del Terziario (circa 65 milioni di anni fa), attualmente è l’unica specie di palma autoctona a essere sopravvissuta alle glaciazioni che hanno colpito l’Europa fino a 12.000 anni fa.

«Oggi, quasi 240 anni dopo, siamo ripartiti dalla stessa palma per intraprendere un nuovo viaggio. Lo abbiamo fatto in collaborazione con il Centro di Biodiversità Genomica di Francoforte sul Meno, in Germania. La città natale di Goethe, appunto. E abbiamo ottenuto un genoma di altissima qualità. All’Orto botanico dell’Università di Padova abbiamo sequenziato il genoma della Palma di Goethe, la palma coltivata più antica preservata in un orto botanico», spiega Francesco Dal Grande, docente di Botanica sistematica ed Ecologia applicata al Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova. «Si tratta del primo genoma della palma nana del Mediterraneo, Chamaerops humilis, l’unica palma nativa dell’Europa continentale e la specie con la distribuzione più a nord tra tutte le palme. Nel nostro studio abbiamo scoperto che nel suo DNA vi sono tantissime sequenze ripetute: tracce di antichi adattamenti che, molto probabilmente, hanno permesso alla specie di adattarsi a climi aridi e caldi, come quelli del Mediterraneo. Il genoma ottenuto ci ha permesso anche di svelare un segreto storico: l’origine di questa pianta», continua Dal Grande. «I dati genomici indicano chiaramente un legame tra questa palma e le popolazioni dell’area occidentale del Mediterraneo, la Penisola Iberica e il Marocco. Questo è un esempio di come il DNA possa nutrire la storia, qualora i documenti da soli non bastassero. In un’epoca di forte declino della biodiversità, conoscere in maniera così approfondita il genoma di una specie diventa un vantaggio, uno strumento in più e molto potente per capirla, proteggerla e conservarla nel tempo».

«Grazie alla ricerca pubblicata oggi sappiamo di più sul nostro simbolo, la Palma di Goethe del 1585, e sulla sua provenienza – dice Tomas Morosinotto, Prefetto dell’Orto Botanico -. Utilizzando i metodi più attuali di analisi possiamo capire come la pianta più antica del nostro Orto botanico si è adattata a un clima che non era il suo: uno studio attuale su una pianta con più di quattro secoli di storia, nell’epoca del cambiamento climatico».

In questo nuovo studio, Dal Grande e colleghi presentano il primo assemblaggio genomico di alta qualità, a livello cromosomico, di Chamaerops humilis L., ottenuto grazie a tecnologie all’avanguardia che consentono di leggere e organizzare il DNA con estrema precisione (PacBio HiFi e Arima Hi-C). Ad oggi, questo genoma è il più contiguo e completo all’interno della famiglia delle Arecaceae, con un contenuto di sequenze ripetute dell’88%, di cui il 63% è attribuito agli elementi Long Terminal Repeat (LTR). Un contenuto così elevato di sequenze ripetute ci dice che il genoma è stato modellato da pressioni evolutive intense, probabilmente legate al clima mediterraneo.

Lo studio presenta anche la prima analisi completa dei microRNA in una palma. I microRNA sono piccole molecole regolatorie che controllano quali geni vengono attivati o disattivati. È stata identificata per la prima volta nelle palme la famiglia miR827, che nelle piante aiuta a regolare l’assorbimento di nutrienti fondamentali come il fosforo e l’azoto. Trovare una famiglia di microRNA finora sconosciuta nelle palme apre nuove strade per capire come le piante rispondano a stress ambientali e carenze nutrizionali.

Infine, grazie all’analisi dei microsatelliti – brevi sequenze ripetute di DNA utilizzate per tracciare le origini genetiche – i ricercatori hanno scoperto che l’esemplare patavino condivide affinità con popolazioni dell’area occidentale del Mediterraneo, in particolare tra Marocco e Penisola Iberica.

Questi risultati rappresentano un significativo progresso nella genomica della conservazione della specie e gettano le basi per nuove strategie di conservazione: in questo scenario i giardini botanici sono e, sempre di più, saranno attori protagonisti nella salvaguardia della biodiversità globale.

 

Riferimenti bibliografici: 

Beltran-Sanz, N., Prost, S., Malavasi, V. et al.Chromosome-level assembly of the 400-year-old Goethe’s Palm (Chamaerops humilis L.), Scientific Data, 12, 1542 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41597-025-05673-7

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

Un pipistrello africano tra i vicoli di Lampedusa: scoperta nuova specie per l’Europa, il miniottero del Maghreb

In un articolo pubblicato sulla rivista “Mammalian Biology”, un team di ricerca del CNR e NBFC ha documentato, per la prima volta in Europa, la presenza del “miniottero del Maghreb”, una specie di pipistrello finora considerata esclusiva del Nord Africa

Costa dell’isola di Lampedusa caratterizzata da bunker. Crediti per la foto: Fabrizio Gili
Costa dell’isola di Lampedusa caratterizzata da bunker. Crediti per la foto: Fabrizio Gili

Un team di ricerca che ha riunito due Istituti del Consiglio nazionale delle ricerche – l’Istituto per la ricerca sulle acque di Verbania (CNR-IRSA) e l’Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri di Firenze (CNR-IRET) – e il Centro Nazionale per la Biodiversità (NBFC) ha documentato, per la prima volta in Europa, la presenza del miniottero del Maghreb (Miniopterus maghrebensis), una specie di pipistrello finora considerata esclusiva del Nord Africa.

La scoperta è descritta in un articolo pubblicato sulla rivista Mammalian Biology: lo studio è stato condotto sull’isola di Lampedusa, situata nello Stretto di Sicilia tra Europa e Africa, avamposto strategico per lo studio delle dinamiche biogeografiche. Proprio qui, il team ha condotto un’indagine approfondita sulla chirotterofauna locale (pipistrelli), combinando tecniche non invasive come il monitoraggio acustico automatico, l’ispezione di potenziali rifugi sotterranei e l’analisi genetica da campioni di guano. L’obiettivo era quello di chiarire la composizione faunistica di un’area finora poco studiata, ma potenzialmente di grande valore conservazionistico.

