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Mosche tachinidi, che vicono nelle aree montane, guardiane della biodiversità a rischio climatico
Un nuovo studio condotto dal Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin, in collaborazione col Museo di Zoologia dell’Università Sapienza, ha evidenziato come la diminuzione di mosche tachinidi per effetto del cambiamento climatico rappresenti un rischio per l’intero ecosistema delle aree montane. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista PNAS.

Mintho compressa è una mosca della famiglia tachinidi. I tachinidi hanno uno stile di vita parassitoide: allo stadio larvale sono endoparassiti di altri insetti, da adulti invece sono a vita libera e si nutrono di nettare ed altre essenze vegetali.
Mintho compressa è una mosca della famiglia tachinidi. I tachinidi hanno uno stile di vita parassitoide: allo stadio larvale sono endoparassiti di altri insetti, da adulti invece sono a vita libera e si nutrono di nettare ed altre essenze vegetali.
Crediti: Steve A Marshall.

Il cambiamento climatico ha un impatto particolarmente rilevante sulla biodiversità montana. Infatti, le specie di alta quota sono spesso specialiste, cioè capaci di vivere in una ristretta varietà di condizioni ambientali (a volte estreme), e quindi sono anche molto sensibili ai cambiamenti climatici.

Le mosche tachinidi sono insetti parassitoidi che “sfruttano” altri insetti (specialmente bruchi) allo stadio larvale, mentre sono a vita libera e si nutrono di nettare da adulti.

“Negli ecosistemi montani – spiega Pierfilippo Cerretti, Direttore del Museo di Zoologia e autore senior dello studio – il loro ruolo è cruciale perché tengono sotto controllo le popolazioni di diversi insetti erbivori di cui sono parassiti. Alcune specie mostrano una preferenza per specifici ospiti, mentre altre sono largamente generaliste”.

Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista scientifica PNAS e condotto dal Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin, in collaborazione col Museo di Zoologia della Sapienza, ha analizzato i dati di raccolta di oltre 60.000 campioni museali di mosche tachinidi raccolti in Europa dal 1845 a oggi, dimostrando che dalla metà del secolo scorso la percentuale di tachinidi specialisti è aumentata del 70% a bassa quota, mentre è diminuita del 20% ad alta quota, dove nello stesso periodo, invece, le specie generaliste si sono rapidamente diffuse.

“Il declino osservato nelle mosche specialiste di alta quota – aggiunge Luca Santini, coautore dello studio – comporta un aumento del rischio di diffusione degli insetti erbivori, che potrebbero ridisegnare gli ecosistemi montani”.

“I dati evidenziati dal nostro lavoro – conclude Moreno Di Marco, a capo del laboratorio Biodiversity & Global Change della Sapienza e coordinatore dello studio – mostrano un effetto dei cambiamenti climatici che va oltre le singole specie, suggerendo che l’intera composizione degli ecosistemi sta rapidamente cambiando con ricadute potenzialmente enormi sulla biodiversità montana”.

I risultati di questo studio dimostrano inoltre come il patrimonio dei musei di storia naturale, ottenuto con campagne di raccolta sul campo e piani di monitoraggio a lungo termine, sia fondamentale per la comprensione di fenomeni naturali complessi, e quanto più attuali, come il cambiamento climatico.

Riferimenti bibliografici:

Elevational homogenisation of mountain parasitoids across six decades – Moreno Di Marco, Luca Santini, Daria Corcos, Hans-Peter Tschorsnig, Pierfilippo Cerretti – Proceedings of the National Academy of Sciences (2023), DOI: https://doi.org/10.1073/pnas.2308273120

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Cambiamenti climatici e deforestazione instradano i primati verso un nuovo stile di vita
Uno studio internazionale a cui ha preso parte la Sapienza ha analizzato i fattori ecologici ed evolutivi che spingono scimmie e lemuri che vivono sugli alberi a terra. La ricerca condotta su larga scala nei primati di 3 continenti, è stata pubblicata sulla rivista PNAS.

Uno studio internazionale su 47 specie di scimmie e lemuri ha evidenziato come i cambiamenti climatici e le deforestazioni interferiscano sullo stile di vita dei primati. L’influenza dei cambiamenti ambientali porta molti di questi animali, che vivono normalmente sugli alberi, a cambiare le proprie abitudini, spingendoli a scendere a terra, dove sono più esposti a fattori di rischio come la mancanza di cibo, i predatori, la presenza dell’uomo e degli animali domestici.

Lo studio, pubblicato sulla rivista PNAS (The Proceedings of the National Academy of Sciences) è stato coordinato da Timothy Eppley, ricercatore presso il San Diego Zoo Wildlife Alliance (SDZWA), e vede la straordinaria collaborazione a livello mondiale di 118 co-autori provenienti da 124 istituti diversi, tra cui Luca Santini della Sapienza di Roma che ha co-ideato e supervisionato il lavoro. I risultati si basano su circa 150.000 ore di dati di osservazione riguardanti 15 specie di lemuri e 32 specie di scimmie in 68 siti nelle Americhe e in Madagascar.

La ricerca consiste in una valutazione dell’influenza delle caratteristiche biologiche, del contesto ambientale e delle azioni umane sul periodo trascorso a terra dai primati arboricoli. Lo studio ha rilevato come le specie che consumano meno frutta e vivono in grandi gruppi sociali siano più predisposte a scendere a terra e abbandonare lo stile di vita arboricolo. Si possono, quindi, definire queste condizioni come una sorta di “pre-adattamento” a quello che potrà essere la vita futura di questi animali. Lo studio ha inoltre mostrato come la temperatura, e la degradazione delle foreste, spingano i primati ad un uso maggiore dello strato terrestre. Di conseguenza, un habitat frammentato, disturbato dall’uomo che offre scarse risorse alimentari, solo popolazioni di primati che hanno una dieta più diversificata e vivono in gruppi numerosi possono adattarsi più facilmente a uno stile di vita terrestre.

Lo studio ha anche rilevato che le popolazioni di primati più vicine alle infrastrutture umane hanno meno probabilità di scendere a terra:

“I nostri risultati – dichiara Luca Santini della Sapienza – suggeriscono che la presenza umana, spesso una minaccia alla conservazione dei primati, possa interferire con la loro naturale adattabilità al cambiamento globale”.

In passato situazioni di transizione da uno stile di vita arboricolo a quello di vita terreste si sono già presentate, non è una novità.

Le preoccupazioni che hanno portato gli studiosi ad avviare uno studio di questa portata nascono nella rapidità con cui avvengono cambiamenti climatici e interventi dell’uomo. Questo richiederebbe per le specie meno adattabili, strategie di conservazione rapide ed efficaci per garantire la loro sopravvivenza.

lemure Eulemur mongoz Cambiamenti climatici e deforestazione cambiano le abitudini dei primati
Cambiamenti climatici e deforestazione instradano i primati verso un nuovo stile di vita. Un lemure mangusta (Eulemur mongoz) nella foto di IParjan, in pubblico dominio

Riferimenti:
Factors influencing terrestriality in primates of the Americas and Madagascar – Eppley T.M., Hoeks S., Chapman C.A., Ganzhorn J.U., Hall K., Owen M.A., Adams D.B., Allgas N., Amato K.R., Andriamahaihavana M., Aristizabal J.F., Baden A.L., Balestri M., Barnett A.A., Bicca-Marques J.C., Bowler M., Boyle A.S., Brown M., Caillaud D., Calegaro-Marques C., Campbell C.J., Campera M., Campos F.A., Cardoso T.S., Carretero-Pinzón X., Champion J., Chaves O.M., Chen-Kraus C., Colquhoun I.C., Dean B., Dubrueil C., Ellis K.M., Erhart E.M., Evans K.J.E., Fedigan L.M., Felton A.M., Ferreira R.G., Fichtel C., Fonseca M.L., Fontes I.P., Fortes V.B., Fumian I., Gibson D., Guzzo G.B., Hartwell K.S., Heymann E.W., Hilário R.R., Holmes S.M., Irwin M.T., Johnson S.E., Kappeler P.M., Kelley E.A., King T., Knogge C., Koch F., Kowalewski M.M., Lange L.R., Lauterbur M.E., Louis Jr. E.E., Lutz M.C., Martínez J., Melin A.D., de Melo F.R., Mihaminekena T.H., Mogilewsky M.S., Moreira L.S., Moura L.A., Muhle C.B., Nagy-Reis M.B., Norconk M.A., Notman H., O’Mara M.T., Ostner J., Patel E.R., Pavelka M.S.M., Pinacho-Guendulain B., Porter L.M., Pozo-Montuy G., Raboy B.E., Rahalinarivo V., Raharinoro N.A., Rakotomalala Z., Ramos-Fernández G., Rasamisoa D.C., Ratsimbazafy J., Ravaloharimanitra M., Razafindramanana J., Razanaparany T.P., Righini N., Robson N.M., da Rosa Gonçalves J., Sanamo J., Santacruz N., Sato H., Sauther M.L., Scarry C.J., Serio-Silva J.C., Shanee S., de Souza Lins P.G.A., Smith A.C., Smith Aguilar S.E., Souza-Alves J.P., Stavis V.K., Steffens K.J.E., Stone A.I., Strier K.B., Suarez S.A., Talebi M., Tecot S.R., Tujague M.P., Valenta K., Van Belle S., Vasey N., Wallace R.B., Welch G., Wright P.C., Donati G., Santini L. – PNAS (2022) https://doi.org/10.1073/pnas.2121105119

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Elefanti nani e piccioni giganti: regola o eccezione delle specie che abitano le isole?

 Uno studio internazionale, svolto in collaborazione con la Sapienza, spiega i meccanismi alla base dei fenomeni di gigantismo e nanismo che caratterizzano molte specie insulari, confermando anche l’influenza di fattori geografici e climatici. Tra questi le dimensioni dell’isola, la temperatura e la stagionalità. La ricerca è pubblicata sulla rivista Nature, Ecology and Evolution.

 Uno studio internazionale spiega i meccanismi alla base dei fenomeni di gigantismo e nanismo che caratterizzano molte specie nelle isole. Drago di Komodo. Foto di WolfmanSF, modificata da Midori, CC BY-SA 3.0

Le isole sono laboratori naturali di evoluzione, dove è possibile osservare traiettorie evolutive differenti da quelle che caratterizzano le masse continentali. Uno degli aspetti che da sempre suscita interesse e controversie tra gli esperti è la cosiddetta “regola dell’insularità” (o regola di Foster) proposta nel 1964, che tenta di spiegare i processi di gigantismo e nanismo che caratterizzano molte specie animali insulari.

Secondo tale principio biologico, i membri di una specie che popolano le isole tendono ad aumentare o a diminuire le proprie dimensioni nel tempo rispetto a quelli che vivono nei continenti: si pensi agli ormai estinti ippopotami ed elefanti nani nelle isole mediterranee, esempi di nanismo insulare. Così come ci sono specie di piccole dimensioni che possono evolvere in giganti dopo aver colonizzato le isole, dando vita a bizzarrie quali il topo dell’isola di St. Kilda in Scozia (due volte la dimensione dell’antenato continentale), il drago di Komodo, una grossa specie di lucertola diffusa nelle isole indonesiane, o il dodo, un piccione gigante delle isole Mauritious, estintosi nel diciassettesimo secolo a causa della presenza antropica.

Un gruppo di ricerca internazionale guidato Ana Benítez-López della stazione biologica della Doñana (EBD-CSIC) in Andalusia, a cui ha partecipato Luca Santini del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza Università di Roma, ha confrontato circa 2400 popolazioni di oltre 1000 specie insulari con le loro corrispettive popolazioni continentali, rivalutando il postulato alla base della regola dell’insularità e mostrando come questo principio sia fortemente influenzato da fattori geografici e climatici. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature, Ecology and Evolution.

In particolare, i ricercatori hanno dimostrato che l’entità del nanismo e del gigantismo insulare dipende dal grado di isolamento e dalla dimensione delle isole, con effetti più pronunciati in mammiferi e rettili in isole di piccole dimensioni e lontane dalla terraferma. I meccanismi che spiegano questi fattori sono molto probabilmente riconducibili all’esiguo numero di specie, da cui consegue una riduzione, sia dei livelli di predazione e competizione, sia dello scambio genico con le popolazioni continentali in isole distanti dalla terra ferma.

Inoltre è stata osservata l’influenza dei fattori climatici sull’entità degli effetti insulari: sia mammiferi che uccelli (animali a sangue caldo) mostrano gigantismi più accentuati e nanismi meno marcati in isole fredde, presumibilmente per ridurre la perdita di calore. Inoltre, la stagionalità è risultata un fattore importante per i rettili di piccole dimensioni che presentano un gigantismo più marcato in isole con forte stagionalità, probabilmente per far fronte a lunghi periodi di scarsità di risorse.

Utilizzando sofisticate tecniche statistiche, gli autori sono stati in grado di controllare una serie di problemi intrinsechi ai dati relativi alla biodiversità, quali la variabilità degli errori nei dati di partenza e la relazione evolutiva fra le specie, riuscendo a ottenere così chiare evidenze a favore delle nuove ipotesi.

“I processi di gigantismo e nanismo insulare hanno una lunga storia di ricerca in biogeografia, eppure incredibilmente non si era ancora giunti a un consenso tra gli esperti se questi processi potessero essere effettivamente considerati una regola – spiega Luca Santini della Sapienza. “Il nostro studio affronta questo quesito, mostrando non solo che il gigantismo e il nanismo insulare sono meccanismi generali che agiscono consistentemente su tutti i vertebrati, e quindi che non si tratta di singoli eventi evolutivi in poche specie note, ma anche che ci sono molti processi che contribuiscono a spiegare la diversità di dimensioni nelle specie”.

Riferimenti:

Benítez-López, A., Santini, L., Gallego-Zamorano, J., Milá, B., Walkden, P., Huijbregts, M. A. J., Tobias, J. A.  The island rule explains consistent patterns of body size evolution in terrestrial vertebrates. (2021) Nature, Ecology and Evolution. doi: 10.1038/s41559-021-01426-y

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione dell’Università Sapienza di Roma sui fenomeni di gigantismo e nanismo nelle isole.

 

I grandi carnivori riconquistano il territorio

In un nuovo studio, frutto della collaborazione fra la Sapienza Università di Roma e il Consiglio nazionale delle ricerche, è stato indagato il fenomeno di ricolonizzazione da parte di linci, lupi e orsi che sta interessando diverse aree in Europa. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista Diversity and Distributions, identificano come fattori determinanti i cambiamenti della copertura del suolo, della densità della popolazione umana e l’incremento di politiche di tutela delle specie.

lupo grigio appenninico (Canis lupus italicus).Foto Flickr di Gilles PRETET, CC BY 2.0

Imbattersi in una lince, sentire l’ululato di un lupo, osservare un orso. Forse potrebbe non essere più tanto difficile e insolito in alcune aree, non ora che queste specie stanno ricolonizzando gran parte della loro storica area di distribuzione in Europa.

Dopo essere stati spinti sull’orlo dell’estinzione nel secolo scorso, negli ultimi decenni linci, lupi e orsi stanno ricolonizzando l’Europa, complici il cambiamento nell’uso del suolo e la diversa densità di popolazione, ma non la graduale espansione delle aree protette. È quanto emerge dal recente studio condotto da un gruppo internazionale di 11 Paesi coordinato da ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie della Sapienza Università di Roma e del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR). Questi fattori sembravano aver influenzato il ritorno dei grandi carnivori in Europa negli ultimi 24 anni, ma fino a oggi l’effettivo ruolo svolto era stato poco chiaro. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista Diversity and Distributions, indicano che tra il 1992 e il 2015 la combinazione di questi elementi abbia contribuito all’aumento della presenza di queste tre specie nell’Europa orientale, nei Balcani, nella penisola iberica nord-occidentale e nella Scandinavia settentrionale, mentre tendenze contrastanti sono emerse per l’Europa occidentale e meridionale.

“È molto probabile che la coesistenza dei grandi carnivori con gli esseri umani in Europa non sia legata solo alla disponibilità di un habitat idoneo, ma anche a fattori come la tolleranza da parte dell’uomo e le politiche per diminuire la caccia di queste specie” – spiega Marta Cimatti della Sapienza, primo autore del lavoro − “e questo permette di avere nuove opportunità per riconciliare la conservazione e la gestione di queste specie con lo sviluppo socioeconomico nelle aree rurali”.

Luca Santini, ricercatore della Sapienza e del Cnr e senior author dello studio, sottolinea “sfruttare i cambiamenti socioeconomici e paesaggistici per creare nuove opportunità di recupero per le specie sarà una sfida per l’Europa, cui si dovranno affiancare una corretta educazione ambientale, norme legislative e una gestione mirata a mitigare i conflitti fra uomo e fauna selvatica nelle aree recentemente ricolonizzate dai questi grandi carnivori”.

“L’associazione tra il diverso uso del suolo, l’abbandono delle aree rurali, l’aumento delle aree protette e l’espansione dei grandi carnivori in Europa sarà importante anche nei prossimi decenni” − conclude Luigi Boitani della Sapienza, coautore e presidente della Large Carnivore Initiative for Europe − “e suggerisce che la ricolonizzazione di vaste aree europee continuerà e che dunque saranno necessari maggiori sforzi per far coesistere l’uomo e questi grandi carnivori”.

Riferimenti:

Large carnivore expansion in Europe is associated with human population density and land cover changes – Cimatti M., Ranc N., Benítez-López A., Maiorano L., Boitani L., Cagnacci F., Čengić M., Ciucci P., Huijbregts M.A.J., Krofel M., López Bao J., Selva N., Andren H., Bautista C., Cirovic D., Hemmingmoore H., Reinhardt I., Marenče M., Mertzanis Y., Pedrotti L., Trbojević I., Zetterberg A., Zwijacz-Kozica T., Santini L – Diversity and Distributions, 2021. DOI 10.1111/ddi.13219

 

Testo dalla Sapienza Università di Roma