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L’INQUINAMENTO MARINO DA PLASTICA AL CENTRO DEL REPORTAGE E MOSTRA FOTOGRAFICA ESPLORAZIONI NELLA PLATISFERA 

Domanigiovedì 25 maggio, alle ore 17.00, presso l’Orto della Scuola di Management ed Economia (C.so Unione Sovietica n. 218 bis) si terrà l’inaugurazione di “Esplorazioni nella plastisfera”, la nuova mostra fotografica promossa dal Dipartimento di Economia, Studi Sociali, Matematica Applicata e Statistica dell’Università di Torino.

Esplorazioni nella platisfera Locandina
la locandina del reportage e mostra fotografica Esplorazioni nella platisfera

Organizzata dal team di ricerca della Prof.ssa Chiara Certomà, la mostra propone una prospettiva non convenzionale su uno dei temi più cogenti del nostro tempo, ovvero l’inquinamento marino da plastica, indagando visivamente le nuove ecologie ibride che emergono sulla “plastisfera”, un insieme di organismi che colonizzano la plastica (biofilm, organismi che si attaccano tra loro e altre cose), inclusi batteri e funghi ed ecosistemi complessi, che si sono evoluti per vivere su microplastiche, e vari detriti antropici in ambienti marini (tra cui relitti, reti fantasma, infrastrutture e siti inquinati).

Esplorazioni nella platisfera

Durante una spedizione fotografica subacquea, il fotografo Giuseppe Lupinacci/Raw News, con il supporto tecnico del video-maker indipendente Federico Fornaro, direttore della Lega Navale Italiana-Anzio e dell’agenzia di stampa Raw-News, e Davide Rinaldi, direttore del diving center “Capo D’Anzio”, ha prodotto un reportage fotografico in 16 sorprendenti scatti che documenta le ecologie emergenti e le biologie ricombinanti della plastifera nel Mediterraneo, un bacino semichiuso circondato da sorgenti di plastica con concentrazioni di plastica e paragonabile alle più grandi zone di accumulo del mondo.

La documentazione visiva supporta il lavoro emergente dei geografi critici su come nuovi assemblaggi ibridi stiano rimodellando e risignificando i sistemi ecologici di supporto alla vita costruendo sulla semiotica materiale di assemblaggi più che umani.

Gli scatti di Lupinacci saranno esposti in sedi nazionali e internazionali, in concomitanza con la presentazione del lavoro di ricerca della Prof.ssa Certomà condotto presso l’Università di Torino.

La mostra infatti si trasferirà a Palma de Mallorca, Milano, Londra, Anzio per poi ritornare nel 2024 nella sede del Dipartimento di Economia, Studi Sociali, Matematica Applicata e Statistica di UniTo.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

UNO STUDIO DIMOSTRA IL LEGAME TRA SALUTE MENTALE DELLE DONNE E CONDIZIONI DI LAVORO

 

Un nuovo studio svolto dall’Università di Trieste, Università di Torino e Università Milano Bicocca in collaborazione con il King’s College di Londra ha dimostrato per la prima volta come la qualità del lavoro e le condizioni lavorative incidano sulla salute mentale delle donne che lavorano nel Regno Unito.

20 giugno 2022 – Una ricerca svolta nel Regno Unito da un team di ricercatori italiani e inglesi ha dimostrato il nesso di causalità tra la qualità del lavoro e la salute mentale dei lavoratori, soprattutto nelle donne. Lo studio, pubblicato sulla rivista Labour Economics, è stato condotto dai docenti di Economia Politica Michele Belloni dell’Università di Torino, Elena Meschi dell’Università Milano Bicocca e da Ludovico Carrino, ricercatore del King’s College di Londra e dell’Università di Trieste.

salute mentale donne condizioni di lavoro
Foto di StartupStockPhotos

Le analisi attuate hanno impiegato dati provenienti da oltre 26.000 lavoratori britannici (donne e uomini) che hanno svolto lo stesso lavoro tra il 2010 e il 2015. Pur mantenendo lo stesso lavoro, le condizioni all’interno delle quali queste persone hanno operato sono cambiate nel corso del tempo sia a causa del progresso tecnologico che delle fasi di crescita e di decrescita economica, che hanno inciso sull’operato delle aziende in cui lavoravano. Lo studio ha analizzato come la salute mentale dei lavoratori, in generale, abbia reagito nel tempo al cambiamento delle condizioni di lavoro.

Attraverso lo studio, i ricercatori hanno scoperto che le caratteristiche principali di un lavoro che hanno un effetto sulla salute mentale dei suoi dipendenti sono due: la flessibilità di organizzazione degli orari di lavoro e il grado di autonomia che le persone hanno nell’applicare e sviluppare le loro competenze sul posto di lavoro. La ricerca ha rilevato che queste caratteristiche del lavoro hanno conseguenze diverse in base al sesso del lavoratore: in particolare, la salute mentale delle donne appare più sensibile, rispetto a quella degli uomini, a variazioni nella qualità del lavoro. Infine, lo studio sottolinea la grande rilevanza economica e sociale dei risultati per il contesto della figura lavorativa femminile, anche considerato che, in Inghilterra come in Italia, le donne tendono a ricoprire più frequentemente una molteplicità di ruoli cruciali come la cura della casa e dei figli che creano conflitti tra famiglia e lavoro.

L’analisi svolta prova che i miglioramenti nella qualità del lavoro portano a grandi riduzioni della depressione e dell’ansia per le donne. Questa evidenza suggerisce che politiche pubbliche e private che migliorino la salute sul lavoro potrebbero portare a una maggiore efficienza nell’ambito dei servizi sanitari e per il benessere di tutta la società, dato che i costi legati alla salute mentale sono notoriamente molto rilevanti. I dati disponibili per l’Italia, da uno studio realizzato dall’Istituto Superiore di Sanità, basato sul sistema di sorveglianza PASSI [2017-2022] stimano che almeno il 6% degli italiani sotto i 70 anni abbia sintomi depressivi, e che la depressione colpisca le donne da due a tre volte più degli uomini. Nel Regno Unito, la Mental Health Foundation ha recentemente stimato che i problemi di salute mentale costano all’economia britannica, soprattutto a causa della minor produttività del lavoratore, almeno 118 miliardi di sterline l’anno, il 5% del PIL di tutto il Regno Unito.

Ludovico Carrino, ricercatore del King’s College di Londra e dell’Università di Trieste, ha sottolineato: “È necessaria una flessibilità del lavoro che non sia uguale per tutti: le esigenze sono diverse a seconda dell’età e del tipo di lavoro. È importante che essa sia misurata in base alle priorità delle singole persone. Questo studio ha rilevato, ad esempio, che se alcune posizioni lavorative solitamente meno flessibili (ad esempio gli addetti alle vendite, ai servizi ricettivi, e all’assistenza sociale) potessero sperimentare la stessa autonomia degli impiegati addetti al lavoro di ufficio, si osserverebbe una riduzione nel rischio di depressione clinica del 26% come diretta conseguenza. Ci auguriamo dunque che la dimostrazione di questa relazione causale, una tra le prime negli studi empirici, possa avere un impatto reale per lavoratrici e datori di lavoro, sindacati e organizzazioni imprenditoriali, anche alla luce del dibattito politico in corso sulla creazione di migliori posti di lavoro e sulla riduzione delle disuguaglianze nel lavoro femminile nell’era post-Covid”.

Secondo le ricerche effettuate, dichiara Michele Belloni, docente di Economia Politica all’Università di Torino“la salute mentale delle lavoratrici più giovani (sotto i 35 anni) è risultata migliorata nelle situazioni in cui le stesse potevano sperimentare una maggiore libertà di azione in termini di responsabilità personale e programmi formativi. Per le donne oltre i 50, invece, è stata registrata una migliore salute mentale nel momento in cui esse potevano contribuire in modo creativo al proprio lavoro e lavorare in condizioni dell’ambiente fisico migliori, oltre che disporre di orari di lavoro più flessibili.”

In particolare, la qualità del lavoro ha ripercussioni su vari sintomi di benessere mentale come depressione, ansia, disfunzione sociale (capacità di prendere decisioni e concentrarsi) e fiducia in sé stessi (autostima). Un miglioramento nel grado di responsabilità personale delle lavoratrici, ad esempio, porta a una riduzione nel rischio di depressione clinica del 26% in media tra tutte le età, e un miglioramento negli indici di ansia del 20% per lavoratrici giovani o ultracinquantenni. Altri benefici sono una riduzione nelle disfunzioni sociali fino al 12%, e un miglioramento dell’autostima del 28% tra le giovani e del 45% tra le lavoratrici più anziane. Un miglioramento nell’autonomia sugli orari di lavoro porta a un miglioramento del 11% nei livelli di ansia e del 24% nell’autostima, tra le lavoratrici anziane. Riduzioni nell’esposizione a rischi fisici nel lavoro riduce il rischio depressione del 20% tra le donne giovani, e del 42% tra quelle anziane, mentre riduce l’ansia del 7% tra le giovani e del 11% tra le anziane; risulta inoltre avere un grande beneficio sull’autostima delle lavoratrici anziane (+25%), ma non tra quelle giovani.

Elena Meschidocente di economia politica all’Università Milano-Bicocca, infine afferma che “dallo studio è inoltre emerso come gli interventi volti a migliorare le condizioni di lavoro possano essere più efficaci per alcune lavoratrici piuttosto che per altre, a seconda del tipo di lavoro che svolgono. In particolare, i risultati segnalano che i benefici maggiori di un miglioramento nella qualità del lavoro si riscontrano nelle donne impegnate in mansioni caratterizzate da alto stress lavorativo. Sono questi i lavori ove si riscontrano contemporaneamente sia elevate esigenze psicologiche, sia bassi livelli di controllo decisionale su come soddisfare queste esigenze”.

 

Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

Mobilità elettrica e home working riducono l’inquinamento urbano
Trasformando solo l’1% dei veicoli più inquinanti in elettrici, la riduzione delle emissioni sarebbe pari a quella ottenuta convertendo in elettrico il 10% di veicoli scelti casualmente. È uno dei risultati della ricerca, pubblicata su Nature Sustainability, condotta da Cnr-Isti e Sapienza Università di Roma nelle città di Firenze, Roma e Londra.

Roma inquinamento mobilità elettrica home working
Mobilità elettrica e home working riducono l’inquinamento urbano. Nella foto, traffico nella città di Roma, una delle tre città coinvolte nello studio. Foto di wal_172619

Quanto e cosa, gli individui che vivono in un’area urbana, respirano quotidianamente dipende da diversi fattori, ed è variabile nello spazio e nel tempo. Così come è molto variabile la responsabilità, delle auto, per quelle stesse emissioni a cui le persone sono esposte.

Alcune strade delle città, sono più inquinate di altre, e alcuni veicoli privati inquinano più di altri.

Lo studio dei ricercatori dell’Istituto di scienza e tecnologie dell’informazione del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isti) in collaborazione con il Dipartimento di ingegneria informatica, automatica e gestionale (Diag) della Sapienza Università di Roma ha evidenziato come in città come Roma e Firenze, ma anche a Londra, il 10% delle strade più inquinate può arrivare ad “ospitare” quasi il 60% delle emissioni veicolari di tutta la città, e, allo stesso modo, il 10% dei veicoli più inquinanti può arrivare ad essere responsabile per ben più della metà delle emissioni.

La ricerca sottolinea inoltre che rendendo elettrico anche solo l’1% dei veicoli privati più inquinanti in un centro urbano, la conseguente riduzione delle emissioni di CO2 sarebbe pari a quella ottenuta se una quantità 10 volte maggiore di veicoli scelti a caso fossero elettrici. Risultati analoghi si ottengono dall’applicazione dell’home working mirato ad evitare i viaggi sistematici casa-lavoro di una porzione della popolazione.

“Si tratta di una evidenza scientifica di quanto sia importante compiere scelte che siano informate”, commenta Mirco Nanni, ricercatore di Cnr-Isti che ha condotto lo studio e direttore del Kdd-Lab. “Misure come le cosiddette targhe alterne, ancora in voga fino a pochi anni fa, sono incredibilmente meno efficaci di politiche di riduzione delle emissioni che compiano invece scelte mirate, come i più recenti divieti alla circolazione dei veicoli particolarmente inquinanti, o eventuali incentivi all’elettrico, che dovrebbero, però, essere concepiti per chi inquina di più”.

Ma chi inquina di più? Si possono individuare dei comportamenti di mobilità, adottati con le nostre auto, che causano maggiori emissioni? “Dal nostro lavoro emerge che chi si sposta in modo più prevedibile, come nel tragitto casa-lavoro, è responsabile di una maggiore fetta di emissioni di chi ha, invece, un comportamento di mobilità più erratico ed imprevedibile”, spiega Luca Pappalardo ricercatore del Cnr-Isti e coordinatore dello studio.

Questo tipo di ricerche possono essere di aiuto ai decisori politici.

“Nel concepire politiche di riduzione delle emissioni veicolari che siano veramente efficaci e riescano, così, ad avere un impatto positivo sulle nostre città, bisogna conoscere il fenomeno in modo approfondito”, conclude Matteo Böhm, dottorando della Sapienza e autore dello studio. “Solo con scelte informate, infatti, si può ‘sapere dove colpire’, ed arrivare così ad ottenere il massimo risultato. La nostra speranza è che studi come questo possano aiutare a raggiungere questo obiettivo”.

Riferimenti:
Gross polluters and vehicles’ emissions reduction – Matteo Böhm, Mirco Nanni, Luca Pappalardo – Nature Sustainability (2022) https://doi.org/10.1038/s41893-022-00903-x

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Nuovo modello epidemico da economisti di Ca’ Foscari e Cambridge 

COVID-19: MISURE ‘SOFT’ POSSONO EVITARE SECONDO PICCO

CONFERMA DA STUDIO CHE CONSIDERA I CASI ‘SOMMERSI’

In Lombardia e a Londra censita solo una minima parte dei casi.

Mascherine, distanze, igiene e isolamento degli infetti possono prevenire una nuova ondata di decessi

VENEZIA – Mascherine e distanziamento fisico possono sostituire il lockdown in modo efficace, scongiurando una seconda ondata dell’epidemia, in Lombardia come a Londra. Due economisti italiani sono giunti a questa conclusione considerando sia i dati ufficiali di contagi, guarigioni e decessi, sia i numeri, più difficili da stimare, dei casi non osservati (almeno il doppio di quelli censiti) e delle morti per Covid-19 non rilevate (il 35% in più del dato ufficiale in Lombardia, il 17% in più a Londra). Lo studio è stato pubblicato nei giorni scorsi su Covid Economics, una pubblicazione speciale del Centre for Economic Policy Research.

“Il modello epidemico che proponiamo è stimato in Lombardia e a Londra, due regioni particolarmente colpite dal virus – spiega Dario Palumbo, “Carlo Giannini” Fellow al Dipartimento di Economia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e coautore dello studio con Salvatore Lattanzio dell’Università di Cambridge – tiene conto anche degli stati non osservati e delle politiche sulla mobilità e prevede l’evoluzione della malattia in base a diverse politiche. Mostriamo come mitigare la probabilità di contagio con misure ‘soft’, riducendola fino al 20/40% rispetto a uno scenario senza misure, abbia effetti positivi paragonabili a quelli di un prolungamento del lockdown”.

Per i ricercatori, è evidente come le statistiche ufficiali abbiano sottostimato casi e decessi. Per questo, hanno elaborato un modello matematico che prevede quattro possibili stati delle persone rispetto all’epidemia (suscettibile, esposto, infetto e deceduto), ma introducendo per infetti, guariti e deceduti due tipologie: osservati e non osservati.

Alla fine del periodo su cui è stato testato il modello (9 aprile in Lombardia e 15 aprile per Londra), stimano che fossero stati contagiati il 5,7% dei lombardi e il 2% dei londinesi. Significa che i ‘non osservati’ sarebbero stati il doppio dei casi riportati dalle statistiche, che i guariti sarebbero stati tra le 20 e le 26 volte in più rispetto a quelli censiti e che il numero di decessi per Covid-19 sia stato sottovalutato del 35% in Lombardia e del 17% a Londra.

Grazie al modello, poi, gli economisti hanno calcolato scenari di progressivo riavvio della mobilità, ipotizzando una ripresa della circolazione delle persone fino al 75% del livello pre-pandemia.

Senza alcuna misura di contenimento, vediamo inevitabile un secondo picco dell’epidemia e una ripresa dei decessi – afferma Palumbo – tuttavia, agendo sulla probabilità di contagio il secondo picco diventa meno probabile. In particolare, riducendo tale probabilità del 40% in Lombardia e tra il 20 e il 30% a Londra, il bilancio delle vittime torna in linea con quello di un lockdown permanente”.

La rimozione delle restrizioni del lockdown, dimostra la ricerca, non implica una ripresa della curva epidemica in presenza di politiche attive che promuovono la riduzione della probabilità di infezione come distanziamento fisico, mascherine, migliore igiene e isolamento dei casi infetti.

“Non adottare queste misure di mitigazione – conclude Palumbo – significa rischiare un secondo picco anche in scenari in cui il lockdown viene allentato in modo molto graduale, come avvenuto in Italia”.

Il metodo

La novità dello studio sta anche nella metodologia sviluppata dai due economisti, che a un modello epidemiologico di tipo SEIRD (Susceptible-Infected-Exposed-Recovered-Dead) applica una tecnica statistica chiamata Kalman Filtering, che in modo dinamico adatta le stime correggendole per ogni punto nel tempo anche per i casi non osservati. L’alternativa, più comune, è assumere che i casi ‘sommersi’ siano una certa proporzione fissa degli osservati. Aggiustare questo calcolo nel tempo riduce l’incertezza dei risultati.

Lo studio: https://cepr.org/sites/default/files/news/CovidEconomics18.pdf#Paper1

COVID-19 soft mascherine distanziamento sociale
Foto di Mohamed Hassan

 

Testo dall’Ufficio Comunicazione e Promozione di Ateneo Università Ca’ Foscari Venezia