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KiDS J0842+0059: SCOPERTA GALASSIA FOSSILE A TRE MILIARDI DI ANNI LUCE

Grazie a osservazioni ad altissima risoluzione con il Large Binocular Telescope in Arizona, un team guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha confermato l’esistenza di una galassia rimasta praticamente immutata per circa sette miliardi di anni: un autentico fossile cosmico che permette di studiare la formazione delle prime galassie nella storia dell’universo.

Nel corso della storia del cosmo, le galassie tendono a crescere ed evolvere attraverso la fusione con altre galassie. Ma esistono dei rari esemplari che si comportano come una capsula del tempo: queste galassie, dette fossili o relitti (in inglese, relic), si sono formate molto rapidamente nelle primissime fasi dell’universo, producendo la quasi totalità delle loro stelle in meno di tre miliardi di anni dopo il Big Bang, e da allora sono rimaste praticamente intatte. Alle osservazioni si presentano con un aspetto denso e compatto, popolate da stelle ricche di elementi pesanti, e senza alcun segno di formazione stellare in corso.

Un nuovo studio ha ora osservato la galassia relic più lontana mai scoperta: un fossile cosmico, rimasto immutato per circa 7 miliardi di anni. Si chiama KiDS J0842+0059 ed è la prima galassia fossile massiccia confermata al di fuori dell’universo locale, attraverso osservazioni spettroscopiche e immagini ad alta risoluzione.

La scoperta, realizzata da un team internazionale di ricercatori e ricercatrici guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), è stata resa possibile grazie al Large Binocular Telescope (LBT), telescopio gestito da Italia, Germania e Stati Uniti sulla sommità del Monte Graham, in Arizona. I risultati sono pubblicati nell’edizione di luglio della rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

“Abbiamo scoperto una galassia ‘perfettamente conservata’ da miliardi di anni, un vero reperto archeologico che ci racconta come nascevano le prime galassie e ci aiuta a capire come si è evoluto l’universo fino a oggi”, spiega Crescenzo Tortora, ricercatore INAF e primo autore del lavoro. “Le galassie fossili sono come i dinosauri dell’universo: studiarle ci permette di comprendere in quali condizioni ambientali si sono formate e come si sono evolute le galassie più massicce che vediamo oggi”.

La galassia, che osserviamo com’era circa tre miliardi di anni fa, era stata inizialmente identificata nel 2018 all’interno del progetto KiDS (Kilo Degree Survey), una survey pubblica dello European Southern Observatory (ESO) realizzata dal telescopio italiano VST (VLT Survey Telescope) che si trova all’Osservatorio di Paranal, in Cile. Le immagini KiDS hanno fornito una stima della massa e delle dimensioni della galassia, le cui proprietà sono state ulteriormente caratterizzate mediante osservazioni con lo strumento X-Shooter sul Very Large Telescope dell’ESO, anch’esso in Cile. Tutte le sue caratteristiche sembravano indicare che si trattasse di una galassia fossile: dalla massa stellare, pari a circa cento miliardi di masse solari, alla formazione stellare, assente per gran parte della vita della galassia, fino alle dimensioni, più compatte rispetto a quelle di galassie con pari massa stellare.

Sulle dimensioni e la struttura della galassia, tuttavia, restavano alcune incertezze. Per confermare la compattezza della galassia, sono state cruciali nuove osservazioni realizzate con il Large Binocular Telescope (LBT), in grado di ottenere immagini molto più nitide grazie al sistema SOUL di ottica adattiva, che compensa in tempo reale gli effetti della turbolenza atmosferica. Le osservazioni della galassia KiDS J0842+0059 raccolte con LBT hanno un grado di dettaglio dieci volte superiore rispetto ai dati della survey KiDS: sono le immagini più dettagliate di una galassia relic a questa distanza e consentono di studiarne forma e dimensioni come mai prima d’ora.

“I dati del Large Binocular Telescope ci hanno permesso di confermare che KiDS J0842+0059 è effettivamente compatta e quindi una vera galassia relic, con una forma simile a NGC 1277 e alle galassie compatte che osserviamo nelle prime fasi dell’universo”, spiega la coautrice Chiara Spiniello, ricercatrice all’Università di Oxford, associata INAF e principal investigator del progetto INSPIRE, che ha contribuito alla caratterizzazione delle proprietà di questa galassia. Fino ad oggi, NGC 1277 era uno dei pochi prototipi confermati di questa rara classe di galassie. “È la prima volta che riusciamo a farlo con dati di così alta risoluzione per una galassia relic così distante”.

L’esistenza di galassie relic massicce come KiDS J0842+0059 oppure NGC 1277 dimostra che alcune galassie possono formarsi rapidamente, restare compatte, e poi rimanere inerti per miliardi di anni, sfuggendo alla crescita che ha interessato la maggior parte delle loro controparti attraverso fusioni con altre galassie.

“Studiare questi fossili cosmici ci aiuta a ricostruire la storia di formazione dei nuclei delle galassie massicce odierne, che — a differenza delle galassie relic — hanno subito processi di fusione, accrescendo materia proprio attorno a quelle prime galassie (compatte) dalle quali si sono originate”, conclude Tortora. “Con tecnologie all’avanguardia come l’ottica adattiva e il supporto di telescopi come LBT, possiamo migliorare la nostra comprensione di questo tipo di galassie. Nel futuro prossimo, inoltre, faremo un passo in avanti, puntando a cercare, confermare e studiare nuove galassie relic attraverso i dati di qualità e risoluzione unica del telescopio spaziale Euclid”.

 La galassia relic KiDS J0842+0059, osservata con il VST nell’ambito della survey KiDS (a sinistra) e con il Large Binocular Telescope (a destra). Crediti: C. Tortora/INSPIRE/VST/ESO/LBT
La galassia relic KiDS J0842+0059, osservata con il VST nell’ambito della survey KiDS (a sinistra) e con il Large Binocular Telescope (a destra). Crediti: C. Tortora/INSPIRE/VST/ESO/LBT

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “INSPIRE: INvestigating Stellar Populations In RElics – IX. KiDS J0842 + 0059: the first fully confirmed relic beyond the local Universe”, di C. Tortora, G. Tozzi, G. Agapito, F. La Barbera, C. Spiniello, R. Li, G. Carlà, G. D’Ago, E. Ghose, F. Mannucci, N. R. Napolitano, E. Pinna, M. Arnaboldi, D. Bevacqua, A. Ferrè-Mateu, A. Gallazzi, J. Hartke, L. K. Hunt, M. Maksymowicz-Maciata, C. Pulsoni, P. Saracco, D. Scognamiglio e M. Spavone, è stato pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Testo, video e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

Gaia l’investigatrice, così stana le coppie di buchi neri supermassicci

Un team di astrofisici guidato da Filippo Mannucci dell’Istituto nazionale di astrofisica ha ideato un nuovo metodo per individuare rapidamente e sull’intero cielo coppie di buchi neri supermassicci destinati a fondersi insieme alle rispettive galassie. La tecnica si avvale dei dati raccolti dal telescopio spaziale Gaia dell’ESA ed è stata confermata da osservazioni con Hubble, LBT e altri grandi telescopi da terra. I risultati sono descritti in un articolo pubblicato oggi su Nature Astronomy.

È una verità universalmente riconosciuta che un buco nero in possesso di una buona massa debba necessariamente cercare un compagno. Lo abbiamo appurato, da qualche anno, per buchi neri relativamente piccoli – decine di masse solari – grazie alla rivelazione delle onde gravitazionali che generano quando si fondono. E lo stesso sembra valere anche per quelli supermassicci – centinaia di milioni, se non miliardi, di masse solari – che albergano nel cuore delle galassie. Quando due galassie si scontrano, e lo fanno spesso, si uniscono e i due buchi neri supermassicci iniziano a spiraleggiare l’uno attorno all’altro, in quella danza gravitazionale che prima o poi li condurrà inevitabilmente a fondersi.

Di coppie di questo genere – in grado di produrre due nuclei galattici attivi (AGN, dall’inglese active galactic nucleus) all’interno dell’unica galassia risultante dalla fusione – l’universo dev’essere pieno: è quanto prevedono i modelli cosmologici basati sul cosiddetto merging gerarchico. Ma è una previsione ancora in attesa di verifica osservativa, a causa dell’enorme difficoltà che individuare queste coppie comporta. Ora però, grazie all’intuizione di un team d’astrofisici guidato da Filippo Mannucci dell’Istituto nazionale di astrofisica (INAF), è stato messo a punto un metodo originale che consente di ottenere campioni estesi e affidabili di “candidati AGN doppi” – vale a dire, appunto, possibili coppie di buchi neri supermassicci. La nuova tecnica, descritta in un articolo pubblicato oggi su Nature Astronomy, sfrutta i dati raccolti da uno strumento progettato per tutt’altro scopo: il satellite Gaia dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), nato per compilare la mappa multidimensionale più precisa e completa della Via Lattea. E si avvale, per la verifica dei risultati, delle capacità straordinarie di eseguire osservazioni ad alta risoluzione consentite, dallo spazio, dal telescopio Hubble, e da terra – grazie al sistema di ottiche adattive che annulla le distorsioni introdotte dalla turbolenza atmosferica – dal Large Binocular Telescope (LBT).

immagini ad alta risoluzione, ottenute dal Large Binocular Telescope (LBT) grazie al sistema di ottiche adattive SOUL realizzato dall’INAF, di cinque coppie di buchi neri supermassicci selezionate nell’archivio di Gaia tramite la tecnica dei picchi multipli. Crediti: F. Mannucci et al., Nature Astronomy, 2022

«Abbiamo scavato nello sconfinato archivio del telescopio spaziale Gaia dell’ESA e utilizzato per la prima volta una proprietà misurata ma mai usata. Questo parametro», spiega Filippo Mannucci, dirigente di ricerca all’INAF di Arcetri,

«si è rivelato utilissimo per il nostro problema, aprendo un campo tutto nuovo. È stato emozionante vedere come i telescopi specializzati per ottenere immagini di alta risoluzione – il telescopio spaziale Hubble e, ancora meglio, LBT, grazie al sistema di ottiche adattive SOUL realizzato dall’INAF – abbiano confermato il nuovo metodo: un ottimo esempio di uso sincronizzato di vari telescopi, spaziali e da terra. Dopo la scrittura dell’articolo abbiamo ottenuto altre conferme e iniziato un grande studio statistico usando anche i telescopi del Keck, alle Hawaii, e il Very Large Telescope dell’ESO, in Cile. E stiamo usando altri telescopi da terra, come TNG, NTT e Asiago, per allargare il campione».

«Il nuovo parametro pubblicato nell’ultima release del catalogo Gaia», aggiunge Elena Pancino dell’INAF di Arcetri, coautrice dello studio, riferendosi alla “proprietà misurata ma mai usata” citata da Mannucci, «indica la presenza di picchi multipli nei profili di luce unidimensionali prodotti dal satellite ESA, e si sta rivelando utile soprattutto alla comunità stellare galattica per identificare binarie visuali o fisiche, per cui abbiamo pensato di testarlo sugli AGN».

Volendo fare un’analogia, pensiamo a una fotocellula piazzata all’ingresso di un’attrazione – un museo, uno stadio, un supermercato – per contare le persone che entrano: una persona, un picco di segnale. Se entro un intervallo di tempo molto breve – un secondo, per esempio – vengono prodotti due picchi, significa che sono entrate due persone a distanza molto ravvicinata. Forse una coppia? È possibile. Per capirlo, occorre anzitutto stabilire sotto a quale soglia di distanza fra due picchi possa aver senso ipotizzare che si tratti di una coppia.

Fuor di metafora: quanto devono essere vicini fra loro, due buchi neri, per poter essere considerati una coppia?

«Sono una coppia quando fanno parte della stessa galassia, ma questo non riusciamo a determinarlo direttamente. Assumiamo quindi una distanza massima di circa 20mila anni luce», dice un altro dei coautori dello studio, Alessandro Marconi dell’Università di Firenze. «È una distanza inferiore a quella fra il Sole e il centro della Via Lattea, che ad un redshift superiore a 0.5 corrisponde a meno di 1 secondo d’arco».

Assumendo tale soglia, le coppie di buchi neri supermassicci attualmente note sono soltanto quattro. Ma con il metodo del gruppo di astronomi fiorentini questo numero potrebbe esplodere, arrivando potenzialmente a molte centinaia. Questo grazie al fatto che Gaia, pur realizzato per studi stellari, è l’unico strumento che abbia osservato l’intero cielo in alta risoluzione, ed è dunque anche l’unico in grado di trovare ­– evidenziandole con i suoi picchi multipli – queste coppie molto vicine, e molto rare, di buchi neri supermassicci.

«Certo, una volta individuate, queste potenziali coppie vanno poi confermate una a una, ed è un processo lento», sottolinea Mannucci, «che richiede il ricorso a misure di spettroscopia. Per ora siamo riusciti a confermarne due, ma già abbiamo ottenuto dall’ESO la possibilità di usare lo strumento MUSE del Very Large Telescope per osservarne altre trenta nel prossimo semestre».

Allo studio pubblicato oggi su Nature Astronomy, intitolato “Unveiling the population of dual- and lensed- AGNs at sub-arcsec separations with Gaia”, hanno preso parte numerosi astrofisici dell’INAF di Arcetri (oltre ai già citati Filippo Mannucci ed Elena Pancino, Francesco Belfiore, Giovanni Cresci, Antonino Marasco, Emanuele Nardini, Enrico Pinna), dell’Università di Firenze (oltre ad Alessandro Marconi, Elisabetta Lusso e Giulia Tozzi), dell’INAF di Brera (Paola Severgnini, Paolo Saracco) e di alcuni istituti esteri (Claudia Cicone dell’Università di Oslo, Anna Ciurlo di Ucla e Sherry Yeh del W. M. Keck Observatory).

rappresentazione artistica di una coppia di buchi neri supermassicci durante una fusione galattica. Crediti: ESA

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)