Le piccole isole, per loro natura, ospitano ecosistemi delicatissimi e vulnerabili a perturbazioni ambientali e climatiche anche minime. Inoltre, la crescente scarsità di risorse idriche legata ai cambiamenti climatici può rappresentare un fattore critico per la sopravvivenza dei chirotteri, che necessitano della presenza di fonti d’acqua per l’idratazione e la termoregolazione”, spiega Fabrizio Gili, ricercatore del CNR-IRSA che ha fatto parte del team di ricerca. “Per quanto attiene in particolare ai chirotteri, storicamente Lampedusa aveva restituito segnalazioni frammentarie di diverse specie, suggerendo una comunità potenzialmente ricca ma mai studiata in modo sistematico e approfondito. Tuttavia, l’aumento della pressione antropica, il turismo e i cambiamenti climatici in atto sollevavano dubbi sulla persistenza attuale di molte di queste specie, alcune delle quali oggi riconosciute come parte di complessi criptici o soggette a drastici declini su scala regionale”.

Nell’ottobre 2024, i ricercatori hanno esplorato l’isola, ispezionando cavità naturali e artificiali, tra cui molti bunker della Seconda guerra mondiale, spesso utilizzati dai pipistrelli come rifugi. L’indagine si è concentrata non solo sulla ricerca di animali, ma anche di tracce indirette della loro presenza, come guano e resti alimentari. E proprio da queste tracce è emersa la scoperta più significativa dello studio.

Bunker di Lampedusa. Crediti per la foto: Fabrizio Gili
Bunker di Lampedusa. Crediti per la foto: Fabrizio Gili

Le analisi genetiche, condotte nei laboratori del CNR-IRET di Firenze su escrementi raccolti presso il vecchio cimitero dell’isola, hanno confermato, per la prima volta in Europa, la presenza del miniottero del Maghreb (Miniopterus maghrebensis), specie finora nota solo in Marocco, Algeria e Tunisia. Un risultato che amplia i confini geografici della specie e presenta importanti implicazioni di conservazione.

Non si tratta solamente di aggiungere un nome ad un elenco”, precisa il ricercatore. “L’inclusione del miniottero del Maghreb tra le specie presenti in territorio europeo implica, infatti, l’estensione automatica delle misure di tutela previste, come quelle sancite dal Bat Agreement, trattato internazionale nato sotto la Convenzione di Bonn per promuovere la conservazione dei chirotteri e dei loro habitat. Il riconoscimento ufficiale del miniottero del Maghreb tra le specie europee porterebbe a 56 il numero di specie incluse nell’Accordo”.

Il miniottero del Maghreb (Miniopterus maghrebensis). Crediti per la foto: Jaro Schacht
Il miniottero del Maghreb (Miniopterus maghrebensis). Crediti per la foto: Jaro Schacht

Oltre al miniottero del Maghreb, lo studio ha documentato almeno altre sette specie sull’isola. Tra queste figurano l’orecchione di Gaisler (Plecotus gaisleri), finora noto in Europa solo per Malta e Pantelleria, e il ferro di cavallo di Mehely (Rhinolophus mehelyi), specie a distribuzione discontinua ristretta alla zona del Mediterraneo. Per entrambe, le sequenze genetiche identificate corrispondono a nuovi aplotipi mitocondriali endemici di Lampedusa, suggerendo un isolamento genetico rispetto ad altre popolazioni insulari o continentali.

Questo dato sottolinea il valore unico delle popolazioni di pipistrelli delle piccole isole, che rappresentano veri scrigni di diversità genetica e che pertanto necessitano di particolare attenzione conservazionistica. Come spesso accade in questi contesti, alcune delle componenti più preziose della biodiversità rischiano di scomparire prima ancora di essere comprese appieno”, conclude Gili.

Lo studio dimostra quanto siano ancora frammentarie le conoscenze sulla distribuzione della chirotterofauna europea, ed evidenzia la necessità di intensificare le ricerche sulla fauna delle isole minori del Mediterraneo, veri laboratori naturali per lo studio della biodiversità, e oggi più che mai ecosistemi da proteggere

Roma, 12 giugno 2025

La scheda

Chi: Istituto per la ricerca sulle acque del Consiglio nazionale delle ricerche di Verbania (Cnr-Irsa), Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri del Consiglio nazionale delle ricerche di Firenze (Cnr-Iret), Centro Nazionale per la Biodiversità (NBFC)

Che cosa: Non-invasive survey techniques uncover the coexistence of African and European bats on the island of Lampedusa (https://doi.org/10.1007/s42991-025-00503-0)

Testo e foto dagli Uffici Stampa del Consiglio Nazionale delle Ricerche – CNR e del Centro Nazionale per la Biodiversità – NBFC, via Delos.

Alla riscoperta del fico, coltura strategica per aumentare sostenibilità e produttività del bacino del Mediterraneo

L’Università di Pisa capofila del progetto europeo AGROFIG con il gruppo di ricerca in genomica vegetale del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali

È una risorsa preziosa per la sua capacità di adattarsi a condizioni difficili, le sue radici vanno in profondità riducendo l’erosione, attira impollinatori e fauna selvatica, contribuendo alla biodiversità, i suoi frutti creano opportunità economiche per i piccoli agricoltori, il suo forte valore culturale è una leva per il turismo rurale. Tutte queste caratteristiche rendono il fico una pianta strategica per il futuro del bacino mediterraneo. Per valorizzarlo al meglio in termini di sostenibilità e produttività è appena partito AGROFIG – Fostering agroforestry benefits through fig tree cultivation in the Mediterranean un nuovo progetto europeo promosso da PRIMA (Partnership for research and innovation in the Mediterranean area) e guidato dall’Università di Pisa con il gruppo di ricerca in genomica vegetale del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali in prima fila.

Utilizzare colture arboree resistenti alle condizioni ambientali avverse causate dai cambiamenti climatici è fondamentale – dice il responsabile di AGROFIG, Tommaso Giordani, professore associato di genetica agraria dell’Ateneo pisano – Il fico ha una grande capacità di adattarsi ad ambienti secchi, calcarei e salini, il che rende questa specie estremamente utile nella regione del Mediterraneo”.

“Malgrado la coltura del fico sia antichissima e raccontata anche nella Bibbia e che l’Italia sia stato fino alla fine degli anni ’60 il maggior produttore mondiale, negli ultimi decenni la produzione si è ridotta notevolmente – continua Giordani – il nostro obiettivo è di usare tecniche genomiche per caratterizzare e selezionare le varietà migliori e rilanciare questa coltura arborea particolarmente resiliente e ricca dal punto di vista nutrizionale”.

A livello scientifico, il gruppo dell’Ateneo pisano analizzerà la variabilità genetica delle varietà italiane di fico, oltre a valutare l’impatto di questa coltivazione a livello agronomico, economico e di microbiologia del terreno in associazione con altre specie erbacee come leguminose e altre foraggere.

AGROFIG finanziato per tre anni con oltre 850mila euro prosegue il lavoro avviato con FIGGEN, un altro progetto sul fico sempre coordinato da Giordani. Il gruppo di genomica vegetale di cui fa parte in questi anni ha approfondito lo studio di questa specie con varie pubblicazioni scientifiche. L’ultima nel febbraio 2025 sulla rivista The Plant Journal, una delle più prestigiose nel campo della biologia vegetale, ha esteso le conoscenze sul genoma del fico, già affrontata in un precedente lavoro del 2020 sulla stessa rivista.

Sono inoltre coinvolti in AGROFIG anche altri docenti del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali: Daniele Antichi della sezione di Agronomia, Monica Agnolucci della sezione di Microbiologia agraria, Gianluca Brunori della sezione di Economia Agraria. Gli altri partner del progetto sono sono il Centro di ricerca scientifica e tecnologica dell’Estremadura (CICYTEX) in Spagna, l’Università di Tunisi El Manar (UTM) in Tunisia, l’Università Aydın Adnan Menderes (ADU) in Turchia, l’Azienda Agricola dimostrativa “I giardini di Pomona” (AAP) di Brindisi, Italia.

Il gruppo di genomica vegetale del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali. Da sinistra: Alberto Vangelisti, Andrea Cavallini, Marco Castellacci, Flavia Mascagni, Samuel Simoni, Lucia Natali, Gabriele Usai, Tommaso Giordani
Alla riscoperta del fico, coltura strategica per aumentare sostenibilità e produttività del bacino del Mediterraneo, con il progetto AGROFIG – Fostering agroforestry benefits through fig tree cultivation in the Mediterranean. Il gruppo di genomica vegetale del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali. Da sinistra: Alberto Vangelisti, Andrea Cavallini, Marco Castellacci, Flavia Mascagni, Samuel Simoni, Lucia Natali, Gabriele Usai, Tommaso Giordani

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Progetto LIFE OASIS: proteggere le tartarughe marine dalla “pesca fantasma”

Il Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa è partner di LIFE OASIS, un progetto europeo che punta a salvaguardare la biodiversità marina riducendo il rischio intrappolamento che deriva da attrezzi da pesca abbandonati o smarriti.

Ogni anno, in Mediterraneo molte tartarughe marine possono rimanere intrappolate in attrezzi da pesca persi o abbandonati. Proteggere gli ecosistemi del ‘Mare Nostrum’ richiede un’azione coordinata e una responsabilità condivisa, fra i diversi paesi e le diverse flotte che operano al suo interno, per proteggere la nostra biodiversità, ma anche la sostenibilità della pesca e la sicurezza marittima. LIFE OASIS è stato istituito per affrontare questo problema, un progetto pionieristico che combina tecnologia, ricerca e collaborazione diretta con il settore della pesca e marittimo a livello internazionale e che vede il Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa fra i partner. Il progetto durerà cinque anni e punta a mitigare gli impatti negativi della pesca e dei rifiuti marini sulla biodiversità del Mediterraneo, con particolare attenzione alle tartarughe Caretta caretta, una specie prioritaria, censita anche nella Direttiva Habitat e classificata nella Lista Rossa della IUCN come specie “Vulnerabile” a livello globale.

Reti, lenze, nasse lasciate in mare e lasciate incustodite si possono infatti trasformare in trappole mortali e possono continuare a catturare pesci e altre specie per mesi o addirittura anni, un fenomeno noto come “pesca fantasma”.

In particolare, il Progetto LIFE OASIS svilupperà di un modello intelligente di aFAD (intelligent anchored Fish Aggregating Device) cioè di dispositivi ancorati sul fondale marino usati per pescare in modo controllato e sostenibile. Gli strumenti saranno dotati di sensori avanzati per monitorare le l’ecosistema circostante e raccogliere dati sulla presenza di pesci e specie protette come le tartarughe marine. Verrà inoltre realizzata una mappatura degli attrezzi da pesca abbandonati, persi o scartati nel Mediterraneo.

“Il progetto coniuga innovazione tecnologica e ricerca scientifica, promuovendo la sinergia tra pescatori, operatori del settore e ricercatori con azioni che si svolgono in continuità con le azioni di progetti finanziati in passato come LIFE MEDTURTLES o TARTALIFE. L’obiettivo è triplice: prevenire la cattura accidentale delle tartarughe marine, promuovere la sostenibilità della pesca e tutelare la biodiversità – spiega il professor Paolo Casale dell’Università di Pisa, referente scientifico del progetto ed esperto nella conservazione delle tartarughe marine e nelle loro interazioni con la pesca.

“Le iniziative che intraprenderemo – conclude Casale – avranno un impatto positivo sulla salute degli ecosistemi marini, contribuendo a limitare i danni alla biodiversità e riducendo il rischio di cattura accidentale di specie protette”.

LIFE OASIS (Mitigating the negative interactions of protected species with marine litter and pelagic fisheries of the Mediterranean) è un’iniziativa co-finanziata dall’Unione Europea nell’ambito del Programma LIFE (GA n. 101148343 – LIFE23-NAT-ES-LIFEOASIS). Il progetto è coordinato da Alnitak Research Institute (una ONG spagnola) e vede la collaborazione di prestigiosi partner, tra cui il Consiglio superiore delle ricerche scientifiche spagnolo (CSIC) e, fra quelli italiani, la Stazione Zoologica Anton Dhorn e l’Associazione Filicudi Wildlife Conservation.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

L’Eruzione di Maddaloni: scoperta una delle eruzioni più potenti della storia dei Campi Flegrei

Risale a oltre centomila anni fa una delle eruzioni più significative in quest’area. A rivelarlo, uno studio congiunto CNR-IGAG, Sapienza Università di Roma, INGV e Università Aldo Moro di Bari, pubblicato sulla rivista scientifica Communications Earth and Environment di Nature. La conoscenza approfondita della storia eruttiva di questa regione potrà migliorare la valutazione dei rischi vulcanici associati alla zona.

I Campi Flegrei sono un complesso vulcanico attivo, circondato da aree urbane ad alto rischio. Tra i più studiati al mondo, la loro storia eruttiva è ben documentata solo negli ultimi 40.000 anni. Un nuovo studio rivela che, 109.000 anni fa, si verificò un’eruzione di magnitudo simile all’’Ignimbrite Campana’, la più grande eruzione dell’area mediterranea.

A ricostruire l’entità dell’eruzione, un team italiano di ricercatori e ricercatrici dell’Istituto di geologia ambientale e geoingegneria del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IGAG), della Sapienza Università di Roma, dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV), e dell’Università di Bari Aldo Moro. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Communications Earth and Environment di Nature.

“Nell’area dei Campi Flegrei, le testimonianze geologiche dell’attività più antica sono difficilmente accessibili perché giacciono in profondità nel sottosuolo, sotto notevoli spessori di rocce vulcaniche più recenti”, spiegano Gianluca Sottili e Giada Fernandez, della Sapienza Università di Roma. “La ricostruzione dell’intera storia eruttiva di questo vulcano è tuttavia cruciale per evidenziare alcuni parametri fondamentali per la definizione della sua pericolosità, quali la frequenza e la magnitudo degli eventi eruttivi. A tal riguardo, le ceneri prodotte dalle grandi eruzioni depositate in aree remote rispetto al vulcano, offrono la possibilità di estendere molto indietro nel tempo lo studio della storia eruttiva di un vulcano, consentendone una ricostruzione più completa”.

“Come le impronte digitali o il DNA distinguono i singoli individui, alcune proprietà stratigrafiche, chimiche e cronologiche dei livelli di cenere rinvenuti nei sedimenti marini o lacustri, anche a migliaia di chilometri dal vulcano, possono consentire agli scienziati di identificare la sorgente vulcanica e, in alcuni casi, persino il singolo evento eruttivo che le ha prodotte”, aggiunge Biagio Giaccio, del CNR-IGAG. “Più precisamente, attraverso la datazione e l’analisi chimica dei micro-frammenti di pomice, di cui è costituito il materiale vulcanico trasportato dal vento in aree lontane, è possibile ricostruire l’area di dispersione della cenere di uno specifico evento eruttivo”.

“Con i dati già a nostra disposizione e tramite modelli di dispersione delle ceneri vulcaniche, abbiamo potuto ricostruire la dinamica e la magnitudo dell’eruzione”, prosegue Antonio Costa, dell’INGV. “Abbiamo così ottenuto le stime di alcuni parametri fondamentali come, ad esempio, il volume del magma eruttato e l’altezza della colonna o nube di cenere e gas”.

Attraverso questo approccio multidisciplinare, comunemente applicato ad eruzioni recenti le cui tracce sono chiaramente documentate intorno al vulcano, i ricercatori hanno ricostruito i principali parametri eruttivi di un’antica eruzione Flegrea di 109.000 anni fa, denominata ‘Eruzione di Maddaloni, pressoché inaccessibile nell’area del vulcano ma ben documentata dalle ceneri depositate in aree remote, note con la sigla ‘X-6’ e rinvenute in un’ampia area del Mediterraneo, dall’Italia centrale fino alla Grecia.

“Sorprendentemente”, prosegue Antonio Costa, “i risultati della modellazione hanno fornito una stima di magnitudo di 7.6, cioè di poco inferiore a quella della famosa Ignimbrite Campana di circa 40.000 anni fa, definendo l’eruzione di Maddaloni come il secondo più grande evento della storia eruttiva dei Campi Flegrei”.

“Il fatto che questo sistema vulcanico abbia prodotto diverse grandi eruzioni nel corso della sua storia suggerisce che la struttura della caldera, la depressione vulcano-tettonica che si forma durante le grandi eruzioni a seguito del rilascio di un ingente volume di magma in superficie, potrebbe essere molto più complessa di quanto ipotizzato finora”, sottolinea Jacopo Natale, dell’Università Aldo Moro di Bari.

I risultati della ricerca gettano nuova luce sulla ricorrenza degli eventi di grande magnitudo ai Campi Flegrei ed evidenziano come, anche per un vulcano intensamente studiato, una dettagliata e completa ricostruzione della sua storia necessiti di ulteriori indagini per una migliore valutazione della pericolosità vulcanica.

Riferimenti bibliografici:

Fernandez, G., Costa, A., Giaccio, B. et al. The Maddaloni/X-6 eruption stands out as one of the major events during the Late Pleistocene at Campi Flegrei, Commun Earth Environ 6, 27 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s43247-025-01998-8

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Inquinamento da farmaci: gli effetti degli antinfiammatori sull’ambiente marino

L’ibuprofene, il cui uso è cresciuto molto durante la pandemia di COVID-19, può ridurre la capacità delle piante marine di rispondere a stress ambientali. La ricerca dell’Università di Pisa pubblicata sul Journal of Hazardous Materials.

Una cura per noi, un pericolo per l’ambiente. Per la prima volta una ricerca dell’Università di Pisa, appena pubblicata sul Journal of Hazardous Materials, ha esaminato l’impatto di diverse concentrazioni di ibuprofene, un comune antinfiammatorio molto utilizzato durante la pandemia di COVID-19, sulle angiosperme marine.

“Le angiosperme marine svolgono ruoli ecologici cruciali e forniscono importanti servizi ecosistemici, ad esempio proteggono le coste dall’erosione, immagazzinano carbonio e producono ossigeno, supportano la biodiversità, e costituiscono una nursery per numerose specie animali”, spiega la professoressa Elena Balestri del dipartimento di Biologia dell’Ateneo pisano.

In particolare, la ricerca si è focalizzata su Cymodocea nodosa (Ucria, Ascherson), una specie che cresce in aree costiere poco profonde, anche in prossimità della foce dei fiumi, zone spesso contaminate da molti inquinanti, farmaci compresi.

La sperimentazione è avvenuta in mesocosmi all’interno dei quali le piante sono state esposte per 12 giorni a concentrazioni di ibuprofene rilevate nelle acque costiere del Mediterraneo. È così emerso che la presenza di questo antinfiammatorio a concentrazioni di 0,25 e 2,5 microgrammi per litro causava nella pianta uno stress ossidativo ma non danni irreversibili. Se invece la concentrazione era pari a 25 microgrammi per litro, le membrane cellulari e l’apparato fotosintetico erano danneggiate, compromettendo in tal modo la resilienza della pianta a stress ambientali.

“Il nostro è il primo studio che ha esaminato gli effetti di farmaci antinfiammatori sulle piante marine – dice Elena Balestri – Attualmente, si stima che il consumo globale di ibuprofene superi le 10.000 tonnellate annue e si prevede che aumenterà ulteriormente in futuro, e poiché gli attuali sistemi di trattamento delle acque reflue non sono in grado di rimuoverlo completamente anche la contaminazione ambientale aumenterà di conseguenza”.

“Per ridurre il rischio di un ulteriore aggravamento del processo di regressione delle praterie di angiosperme marine in atto in molte aree costiere – conclude Balestri – sarà quindi necessario sviluppare nuove tecnologie in grado di ridurre l’immissione di ibuprofene e di altri farmaci negli habitat naturali, stabilire concentrazioni limite di questo contaminante nei corsi d’acqua e determinare le soglie di tolleranza degli organismi, non solo animali ma anche vegetali”.

Complessivamente, le strutture dell’Ateneo pisano coinvolte nello studio sono i dipartimenti di Biologia, di Farmacia e di Scienze della Terra, il Centro per l’Integrazione della Strumentazione scientifica (CISUP) e il Centro Interdipartimentale di Ricerca per lo Studio degli Effetti del Cambiamento Climatico (CIRSEC).

In particolare, la ricerca è stata realizzata grazie alla collaborazione di tre team di ricerca. Il gruppo di Ecologia, costituito dalla professoressa Elena Balestri, dal professore Claudio Lardicci e dalla dottoressa Virginia Menicagli, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Biologia, si occupa da anni dello studio degli impatti di contaminanti, tra cui plastiche, microplastiche, nanoplastiche e filtri solari, e dei cambiamenti climatici sugli organismi vegetali marini e terrestri tipici della fascia costiera. Il gruppo di Botanica, con la professoressa Monica Ruffini Castiglione e quello di Fisiologia Vegetale, con le dottoresse Carmelina Spanò, Stefania Bottega e il dottor Carlo Sorce, studiano invece le risposte delle piante all’inquinamento da metalli e da micro e nanoplastiche. Inoltre, conducono ricerche sulla biologia delle piante degli ambienti costieri, in particolare sui meccanismi di risposta agli stress causati dai fattori ambientali, sia naturali, sia di origine antropica.  Il gruppo di Biologia Farmaceutica, infine, costituito dalla professoressa Marinella De Leo e dalla dottoressa Emily Cioni, dottoranda del Dipartimento di Farmacia, si occupa dello studio chimico di prodotti naturali prodotti dalle piante.

Prateria di Cymodocea nodosa in regressione
Inquinamento da farmaci: gli effetti degli antinfiammatori sull’ambiente marino; uno studio pubblicato sul Journal of Hazardous Materials. In foto, prateria di Cymodocea nodosa in regressione

Riferimenti bibliografici:

Virginia Menicagli, Monica Ruffini Castiglione, Emily Cioni, Carmelina Spanò, Elena Balestri, Marinella De Leo, Stefania Bottega, Carlo Sorce, Claudio Lardicci, Stress responses of the seagrass Cymodocea nodosa to environmentally relevant concentrations of pharmaceutical ibuprofen: Ecological implications,
Journal of Hazardous Materials, Volume 476, 2024, 135188, ISSN 0304-3894, DOI: https://doi.org/10.1016/j.jhazmat.2024.135188

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.

Milano-Bicocca lancia la mappa interattiva delle foche monache nel Mar Mediterraneo
Più di un terzo dei rilevamenti segnala tracce molecolari della loro presenza

Dalla collaborazione dei dipartimenti di Scienze dell’ambiente e della terra e di Psicologia nasce “Spot the Monk Observatory”, un osservatorio alla portata di tutti per monitorare le tracce di DNA dell’abitante più famoso dei nostri mari

Milano, 26 novembre 2024 – Una mappa interattiva e in continuo aggiornamento per monitorare la presenza della foca monaca nel Mar Mediterraneo, man mano che vengono raccolti, analizzati e caricati nel sistema i campioni di DNA provenienti da diversi punti del Mediterraneo centro-occidentale, dal Mar Egeo allo Stretto di Gibilterra, dal Mar Adriatico al Mar di Sicilia, seguendo le tracce lasciate dall’unico pinnipede endemico del Mare Nostrum.

Il sito web di riferimento si chiama “Spot the Monk Observatory” (https://www.spot-the-monk-observatory.com/) ed è frutto di una collaborazione tra il dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra e quello di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca. Il progetto si inserisce all’interno di “Spot the Monk”, iniziativa nata nel 2020 che si avvale di una metodologia di rilevamento innovativa ed assolutamente non invasiva per l’intercettazione di tracce di presenza della foca monaca da semplici campioni di acqua marina. In che cosa consiste? Nell’analisi del DNA ambientale (eDNA) ovvero quel DNA contenuto nelle tracce biologiche che ciascun organismo lascia al proprio passaggio.

Sulle tracce della foca monaca: mappare il suo ritorno col DNA ambientale

Il test molecolare consiste nell’utilizzare un piccolo filamento di DNA sintetico (primer), la cui sequenza è identica ad una stringa di nucleotidi (i piccoli mattoncini che costituiscono il DNA) che si trova solo ed esclusivamente nel genoma della specie target, in questo caso la foca monaca. La procedura, messa a punto nel 2019 nel laboratorio del MaRHE Center da Elena Valsecchi, ecologa molecolare del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università di Milano-Bicocca, sfrutta la naturale attitudine del singolo filamento di DNA di “cercare” ed “avvinghiarsi” al filamento complementare, ammesso che questo sia contenuto all’interno di un campione, ovvero se il campione contiene tracce di DNA della specie bersaglio.

Una volta reso disponibile, il test è stato utilizzato per analizzare un gran numero di campioni raccolti in un solo anno (2021) nel Mediterraneo centro-orientale grazie a una fitta rete di programmi di Citizen Science. Il loro coinvolgimento nella raccolta di campioni di acqua marina in punti diversi del Mediterraneo ha consentito di stilare una prima mappa sulla distribuzione delle aree visitate.

«Da allora la campagna di raccolta “partecipativa” non ha avuto sosta – spiega Elena Valsecchi – coinvolgendo un numero sempre maggiore di associazioni sensibili alla causa ambientale come la Fondazione Acquario di Genova (con il supporto finanziario di 11th Hour Racing) ed il WWF che, con l’imprescindibile apporto del Gruppo Foca Monaca (link: https://focamonaca.it), partner del progetto sin dai suoi esordi, ha messo in campo una folta squadra di “campionatori seriali”, non più solo dalla superficie del mare, ma anche formando campionatori subacquei, grazie all’adesione al progetto da parte di numerosi Diving Center».

Foca Monaca del Mediterrano, femmina adulta mentre dorme in spiaggia, Saccorgiana, Pola, Istria, Croazia Crediti per la foto: E.Coppola/PANDA PHOTO
Foca Monaca del Mediterrano, femmina adulta mentre dorme in spiaggia, Saccorgiana, Pola, Istria, Croazia Crediti per la foto: E.Coppola/PANDA PHOTO

Quest’anno “Spot the Monk” ha raccolto una nuova sfida:

«Tendere la mano al grande pubblico – specifica l’ecologa – e renderlo partecipe dei risultati ottenuti, strizzando l’occhio all’Open Science. Ho concepito l’idea di un Osservatorio dove sia possibile consultare i campioni man mano che vengono raccolti e analizzati». Dall’idea alla realizzazione, “Spot the Monk Observatory” è diventato realtà. Il sito web è stato progettato e sviluppato da Alessandro Gabbiadini, professore del dipartimento di Psicologia e vicedirettore del centro di ricerca sulle nuove tecnologie MIBTEC (www.mibtec.it) nello stesso ateneo. Nello specifico, «il sito del nuovo osservatorio è stato sviluppato seguendo la filosofia dello User Centered Design – afferma Gabbiadini – ponendo l’utente al centro di ogni scelta progettuale. La priorità è stata data alla visualizzazione immediata dei dati raccolti, per rendere le informazioni facilmente accessibili e fruibili. Inoltre, il sito web è concepito come un punto di contatto e di raccordo tra le diverse realtà che si occupano della tutela e della mappatura della presenza della foca monaca nel Mediterraneo, favorendo il mantenimento di una rete collaborativa».

L’obiettivo finale è potenziare la comunicazione con il pubblico, in linea con le esigenze della “terza missione” dell’Università di Milano-Bicocca, che mira a rafforzare il dialogo tra il mondo accademico e la società.

Al momento sono stati analizzati 412 dei 537 campioni raccolti da oltre un centinaio di collaboratori e 37 associazioni partner, dal 2018 a oggi. Di questi 412 campioni, 144 (più di un terzo) sono risultati positivi al test, segnalando la presenza o il recente passaggio della foca monaca. Sulla mappa consultabile online (che è anche riprodotta nella foto qui sotto), si può osservare la distribuzione nel Mediterraneo dei diversi rilevamenti e, cliccando su uno di essi, si possono ottenere l’anno, l’autore, la fascia del giorno (diurna/notturna) e altre informazioni del singolo campionamento. Oltre allo stato dell’analisi (effettuata o no) e al suo esito (positivo/negativo).

La mappa interattiva delle foche monache nel Mar Mediterraneo
La mappa interattiva delle foche monache nel Mar Mediterraneo: più di un terzo dei rilevamenti segnala tracce molecolari della loro presenza

Le caratteristiche e proprietà del nuovo sito sono state dettagliate nell’articolo recentemente pubblicato da Valsecchi e Gabbiadini sulla rivista scientifica “Biodiversity Data Journal” (“An Observatory to monitor range extension of the Mediterranean monk seal based on its eDNA traces: collecting data and delivering results in the Open Science era”, DOI: https://doi.org/10.3897/BDJ.12.e120201).

Nato con lo scopo di rendere più partecipi gli amanti del mare allo studio della foca monaca, che per alcuni decenni sembrava essere scomparsa dalle acque centro occidentali del bacino mediterraneo, per poi ricomparire sporadicamente in alcuni siti, “Spot the Monk Observatory” si sta rivelando un’utile piattaforma anche per gli addetti ai lavori, sia in ambito scientifico che per gli enti preposti alla gestione e conservazione della specie.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca

Riscaldamento globale: entro 2100 pericolo estinzione per alghe e foreste marine

L’Università di Pisa partner dello studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, secondo il team di ricerca le regioni polari potrebbero essere l’ultimo rifugio per queste specie

Se non ci saranno interventi per mitigare subito le emissioni di gas serra, le foreste macroalgali e le fanerogame (fra cui Posidonia oceanica, una pianta superiore endemica del Mediterraneo) sono a rischio estinzione entro il 2100. Il riscaldamento globale rischia di provocare a livello mondiale una riduzione fra l’80 e il 90% degli ambienti adatti alla sopravvivenza di queste specie che potranno trovare rifugio solo nelle regioni polari. Lo scenario emerge da uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications e condotto dalle Università di Helsinki e di Pisa, dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) e dal Centro di eccellenza australiano per la Biodiversità e il patrimonio naturale (CABAH).

Attraverso modelli statistici, la ricerca ha mappato la distribuzione di 207 specie, 185 macroalghe brune e 22 fanerogame, a partire dal 2015 con proiezioni annuali sino alla fine del secolo. Questi organismi, presenti attualmente in grande quantità sulle coste (le macroalghe occupano 2,63 milioni di km2 e le fanerogame 1,65), sono essenziali per la vita marina in quanto producono ossigeno attraverso la fotosintesi, immagazzinano anidride carbonica, contribuiscono a mantenere una elevata biodiversità, fanno da ‘nursery’ a numerose specie di pesci e crostacei di interesse commerciale e proteggono dall’erosione costiera.

“La questione è globale, le foreste macroalgali popolano le coste rocciose di tutto il mondo, dalla battigia ad alcune decine di metri di profondità – spiega il professore Lisandro Benedetti-Cecchi del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa – Nel Mediterraneo queste sono costituite prevalentemente da alghe brune arborescenti del genere Cystoseira, piante le cui “chiome” si innalzano dal fondo per alcune decine di centimetri formando delle vere e proprie foreste in miniatura. Insieme a Posidonia oceanicale alghe arborescenti sono una riserva di energia che alimenta il funzionamento dell’intero sistema marino costiero e in ultima analisi la nostra vita sulla terraferma”.

L’impatto del cambiamento climatico non sarà comunque uniforme a livello globale, con zone che potranno perdere o guadagnare in termini di biodiversità, in un bilancio complessivo comunque negativo. Secondo la stime, le foreste di macroalghe e le fanerogame diminuiranno soprattutto in Europa, nel Mar Baltico, nel Mar Nero, nella costa pacifica del Sud America, nella penisola coreana e nelle coste nord-occidentali e sud-orientali dell’Australia.

Gli studi sul cambiamento climatico di solito riguardano l’ambiente terrestre, mentre il mare resta di solito relativamente inesplorato – conclude il professore Lisandro Benedetti-Cecchi – questo lavoro vuole ribaltare la prospettiva, e quantificare i cambiamenti globali che riguardano l’ecosistema marino”.

Riferimenti bibliografici:

Manca, F., Benedetti-Cecchi, L., Bradshaw, C.J.A. et al. Projected loss of brown macroalgae and seagrasses with global environmental change, Nat Commun 15, 5344 (2024), DOI: https://www.nature.com/articles/s41467-024-48273-6

Riscaldamento globale: entro 2100 pericolo estinzione per alghe e foreste marine; lo studio è pubblicato sulla rivista Nature Communications. Nell’immagine, Posidonia oceanica. Foto di Frédéric Ducarme, CC BY-SA 4.0

Testo e foto (ove non indicato diversamente) dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa

I DELFINI SI “SORRIDONO” A VICENDA DURANTE IL GIOCO

La scoperta dei ricercatori delle Università di Pisa e Torino che hanno studiato le interazioni tra tursiopi (una specie diffusa nel Mediterraneo) durante le sessioni di gioco

I delfini sono estremamente “giocosi”, ma poco si sa su come comunicano durante il gioco. Una nuova ricerca pubblicata il 2 ottobre sulla rivista iScience (Cell Press), realizzata dall’Università di Pisa in collaborazione con l’Università di Torino e l’Università di Rennes, dimostra che i tursiopi, delfini diffusi anche nel Mar Mediterraneo, utilizzano un’espressione facciale “a bocca aperta”, analoga al sorriso, per interagire durante il gioco sociale. I delfini usano quasi sempre questa espressione facciale quando si trovano nel campo visivo dei loro compagni di gioco e, quando questi ultimi percepiscono un “sorriso”, rispondono a loro volta aprendo la bocca il 33% delle volte.

“Abbiamo scoperto la presenza di un’espressione facciale distinta, la bocca aperta, nei tursiopi e abbiamo dimostrato che questi sono anche in grado di rispondere rapidamente alle espressioni facciali degli altri”, spiega l’autrice senior ed etologa Elisabetta Palagi dell’Università di Pisa. “I segnali a bocca aperta e la mimica rapida appaiono ripetutamente in tutto l’albero genealogico dei mammiferi, il che suggerisce che la comunicazione visiva abbia svolto un ruolo cruciale nel dare forma a interazioni sociali complesse, non solo nei delfini ma in molti altri mammiferi nel corso del tempo”.

Il gioco tra delfini può includere salti acrobatici, interazioni con oggetti, inseguimenti e contatti fisici, che però è importante non vengano interpretati come vere aggressioni. Molti mammiferi usano le espressioni facciali per mediare le interazioni di gioco, ma se questo comportamento fosse presente anche nei mammiferi marini non era mai stato indagato in precedenza.

“Il gesto della bocca aperta si è probabilmente evoluto dall’azione del mordere, interrompendo la sequenza del morso per lasciare solo la sua intenzione, senza contatto”, prosegue Palagi. “La bocca aperta rilassata, che si vede nei carnivori sociali, nelle facce da gioco delle scimmie e persino nelle risate umane, è un segno universale di giocosità, che aiuta gli animali a segnalare il divertimento e a evitare i conflitti”.

Per verificare se i delfini utilizzassero l’apertura della bocca come espressione facciale, i ricercatori hanno studiato diversi gruppi sociali di tursiopi in ambiente controllato, mentre interagivano in coppia e mentre giocavano liberamente con i loro addestratori umani. È stato dimostrato che questi animali usano l’espressione della bocca aperta quando giocano con altri delfini, ma non sembrano usarla quando giocano con gli umani o quando giocano da soli con degli oggetti.

I ricercatori hanno registrato un totale di 1288 eventi di bocca aperta durante le sessioni di gioco sociale e il 92% di questi eventi si è verificato durante le sessioni di gioco tra delfini. I delfini erano anche più propensi ad assumere l’espressione della bocca aperta quando il loro volto era nel campo visivo del compagno di gioco – l’89% delle espressioni a bocca aperta registrate sono state emesse in questo contesto – e quando questo “sorriso” è stato percepito, il compagno di gioco ha ricambiato il sorriso il 33% delle volte.

“Qualcuno potrebbe obiettare che i delfini imitano le espressioni a bocca aperta degli altri per puro caso, dato che sono spesso coinvolti nella stessa attività o nello stesso contesto, ma questo non spiega perché la probabilità di imitare la bocca aperta di un altro delfino entro un secondo sia 13 volte più alta quando il ricevente vede effettivamente l’espressione originale”, continua Palagi. “Le percentuali di risposta osservate nei delfini sono coerenti con quanto osservato in alcuni carnivori, come i suricati e gli orsi”.

I ricercatori non hanno registrato i segnali acustici dei delfini durante il gioco, ma affermano che gli studi futuri dovrebbero indagare sul possibile ruolo delle vocalizzazioni e dei segnali tattili durante le interazioni ludiche.

“I delfini possiedono uno dei repertori vocali più vasti e complessi del regno animale e la funzione di molte vocalizzazioni emesse da questi animali è ancora sconosciuta” dichiara lo zoologo Livio Favaro, docente di Biologia Marina presso il Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino. “Le nostre future ricerche si concentreranno sull’utilizzo dei segnali acustici da parte dei tursiopi durante le sessioni di gioco e su come questi complementino i segnali visivi, in quello che ci aspettiamo essere un complesso sistema di comunicazione multimodale.”

Riferimenti bibliografici:
Maglieri et al., “Smiling underwater: exploring playful signals and rapid mimicry in bottlenose dolphins”, iScience, DOI: http://dx.doi.org/10.1016/j.isci.2024.110966
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Resistenza ai pesticidi dei roditori delle isole italiane: un fenomeno diffuso e dannoso per l’ambiente e la biodiversità

Un nuovo studio coordinato dalla Sapienza, in collaborazione con l’Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri del CNR, ha indagato la resistenza genetica ai rodenticidi nei topi domestici in 11 piccole isole italiane. I risultati del lavoro, che sensibilizzano su un uso più consapevole di tali sostanze, sono stati pubblicati sulla rivista Science of the Total Environment.

La presenza di roditori invasivi come ratti o topi sulle isole del Mediterraneo, ricche di biodiversità e con una cospicua presenza umana, rappresenta una grave minaccia per questi delicati ecosistemi, oltre a causare gravi danni alle attività umane.

In questi ambienti il controllo dei roditori avviene frequentemente attraverso l’impiego di sostanze rodenticide basate su principi attivi anticoagulanti e che , se usate senza seguire le opportune linee guida, possono avere gravi impatti ambientali per il possibile avvelenamento diretto o secondario di altre specie. Inoltre, esiste anche la possibilità che si sviluppi una resistenza genetica a tali sostanze. Questo rende difficile il controllo delle popolazioni di roditori e aumenta conseguentemente la quantità di rodenticidi rilasciati nell’ambiente.

In un nuovo studio pubblicato sulla rivista Science of the Total Environment, frutto della collaborazione fra il Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e l’Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), è stata indagato il fenomeno della resistenza genetica ai rodenticidi nelle isole italiane confermando una presenza piuttosto diffusa di topi resistenti su 7 delle 11 isole studiate.

“In questo lavoro, che rappresenta la prima indagine sulla resistenza ai rodenticidi anticoagulanti effettuata su più isole del Mediterraneo – spiega Francesco Gallozzi della Sapienza – abbiamo analizzato particolari mutazioni del gene VKORC1, coinvolto nei fenomeni di resistenza, nei topi domestici (Mus domesticus) e identificato 6 nuove mutazioni mai trovate nel topo domestico e 4 nuove mutazioni mai identificate nei roditori”.

Per il reperimento dei campioni dalle diverse isole è stata fondamentale la collaborazione tra più enti, tra i quali NEMO srl, che si occupa direttamente della gestione dei roditori sulle isole italiane ed è stata protagonista delle attività di eradicazione di roditori invasivi in molte di esse.

Lo studio, effettuato nell’ambito delle attività del National Biodiversity Future Center e in particolare dello Spoke 5 sulla biodiversità urbana a cui partecipa la Sapienza, ha portato alla luce la necessità di un utilizzo più consapevole dei rodenticidi per permettere una gestione efficace dei roditori invasivi e per minimizzare gli impatti di tali sostanze sulle specie non-target.

“In presenza di resistenza ai rodenticidi vanno considerati metodi alternativi per il loro controllo – commenta Riccardo Castiglia, coordinatore dello studio. “Altrimenti, il rischio è quello di arrecare un danno irreparabile ad ambiente e biodiversità”.

Topo dall'isola di Ventotene. Crediti per la foto: Davide Giuliani
Resistenza ai pesticidi dei roditori delle isole italiane: un fenomeno diffuso e dannoso per l’ambiente e la biodiversità. Topo dall’isola di Ventotene. Crediti per la foto: Davide Giuliani

Riferimenti bibliografici:

A survey of VKORC1 missense mutations in eleven Italian islands reveals widespread rodenticide resistance in house mice – Francesco Gallozzi, Lorenzo Attili, Paolo Colangelo, Davide Giuliani, Dario Capizzi, Paolo Sposimo, Filippo Dell’Agnello, Rita Lorenzini, Emanuela Solano, Riccardo Castiglia – Science of The Total Environment 2024, DOI: https://doi.org/10.1016/j.scitotenv.2024.176090

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma