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I DELFINI SI “SORRIDONO” A VICENDA DURANTE IL GIOCO

La scoperta dei ricercatori delle Università di Pisa e Torino che hanno studiato le interazioni tra tursiopi (una specie diffusa nel Mediterraneo) durante le sessioni di gioco

I delfini sono estremamente “giocosi”, ma poco si sa su come comunicano durante il gioco. Una nuova ricerca pubblicata il 2 ottobre sulla rivista iScience (Cell Press), realizzata dall’Università di Pisa in collaborazione con l’Università di Torino e l’Università di Rennes, dimostra che i tursiopi, delfini diffusi anche nel Mar Mediterraneo, utilizzano un’espressione facciale “a bocca aperta”, analoga al sorriso, per interagire durante il gioco sociale. I delfini usano quasi sempre questa espressione facciale quando si trovano nel campo visivo dei loro compagni di gioco e, quando questi ultimi percepiscono un “sorriso”, rispondono a loro volta aprendo la bocca il 33% delle volte.

“Abbiamo scoperto la presenza di un’espressione facciale distinta, la bocca aperta, nei tursiopi e abbiamo dimostrato che questi sono anche in grado di rispondere rapidamente alle espressioni facciali degli altri”, spiega l’autrice senior ed etologa Elisabetta Palagi dell’Università di Pisa. “I segnali a bocca aperta e la mimica rapida appaiono ripetutamente in tutto l’albero genealogico dei mammiferi, il che suggerisce che la comunicazione visiva abbia svolto un ruolo cruciale nel dare forma a interazioni sociali complesse, non solo nei delfini ma in molti altri mammiferi nel corso del tempo”.

Il gioco tra delfini può includere salti acrobatici, interazioni con oggetti, inseguimenti e contatti fisici, che però è importante non vengano interpretati come vere aggressioni. Molti mammiferi usano le espressioni facciali per mediare le interazioni di gioco, ma se questo comportamento fosse presente anche nei mammiferi marini non era mai stato indagato in precedenza.

“Il gesto della bocca aperta si è probabilmente evoluto dall’azione del mordere, interrompendo la sequenza del morso per lasciare solo la sua intenzione, senza contatto”, prosegue Palagi. “La bocca aperta rilassata, che si vede nei carnivori sociali, nelle facce da gioco delle scimmie e persino nelle risate umane, è un segno universale di giocosità, che aiuta gli animali a segnalare il divertimento e a evitare i conflitti”.

Per verificare se i delfini utilizzassero l’apertura della bocca come espressione facciale, i ricercatori hanno studiato diversi gruppi sociali di tursiopi in ambiente controllato, mentre interagivano in coppia e mentre giocavano liberamente con i loro addestratori umani. È stato dimostrato che questi animali usano l’espressione della bocca aperta quando giocano con altri delfini, ma non sembrano usarla quando giocano con gli umani o quando giocano da soli con degli oggetti.

I ricercatori hanno registrato un totale di 1288 eventi di bocca aperta durante le sessioni di gioco sociale e il 92% di questi eventi si è verificato durante le sessioni di gioco tra delfini. I delfini erano anche più propensi ad assumere l’espressione della bocca aperta quando il loro volto era nel campo visivo del compagno di gioco – l’89% delle espressioni a bocca aperta registrate sono state emesse in questo contesto – e quando questo “sorriso” è stato percepito, il compagno di gioco ha ricambiato il sorriso il 33% delle volte.

“Qualcuno potrebbe obiettare che i delfini imitano le espressioni a bocca aperta degli altri per puro caso, dato che sono spesso coinvolti nella stessa attività o nello stesso contesto, ma questo non spiega perché la probabilità di imitare la bocca aperta di un altro delfino entro un secondo sia 13 volte più alta quando il ricevente vede effettivamente l’espressione originale”, continua Palagi. “Le percentuali di risposta osservate nei delfini sono coerenti con quanto osservato in alcuni carnivori, come i suricati e gli orsi”.

I ricercatori non hanno registrato i segnali acustici dei delfini durante il gioco, ma affermano che gli studi futuri dovrebbero indagare sul possibile ruolo delle vocalizzazioni e dei segnali tattili durante le interazioni ludiche.

“I delfini possiedono uno dei repertori vocali più vasti e complessi del regno animale e la funzione di molte vocalizzazioni emesse da questi animali è ancora sconosciuta” dichiara lo zoologo Livio Favaro, docente di Biologia Marina presso il Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino. “Le nostre future ricerche si concentreranno sull’utilizzo dei segnali acustici da parte dei tursiopi durante le sessioni di gioco e su come questi complementino i segnali visivi, in quello che ci aspettiamo essere un complesso sistema di comunicazione multimodale.”

Riferimenti bibliografici:
Maglieri et al., “Smiling underwater: exploring playful signals and rapid mimicry in bottlenose dolphins”, iScience, DOI: http://dx.doi.org/10.1016/j.isci.2024.110966
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Un gruppo di ricercatrici e ricercatori dell’Università di Torino sta studiando il canto del pinguino africano per salvarlo dall’estinzione 

‘Salviamo il Pinguino Africano’ è il progetto di crowdfunding cofinanziato dall’Università di Torino per tutelare una specie di pinguino la cui popolazione ha subito un declino del 98% rispetto all’era preindustriale. Oltre 100 persone hanno già aderito alla campagna.

Francesca Terranova, Anna Zanoli e Livio Favaro
Francesca Terranova, Anna Zanoli e Livio Favaro

Livio FavaroFrancesca Terranova e Anna Zanoli fanno parte del team di biologi marini dell’Università di Torino che da anni si sta dedicando allo studio del pinguino africano, una specie che abita le coste del Sudafrica e della Namibia.

“Il pinguino africano è noto anche come pinguino asino per il suo vocalizzo molto particolare, che ricorda un raglio. Ma al di là dell’elemento di curiosità, proprio sullo studio e il monitoraggio del canto di questi animali si fonda il progetto di ricerca e tutela che da anni portiamo avanti in collaborazione con le autorità del Sudafrica” ha dichiarato Livio Favaro.

Da Torino a Stony Point, Sudafrica

Come ha dichiarato Francesca Terranova anche in occasione del suo intervento alla trasmissione Animal House di Radio Deejay

“Spesso la nostra squadra si reca a Stony Point, in Sudafrica, dove vive una colonia di circa 1.000 coppie di pinguini, con l’obiettivo di studiarli da vicino ma senza essere invasivi dei loro spazi. Trovarsi nel territorio della colonia, alle quattro del mattino, è un’esperienza unica. La voce di ogni pinguino è unica e studiarla, insieme a quella di tutti gli altri componenti della colonia, ci permette di monitorare l’andamento demografico della colonia o ricercare la presenza di patologie ha concluso Francesca Terranova.

Il supporto della comunità per ridurre il rischio di estinzione del Pinguino Africano

“Le attività dell’uomo hanno messo in pericolo la sopravvivenza di questa specie di pinguino” ha dichiarato Anna Zanoli che ha poi aggiunto “a causa della pesca intensiva e dell’antropizzazione degli ambienti in cui solitamente vivono i suoi esemplari”. “Noi cerchiamo di monitorare lo stato di salute della specie studiandone le colonie. Per farlo in modo efficace e non invasivo per i pinguini servono attrezzature tecniche e uno staff in loco che possa portare avanti il lavoro con costanza”.

“Per proseguire e rilanciare il nostro lavoro abbiamo lanciato la campagna di crowdfunding Salviamo il Pinguino Africano’con l’obiettivo di acquistare attrezzatura tecnica e finanziare per un anno lo stipendio di un ranger in Sudafrica. Finora la risposta della comunità è stata straordinaria, ma abbiamo ancora bisogno del supporto di tutti per acquistare ulteriore attrezzatura. Aiutateci con una donazione” è stato l’appello di Livio Favaro.

Copertina Salviamo il Pinguino Africano canto pinguini africani
Un gruppo di ricercatrici e ricercatori dell’Università di Torino sta studiando il canto del pinguino africano per salvarlo dall’estinzione

Sostenere il progetto ‘Salviamo il Pinguino Africano’ è semplice, sul link https://www.ideaginger.it/progetti/salviamo-il-pinguino-africano.html è possibile donare in pochi click tramite PayPal, bonifico bancario o carta di credito. Tra le ricompense per i sostenitori anche la possibilità di adottare a distanza un pinguino e ricevere aggiornamenti sul suo stato di salute.

“Il crowdfunding ci sta aiutando a raccogliere fondi certamente, ma anche a sensibilizzare la comunità. Tante persone che ci hanno sostenuto prima di questa occasione non conoscevano nemmeno dell’esistenza del pinguino africano. Sapere che ora ci sono già oltre 100 donatori che hanno preso coscienza della necessità di salvaguardare questa specie credo rappresenti appieno uno degli obiettivi di ogni ricercatore, quello di divulgare anche ai non tecnici il proprio lavoro” ha concluso Livio Favaro.

Il supporto dell’Università di Torino con Funds TOgether l’Università 

L’Università di Torino ha selezionato Salviamo il Pinguino Africano nell’ambito dell’iniziativa Funds TOgether, sviluppata insieme a Ginger Crowdfunding, che gestisce Ideaginger.it, la piattaforma con il tasso di successo più alto in Italia, con l’obiettivo di aiutare le ricercatrici e i ricercatori ad acquisire le competenze per sviluppare campagne di crowdfunding efficaci e sostenerle economicamente. L’Università di Torino, infatti, raddoppierà i fondi raccolti tramite crowdfunding fino a 10.000 euro.

Il valore del crowdfunding per la ricerca scientifica

“L’Università di Torino”, ha dichiarato Alessandro Zennaro, Vice-Rettore per la valorizzazione del patrimonio umano e culturale in Ateneo, “probabilmente più di qualsiasi altro ateneo, in questa fase storica, ha intrapreso un’azione organizzata di valorizzazione della conoscenza e di divulgazione scientifica, assumendo anche posizioni apicali nella rete degli atenei italiani per il Public Engagement (ApeNet). L’iniziativa di crowdfunding costituisce un’ulteriore opportunità per avvicinare la ricerca scientifica alla comunità territoriale e nazionale, illustrandone gli obiettivi, facendo conoscere le ricercatrici ed i ricercatori coinvolti, stimolando la curiosità e soprattutto dimostrando che, spesso, i prodotti della ricerca hanno ricadute immediate sulla vita di tutti noi, quotidianamente. Salviamo il Pinguino Africano è un progetto importante che coniuga in maniera esemplare la ricerca, la collaborazione internazionale e l’innovazione. Per questo merita di essere sostenuto”.

“Questa campagna è un’occasione anche per lo staff dell’Università di Torino di confrontarsi con le opportunità del fundraising e della finanza alternativa per la ricerca e l’innovazione,” ha aggiunto Elisa Rosso, Direttrice della Direzione Innovazione e Internazionalizzazione dell’Università di Torino, che ha poi aggiunto “Per esempio stiamo contattando e ricercando partner istituzionali e aziendali interessati a supportare il progetto. Promuovere il crowdfunding è un’occasione per raccontare il valore della ricerca scientifica e sensibilizzare la comunità sul lavoro svolto in ateneo, che in questo caso permetterà di proseguire una preziosa attività di ricerca etologica sul campo”.

Funds TOgether è il programma di finanza alternativa per la ricerca e l’innovazione sviluppato dall’Università di Torino insieme a Ginger Crowdfunding. L’Obiettivo è fornire a ricercatori e ricercatrici dell’ateneo le competenze per progettare e promuovere una campagna di crowdfunding, acquisire nuove risorse e avvicinare la comunità universitaria alla società civile attraverso progetti a forte impatto sociale e ambientale.

 

 

Testo, video e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

ANCHE I PINGUINI AFRICANI SI RICONOSCONO DAL “TIMBRO DELLA VOCE”

Uno studio dell’Università di Torino sulla comunicazione acustica dei pinguini africani descrive i meccanismi e le strutture anatomiche coinvolte nella produzione dei segnali vocali, evidenziando convergenze evolutive con i mammiferi e l’uomo.

Mercoledì 11 ottobre – Sulla rivista scientifica Proceedings of the Royal Society B, è stato pubblicato un nuovo articolo sulla comunicazione vocale nei pinguini. L’articolo è frutto di una collaborazione tra due dipartimenti dell’Università di Torino (DBIOS e Scienze Veterinarie), l’Università Jean-Monnet (Francia), l’Università UWC (Sudafrica) e la Fondazione SANCCOB.

Utilizzando una combinazione di tecniche di diagnostica per immagini, modellistica computazionale e registrazioni in vivo, un gruppo di ricercatori guidato dal Prof. UniTo Livio Favaro e dalla Dott.ssa Anna Zanoli ha scoperto che i pinguini africani utilizzano le risonanze dei condotti vocali per codificare nei segnali acustici le informazioni che permettono loro di riconoscersi individualmente. Un meccanismo evolutivamente analogo a quello che utilizzano i mammiferi e l’uomo stesso, per riconoscersi dal timbro della voce.

Tra i pinguini, il pinguino africano (Spheniscus demersus) è una specie modello ideale per studiare come le risonanze del tratto vocale codificano informazioni biologicamente rilevanti. Infatti, questa specie è monogama, fortemente territoriale e, a causa delle pressioni selettive e allo stile di vita coloniale, è stato riscontrato che i richiami di contatto e i canti riproduttivi (ecstatic display songs) variano significativamente tra gli individui, permettendo loro di riconoscersi tra “vicini di nido” e membri di una coppia.

I pinguini africani (Spheniscus demersus) si riconoscono dal timbro della voce. Gallery

Le vocalizzazioni dei pinguini sono prodotte da uno specifico organo chiamato “siringe”, al cui interno, delle membrane vengono messe in vibrazione al passaggio dell’aria, generando un segnale periodico caratterizzato dalla frequenza fondamentale (corrispondente alla velocità di vibrazione delle membrane) e dalle relative componenti armoniche. Tale segnale passa poi nella trachea e nella bocca, dove viene modificato in base alle frequenze di risonanza (dette formanti) di queste cavità anatomiche. 

Gli autori dello studio hanno registrato numerosi pinguini africani nell’aprile 2019 presso la Southern African Foundation for the Conservation of Coastal Birds (SANCCOB) di Città del Capo, in Sudafrica. Contestualmente, hanno studiato l’apparato vocale di altri individui adulti trovati morti lungo le coste della provincia sudafricana di Western Cape. In particolare, iniettando della gomma siliconica catalizzata, è stato ottenuto un calco preciso dell’intero apparato fonatorio. I calchi sono stati successivamente trasportati al Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Torino, dove sono stati sottoposti a Tomografia Assiale Computerizzata (TAC). Infine, presso il DBIOS e utilizzando il centro di calcolo interdipartimentale c3s UniTo, sono stati costruiti modelli computazionali a partire dai risultati della TAC e dalle registrazioni degli animali in vivo.

I ricercatori hanno dimostrato che, nel pinguino africano, leggere variazioni della lunghezza e della sezione trasversale delle regioni tracheali e della cavità laringofaringea causano un ampio spostamento nelle formanti delle vocalizzazioni. Tali regioni possono quindi svolgere un ruolo cruciale nel determinare il pattern formantico delle vocalizzazioni e, di conseguenza, nel determinare l’identità vocale degli individui, analogamente a quanto avviene nelle cavità nasali e nella cavità orale dei mammiferi e dell’uomo stesso.

“I nostri risultati – suggerisce il Prof. Livio Favaro, biologo marino e coordinatore della ricerca sui pinguini africani presso l’Università di Torino – sottolineano come le frequenze di risonanza dei condotti vocali possano essere utilizzate per riconoscersi tra individui in numerosi altri vertebrati oltre all’uomo e ai mammiferi.”

“Le tecniche di diagnostica per immagini – continua il Prof. Alberto Valazza, co-autore dello studio e docente di clinica chirurgica veterinaria – possono contribuire enormemente alla caratterizzazione dell’apparato fonatorio degli uccelli, finora largamente inesplorato.”

Infine, i ricercatori hanno notato una mancanza di correlazione tra le frequenze di risonanza del condotto vocale e la dimensione dei pinguini. 

“Per quanto ne sappiamo – aggiunge la Dott.ssa Anna Zanoli, etologa e prima autrice dello studio – la mancanza di correlazione tra frequenze formanti e dimensioni dello scheletro è stata riportata anche nei pinguini di Humboldt e di Magellano, il gabbiano reale e il re di quaglie.”

Nell’uomo, tale assenza di correlazione è frutto della discesa della laringe nel condotto vocale come prerequisito per lo sviluppo del linguaggio. 

“I risultati del nostro studio – sottolinea il Prof. Marco Gamba, zoologo ed esperto in bioacustica comparata – forniscono ulteriori evidenze che in altri tetrapodi oltre all’uomo ci si possa aspettare una debole relazione tra le formanti e le dimensioni del corpo.” 

“Questo è particolarmente evidente – continua il Prof. David Reby, docente di etologia presso l’Università Jean Monnet di Saint-Étienne – quando si esaminano individui dello stesso sesso e della stessa classe di età.”

Negli uccelli, questa condizione potrebbe essere ancestrale e diffusa al di là delle specie (es. cigni e gru) nelle quali è noto un allungamento “sproporzionato” della trachea rispetto alle dimensioni corporee.

 

“Le frequenze formanti e le dimensioni dello scheletro sono indipendenti nel pinguino africano – conclude la Prof.ssa Frine Scaglione, co-autrice e anatomo patologa veterinaria – perché lo scheletro non vincola anatomicamente la trachea.”

Lo studio della comunicazione vocale nel pinguino africano, infine, si auspica possa contribuire allo sviluppo di sistemi di monitoraggio acustico passivo delle colonie in natura. Questa specie, infatti, è fortemente minacciata di estinzione e la comunità scientifica internazionale è al lavoro per sviluppare sistemi di monitoraggio non invasivo, che possano contribuire alla sua gestione e conservazione.

Testi, video, audio e immagini dall’Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

LA MEMORIA EPISODICA DEI DELFINI, COSÌ SIMILE A QUELLA UMANA, PUÒ AIUTARCI A CAPIRE L’EVOLUZIONE DEI NOSTRI RICORDI

 

Lo studio dell’Università di Cambridge, in collaborazione con l’Università di Torino e il Parco Zoomarine di Roma, indaga su un nuovo aspetto della psicologia di questi mammiferi, capaci di ricordare informazioni precise datate nel tempo e nello spazio.

La memoria episodica dei delfini può aiutarci a capire l'evoluzione dei ricordi

Lunedì 25 luglio è stato pubblicato, sulla prestigiosa rivista Current Biology, uno studio di psicologia comparata intitolato Episodic-like memory in common bottlenose dolphins (Tursiops truncatus). Lo studio, condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Cambridge, in collaborazione con alcuni etologi marini del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università degli Studi di Torino e del Parco Zoomarine di Roma, ha scoperto che i delfini appartenenti alla specie Tursiops truncatus sono capaci, senza nessun bisogno di addestramento specifico, di ricordare informazioni su “dove” e su “chi” ha dato loro un oggetto. Questi risultati suggeriscono che i delfini, in modo simile agli umani, hanno una “memoria episodica” ovvero una memoria che contiene informazioni datate temporalmente e spazialmente.

La memoria episodica dei delfini può aiutarci a capire l'evoluzione dei ricordi

“Considerate le complesse abilità cognitive, sospettavamo che i delfini fossero capaci di ricordare eventi nel passato ma non eravamo a conoscenza del tipo memoria utilizzata”, spiega James R. Davies, ricercatore presso il Comparative Cognition Lab dell’Università di Cambridge.

Questo studio dimostra che i delfini sono capaci di ricordare informazioni che non sapevano essere cruciali.

“Nelle fasi iniziali della ricerca, abbiamo addestrato 8 delfini a prendere e successivamente riportare una boa in una specifica postazione della loro vasca”, aggiunge il Dott. Elias Garcia-Pelegrin.

La memoria episodica dei delfini può aiutarci a capire l'evoluzione dei ricordi

“Successivamente abbiamo verificato la loro capacità di richiamare in memoria informazioni accessorie acquisite nella fase di addestramento, circa il «dove» (la posizione della boa) e il «chi» (lo sperimentatore che rilascia la boa in acqua)” continua il Dott. Luigi Baciadonna, ricercatore UniTo e coautore dello studio che ha condotto i test sui delfini. “Nel test di memoria – prosegue Baciadonna – il ricercatore richiede nuovamente al delfino di riportare l’oggetto, ma in questa fase l’oggetto non è più nella posizione dove era stato rilasciato. In questa situazione, l’unica possibilità da parte del delfino per assolvere il compito affidato dal ricercatore è quella di ricordare il precedente episodio e in particolare dove fosse l’oggetto e chi fosse lo sperimentatore che lo aveva lasciato, cioè informazioni accessorie memorizzate in modo automatico”.

La memoria episodica dei delfini può aiutarci a capire l’evoluzione dei ricordi umani

Il Dott. Livio Favaro, coautore e ricercatore in Biologia Marina presso l’Università degli Studi di Torino, spiega che i risultati sono chiari:

“Tutti i delfini hanno superato il test di memoria del «dove», e sette delfini su otto hanno superato il test di memoria del «chi». L’aspetto interessante –  continua Favaro – è che le informazioni richiamate in memoria, essenziali per superare le prove, erano secondarie, non essenziali per il recupero dell’oggetto nella prova antecedente il test. Tutto questo suggerisce una memoria episodica in questi mammiferi marini”. La Prof.ssa Nicola S. Clayton, coautrice e responsabile del Comparative Cognition Lab dell’Università di Cambridge, aggiunge che “la complessità socio-ecologica dei delfini ha plausibilmente favorito l’evoluzione di complesse abilità cognitive come quella riportata nello studio”.

La Dott.ssa Cristina Pilenga, responsabile Scientifico di Zoomarine, sottolinea che “per il personale del Parco è stata una grande soddisfazione partecipare a questo studio. I risultati permetteranno anche di migliorare lo stato di benessere di questi animali sotto le cure umane e di rendere più efficaci le azioni di salvaguardia della specie in Natura”.

Tutti gli autori, infine, osservano che le prossime ricerche chiariranno quanto la complessità dei ricordi dei delfini sia paragonabile a quella degli esseri umani, con la prospettiva di definire ulteriori aspetti sull’evoluzione della memoria umana.

La memoria episodica dei delfini può aiutarci a capire l'evoluzione dei ricordi
La memoria episodica dei delfini può aiutarci a capire l’evoluzione dei ricordi umani

 

Testo e foto dei delfini del Parco Zoomarine di Roma dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino sullo studio che esplora come la memoria episodica dei delfini possa aiutarci a comprendere l’evoluzione dei ricordi umani.

COME GLI ESSERI UMANI, ANCHE I PINGUINI RICONOSCONO I LORO SIMILI ATTRAVERSO I SENSI

Uno studio dei ricercatori UniTo ha svelato l’interazione multisensoriale dei pinguini africani, aprendo nuove strade per la conservazione di questa specie a rischio estinzione

Pinguini africani

Oggi, mercoledì 13 ottobre, sulla rivista scientifica Proceeding of the Royal Society B, è stato pubblicato uno studio dei ricercatori dell’Università di Torino, dal titolo “Cross-modal individual recognition in the African penguin and the effect of partnership”, che mostra come i pinguini africani riconoscano i loro compagni di colonia attraverso i sensi. Gli autori della ricerca, Dott. Luigi BaciadonnaDott. Cwyn SolviSara La CavaDott.ssa Cristina PilengaProf. Marco Gamba e Dott. Livio Favaro, hanno scoperto che la capacità di riconoscere i propri simili utilizzando diversi sensi, caratteristica tipica dell’essere umano, è presente anche in questa specie di volatili a rischio estinzione.

Il cervello umano è in grado di memorizzare le informazioni in modo tale che possano essere recuperate da diversi sensi. Questa integrazione multisensoriale ci permette di formare immagini mentali del mondo ed è alla base della nostra consapevolezza cosciente e della nostra comunicazione sociale, fondamentale per l’interazione con i nostri simili. Le stesse modalità di interazione sono state osservate nei comportamenti dei pinguini africani.

Dopo che coppie di pinguini hanno trascorso del tempo insieme in una zona isolata, uno è stato rilasciato dalla zona, lasciando l’altro, pinguino focale, da solo. Una chiamata vocale è stata immediatamente riprodotta dalla direzione in cui il pinguino ha lasciato. Il pinguino focale ha risposto più velocemente alla chiamata se non corrispondeva all’identità del pinguino che aveva appena visto uscire. Questo comportamento dimostra che la chiamata ha violato le loro aspettative e indica che possono immaginare l’altro individuo nella loro mente e accedere a questa immagine attraverso diversi sensi.

pinguini africani sensi
Pinguini africani

“Questa forma di riconoscimento individuale – dichiara il Dott. Luigi Baciadonna, ricercatore del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi UniTo e autore principale dell’articolo – è stata precedentemente descritta solo in pochi mammiferi e nei corvi. Il fatto che un uccello filogeneticamente così distante, il pinguino africano, possa formare immagini mentali di altri individui suggerisce che questo complesso sistema di riconoscimento sociale possa essere molto più diffuso di quanto avessimo immaginato”.

“I nostri risultati – afferma il Dott. Livio Favaro, coautore senior della ricerca per l’Università di Torino – mostrano che questi pinguini non si affidano, come si pensava in precedenza, solo alle informazioni vocali per la comunicazione. Il nostro lavoro apre anche nuove strade per indagare la cognizione complessa in una specie di uccelli non precedentemente nota per la loro intelligenza”.

“I pinguini africani – prosegue la Dott.ssa Cristina Pilenga, coautrice della ricerca con sede allo ZooMarine di Roma, dove si è svolto lo studio – sono classificati come specie in pericolo dalla IUCN, e quindi la conoscenza delle loro capacità cognitive può essere particolarmente preziosa per aumentare la consapevolezza del loro stato di conservazione”.

“Estendere lo studio della cognizione a specie comportamentalmente distinte – conclude il Prof. Marco Gamba, docente di Zoologia all’Università di Torino – ha il potenziale di rivelare come i sistemi sociali e le pressioni ambientali in cui vivono gli animali abbiano modellato le differenze nella cognizione attraverso l’evoluzione”.

 

Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino