News
Ad
Ad
Ad
Tag

lente gravitazionale

Browsing

JVAS B1938+666: UN SOTTILISSIMO ARCO GRAVITAZIONALE RIVELA UN ELUSIVO CORPO CELESTE A MILIARDI DI ANNI LUCE

Grazie alla rete mondiale di radiotelescopi VLBI – tra cui la parabola INAF di Medicina – e alla tecnica delle cosiddette lenti gravitazionali è stata ottenuta l’immagine più nitida mai realizzata di un arco gravitazionale. Dalle osservazioni è emersa la presenza del più piccolo oggetto celeste mai individuato a distanze cosmologiche grazie al solo effetto della forza di gravità.

Immagine in falsi colori dell’arco gravitazionale del sistema JVAS B1938+666 osservato alla frequenza radio di 1,7 GHz con la tecnica VLBI. Crediti: J. P. McKean et al. / MNRAS 2025
Immagine in falsi colori dell’arco gravitazionale del sistema JVAS B1938+666 osservato alla frequenza radio di 1,7 GHz con la tecnica VLBI. Crediti: J. P. McKean et al. / MNRAS 2025

Grazie a una rete mondiale di radiotelescopi, con la partecipazione dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), un team internazionale ha ottenuto l’immagine radio più definita mai realizzata di un arco gravitazionale prodotto dalla deformazione delle onde radio provenienti da una galassia a 11 miliardi di anni luce, riuscendo a ricostruirne la struttura reale. Dalla stessa serie di osservazioni è emersa anche la presenza del più piccolo oggetto celeste mai individuato a distanze cosmologiche grazie al solo effetto della forza di gravità. I due risultati, pubblicati oggi rispettivamente su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society e su Nature Astronomy, aprono nuove prospettive nello studio delle galassie lontane e della materia oscura.

Il primo studio presenta osservazioni ad altissima risoluzione della lente gravitazionale JVAS B1938+666, già nota da tempo: una galassia ellittica massiccia in “primo piano”, a circa 6,5 miliardi di anni luce, agisce come lente gravitazionale e deforma la radiazione ottica e radio di una sorgente ancora più distante, a oltre 11 miliardi di anni luce, creando immagini multiple e un anello di Einstein quasi completo nel vicino infrarosso.

Il fenomeno della lente gravitazionale, previsto dalla relatività generale di Einstein, si verifica quando una massa molto grande curva lo spazio-tempo circostante. La luce proveniente da un oggetto posto dietro a questa massa viene deviata, come se passasse attraverso una lente ottica, producendo immagini multiple, archi o persino anelli. Lo studio di queste immagini distorte è oggi uno degli strumenti più potenti per indagare la materia oscura, che non possiamo osservare direttamente, ma che rivela la sua presenza solo attraverso gli effetti della forza di gravità.

In questo caso la lente gravitazionale è stata osservata con la tecnica del VLBI (Very Long Baseline Interferometry), collegando 22 radiotelescopi sparsi in tutto il mondo: l’European VLBI Network, il Very Long Baseline Array americano e il Green Bank Telescope negli Stati Uniti. Tra gli strumenti utilizzati c’è anche la parabola da 32 metri “Gavril Grueff” di Medicina (vicino a Bologna), gestita dall’INAF. La correlazione delle osservazioni di tutti questi radiotelescopi è stata effettuata presso JIVE (il Joint Institute for VLBI-ERIC nei Paesi Bassi), di cui INAF è membro. Questa tecnica consente di simulare un’unica gigantesca antenna virtuale con diametro pari alla distanza tra le parabole più distanti e, di conseguenza, di raggiungere un dettaglio estremo nelle osservazioni, pari a un millesimo di secondo d’arco. Alla distanza della radiosorgente osservata, questo equivale a distinguere strutture grandi appena una trentina di anni luce, cioè una decina di volte la distanza che separa il Sole dalla sua stella più vicina.

Le osservazioni di JVAS B1938+666 condotte alla frequenza radio di 1,7 GHz, per un totale di 14 ore, hanno rivelato un arco gravitazionale sottilissimo e quasi completo, il più definito mai osservato con questa tecnica. Il team è poi riuscito a ricostruire la morfologia reale della radiosorgente di sfondo, modellando con grande precisione la distribuzione di massa della galassia-lente.

I risultati indicano che la sorgente, situata a 11 miliardi di anni luce, è una radiosorgente molto compatta e simmetrica, considerata una fase giovanile dell’attività di un buco nero supermassiccio. La struttura ricostruita appare estesa per circa 2000 anni luce, con due regioni di emissione radio poste ai lati della galassia ospite, prive di un nucleo centrale evidente e caratterizzate da zone brillanti ai bordi.

“Questo articolo è il primo di una serie e presenta le osservazioni VLBI, che sono state particolarmente complesse – afferma Cristiana Spingola, ricercatrice INAF e co-autrice dello studio. “Si tratta di un aspetto cruciale di questo lavoro: abbiamo utilizzato 22 antenne – tra cui la parabola di Medicina – il che ha richiesto un notevole impegno sia nella correlazione dei dati sia nella calibrazione”.

“Fin dalla prima immagine ad alta risoluzione, abbiamo immediatamente notato una certa anomalia nell’arco gravitazionale, segno rivelatore che eravamo sulla buona strada. Solo la presenza di un altro piccolo accumulo di massa tra noi e la radiogalassia lontana avrebbe potuto causare questo effetto” – aggiunge John McKean, ricercatore all’Università di Groningen e all’Università di Pretoria che ha coordinato le osservazioni ed è primo autore di questo articolo.

Il secondo studio, pubblicato su Nature Astronomy e basato sullo stesso gruppo di osservazioni VLBI delle sottili distorsioni dell’arco gravitazionale, ha portato all’identificazione del più piccolo oggetto mai individuato nell’Universo lontano grazie al solo effetto della forza di gravità.

Sovrapposizione dell'emissione infrarossa (in bianco e nero) con l'emissione radio (a colori) dell’arco gravitazionale del sistema JVAS B1938+666. L'oggetto oscuro e di piccola massa si trova nel vuoto nella parte luminosa dell'arco sul lato destro. Crediti: Keck/EVN/GBT/VLBA/John McKean
Sovrapposizione dell’emissione infrarossa (in bianco e nero) con l’emissione radio (a colori) dell’arco gravitazionale del sistema JVAS B1938+666. L’oggetto oscuro e di piccola massa si trova nel vuoto nella parte luminosa dell’arco sul lato destro. Crediti: Keck/EVN/GBT/VLBA/John McKean

Per analizzare l’enorme e complesso set di dati, il team ha dovuto sviluppare nuovi algoritmi avanzati che potessero essere eseguiti su supercomputer, confrontando modelli di massa per l’oggetto che agisce da lente gravitazionale con le osservazioni reali. La piccola anomalia riscontrata nell’arco gravitazionale rappresenta la firma inequivocabile della presenza di massa addizionale lungo la linea di vista, troppo debole e compatta per essere osservata direttamente.

“I dati sono così grandi e complessi che abbiamo dovuto sviluppare nuovi approcci numerici per modellarli. Non è stato semplice, perché non era mai stato fatto prima”, dice Simona Vegetti dell’Istituto Max Planck per l’astrofisica. “Ci aspettiamo che ogni galassia, compresa la nostra Via Lattea, sia piena di ammassi di materia oscura, ma trovarli e convincere la comunità scientifica della loro esistenza richiede un’enorme quantità di calcoli”.

Immagine in falsi colori della sorgente compatta con massa pari a 1 milione di soli, identificata nello studio pubblicato su Nature Astronomy. Crediti: D. M. Powell, et al. / Nature Astronomy
Immagine in falsi colori della sorgente compatta con massa pari a 1 milione di soli, identificata nello studio pubblicato su Nature Astronomy. Crediti: D. M. Powell, et al. / Nature Astronomy

Si tratta di una concentrazione di massa probabilmente situata alla stessa distanza della galassia massiccia che agisce da lente gravitazionale, ossia circa 6,5 miliardi di anni luce dalla Terra. La sua massa è di circa un milione di Soli, un valore di gran lunga inferiore ai mille miliardi tipici di una galassia. La scoperta è rivoluzionaria: mai prima d’ora era stato possibile identificare un oggetto di massa così ridotta a una distanza cosmologica così grande.

“È la prima volta che un oggetto di massa così ridotta viene rilevato a una distanza cosmologica basandosi unicamente sul suo effetto gravitazionale”, aggiunge Spingola, coinvolta anche in questo lavoro. “La possibilità di individuare corpi oscuri di questa scala rappresenta un test cruciale per comprendere la natura della materia oscura. “Infatti, ci si aspetta la presenza di oggetti di questa massa in scenari con materia oscura fredda, cioè coerenti con il modello cosmologico standard”.

Cristiana Spingola, co-autrice dello studio e ricercatrice INAF presso l’Istituto di Radioastronomia, Bologna. Crediti: INAF
Cristiana Spingola, co-autrice dello studio e ricercatrice INAF presso l’Istituto di Radioastronomia, Bologna. Crediti: INAF

Ulteriori osservazioni e analisi sono in corso per chiarire la natura di questo oggetto celeste: potrebbe trattarsi di un alone di materia oscura, di un ammasso stellare molto compatto o di una piccola galassia nana spenta. Il team sta anche cercando altri casi di questo tipo in altre parti dell’universo utilizzando la stessa tecnica e, se verranno trovati, alcune teorie sulla materia oscura potrebbero essere definitivamente escluse.


 

L’articolo “An extended and extremely thin gravitational arc from a lensed compact symmetric object at redshift 2.059”, di J. P. McKean, C. Spingola, D. M. Powell and S. Vegetti è pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society
L’articolo “A million-solar-mass object detected at cosmological distance using gravitational imaging”, di D. M. Powell, J. P. McKean, S. Vegetti, C. Spingola, S. D. M. White, C. D. Fassnacht è stato pubblicato sulla rivista Nature Astronomy

Per altre informazioni:
Il Joint Institute for VLBI ERIC (JIVE) ha come missione primaria quella di gestire e sviluppare il correlatore dei dati dell’European VLBI Network, un potente supercomputer che combina i segnali dei radiotelescopi dislocati in tutto il pianeta. Fondato nel 1993, JIVE è diventato nel 2015 un Consorzio Europeo per le Infrastrutture di Ricerca (ERIC), con sette paesi membri: Francia, Italia, Lettonia, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna e Svezia. Ulteriore supporto è fornito da istituti partner in Cina, Germania e Sudafrica. La sede del JIVE si trova negli uffici dell’Istituto Olandese per la Radioastronomia (ASTRON) nei Paesi Bassi. L’European VLBI Network (EVN) è una rete interferometrica di radiotelescopi distribuiti in Europa, Asia, Sudafrica e Americhe, che svolge osservazioni radioastronomiche uniche e ad alta risoluzione di sorgenti radio cosmiche. Fondato nel 1980, l’EVN è cresciuto fino a diventare la rete VLBI più sensibile al mondo, includendo oltre 20 telescopi individuali, tra cui alcuni dei radiotelescopi più grandi e sensibili a livello globale. L’EVN è composto da 13 Istituti Membri Effettivi e 5 Istituti Membri Associati.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

FONDI FIS2/MUR: ALL’INAF 1,2 MILIONI DI EURO PER STUDIARE L’UNIVERSO OSCURO COL PROGETTO DARKER

Con il sostegno del Fondo Italiano per la Scienza, la ricercatrice INAF Cristiana Spingola guiderà l’ambizioso progetto DARKER per cercare minuscole lenti gravitazionali e sondare i misteri di energia e materia oscura.

 

Il progetto DARKER – Accurate constraints on dark energy and dark matter using strong lensing in the era of precision cosmology riceve un finanziamento di 1,2 milioni di euro grazie al Fondo Italiano per la Scienza – FIS 2, erogato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR). A guidare la ricerca sarà Cristiana Spingola, ricercatrice dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), con l’obiettivo di sondare alcuni degli enigmi più profondi della cosmologia: energia oscura e materia oscura, che insieme costituiscono circa il 95% dell’intero Universo.

Il progetto DARKER ha l’obiettivo di scoprire nuove lenti gravitazionali molto piccole che, come potentissimi telescopi naturali, permetteranno di indagare in modo ancora più accurato alcuni aspetti dell’Universo lontano. Il fenomeno della lente gravitazionale, o lensing in inglese, è un effetto previsto dalla teoria della relatività generale di Albert Einstein.

“Se un oggetto molto massiccio – come una galassia o un ammasso di galassie – si trova tra noi e una sorgente luminosa lontana – come un quasar – il suo potenziale gravitazionale può deviare la radiazione, producendo immagini multiple della sorgente di sfondo”, spiega Cristiana Spingola.

“Ogni variazione di intensità luminosa avverrà in tempi diversi nelle diverse immagini, ovvero con un ritardo temporale (time delay). È proprio quest’ultima proprietà che DARKER sfrutterà per cercare questi oggetti estremamente rari, finora sfuggiti all’osservazione”.

La particolarità del progetto risiede quindi nel suo approccio innovativo: per la prima volta, la ricerca di lenti gravitazionali verrà condotta nel dominio temporale (time-domain) invece che tramite immagini statiche. Per la conferma delle “candidate lenti” serviranno osservazioni ad altissima risoluzione angolare. In questo contesto osservazioni con i tre radiotelescopi italiani dell’INAF – il Sardinia Radio Telescope (Cagliari) e le parabole gemelle di Medicina (Bologna) e Noto (Siracusa) – in modalità VLBI (Very Long Baseline Interferometry), saranno fondamentali per determinare la natura di queste rarissime lenti gravitazionali di piccolissima massa.

“Sappiamo ancora troppo poco di materia ed energia oscura. Grazie a questo approccio innovativo, potremo identificare simultaneamente lenti gravitazionali molto piccole e sorgenti variabili sullo sfondo, finora invisibili con le tecniche tradizionali”,

commenta Spingola, la quale svolgerà il suo progetto presso l’Istituto di Radioastronomia e in collaborazione con l’Osservatorio di Astrofisica e Scienza dello Spazio, le due sedi bolognesi dell’INAF.

Il progetto punta quindi a identificare centinaia di nuove lenti usando dati raccolti in passato dai telescopi spaziali GAIA e Fermi, cercando in particolare oggetti molto compatti con masse di pochi milioni di masse solari, la cui esistenza – o assenza – potrebbe aiutare a chiarire la vera natura della materia oscura, distinguendo tra modelli ‘freddi’ o ‘caldi’.

Spingola Aggiunge: “La conferma finale della natura di questi oggetti sarà possibile solo usando la tecnica della Very Long Baseline Interferometry, di cui l’INAF vanta un’esperienza storica ed è oggi tra i protagonisti della tecnica VLBI in Europa, con le sue strutture radioastronomiche che rappresentano un’eccellenza riconosciuta a livello internazionale”.

DARKER contribuirà anche alla determinazione precisa della costante di Hubble (H₀), parametro che misura la velocità di espansione dell’Universo.

“Questa misura sarà indipendente da quelle attualmente disponibili e potrà aiutare a risolvere una delle più grandi controversie dell’astrofisica moderna, la cosiddetta ‘tensione di Hubble’, che consiste nel disaccordo tra le stime di H₀ ottenute da osservazioni dell’universo primordiale e quelle basate su misure più vicine a noi. DARKER potrebbe rappresentare, quindi, un passo importante per fare luce sull’Universo oscuro”, conclude la ricercatrice.

La ricercatrice INAF Cristiana Spingola davanti al radiotelescopio Hartebeesthoek in Sudafrica. Crediti: INAF
La ricercatrice INAF Cristiana Spingola davanti al radiotelescopio Hartebeesthoek in Sudafrica. Crediti: INAF

Originaria di Perugia e laureata in Astrofisica all’Università di Bologna, Cristiana Spingola si è formata scientificamente tra Italia e Paesi Bassi, dove ha conseguito il dottorato all’Università di Groningen. Ricercatrice a tempo indeterminato dal 2023, è esperta di interferometria radio e lensing gravitazionale, e partecipa attivamente alla preparazione scientifica della prossima generazione di interferometri radio, come quelli del progetto SKA.

Il finanziamento complessivo è stato erogato nell’ambito del macrosettore Physical Sciences and Engineering – Universe Sciences del FIS 2. I fondi FIS sostengono ogni anno progetti di ricerca altamente innovativi nei principali settori scientifici, seguendo il modello dell’European Research Council (ERC).


Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

UN ANELLO PERFETTO PER LA MISSIONE EUCLID: NGC 65o5 È LA PRIMA LENTE GRAVITAZIONALE FORTE

La missione Euclid dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha scoperto la sua prima lente gravitazionale forte: l’immagine di una galassia lontana che appare sotto forma di anello, grazie alla forza di gravità di una galassia molto più vicina a noi (NGC 6505) che si trova, casualmente, sulla stessa linea di vista. I risultati dello studio, guidato da una collaborazione internazionale a cui partecipano ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), dell’Università di Bologna, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e di molti atenei italiani, sono stati pubblicati oggi su Astronomy & Astrophysics.

Immagine della galassia NGC 6505: l'anello di Einstein creato da questa lente gravitazionale si può vedere al centro dell'immagine
Immagine della galassia NGC 6505: l’anello di Einstein creato da questa lente gravitazionale si può vedere al centro dell’immagine. Crediti: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, image processing by J.-C. Cuillandre, T. Li 

Lanciata nel luglio del 2023, Euclid sta scansionando il cielo in profondità per costruire la più precisa mappa 3D mai realizzata dell’Universo, spingendosi fino a 10 miliardi di anni fa per studiare la storia cosmica e indagare i misteri delle enigmatiche materia oscura ed energia oscura. La missione, che vede un forte contributo italiano attraverso l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), l’INAF, l’INFN e numerosi atenei, deve raccogliere una enorme mole di dati per raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi scientifici. E tra questi dati si nascondono moltissime sorprese.

Una delle prime sorprese è la galassia NGC 6505, nota sin dalla fine dell’Ottocento e relativamente vicina a noi – la sua luce è partita “appena” 590 milioni di anni fa. Grazie a Euclid si è scoperto che questa galassia agisce come lente gravitazionale, deviando la luce proveniente da un’altra galassia molto più lontana, la cui luce è partita ben 4,42 miliardi di anni fa. Il risultato è un’immagine distorta di quest’ultima galassia: distorta al punto giusto da formare un anello perfetto. La ricerca è guidata da Conor O’Riordan dell’Istituto Max Plack per l’Astrofisica (Max Planck Institute for Astrophysics) di Monaco di Baviera, Germania.

Secondo la teoria della relatività generale di Einstein, i corpi dotati di massa “piegano” il tessuto dello spaziotempo che pervade l’Universo, deflettendo il percorso di qualsiasi altro oggetto nelle vicinanze, compresa la luce. Questo fenomeno, chiamato lensing gravitazionale, produce immagini distorte dei corpi celesti, proprio come quelle create da una comune lente d’ingrandimento. La missione Euclid userà il lensing gravitazionale nella sua forma “debole” per studiare l’invisibile materia oscura attraverso la sua influenza sulle immagini leggermente deformate di miliardi di galassie. In rari casi, per esempio quando galassie a diverse distanze da noi si trovano fortuitamente allineate, il lensing gravitazionale si manifesta nella sua forma più eclatante, detta “forte”, dando luogo a immagini multiple di una stessa galassia o eccezionalmente a un intero anello, detto anello di Einstein.

Dettagli dell'anello di Einstein, immagine distorta di una galassia lontana creata dalla lente gravitazionale NGC 6505.Crediti: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, image processing by J.-C. Cuillandre, T. Li
NGC 6505 è la prima lente gravitazionale forte scoperta dalla missione Euclid, lo studio è stato pubblicato su Astronomy & Astrophysics. Dettagli dell’anello di Einstein, immagine distorta di una galassia lontana creata dalla lente gravitazionale NGC 6505.
Crediti: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, image processing by J.-C. Cuillandre, T. Li

“Questa prima lente gravitazionale forte scoperta da Euclid ha caratteristiche uniche”, spiega Massimo Meneghetti, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, associato all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, tra gli autori del nuovo studio. “È veramente raro poter trovare una galassia relativamente prossima a noi, come questa che si trova nel catalogo NGC (New galaxy catalog, uno dei cataloghi di galassie vicine), che agisca da lente gravitazionale forte. Galassie così vicine infatti non sono generalmente in grado di focalizzare la luce di sorgenti retrostanti e formare immagini multiple, a meno che non contengano enormi quantità di materia nelle loro regioni centrali. La formazione di anelli di Einstein completi come quello di NGC 6505 è un evento ancora più raro, perché richiede che la galassia lente e quella sorgente siano perfettamente allineate con il nostro telescopio. Per questi motivi, non ci aspettiamo che Euclid osserverà molte lenti come NGC 6505. Anche considerando la vasta area di cielo che verrà coperta nel corso della missione, ci aspettiamo di poter scoprire al massimo 20 lenti come questa”.

Questa lente gravitazionale è stata scoperta per caso, in una delle prime zone di cielo osservate da Euclid, analizzando i dati della fase di verifica della missione appena due mesi dopo il lancio, dall’astronomo Bruno Altieri dell’ESA: per questo il gruppo di ricerca l’ha soprannominata “lente di Altieri”. Benché la galassia NGC 6505 sia stata osservata per la prima volta nel 1884, l’anello di Einstein scoperto con Euclid non era mai stato notato prima, dimostrando le straordinarie capacità di scoperta della missione.

La distorsione indotta dal lensing gravitazionale dipende dalla distribuzione e dalla densità di materia della galassia che agisce da lente. Per questo motivo, analizzando la distorsione è possibile misurare la sua massa sia in termini di stelle che di materia oscura. In questo caso, inoltre, visto che l’anello di Einstein della lente di Altieri ha un raggio più piccolo rispetto a quello di NGC 6505, è stato possibile studiare accuratamente la composizione e la struttura delle regioni centrali, dove la materia oscura è meno prominente, e dove la galassia è dominata dalle stelle.

“Dato che il lensing gravitazionale è il metodo più preciso per misurare la massa, combinando il modello dell’anello di Einstein e della distribuzione di stelle della galassia, abbiamo potuto misurare che la frazione di massa composta da materia oscura al centro della lente è soltanto l’11 per cento”, spiega la co-autrice Giulia Despali, ricercatrice al Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, associata dell’INAF e dell’INFN. “Ricordiamo che la materia oscura costituisce circa l’85 per cento della materia totale del nostro Universo, quindi le regioni centrali delle galassie sono veramente particolari. Abbiamo infatti misurato le proprietà della galassia con estrema precisione, scoprendo una struttura complessa che varia con la distanza dal centro e stimando la funzione di massa iniziale, e cioè la proporzione di stelle di piccola e grande massa. Le nuove osservazioni di Euclid ci aiutano quindi a capire di più sia sull’Universo oscuro che sui processi di formazione ed evoluzione delle galassie”.

Se questa scoperta è avvenuta per caso, all’interno della collaborazione Euclid c’è un vasto gruppo dedicato alla ricerca di lenti gravitazionali, e ci si aspetta di trovarne oltre centomila nei 14mila gradi quadrati di cielo che saranno osservati nel corso della missione. Queste indagini sfruttano, da un lato, strumenti sofisticati come l’intelligenza artificiale, e dall’altro anche la citizen science, coinvolgendo il pubblico non esperto nell’ispezione visuale delle immagini, in collaborazione con la piattaforma Zooniverse. L’obiettivo è quello di realizzare una mappa dettagliata della distribuzione della materia, sia quella visibile che quella oscura, nelle galassie e negli ammassi di galassie a varie distanze dall’Universo locale per poter così studiare la natura e l’evoluzione nel tempo della materia oscura e dell’energia oscura.

Testo e immagini dagli Uffici Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

WFIRST (Wide Field InfraRed Survey Telescope) – da poco ribattezzato Roman Telescope in onore dell’astronoma statunitense Nancy Grace Roman, affettuosamente chiamata “la mamma di Hubble” – è un progetto NASA designato ad indagare su alcuni grandi misteri dell’Universo come la materia e l’energia oscura e per cercare nuovi mondi in orbita attorno ad altre stelle della nostra galassia.

ScientifiCult ha l’onore di poter intervistare il dott. Valerio Bozza, ricercatore presso l’Università degli Studi di Salerno e attualmente impegnato a collaborare con la NASA per la realizzazione del Telescopio Roman.

Valerio Bozza
Il dott. Valerio Bozza

Può raccontarci i momenti della Sua carriera professionale che ricorda con più piacere?

In vent’anni di ricerca ho avuto la fortuna di vivere tante soddisfazioni e di lavorare con le persone che hanno scritto i libri su cui ho studiato. Certamente, partecipare alle discussioni nello studio di Gabriele Veneziano al CERN con i cosmologi più importanti del mondo e poter assistere alla nascita di idee geniali su quella lavagna è stata un’esperienza formativa fondamentale. Quando ho avuto il mio primo invito a relazionare ad un workshop all’American Institute of Mathematics sul gravitational lensing di buchi neri e ho ricevuto i complimenti di Ezra T. Newman, ho capito che potevo davvero dire la mia anche io.

Ricordo ancora le notti di osservazioni allo European Southern Observatory a La Silla in Cile, sotto il cielo più bello del pianeta. Ricordo l’invito al Collège de France a Parigi da parte di Antoine Layberie per un seminario, che poi ho scoperto di dover tenere in francese! Poi non ci dimentichiamo la notizia della vittoria al concorso da ricercatore, che mi ha raggiunto mentre ero in Brasile per un altro workshop sulle perturbazioni cosmologiche. Infine, ricordo con una certa malinconia le notti e i giorni di lavoro all’Osservatorio Astronomico UNISA per mettere su un programma di ricerca competitivo. Tutto è finito con la copertina di Nature sulla scoperta del pianeta KELT-9b, il più caldo mai visto, e la distruzione dell’Osservatorio nel febbraio 2019, una ferita ancora aperta.

Adesso, però, è ora di concentrarsi sullo sviluppo del nuovo telescopio spaziale WFIRST della NASA, che il 20 maggio scorso è stato rinominato Nancy Grace Roman Space Telescope (o semplicemente “Roman”, in breve), in onore della astronoma che ha contribuito alla nascita dei primi telescopi spaziali della NASA.

Infine, ricordo con una certa malinconia le notti e i giorni di lavoro all’Osservatorio Astronomico UNISA con il Prof. Gaetano Scarpetta, per mettere su un programma di ricerca competitivo.

Ci sono degli aggiornamenti sulla data del lancio di Roman?

Il lancio del telescopio Roman era programmato per il 2025, ma diverse vicende hanno giocato contro in questi ultimi anni: il ritardo nel lancio del JWST, lo shutdown del governo americano ad inizio 2019 e soprattutto l’epidemia di COVID-19, che sta provocando ritardi su tutte le scadenze nella tabella di marcia. A questo punto, direi che uno slittamento all’anno successivo possa essere plausibile. Tuttavia, l’interesse verso questa missione sta continuando a crescere sia dentro che fuori l’ambito accademico, mettendola al riparo da eventuali tagli di budget.


Roman viene spesso paragonato al telescopio spaziale Hubble. Quali sono le differenze e le somiglianze? E con il JWST?

Si tratta di tre telescopi spaziali che spesso vengono citati insieme, ma sono tutti e tre profondamente diversi: Hubble opera nella banda del visibile e nell’ultravioletto, mentre non è molto sensibile all’infrarosso. Al contrario, sia JWST che Roman opereranno nel vicino infrarosso. JWST avrà un campo di vista molto più piccolo anche di Hubble, perché il suo scopo è fornirci immagini con dettagli mai visti prima di sistemi stellari e planetari in formazione. Roman, invece, avrà un campo di vista cento volte più grande di Hubble, perché il suo scopo è quello di scandagliare aree di cielo molto grandi alla ricerca di galassie o fenomeni transienti. La grande novità è che Roman condurrà queste survey a grande campo con una risoluzione di 0.1 secondi d’arco, simile a quella di Hubble! Quindi, avremo la possibilità di condurre la scienza di Hubble su enormi aree di cielo contemporaneamente. JWST, invece, condurrà osservazioni con un dettaglio molto migliore di Hubble e di Roman, ma su un singolo oggetto in un’area molto limitata.

Roman telescope Valerio Bozza
Immagine 3D del veicolo spaziale Roman (luglio 2018). Immagine NASA (WFIRST Project and Dominic Benford), adattata, in pubblico dominio


Quali sono i target scientifici della missione e come vengono raggiunti?

A differenza di Hubble e JWST, Roman avrà poco spazio per richieste estemporanee di osservazioni. Sarà un telescopio essenzialmente dedicato a due programmi principali: una survey delle galassie lontane e una survey del centro della nostra Galassia. La prima survey effettuerà delle immagini di tutto il cielo alla ricerca di galassie deboli e lontane. Queste immagini consentiranno di capire meglio la distribuzione della materia nel nostro Universo, fissare le tappe dell’espansione cosmologica e chiarire i meccanismi alla base dell’espansione accelerata, scoperta venti anni fa attraverso lo studio delle supernovae Ia. I cosmologi si aspettano che Roman possa fornirci risposte fondamentali sulla natura della cosiddetta Dark Energy, che è stata ipotizzata per spiegare l’accelerazione del nostro Universo, ma la cui natura è del tutto sconosciuta.

Il secondo programma osservativo è una survey delle affollatissime regioni centrali della nostra galassia. Monitorando miliardi di stelle, ci aspettiamo che, almeno per una frazione di queste, la loro luce verrà amplificata da effetti temporanei di microlensing dovuti a stelle che attraversano la linea di vista. Il microlensing è un’amplificazione dovuta al ben noto effetto “lente gravitazionale” previsto dalla relatività generale di Einstein. Se la stella che fa da lente è anche accompagnata da un pianeta, l’amplificazione riporterà delle “anomalie” che potranno essere utilizzate per studiare e censire i sistemi planetari nella nostra galassia. Roman sarà così sensibile da rivelare anche pianeti piccoli come Marte o Mercurio!

microlensing
Il fenomeno del microlensing: la sorgente (in alto) appare più brillante quando una stella lente passa lungo la linea di vista. Se la lente è accompagnata da un pianeta, la luminosità mostra anche una breve anomalia. Credits: © ESA


Quali differenze tra le caratteristiche dei pianeti extrasolari che andrà a scoprire
Roman e quelle dei pianeti che ha osservato Kepler e che osserva TESS?

Il metodo del microlensing, utilizzato da Roman, è in grado di scoprire pianeti in orbite medio-larghe intorno alle rispettive stelle. Al contrario, sia Kepler che TESS, utilizzano il metodo dei transiti, in cui si misura l’eclisse parziale prodotta dal pianeta che oscura parte della sua stella. Questi due satelliti, quindi, hanno scoperto tipicamente pianeti molto vicini alle rispettive stelle.

Ipotizzando di osservare una copia del Sistema Solare, Kepler e TESS potrebbero vedere Mercurio o Venere, nel caso di un buon allineamento. Roman, invece, avrebbe ottime probabilità di rivelare tutti i pianeti da Marte a Nettuno.

Un’altra differenza è che Roman scoprirà pianeti distribuiti lungo tutta la linea di vista fino al centro della Galassia, consentendo un’indagine molto più ampia della distribuzione dei pianeti di quanto si possa fare con altri metodi, tipicamente limitati al vicinato del Sole. Purtroppo, però, i pianeti scoperti col microlensing non si prestano ad indagini approfondite, poiché, una volta terminato l’effetto di amplificazione, i pianeti tornano ad essere inosservabili e sono perduti per sempre.

In definitiva, la conoscenza dei pianeti nella nostra Galassia passa per il confronto tra diversi metodi di indagine complementari. Ognuno ci aiuta a comprendere una parte di un puzzle che si rivela sempre più complesso, mano mano che scopriamo mondi sempre più sorprendenti.

 

Nancy Grace Roman, in una foto NASA del 2015, in pubblico dominio