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JWST OSSERVA UN ANTICHISSIMO BUCO NERO SUPERMASSICCIO DORMIENTE, A ‘RIPOSO’ DOPO UN’ABBUFFATA COSMICA, NELLA GALASSIA GN-1001830

È uno dei più grandi buchi neri supermassicci non attivi mai osservati nell’universo primordiale e il primo individuato durante l’epoca della reionizzazione. La scoperta, pubblicata sulla rivista Nature, è stata possibile grazie alle rilevazioni del telescopio spaziale James Webb. Allo studio hanno partecipato anche INAF, Scuola Normale Superiore di Pisa e Sapienza Università di Roma.

JWST buco nero dormiente GN-1001830 Illustrazione artistica che rappresenta l'aspetto potenziale del buco nero supermassiccio scoperto dal team di ricerca durante la sua fase di intensa attività super-Eddington. Crediti: Jiarong Gu
Illustrazione artistica che rappresenta l’aspetto potenziale del buco nero supermassiccio scoperto dal team di ricerca durante la sua fase di intensa attività super-Eddington. Crediti: Jiarong Gu

Anche i buchi neri schiacciano un sonnellino tra una mangiata e l’altra. Un team internazionale di scienziati, guidato dall’Università di Cambridge, ha scoperto un antichissimo buco nero supermassiccio “dormiente” in una galassia compatta, relativamente quiescente e che vediamo come era quasi 13 miliardi di anni fa. La galassia è GN-1001830. Il buco nero, descritto in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature, ha una massa pari a 400 milioni di volte quella del Sole e risale a meno di 800 milioni di anni dopo il Big Bang, rendendolo uno degli oggetti più antichi e massicci mai rilevati.

Questo mastodontico oggetto è inoltre il primo buco nero supermassiccio non attivo, in termini di accrescimento di materia, osservato durante l’epoca della reionizzazione, una fase di transizione nell’universo primordiale durante la quale il gas intergalattico è stato ionizzato dalla radiazione delle prime sorgenti cosmiche. Probabilmente rappresenta solo la punta dell’iceberg di una intera popolazione di buchi neri “a riposo” ancora da osservare in questa epoca lontana. La scoperta, a cui partecipano ricercatrici e ricercatori anche dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), della Scuola Normale Superiore di Pisa e della Sapienza Università di Roma, si basa sui dati raccolti telescopio spaziale James Webb (JWST), nell’ambito del programma JADES (JWST Advanced Extragalactic Survey).

In che senso il buco nero è “dormiente”? Grazie a questi dati, il gruppo di ricerca ha stabilito che, nonostante la sua dimensione colossale, questo buco nero sta accrescendo la materia circostante a un ritmo molto basso a differenza di quelli di massa simile osservati nella stessa epoca (i cosiddetti quasar) – circa 100 volte inferiore al limite teorico massimo – rendendolo praticamente inattivo.

JWST buco nero dormiente GN-1001830 Immagine in falsi colori ottenuta dal telescopio spaziale JWST, che mostra una piccola frazione del campo GOODS-North. La galassia evidenziata nel riquadro ospita un antichissimo buco nero supermassiccio 'dormiente'. Crediti: JADES Collaboration
Immagine in falsi colori ottenuta dal telescopio spaziale JWST, che mostra una piccola frazione del campo GOODS-North. La galassia evidenziata nel riquadro ospita un antichissimo buco nero supermassiccio ‘dormiente’. Crediti: JADES Collaboration

Un’altra peculiarità di questo buco nero ad alto redshift (ossia collocato nell’universo primordiale) è il suo rapporto con la galassia ospite: la sua massa rappresenta il 40 per cento della massa stellare totale, un valore mille volte superiore a quello dei buchi neri normalmente osservati nell’universo vicino. Alessandro Trinca, ricercatore post-doc oggi in forza all’Università degli studi dell’Insubria ma già post-doc presso l’INAF di Roma per un anno, spiega:

“Questo squilibrio suggerisce che il buco nero abbia avuto una fase di crescita rapidissima, sottraendo gas alla formazione stellare della galassia. Ha rubato tutto il gas che aveva a disposizione prima di diventare dormiente lasciando la componente stellare a bocca asciutta”.

Alessandro Trinca, ricercatore post-doc presso l’Università degli studi dell’Insubria
Alessandro Trinca, ricercatore post-doc presso l’Università degli studi dell’Insubria

Rosa Valiante, ricercatrice dell’INAF di Roma coinvolta nel team internazionale e coautrice dell’articolo, aggiunge:

“Comprendere la natura dei buchi neri è da sempre un argomento che affascina l’immaginario collettivo: sono oggetti apparentemente misteriosi che mettono alla prova ‘famose’ teorie scientifiche come quelle di Einstein e Hawking. La necessità di osservare e capire i buchi neri, da quando si formano a quando diventano massicci fino a miliardi di volte il nostro Sole, spinge non solo la ricerca scientifica a progredire, ma anche l’avanzamento tecnologico”.

Rosa Valiante, ricercatrice presso l’INAF di Roma
Rosa Valiante, ricercatrice presso l’INAF di Roma

I buchi neri supermassicci così antichi, come quello descritto nell’articolo su Nature, rappresentano un mistero in astrofisica. La rapidità con cui questi oggetti sono cresciuti nelle prime fasi della storia dell’Universo sfida i modelli tradizionali, che non sono in grado di spiegare la formazione di buchi neri di tale portata. In condizioni normali, i buchi neri accrescono materia fino a un limite teorico, chiamato “limite di Eddington”, oltre il quale la pressione della radiazione generata dall’accrescimento contrasta ulteriori flussi di materiale verso il buco nero. La scoperta di questo buco nero primordiale supporta l’ipotesi che fasi brevi ma intense di accrescimento dette “super-Eddington” siano essenziali per spiegare l’esistenza di questi “giganti cosmici” nell’universo primordiale. Si tratta di fasi durante le quali i buchi neri riuscirebbero a inglobare materia a un ritmo molto superiore, sfuggendo temporaneamente a questa limitazione, intervallate da periodi di dormienza.

“Se la crescita avvenisse a un ritmo inferiore al limite di Eddington, il buco nero dovrebbe accrescere il gas in modo continuativo nel tempo per sperare di raggiungere la massa osservata. Sarebbe quindi molto improbabile osservarlo in una fase dormiente”, spiega Raffaella Schneider, professoressa del Dipartimento di Fisica della Sapienza.

Raffaella Schneider, professoressa del Dipartimento di Fisica della Sapienza
Raffaella Schneider, professoressa del Dipartimento di Fisica della Sapienza

Gli scienziati ipotizzano che buchi neri simili siano molto più comuni di quanto si pensi, ma oggetti in un tale stato dormiente emettono pochissima luce, il che li rende particolarmente difficili da individuare, persino con strumenti estremamente avanzati come il telescopio spaziale Webb. E allora come scovarli? Sebbene non possano essere osservati direttamente, la loro presenza viene svelata dal bagliore di un disco di accrescimento che si forma intorno a loro. Con il JWST, telescopio delle agenzie spaziali americana (NASA), europea (ESA) e canadese (CSA) progettato per osservare oggetti estremamente poco luminosi e distanti, sarà possibile esplorare nuove frontiere nello studio delle prime strutture galattiche.

Stefano Carniani, ricercatore della Scuola Normale Superiore di Pisa e membro del team JADES commenta:

“Questa scoperta apre un nuovo capitolo nello studio dei buchi neri distanti. Grazie alle  immagini del James Webb, potremo indagare le proprietà dei buchi neri dormienti, rimasti finora invisibili. Queste osservazioni offrono i pezzi mancanti per completare il puzzle della formazione e dell’evoluzione delle galassie nell’universo primordiale”.

Stefano Carniani, ricercatore presso la Scuola Normale Superiore di Pisa
Stefano Carniani, ricercatore presso la Scuola Normale Superiore di Pisa

La scoperta rappresenta solo l’inizio di una nuova fase di indagine. Il JWST sarà ora utilizzato per individuare altri buchi neri dormienti simili, contribuendo a svelare nuovi misteri sull’evoluzione delle strutture cosmiche nell’universo primordiale.Le osservazioni utilizzate in questo lavoro sono state ottenute nell’ambito della collaborazione JADES tra i team di sviluppo degli strumenti Near-Infrared Camera (NIRCam) e Near-Infrared Spectrograph (NIRSpec), con un contributo anche dal team statunitense del Mid-Infrared Instrument (MIRI).

JWST buco nero dormiente GN-1001830 Un’immagine in tre colori del nucleo galattico attivo e della galassia ospite JADES GN 1146115. L’immagine è stata creata con diversi filtri (rosso F444W, verde F277W e blu F115W) utilizzando gli strumenti dal James Webb Space Telescope NIRCam e NIRSpec in modalità multi-oggetto, come parte del programma JADES (JWST Advanced Extragalactic Survey). La galassia si trova a un redshift di 6.68, che corrisponde a un’epoca di meno di 800 milioni di anni dopo il Big Bang. Crediti: I. Juodzbalis et al. / Nature (2024)
Un’immagine in tre colori del nucleo galattico attivo e della galassia ospite JADES GN 1146115. L’immagine è stata creata con diversi filtri (rosso F444W, verde F277W e blu F115W) utilizzando gli strumenti dal James Webb Space Telescope NIRCam e NIRSpec in modalità multi-oggetto, come parte del programma JADES (JWST Advanced Extragalactic Survey). La galassia si trova a un redshift di 6.68, che corrisponde a un’epoca di meno di 800 milioni di anni dopo il Big Bang. Crediti: I. Juodzbalis et al. / Nature (2024)

 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “A dormant, overmassive black hole in the early Universe”, di Ignas Juodžbalis, Roberto Maiolino, William M. Baker, Sandro Tacchella, Jan Scholtz, Francesco D’Eugenio, Raffaella Schneider, Alessandro Trinca, Rosa Valiante, Christa DeCoursey, Mirko Curti, Stefano Carniani, Jacopo Chevallard, Anna de Graaff, Santiago Arribas, Jake S. Bennett, Martin A. Bourne, Andrew J. Bunker, Stephane Charlot, Brian Jiang, Sophie Koudmani, Michele Perna, Brant Robertson, Debora Sijacki, Hannah Ubler, Christina C. Williams, Chris Willott, Joris Witstok, è stato pubblicato sulla rivista Nature.

Testo e immagini dagli Uffici Stampa INAF, Scuola Normale Superiore Pisa, Ufficio Stampa e Comunicazione Sapienza Università di Roma

LUCE SUI TITANI DELL’ALBA COSMICA: I PRIMI QUASAR SFIDANO I LIMITI DELLA FISICA PER CRESCERE
Scoperte nuove evidenze che spiegano come si siano formati i buchi neri supermassicci nel primo miliardo di anni di vita dell’Universo. Lo studio, condotto dai ricercatori dell’INAF, analizza 21 quasar distanti e rivela che questi oggetti si trovano in una fase di accrescimento super veloce, offrendo preziose informazioni sulla loro formazione ed evoluzione, in parallelo con quella delle galassie ospitanti.

In un articolo pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics emergono nuove indicazioni che suggeriscono come i buchi neri supermassicci, con masse pari ad alcuni miliardi di volte quella del nostro Sole, si siano formati così rapidamente in meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang. Lo studio, guidato dai ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), analizza un campione di 21 quasar, tra i più distanti scoperti finora, osservati nei raggi X dai telescopi spaziali XMM-Newton e Chandra. I risultati suggeriscono che i buchi neri supermassicci al centro di questi titanici quasar, i primi a essersi formati durante l’alba cosmica, potrebbero aver raggiunto le loro straordinarie masse grazie a un accrescimento molto rapido e intenso, fornendo così una spiegazione plausibile alla loro esistenza nelle prime fasi dell’Universo.

I quasar sono galassie attive, alimentate da buchi neri supermassicci al loro centro (chiamati nuclei galattici attivi), che emettono enormi quantità di energia mentre attraggono materia. Sono estremamente luminosi e lontani da noi. Nello specifico, i quasar esaminati in questo studio sono tra gli oggetti più distanti mai osservati e risalgono a un’epoca in cui l’Universo aveva meno di un miliardo di anni.

In questo lavoro, l’analisi delle emissioni nei raggi X di tali oggetti ha rivelato un comportamento completamente inaspettato dei buchi neri supermassicci al loro centro: è emerso un legame tra la forma dell’emissione in banda X e la velocità dei venti di materia lanciati dai quasar. Questa relazione associa la velocità dei venti, che può raggiungere migliaia di chilometri al secondo, alla temperatura del gas nella corona, la zona che emette raggi X più prossima al buco nero, legata a sua volta ai potenti meccanismi di accrescimento del buco nero stesso. I quasar con emissione X a bassa energia, quindi con una minore temperatura del gas nella corona, mostrano venti più veloci. Ciò è indice di una fase di crescita estremamente rapida che valica un limite fisico di accrescimento di materia denominato limite di Eddington, per questo motivo tale fase viene chiamata ‘super Eddington’. Viceversa, i quasar con emissioni più energetiche nei raggi X tendono a presentare venti più lenti.

“Il nostro lavoro suggerisce che i buchi neri supermassicci al centro dei primi quasar che si sono formati nel primo miliardo di anni di vita dell’Universo possano effettivamente aver aumentato la loro massa molto velocemente, sfidando i limiti della fisica”, afferma Alessia Tortosa, prima autrice del lavoro e ricercatrice presso l’INAF di Roma. “La scoperta di questo legame tra emissione X e venti è cruciale per comprendere come buchi neri così grandi si siano formati in così poco tempo, offrendo in tal modo un’indicazione concreta per risolvere uno dei più grandi misteri dell’astrofisica moderna”.

Il risultato è stato raggiunto soprattutto grazie all’analisi di dati raccolti con il telescopio spaziale XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) che ha permesso di osservare i quasar per circa 700 ore, fornendo dati senza precedenti sulla loro natura energetica. La maggior parte dei dati, raccolti tra il 2021 e 2023 nell’ambito del Multi-Year XMM-Newton Heritage Programme, sotto la direzione di Luca Zappacosta, ricercatore dell’INAF di Roma, fa parte del progetto HYPERION, che si propone di studiare i quasar iperluminosi all’alba cosmica dell’Universo. L’estesa campagna di osservazioni è stata guidata da un team di scienziati italiani e ha ricevuto il sostegno cruciale dell’INAF, che ha finanziato il programma, sostenendo così una ricerca di avanguardia sulle dinamiche evolutive delle prime strutture dell’Universo.

“Per il programma HYPERION abbiamo puntato su due fattori chiave: da una parte l’accurata scelta dei quasar da osservare, selezionando i titani, cioè quelli che avevano accumulato la maggior massa possibile, e dall’altra lo studio approfondito delle loro proprietà nei raggi X, mai tentato finora su così tanti oggetti all’alba cosmica”, sostiene Zappacosta. “Direi proprio che abbiamo fatto bingo! I risultati che stiamo ottenendo sono davvero inaspettati e puntano tutti su un meccanismo di crescita dei buchi neri di tipo super Eddington”.

Questo studio fornisce indicazioni importanti per le future missioni in banda X, come ATHENA (ESA), AXIS e Lynx (NASA), il cui lancio è previsto tra il 2030 e il 2040. Infatti, i risultati ottenuti saranno utili per il perfezionamento degli strumenti di osservazione di nuova generazione e per la definizione di migliori strategie di indagine dei buchi neri e dei nuclei galattici nei raggi X a epoche cosmiche più remote, elementi essenziali per comprendere la formazione delle prime strutture galattiche nell’Universo primordiale.

Rappresentazione artistica generata tramite intelligenza artificiale, basata su un’immagine NASA (https://photojournal.jpl.nasa.gov/catalog/PIA16695), che mostra un buco nero supermassiccio in accrescimento, circondato da gas che spiraleggiano verso l'orizzonte degli eventi e emettono potenti venti di materia. Crediti: Emanuela Tortosa
Rappresentazione artistica generata tramite intelligenza artificiale, basata su un’immagine NASA (https://photojournal.jpl.nasa.gov/catalog/PIA16695), che mostra un buco nero supermassiccio in accrescimento, circondato da gas che spiraleggiano verso l’orizzonte degli eventi e emettono potenti venti di materia. Crediti: Emanuela Tortosa

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “HYPERION. Shedding light on the first luminous quasars: A correlation between UV disc winds and X-ray continuum”, di Tortosa A. et al. 2024, è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF