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Long COVID: scoperta la causa dei disturbi polmonari: il danno polmonare può essere causato da uno stato infiammatorio

I risultati di uno studio di Monzino e Università Statale di Milano, pubblicati sul Journal of American College of Cardiology Basic to Translational Science, identificano nell’infiammazione di basso grado e nell’attivazione piastrinica la causa dei danni polmonari, responsabili dei maggiori disturbi nella sindrome Long Covid, rendendo possibile una cura farmacologica personalizzata.

Milano, 12 dicembre 2024 – Un gruppo di ricercatori dell’IRCCS Centro Cardiologico Monzino e dell’Università degli Studi di Milano, guidati da Marina Camera, Responsabile dell’Unità di Ricerca di Biologia Cellulare e Molecolare Cardiovascolare del Monzino e Professore Ordinario di Farmacologia presso l’Università Statale di Milano, in collaborazione con i clinici del Centro Cardiologico Monzino e dell’Istituto Auxologico Italiano, ha individuato i meccanismi molecolari alla base dei disturbi polmonari nei pazienti che soffrono della sindrome Long COVID, aprendo la strada a una possibile terapia.

I dati della ricerca, pubblicati su JACC BTS (Journal of American College of Cardiology Basic to Translational Science) evidenziano che in questi pazienti il danno polmonare può essere causato da uno stato infiammatorio con attivazione delle piastrine che legandosi ai leucociti formano nel sangue degli etero-aggregati. Questi etero-aggregati, entrando nel microcircolo polmonare, possono determinare danno vascolare e alveolare promuovendo deposizione di tessuto fibrotico responsabile dei principali sintomi riferiti dai pazienti con Long COVID (dispnea, dolore toracico, astenia etc etc). Mediante esperimenti in vitro effettuati con il plasma di questi pazienti, lo studio suggerisce anche che i farmaci antiinfiammatori e antiaggreganti sono in grado di contrastare questi processi e rappresentano dunque una potenziale opzione terapeutica.

Benché l’emergenza pandemica COVID-19 sia terminata, il virus persiste nella popolazione e gli effetti di lungo termine dell’infezione – il cosiddetto Long COVID appunto – hanno ancora un forte impatto negativo sulla qualità di vita di un’alta percentuale di soggetti che hanno contratto la malattia in forma più o meno grave. I sintomi più preoccupanti del Long COVID sono riconducibili alla compromissione del parenchima polmonare e possono durare anche un anno dopo la fase acuta dell’infezione. Per questo la ricerca cardiovascolare internazionale si è concentrata sulle cause della persistenza dei sintomi post-COVID.

Diversi studi sostengono l’ipotesi che il danno polmonare sia causato dalla prolungata disfunzione endoteliale e dall’attivazione delle cellule immunitarie, con produzione di citochine che sostengono il processo infiammatorio. Tuttavia la fisiopatologia dei sintomi e le ragioni dello stato infiammatorio e della conseguente disfunzione polmonare non sono state del tutto chiarite.

I nostri studi hanno identificato un ruolo centrale, che nessuno aveva ancora considerato, sia dell’infiammazione cronica di basso grado che delle piastrine. Livelli anche di poco superiori ai limiti di normalità di proteina C reattiva e di interleuchina 6 possono infatti sinergizzare e sostenere l’attivazione delle piastrine. Gli aggregati che esse formano con i leucociti potrebbero dunque spiegare la disfunzione polmonare promuovendo deposizione di tessuto fibrotico che compromette la funzionalità polmonare”, dichiara Marina Camera.

Nell’era COVID, fra luglio e ottobre 2020, abbiamo reclutato presso il Centro Cardiologico Monzino e l’Istituto Auxologico Italiano 204 pazienti che avevano contratto il COVID nei mesi precedenti. Escludendo chi soffriva di gravi malattie pregresse o stava assumendo una terapia anticoagulante, abbiamo identificato 34 pazienti con sintomi di Long COVID che sono stati quindi confrontati con altrettanti soggetti che non presentavano sintomi dopo l’infezione da COVID-19. A questi soggetti è stato effettuato un prelievo di sangue per la valutazione dello stato di attivazione delle piastrine. I dati ottenuti hanno chiaramente indicato come nei soggetti sintomatici il danno polmonare evidenziato dagli esami TAC sia significativamente associato a un fenotipo piastrinico pro-infiammatorio”, spiega Marta Brambilla, ricercatrice del centro Cardiologico Monzino e prima firma del lavoro.

La ricerca pubblicata su JACC va a completare gli studi sull’impatto cardiovascolare del COVID-19, confermando l’eccellenza, riconosciuta a livello internazionale, del Centro Cardiologico Monzino su questo fronte. “Abbiamo dapprima identificato nel profilo procoagulante piastrinico il meccanismo responsabile delle complicanze trombotiche nei pazienti con infezione acuta da COVID-19. Abbiamo anche evidenziato che i quattro vaccini anti-COVID utilizzati durante la pandemia, pur inducendo un transiente stato infiammatorio tipico della stimolazione immunitaria, non inducono attivazione piastrinica e dunque non aumentano il rischio trombotico nella popolazione generale. Questo ultimo lavoro evidenzia infine non solo i meccanismi fisiopatologici, ma anche i biomarcatori utili per personalizzare la terapia farmacologica nella gestione della sindrome del Long COVID”, conclude Marina Camera.

Immagine di Gerd Altmann

Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

Long COVID in bambini e adolescenti: verso la comprensione dei meccanismi alla base della persistenza dei sintomi associati all’infezione da SARS-CoV-2 anche in età pediatrica

Uno studio condotto da ricercatori della Sapienza e pubblicato sulla rivista European Journal of Immunology ha evidenziato un’alterazione dei livelli trascrizionali degli interferoni di tipo I in bambini e adolescenti con sindrome da long COVID a partire dai 3/6 mesi dalla guarigione dal SARS-CoV-2.

Il long COVID è una sindrome caratterizzata dalla persistenza di segni clinici e sintomi correlati all’infezione da SARS-CoV-2. A oggi manca ancora una chiara comprensione dei meccanismi immunopatogenetici alla base di questo fenomeno. Molti pazienti descrivono effetti a lungo termine dell’infezione, quali affaticamento, cefalea, dispnea, anosmia e disturbi gastro-intestinali.

In un nuovo studio pubblicato sulla rivista European Journal of Immunology, frutto della collaborazione tra Raphael Viscidi della Johns Hopkins University di Baltimora e i gruppi di ricerca coordinati da Guido Antonelli del Dipartimento di Medicina molecolare e Fabio Midulla del Dipartimento di Pediatria e neuropsichiatria infantile della Sapienza, entrambi impegnati come direttori di Unità presso l’AOU Policlinico Umberto I,  è stato valutato il coinvolgimento del sistema degli interferoni – molecole prodotte naturalmente dalle cellule in risposta a infezioni virali – nello sviluppo e nella persistenza dei sintomi associati al Long COVID in età pediatrica, anche a distanza di tempo dall’infezione.

Le alterazioni nella produzione degli interferoni di tipo I a livello mucosale e sistemico nella fase precoce dell’infezione da SARS-CoV-2 erano già state associate a forme gravi di COVID-19 negli adulti; così come era stato evidenziato che una pre-attivazione dell’immunità innata può determinare una risposta anti-SARS-CoV-2 più rapida ed efficace nella popolazione pediatrica. Ma il fatto che un numero crescente di bambini e adolescenti continui a manifestare sintomi debilitanti anche dopo la risoluzione dell’infezione da SARS-CoV-2, ha portato i ricercatori a considerare un possibile coinvolgimento degli interferoni nello sviluppo e nella persistenza dei sintomi associati al Long COVID anche in età pediatrica.

In questo nuovo lavoro sono state osservate differenze nell’espressione degli interferoni di tipo I strettamente associate all’età: mentre negli adolescenti (12-17 anni) è stato riscontrato un aumento dei livelli trascrizionali I (particolarmente pronunciato in chi manifesta sintomi neurologici), nei bambini (6-11 anni) ne è stata osservata una diminuzione. È stato possibile registrare tale fenomeno sia in chi ha contratto l’infezione da SARS-CoV-2 ma non ha sviluppato sintomi Long COVID sia nei controlli sani.

“L’importanza della nostra ricerca – spiega Guido Antonelli – sta nel fatto di aver eseguito una dettagliata analisi trascrittomica degli interferoni di tipo I su un numero elevato di bambini ed adolescenti con long COVID, osservati a distanza di 3-6 mesi dalla fase acuta dell’infezione da SARS-CoV-2, che non avevano ancora aderito ai programmi di vaccinazione. Sono stati inoltre indagati ed esclusi possibili co-fattori che potessero alterare le analisi sulla risposta interferonica, quali la presenza di autoanticorpi neutralizzanti gli interferoni di tipo I”.

“Il nostro studio – dichiara Carolina Scagnolari, coordinatrice Sapienza della ricerca – aggiunge nuovi elementi alla comprensione dei meccanismi immunopatogenetici associati al long COVID”.

“Scenari immunologici interferon-correlati, distinti e opposti – continua Matteo Fracella del Dipartimento di Medicina molecolare della Sapienza – potrebbero influenzare in modo selettivo l’evolversi del long COVID nelle diverse fasce d’età”.

“L’individuazione dei meccanismi immunopatogenetici che sono alla base del Long COVID potrà essere di ausilio per una migliore gestione clinica terapeutica dei pazienti in età pediatrica” – conclude Fabio Midulla, responsabile del Pronto soccorso pediatrico del Policlinico Umberto I di Roma.

Riferimenti bibliografici:

Age-related transcript changes in type I interferon signaling in children and adolescents with long COVID – Fracella M, Mancino E, Nenna R, Virgillito C, Frasca F, D’Auria A, Sorrentino L, Petrarca L, La Regina D, Matera L, Di Mattia G, Caputo B, Antonelli G, Pierangeli A, Viscidi RP, Midulla F, Scagnolari C – Eur J Immunol. 2024, doi: 10.1002/eji.202350682

ospedale RNA circolari e rabdomiosarcoma
Long COVID in bambini e adolescenti: verso la comprensione dei meccanismi alla base della persistenza dei sintomi associati all’infezione da SARS-CoV-2 anche in età pediatrica. Foto di djedj

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Long COVID: una possibilità di cura dai farmaci antistaminici e antiulcera

Uno studio multicentrico, coordinato dal professor Carmine Gazzaruso, ha analizzato il ruolo dell’istamina nella malattia, conseguenza dell’infezione da SARS-Cov-2

Vigevano, 7 settembre 2023 – Una combinazione di vecchi farmaci antistaminici e antiulcera accende la speranza in coloro che soffrono della sindrome del Long COVID, una malattia multisistemica conseguenza dell’infezione da SARS-Cov-2. A dimostrarlo è uno studio multicentrico coordinato dal professor Carmine Gazzaruso – responsabile Centro di Ricerca Clinico (Ce.R.C.A.) dell’Istituto Clinico Beato Matteo di Vigevano (Gruppo San Donato) e professore di Endocrinologia dell’Università Statale di Milano – che indaga il ruolo dei mastociti, cellule del sangue, nella fisiopatologia del Long COVID e l’efficacia del trattamento con bloccanti dei recettori dell’istamina, che è una delle sostanze rilasciate dai mastociti.

Il Long COVID è una patologia, talvolta invalidante, che ad oggi non ha una terapia standard ed efficace e può presentare una grande varietà di sintomi: cardiovascolari, psicologici, neurologici, respiratori, gastrointestinali, dermatologici e muscoloscheletrici. Tra queste manifestazioni le più comuni sono tachicardia, palpitazioni, ipotensione posturale, affaticamento, deterioramento cognitivo, mancanza di respiro e tosse.

Il team dei ricercatori guidati dal professor Carmine Gazzaruso ha preso in esame quattro gruppi di sintomi caratteristici nel Long COVID: stanchezza e astenia, alterazione cardiaca, nebbia mentale e alterazione della memoria, disturbi gastrointestinali (dolore, meteorismo, gonfiore). È stato quindi selezionato un campione di 27 soggetti affetti da questa condizione, che presentavano però caratteristiche comuni: soffrire di Long Covid da oltre 6 mesi, essersi sottoposti a diversi trattamenti – come ad esempio aver assunto multivitaminici, betabloccanti e aver affrontato percorsi riabilitativi – con risultati fallimentari.

“Inoltre i pazienti arruolati per il nostro trial non erano vaccinati contro il Sars-Cov-2, perché il vaccino potrebbe modificare i sintomi del Long COVID, non erano soggetti allergici e non avevano mai sofferto, prima della infezione da SARS-Cov-2, di uno dei sintomi presi in considerazione nello studio” afferma il professor Gazzaruso, principal investigator del lavoro, pubblicato sulla rivista Frontiers in cardiovascular medicine. “La stanchezza, che accomunava tutto il campione preso in esame, doveva essere accompagnata, per la validità dello studio, da almeno uno degli altri sintomi. Nella media dei pazienti esaminati il dato è stato confermato, registrando, anzi, la presenza di tre sintomi, se non addirittura dell’intera sintomatologia”.

prof Carmine Gazzaruso Long COVID
il professor Carmine Gazzaruso

Studi precedenti, condotti a livello nazionale e internazionale, avevano evidenziato come nei pazienti con Long COVID vi fosse una maggiore attivazione dei mastociti, rispetto al normale, reazione simile a quanto avviene nei soggetti allergici con i quali vi è, effettivamente, anche un’assonanza di sintomi. Nel paziente allergico si verifica una grande produzione di istamina e prostaglandine, sostanze liberate in eccesso dai mastociti, esattamente come rilevato anche nel campione dello studio. Si evince quindi che nei pazienti con Long COVID si scateni una reazione cronica infiammatoria sostenuta con un meccanismo tipico dell’allergia.Questa evidenza ha generato nei ricercatori l’idea di inibire la reazione prodotta, bloccando due dei quattro recettori dell’istamina, detti H1 e H2, mediante l’impiego di due farmaci datati, ormai poco utilizzati nella pratica clinica quotidiana: un antistaminico (la fexofenadina) e un antiulcera (la famotidina), molto usato prima dell’avvento dell’omeprazolo. Nello specifico, l’antistaminico bloccava il recettore H1 dell’istamina, mentre il secondo inibiva il recettore H2.

Il campione è stato poi suddiviso in due gruppi: il primo, formato da 14 persone, ha ricevuto la terapia farmacologica combinata, mentre al secondo, il gruppo di controllo formato da 13 persone, non è stato somministrato nulla.

I risultati sono stati promettenti: i sintomi del Long COVID sono scomparsi completamente nel 29% dei pazienti del primo gruppo, dopo soli 20 giorni di trattamento. In tutti gli altri pazienti trattati si è comunque rilevato un miglioramento significativo di ciascuno dei sintomi considerati. Nel gruppo di controllo, invece, non si sono registrate variazioni in merito allo stato di salute.

Lo studio è stato condotto grazie al contributo dell’Istituto Clinico Beato Matteo di Vigevano (Pavia), dell’Università Statale di Milano, dell’IRCCS MultiMedica di Sesto San Giovanni (Milano) e del Centro Medico Ticinello di Pavia.

“Questa scoperta permetterà alle persone affette da Long COVID, che presentano questo disturbo legato ai mastociti, di guarire o migliorare la propria condizione di salute, attraverso una terapia molto semplice e anche facilmente reperibile” afferma il professor Gazzaruso. “La nostra intuizione è frutto anche del lavoro di tanti colleghi sparsi per il mondo che stanno cercando delle risposte e delle cure per tutti coloro che, a distanza di anni, vivono ancora le conseguenze, talvolta molto gravi e invalidanti, dell’infezione da COVID-19”.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano sullo studio multicentrico sul Long COVID che indaga il ruolo dell’istamina, rivelando una possibilità di cura dai farmaci antistaminici e antiulcera.

Long Covid: identificati nuovi target molecolari correlati alla perdita dell’olfatto
Un nuovo studio italiano, a cui ha preso parte il Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia Vittorio Erspamer della Sapienza, rivela nuove vie molecolari coinvolte nella diminuzione o perdita dell’olfatto nel long Covid. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Brain, Behavior and Immunity.

La disfunzione olfattoria (OD), nota anche come anosmia o iposmia, ovvero la perdita o riduzione dell’olfatto, è uno degli effetti a lungo termine dell’infezione da Covid-19.

Un nuovo studio interamente italiano, frutto della collaborazione fra la Sapienza Università di Roma (Prof.ssa Roberta Lattanzi; Dott.ssa Daniela Maftei, Dott.ssa Martina Vincenzi del Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia “Vittorio Erspamer”) il CNR (Dott.ssa Cinzia Severini, Istituto di Biochimica e Biologia Cellulare, presso Dipartimento di Organi di Senso, Sapienza Università di Roma) e l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata (Prof. Nicola Biagio Mercuri, Prof. Francesco Maria Passali, Dott. Tommaso Schirinzi) ha individuato nuove vie molecolari coinvolte in questa manifestazione patologica della sindrome post-Covid. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Brain, Behavior, and Immunity.

Attraverso l’analisi dei neuroni olfattori di pazienti con OD da almeno 6 mesi, i ricercatori hanno dimostrato, rispetto ai soggetti di controllo, un grande aumento nell’attività di due vie infiammatorie strettamente legate alla fisiopatologia dell’olfatto vale a dire la sostanza P (SP) e la prochineticina-2 (PK2). Questo incremento, in correlazione con i test olfattivi, indica l’importanza di tali vie nelle alterazioni a lungo termine della sindrome post-Covid-19.

I neuroni olfattori sono stati ottenuti attraverso il nasal brush, lo spazzolamento della mucosa olfattoria, una tecnica non invasiva che permette di prelevare e poi analizzare questi neuroni simili, per molti aspetti, ai neuroni cerebrali.

“Mentre l’incremento di SP – spiega la Prof.ssa Roberta Lattanzi del Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia Vittorio Ersparmer della Sapienza – sembra essere un fattore fondamentale nel processo infiammatorio probabilmente all’origine della tempesta di citochine, l’espressione di PK2 potrebbe invece essere correlata con il recupero delle funzioni olfattive”.

Considerando che le disfunzioni olfattorie post Covid-19 potrebbero essere preludio di potenziali conseguenze neurologiche a lungo termine, individuare nuovi target molecolari può essere utile sia per marcare precocemente condizioni a rischio sia per lo sviluppo di terapie mirate.

Attuali farmaci e nuove mutazioni del SARS-CoV-2; lo studio computazionale dell'Università degli Studi di Padova Long COVID olfatto
Immagine di Gerd Altmann

 

Riferimenti:

Substance P and Prokineticin-2 are overexpressed in olfactory neurons and play differential roles in persons with persistent post-COVID-19 olfactory dysfunction – Tommaso Schirinzi, Roberta Lattanzi, Daniela Maftei, Piergiorgio Grillo, Henri Zenuni, Laura Boffa, Maria Albanese, Clara Simonetta, Roberta Bovenzi, Riccardo Maurizi, Laura Loccisano, Martina Vincenzi, Antonio Greco, Stefano Di Girolamo, Nicola B Mercuri, Francesco M Passali, Cinzia Severini – Brain Behav Immun. 2022. doi: 10.1016/j.bbi.2022.12.017.

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma