Scoperta acqua pesante (acqua doppiamente deuterata) nel disco protoplanetario della stella V883 Ori (nella costellazione di Orione): una svolta per comprendere l’origine dell’acqua nel Sistema solare
Un team internazionale di ricercatori, guidato dall’Università Statale di Milano, ha rilevato per la prima volta acqua doppiamente deuterata (D₂O, nota anche come “acqua pesante”) in un disco protoplanetario, il luogo in cui nascono i pianeti. Il team ha dimostrato che l’acqua presente in tale disco è più antica della sua stella V883 Ori (nella costellazione di Orione). Un indizio che potrebbe suggerire che anche l’acqua presente sulla Terra e nei corpi celesti del nostro Sistema solare abbia origini più antiche del Sole stesso. Lo studio è stato pubblicato su Nature Astronomy.
Milano, 15 ottobre 2025 – L’acqua è un elemento presente nell’Universo e fondamentale per la vita. Ma da dove provenga e quando si sia formata è ancora uno dei grandi misteri dell’astronomia.
Un passo importante verso la comprensione di questo enigma arriva da un nuovo studio condotto dall’Università Statale di Milano in collaborazione con i ricercatori di Purdue University, Harvard & Smithsonian Center for Astrophysics, Universidad de Chile, University of Tokyo, RIKEN institute e National Radio Astronomy Observatory e pubblicato su Nature Astronomy.
Grazie alle osservazioni effettuate con il telescopio ALMA (Atacama Large Millimeter Array) in Cile, gli astronomi hanno rilevato acqua doppiamente deuterata (D₂O) nel disco protoplanetario (il luogo in cui si formano i pianeti) che circonda la giovane stella V883 Ori (nella costellazione di Orione).
“La presenza di acqua deuterata dimostra indiscutibilmente che l’acqua presente nel disco protoplanetario è più antica della stella centrale e che si è formata nelle primissime fasi della nascita della stella e dei suoi pianeti” spiega Margot Leemker, prima autrice dello studio e ricercatrice presso il Dipartimento di Fisica dell’Università degli Studi di Milano.
Prima di questa scoperta, infatti, gli scienziati ipotizzavano due possibili scenari sull’origine dell’acqua che si trova nelle comete e nei pianeti: l’ereditarietà o il reset chimico.Nel primo caso si riteneva che l’acqua provenisse direttamente dalla nube molecolare primordiale, cioè dalla fase iniziale della formazione di stelle e pianeti. Nel secondo, che la maggior parte dell’acqua originaria venisse distrutta durante il collasso della nube molecolare — a causa di riscaldamento, radiazioni e shock — per poi riformarsi nel disco protoplanetario, ma con una composizione chimica diversa (il processo di distruzione e ricombinazione è noto come reset chimico). La distinzione tra i due scenari si basa sull’analisi dei rapporti isotopologici dell’acqua.
Ora l’individuazione di acqua pesante già nel disco di formazione del pianeta attorno a V883 Ori, dimostra che la maggior parte della riserva d’acqua sopravvive al passaggio da nube molecolare al disco protoplanetario, avvalorando così lo scenario dell’ereditarietà. L’acqua pesante è una forma specifica di acqua in cui entrambi gli atomi di idrogeno sono sostituiti da deuterio, un isotopo dell’idrogeno. Questa molecola si forma solo in condizioni molto fredde e non si riforma facilmente se viene distrutta. È quindi un tracciante sensibile per capire se l’acqua è “antica” o “riformata”.
Misurando il rapporto isotopico D₂O/H₂O, gli scienziati hanno rilevato un rapporto pienamente coerente con il valore atteso per l’ereditarietà. Questo indica che l’acqua nel disco si è generata nella nube molecolare prima della nascita della stella e dei pianeti.
“Si tratta di un’importante svolta per comprendere anche l’origine dell’acqua nel nostro Sistema Solare e, in ultima analisi, sulla Terra” conclude Margot Leemker.
Riferimenti bibliografici:
Leemker, M., Tobin, J.J., Facchini, S. et al., Pristine ices in a planet-forming disk revealed by heavy water, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-025-02663-y
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano
Le più antiche tracce di alghe coccolitoforidi fossili, provenienti dalla Cina, riscrivono la storia dell’oceano moderno
I ricercatori dell’Università Statale di Milano, analizzando campioni fossili provenienti dalla Cina, hanno identificato le più antiche tracce di alghe coccolitoforidi (un tipo di fitoplancton) finora note, risalenti a circa 250 milioni di anni fa. La scoperta anticipa di 40 milioni di anni le stime sulla nascita dell’oceano come lo conosciamo oggi. Le coccolitoforidi, infatti, contribuiscono alla rimozione della CO₂ e sono parte dei produttori primari che influiscono tutta la biosfera marina. Questo suggerisce che già all’alba del Mesozoico ha avuto inizio la transizione ecologica che ha portato alla nascita di una fauna marina moderna segnando l’inizio dell’oceano attuale. Lo studio è stato pubblicato sulla Rivista Italiana di Paleontologia e Stratigrafia.
Milano, 18 agosto 2025 – L’oceano, l’ecosistema più antico e vasto del nostro pianeta, nel corso del tempo ha subito profonde trasformazioni. Ma quando ha assunto l’aspetto che conosciamo oggi?
Una nuova ricerca condotta dall’Università Statale di Milano in collaborazione con l’Università di Pechino, l’Università della California e del Centro di Geoscienze Marine (GEOMAR) di Kiel (Germania), suggerisce che la risposta vada cercata molto più indietro nel tempo di quanto si pensasse finora.
I ricercatori, analizzando campioni fossili provenienti dalla Cina meridionale, archiviati nel Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” dell’Università degli Studi di Milano (raccolti e studiati in precedenza per i vertebrati marini), hanno identificato tracce di coccolitoforidi scoprendo che queste alghe unicellulari marine (fitoplancton calcareo) di dimensioni comprese tra 3 e 40 micron (1 micron = 1/1000 mm) risalgono a circa 250 milioni di anni. Si tratta delle più antiche coccolitoforidi finora note, che anticipano di circa 40 milioni di anni le precedenti stime sull’origine di questi organismi.
Questa scoperta, pubblicata sulla Rivista Italiana di Paleontologia e Stratigrafia, è significativa perché identificare quando comparvero le prime coccolitoforidi ci aiuta a datare la nascita dell’oceano moderno.
Infatti, questi organismi, attraverso un processo chiamato coccolitogenesi, producono minuscole piastre di calcite (i coccoliti) che formano un guscio protettivo attorno alla cellula detto coccosfera. Alla morte dell’alga, coccoliti e coccosfere cadono attraverso la colonna d’acqua e si depositano come sedimenti marini sui fondali oceanici (diventando nannofossili calcarei). Questo meccanismo contribuisce all’assorbimento della CO₂ sia tramite la fotosintesi sia attraverso la produzione di calcite e (nell’arco di centinaia di milioni di anni) ha avuto un ruolo chiave nel creare un ambiente favorevole alla comparsa della fauna marina moderna e di conseguenza dell’oceano attuale.
Le più antiche tracce di alghe coccolitoforidi fossili, provenienti dalla Cina, riscrivono la storia dell’oceano moderno
L’origine della calcificazione da parte delle coccolitoforidi è stata studiata da un punto di vista biologico e molecolare, ma le analisi geologico-micropaleontologiche dei sedimenti marini rimangono l’unico modo diretto per datare l’origine e lo sviluppo della coccolitogenesi cioè l’inizio della produzione di calcite da parte di un gruppo di fitoplancton.
Fino ad oggi, i nannofossili calcarei più antichi conosciuti, rinvenuti in sedimenti della Tetide (Alpi austriache e lombarde) e della Pantalassa (Australia, Canada occidentale, Argentina, Perù) erano datati al Triassico Superiore (~210 milioni di anni fa).
Ora però le nuove ricerche indicano la comparsa dei coccoliti più antichi poco dopo l’estinzione di massa di fine Permiano, all’Inizio del Triassico. In un contesto oceanico estremo (acido e povero di ossigeno) causato dalle imponenti eruzioni vulcaniche che alterarono il clima globale e le condizioni chimico-fisiche oceaniche, l’aumento di temperatura e CO₂ atmosferica ebbe tra le sue conseguenze l’accelerazione del dilavamento delle terre emerse riversando grandi quantità di nutrienti nei mari e innalzando così la fertilità degli oceani. Questo aumento di nutrienti favorì l’evoluzione del fitoplancton calcificato con la comparsa di coccolitoforidi primitivi di piccole dimensioni.
“La scoperta di coccoliti e coccosfere risalenti a circa 249 milioni di anni fa, in sedimenti marini del Triassico Inferiore della Cina meridionale, rappresenta un punto di svolta per la paleontologia e la storia degli oceani. Questi coccoliti primitivi, piccoli (2–2,5 micron) e semplici, suggeriscono che la calcificazione sia emersa subito dopo l’estinzione di massa di fine Permiano, favorita da nuove condizioni ambientali e da nicchie ecologiche libere che hanno spinto le alghe coccolitoforidi verso innovazioni adattive. Si tratta quindi di un indizio cruciale per comprendere come, già all’alba del Mesozoico, si stessero gettando le basi degli ecosistemi marini dell’oceano attuale”
spiega Elisabetta Erba, professoressa di Paleontologia e Paleoecologia del Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” dell’Università degli Studi di Milano e prima autrice dello studio.
Infatti, i nannofossili calcarei del Triassico Inferiore (249 – 245 milioni di anni fa circa) sono correlati con la comparsa di molti altri nuovi gruppi marini,indicando l’instaurarsi di un’importante diversificazione della biosfera dalla base al vertice della catena alimentare.
Poi, durante il Triassico Medio (245 e 228 milioni di anni fa), le associazioni di nannofossili calcarei diventano sempre più abbondanti e diversificate, parallelamente all’espansione di pesci e rettili marini verso ambienti pelagici. Questo rafforza l’idea di un legame tra le coccolitoforidi calcificanti (o fitoplancton calcareo) e la ristrutturazione degli ecosistemi dopo l’estinzione di massa del Permiano e l’affermarsi di una fauna marina moderna.
“In sintesi, le nostre scoperte datano la nascita dell’oceano moderno all’alba del Mesozoico e sottolineano le profonde interconnessioni tra processi geologici, chimica oceanica e innovazione biologica. L’emergere della coccolitogenesi subito dopo l’estinzione di massa di fine Permiano è uno spettacolare esempio di stretta correlazione tra processi geologici ed evoluzione della vita”
conclude Cinzia Bottini professoressa di Paleontologia e Paleoecologia del Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” dell’Università degli Studi di Milano.
Riferimenti bibliografici:
ERBA, E. et al. 2025, EARLY TRIASSIC ORIGIN OF COCCOLITHOGENESIS. RIVISTA ITALIANA DI PALEONTOLOGIA E STRATIGRAFIA, 131, 2 (Jul. 2025), DOI: https://doi.org/10.54103/2039-4942/29160
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
Malattie respiratorie e rischio infettivo: un nuovo studio evidenzia l’impatto del metapneumovirus umano sugli anziani italiani
I ricercatori della Sapienza sono tra gli autori di uno studio condotto su tutto il territorio nazionale. Pubblicata sulla rivista “The Journal of Infectious Diseases”, la ricerca offre un utile supporto per lo sviluppo di una futura campagna vaccinale.
Il metapneumovirus umano (hMPV) è un agente respiratorio che rappresenta una delle cause frequenti di malattie delle vie aeree con un grado di severità molto ampio e che colpisce tutte le fasce d’età, ma soprattutto i bambini piccoli e gli anziani.
Un ampio studio multicentrico condotto da Sapienza Università di Roma, dall’Università di Milano e quella di Pavia ha raccolto e analizzato i dati ottenuti tra il 2022 e il 2024 da diciassette centri distribuiti su tutto il territorio nazionale, evidenziando la diffusione del virus e il suo impatto nei soggetti più anziani. La ricerca, finanziata dai fondi del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (PNRR) nell’ambito delle iniziative sulle infezioni emergenti, è stata pubblicata sulla prestigiosa rivista “The Journal of Infectious Diseases” in un numero interamente dedicato all’hMPV.
“Lo studio – spiega Guido Antonelli del Dipartimento di Medicina Molecolare della Sapienza, co-autore dello studio e responsabile della UOC “Microbiologia e Virologia” del Policlinico Umberto I di Roma – ha analizzato quasi 100.000 campioni respiratori provenienti da pazienti di tutte le età, ambulatoriali e ospedalizzati, rilevando un tasso di positività all’hMPV del 3,4%. Nella fascia di età superiore ai 50 anni, la positività si attestava al 2,6%, con un terzo dei casi riscontrati in soggetti con più di 80 anni”.
I risultati emersi hanno evidenziato due picchi stagionali del virus – a febbraio 2023 e ad aprile 2024 – che, seppur con alcune variazioni geografiche, hanno un’incidenza sovrapponibile tra la popolazione generale e quella anziana. In alcune aree del Nord-Ovest l’hMPV è stato riscontrato più frequentemente nei pazienti ambulatoriali piuttosto che nei ricoverati.
L’analisi genetica dei ceppi virali ha rilevato una distribuzione equilibrata tra i due principali sottotipi del virus (hMPV-A e hMPV-B), con la predominanza di varianti emergenti e la scomparsa di alcuni ceppi precedentemente circolanti.
“I risultati emersi indicano chiaramente che l’hMPV è un patogeno respiratorio rilevante soprattutto degli adulti più anziani – continua Alessandra Pierangeli, docente di Virologia e co-autrice dello studio – Ciò evidenza l’importanza dello sviluppo di strategia preventive mirate, inclusi eventuali strumenti vaccinali, per proteggere le fasce più vulnerabili della popolazione”.
La ricerca rappresenta il primo rapporto di tale ampiezza in Italia e un passo fondamentale per migliorare la comprensione dell’epidemiologia dell’hMPV, fornendo un’utile fonte di riferimento per valutare il rapporto costo-beneficio in vista di una futura campagna vaccinale e proponendosi come supporto per le autorità nello sviluppo di interventi mirati di sanità pubblica.
Classifica dei principali virus
Mappa genetica di isolati
Riferimenti bibliografici:
Mancon, L. Pellegrinelli, G. Romano, E. Vian, V. Biscaro, G. Piccirilli, T. Lazzarotto, S. Uceda Renteria, A. Callegaro, E. Pagani, E. Masi, G. Ferrari, C. Galli, F. Centrone, M. Chironna, C. Tiberio, E. Falco, V. Micheli, F. Novazzi, N. Mancini, T.G. Allice, F. Cerutti, E. Pomari, C. Castilletti, E. Lalle, F. Maggi, M. Fracella, P. Ravanini, G. Faolotto, R. Schiavo, G. Lo Cascio, C. Acciarri, S. Menzo, F. Baldanti, G. Antonelli, A. Pierangeli, E. Pariani, A. Piralla, AMCLI-GLIViRe Working Group, on behalf, Multicenter Cross-sectional Study on the Epidemiology of Human Metapneumovirus in Italy, 2022–2024, With a Focus on Adults Over 50 Years of Age, The Journal of Infectious Diseases, Volume 232, Issue Supplement_1, 15 July 2025, Pages S109–S120, DOI: https://doi.org/10.1093/infdis/jiaf111
Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Una nuova prospettiva terapeutica per i tumori del colon-retto: quando la chemioterapia “addestra” il sistema immunitario
Un team di ricercatori dell’IFOM, dell’Università di Torino e dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, l’Ospedale San Raffaele e l’Istituto di Candiolo, ha individuato una strategia innovativa per rendere i tumori del colon-retto sensibili all’immunoterapia, combinando due chemioterapici specifici. La scoperta, resa possibile grazie al sostegno dell’European Research Council (ERC) e della Fondazione AIRC, è stata pubblicata sull’autorevole rivista scientifica Cancer Cell e apre nuove possibilità terapeutiche per il tumore al colon-retto.
Il problema che affligge, ancora oggi, migliaia di pazienti oncologici è rappresentato dalla mancanza di terapie efficaci sebbene enormi passi avanti siano stati fatti. L’immunoterapia rappresenta una vera rivoluzione in oncologia negli ultimi 15 anni, incrementando le possibilità di cura per pazienti con melanoma, tumore del rene e alcune forme di cancro al polmone. Tuttavia, quando si tratta di tumore del colon-retto metastatico, questa terapia innovativa funziona solo in meno del 5% dei pazienti. La ragione sta nelle caratteristiche molecolari specifiche di questo tipo di cancro, che lo rendono praticamente “invisibile” al sistema immunitario.
“Da circa dieci anni nei nostri laboratorio studiamo una categoria di tumori che presentano un sistema di riparazione del DNA difettoso, chiamato mismatch repair”, spiega Alberto Bardelli, Direttore Scientifico di IFOM e Professore Ordinario del Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino, coordinatore dello studio. “Questi tumori definiti immunoresponsivi – prosegue Giovanni Germano, Ricercatore di IFOM e Professore associato di Istologia all’Università Statale di Milano, che ha coordinato lo studio insieme a Bardelli – sono particolari perché, a causa di questo difetto, accumulano centinaia di mutazioni che creano nuovi antigeni, ovvero molecole che funzionano come ‘bandierine rosse’ per richiamare l’attenzione del sistema immunitario.”
L’obiettivo era quindi trovare un modo per trasformare i tumori “freddi”, che il sistema immunitario non riesce a vedere, in tumori “caldi” che invece può attaccare efficacemente.
“In questa fase sperimentale, grazie al sostegno di Fondazione AIRC, avevamo già scoperto che alcuni farmaci come la temozolomide riescono a far emergere nel tumore le cellule in grado di presentare quelle bandierine rosse, quelle che il sistema immunitario riesce ad attaccare meglio – spiega Bardelli. – Il problema era che questo approccio funzionava solo per una piccola parte dei pazienti: meno del 20% di chi ha un tumore al colon-retto metastatico.”
“Partendo da queste considerazioni, quattro anni fa abbiamo avviato un percorso di studio innovativo. – illustra Pietro Paolo Vitiello, Ricercatore IFOM e Oncologo medico presso l’Università di Torino, primo autore dello studio pubblicato su Cancer Cell – Abbiamo pensato di osservare cosa succede quando esponiamo le cellule tumorali a specifiche combinazioni di chemioterapici.”
La svolta è arrivata studiando la combinazione di due farmaci: la temozolomide, già nota per la sua capacità di selezionare cellule con difetti nel riparo del DNA, e il cisplatino.
“La combinazione di questi due chemioterapici – prosegue Vitiello – riesce a indurre nelle cellule tumorali uno stato adattativo particolare. Per sfuggire all’azione distruttiva dei farmaci, infatti, le cellule riducono la loro capacità di riconoscere e riparare i danni al DNA”.
Il meccanismo di difesa del tumore si trasforma paradossalmente in una vulnerabilità:
“Le cellule trattate con questa combinazione – aggiunge Germano – hanno iniziato ad accumulare un numero elevatissimo di mutazioni, creando così tantissime nuove proteine, situazione simile a quando un batterio o un virus invadono da estranei il nostro organismo. È come se il tumore, nel tentativo di proteggersi dalla chemioterapia, si fosse reso riconoscibile e attaccabile dal sistema immunitario.”
Ma i benefici non si fermano qui: “Grazie ad una collaborazione con l’Ospedale San Raffaele – illustra Vitiello – abbiamo osservato che la combinazione di cisplatino e temozolomide è in grado di modificare anche l’ambiente circostante il tumore, il cosiddetto microambiente tumorale, rendendolo più favorevole all’attivazione della risposta immunitaria contro il cancro”.
La ricerca, sostenuta dall’Advanced Grant “TARGET” erogato dall’European Research Council e da un finanziamento della Fondazione AIRC, non è rimasta confinata ai laboratori: grazie a una collaborazione con il gruppo di Luis Diaz al Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, i primi 18 pazienti sono già stati trattati con questo approccio chemioterapico sperimentale.
“Il passaggio dai laboratori ai pazienti ha prodotto i primi risultati incoraggianti. – sottolinea Bardelli – le analisi dei campioni ematici di questi pazienti ci confermano che il trattamento funziona: aumenta effettivamente le mutazioni nelle cellule tumorali. Tuttavia – precisa lo scienziato – è ancora necessario un lavoro di ottimizzazione prima di poter proporre questo nuovo regime terapeutico a un numero maggiore di pazienti.”
Questa scoperta rappresenta un cambio di paradigma significativo: invece di combattere direttamente i meccanismi di resistenza del tumore, i ricercatori hanno imparato a sfruttarli.
“Possiamo pensare – riflette Bardelli – a trattamenti sempre più personalizzati che guidino l’evoluzione delle cellule tumorali verso uno stato che è più facilmente trattabile con le terapie immunologiche a disposizione.”
Il prossimo passo? “sarà di valutare – anticipa Bardelli – altre strategie per rendere i tumori più sensibili all’immunoterapia, agendo sia sulla produzione degli antigeni tumorali che sull’interazione tra sistema immunitario e cancro.”
“Questo lavoro dimostra quanto sia importante accorciare le distanze tra le scoperte biologiche e l’applicazione clinica”, conclude lo scienziato “È un risultato che non sarebbe stato possibile senza il programma IFOM dedicato ai Medici-Ricercatori, di cui Vitiello è stato parte integrante fin dal suo arrivo nel nostro istituto. Un programma che crea figure professionali dalle competenze trasversali e fortemente traslazionali.”
APPROFONDIMENTO SCIENTIFICO
Il ruolo del sistema mismatch repair (MMR). I tumori con alterato sistema di riparo del DNA mismatch repair rappresentano il prototipo dei tumori responsivi all’immunoterapia. Questo perché a causa dell’alterato riparo del DNA, questi tumori accumulano centinaia di mutazioni che portano alla formazione di nuovi antigeni, molecole di derivazione proteica in grado di attirare l’attenzione del sistema immunitario.
Meccanismo molecolare della scoperta L’aggiunta di cisplatino alla temozolomide induce nelle cellule tumorali uno stato in cui il riparo del DNA è depotenziato. I due chemioterapici inducono numerosissime mutazioni al DNA tumorale, spingendo le cellule tumorali a ridurre la capacità di riconoscere e riparare i danni al DNA per sfuggire all’azione dei farmaci. Questo adattamento, che protegge transitoriamente le cellule dall’effetto della chemioterapia, crea però una nuova vulnerabilità sfruttabile terapeuticamente, rendendo i tumori più riconoscibili al sistema immunitario e più sensibili all’immunoterapia.
I due chemioterapici protagonisti
Temozolomide: farmaco alchilante che danneggia il DNA delle cellule tumorali introducendo lesioni specifiche. È efficace contro tumori con specifiche caratteristiche molecolari, ed è attualmente utilizzato principalmente nel trattamento di alcuni tumori cerebrali.
Cisplatino: composto a base di platino che forma legami crociati con il DNA, impedendo la replicazione cellulare. È uno dei chemioterapici più utilizzati in oncologia per il trattamento di tumori solidi come quelli del testicolo, dell’ovaio, della vescica e del polmone.
Modifiche del microambiente tumorale I tumori sono costituiti sia da cellule tumorali che da cellule dell’organismo che circondano e interagiscono con esse, come quelle del sistema immunitario, che costituiscono il cosiddetto “microambiente tumorale”. La combinazione di cisplatino e temozolomide è in grado di modificare le caratteristiche delle cellule presenti microambiente tumorale, potenziando gli elementi in grado di sostenere l’attivazione immunitaria contro il tumore.
Una nuova prospettiva terapeutica per i tumori del colon-retto: quando la chemioterapia “addestra” il sistema immunitario. Foto di StockSnap
Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
Un potenziale alleato per il trattamento dell’encefalopatia epatica, la buccia dell’arancia rossa
Una ricerca coordinata dall’Istituto per la bioeconomia del CNR e dall’Università degli Studi di Milano ha messo in evidenza le proprietà dell’estratto di arancia rossa nel mitigare gli effetti della patologia. Lo studio, pubblicato su Biomedicines, consente un’ulteriore valorizzazione di questi agrumi, attraverso l’utilizzo dei sottoprodotti per le terapie in ambito neurologico.
Roma/Milano, 17 aprile 2025 – Scarti di arance rosse siciliane elaborati e utilizzabili come supporto nella cura dell’encefalopatia epatica (o MHE), patologia neurologica che può verificarsi in caso di insufficienza epatica. È quanto rivela uno studio in vivo coordinato dall’Istituto per la bioeconomia del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Firenze (CNR-IBE) assieme all’Università degli Studi di Milano, a cui hanno partecipato altri partner italiani e cinesi. I risultati della ricerca, finanziata dall’azienda Alfasigma, sono stati pubblicati sulla rivista Biomedicines.
L’encefalopatia epatica è una sindrome neurologica, associata a patologie epatiche croniche come la cirrosi, che è causata dall’accumulo di sostanze tossiche nel sangue – in particolare ammoniaca – in conseguenza della ridotta capacità del fegato di metabolizzarle. Queste tossine, una volta raggiunto il cervello, provocano l’alterazione delle funzioni cognitive e motorie ed è importante trattare la MHE tempestivamente, per evitare l’insorgere di problematiche più gravi.
“Nel nostro studio abbiamo verificato che l’estratto derivato dai sottoprodotti delle arance rosse, grazie alle sue proprietà antiossidanti e antinfiammatorie, influisce su queste funzionalità. Mediante la cavitazione idrodinamica – una tecnica di estrazione a bassa temperatura che utilizza l’acqua come solvente – in pochi minuti abbiamo sviluppato un fitocomplesso stabile che riesce a raggiungere fegato e cervello e che, attraverso la pectina, svolge anche una funzione prebiotica fornendo quindi nutrimento alla flora batterica intestinale”, spiega Francesco Meneguzzo, primo ricercatore del CNR-IBE tra i coordinatori dello studio.
La buccia di arancia rossa è nota per essere ricca di importanti composti bioattivi, quali polifenoli (principalmente esperidina), polisaccaridi (pectina) e oli essenziali (limonene), che hanno effetti positivi sulla salute, ma per la prima volta ne è stata dimostrata l’efficacia nei confronti dell’MHE attraverso test in vivo.
“Viste le risultanze delle attività terapeutiche effettuate a dosaggio ridotto, questo studio apre la strada alle prove cliniche del prodotto: si tratta di una prospettiva molto importante e che auspichiamo possa essere concretizzata al più presto, per ampliare le possibilità di prevenzione e cura di una malattia così seria e invalidante”,
conclude Mario Dell’Agli, docente del Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari Rodolfo Paoletti e responsabile del Laboratorio di Farmacognosia dell’Università degli Studi di Milano.
Un potenziale alleato per il trattamento dell’encefalopatia epatica dalla buccia di arancia rossa, nota la ricchezza di composti bioattivi. Particolare del pastazzo di arancia rossa, sottoprodotto della lavorazione degli agrumi. Crediti per la foto: Francesco Meneguzzo
Riferimenti bibliografici:
Vesci, Loredana, Giulia Martinelli, Yongqiang Liu, Luca Tagliavento, Mario Dell’Agli, Yunfei Wu, Sara Soldi, Valeria Sagheddu, Stefano Piazza, Enrico Sangiovanni, and et al., The New Phytocomplex AL0042 Extracted from Red Orange By-Products Inhibits the Minimal Hepatic Encephalopathy in Mice Induced by Thioacetamide, Biomedicines 13, no. 3: 686 (2025), DOI: https://doi.org/10.3390/biomedicines13030686
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano
Cambiamento climatico: rondini più piccole ma non per selezione naturale
Un gruppo di ricercatori dell’Università di Milano ha esaminato le dimensioni corporee di 9000 rondini nidificanti in Pianura Padana dal 1993 al 2023, evidenziando una riduzione della massa corporea e della lunghezza di ali e sterno negli ultimi anni. Lo studio, pubblicato su Journal of Animal Ecology, ipotizza come causa di questa alterazione i cambiamenti ambientali.
Milano, 3 aprile 2025 – Più piccole e forse più a rischio. Con l’aumento delle temperature, la dimensione delle rondini è diminuita. Tuttavia, non si tratta di un adattamento evolutivo che garantirebbe un miglior adattamento al clima sempre più caldo in cui si riproducono, mapotrebbe essere una conseguenza di condizioni ambientali peggiorate e compromettere la loro sopravvivenza a lungo termine.
È questa la conclusione a cui è giunto un team di ricercatori del Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano e pubblicato su Journal of Animal Ecology.
La ricerca, condotta sulla popolazione italiana di rondini (Hirundo rustica) nidificanti in Pianura Padana nell’arco di 31 anni (1993-2023) ha evidenziato come in questi decenni si sia verificato un calo significativo nella massa corporea, nella lunghezza dello sterno e delle ali, mentre il becco e le zampe non hanno subito variazioni altrettanto evidenti.
Iricercatori si sono quindi domandati se questa alterazione fosse dovuta a un adattamento evolutivo o se la causa risiedesse in altro. Da un lato, questo cambiamento è in linea con le regole ecogeografiche di Bergmann (dal biologo tedesco Christian Bergmann) e di Allen (Joel Asaph Allen, zoologo e ornitologo statunitense) che mettono in relazione le dimensioni degli animali e delle loro appendici (ad esempio code, zampe, orecchie, becchi) con le condizioni termiche dell’ambiente in cui vivono: nelle regioni calde sono più comuni animali di piccole dimensioni (regola di Bergmann) con appendici corporee estese (regola di Allen), rispetto agli ecosistemi freddi. Gli animali di taglia piccola hanno infatti un rapporto tra superficie e volume maggiore rispetto agli animali più grossi. Questa caratteristica, amplificata dalla presenza di appendici corporee estese, consente una più efficiente dissipazione del calore, un chiaro vantaggio per gli organismi che vivono in ambienti caldi. Il rimpicciolimento del corpo delle rondini, unito alla minima variazione di becco e zampe, sembrerebbe quindi coerente con un adattamento evolutivo all’aumento delle temperature primaverili-estive verificatesi nell’area di studio.
Tuttavia, analizzando i dati relativi all’intera vita di quasi 9000 individui diversi (catturati e misurati in anni successivi), i risultati hanno mostrato che la selezione naturale non favorisce gli individui più piccoli, né in termini di sopravvivenza annuale né di numero di figli prodotti in ciascuna stagione riproduttiva. Al contrario, gli individui più grandi sembrano godere di un vantaggio riproduttivo maggiore, contraddicendo l’idea che la selezione favorisca una riduzione delle dimensioni corporee.
“È pertanto probabile che tale fenomeno sia dovuto a una risposta fenotipica plastica (ovvero non causata da cambiamenti genetici come avverrebbe nel caso in cui si trattasse di un processo evolutivo) forse mediata dal deterioramento delle condizioni ecologiche nei luoghi di riproduzione e/o di svernamento, piuttosto che a una selezione naturale diretta verso individui più piccoli” spiega Andrea Romano, professore associato presso il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano e primo firmatario dello studio.
I ricercatori sono quindi giunti all’ipotesi che i cambiamenti ambientali,come la diminuzione delle risorse alimentari e l’aumento delle temperature estive durante lo sviluppo dei pulcini,possano influenzare significativamente la morfologia delle rondini. Questa ipotesi troverebbe riscontro in altri studi recenti su diverse specie, che mostrano come un aumento significativo della temperatura nel nido porti a dimensioni corporee minori e becchi relativamente più grandi, senza però migliorare la sopravvivenza.
“Questi risultati sollevano interrogativi sulla capacità delle specie migratrici di adattarsi ai cambiamenti climatici. Se la diminuzione è una risposta plastica a condizioni ambientali peggiorate, la sopravvivenza a lungo termine delle rondini potrebbe essere compromessa. Lo studio invita quindi alla cautela nell’interpretare sistematicamente la riduzione delle dimensioni corporee degli animali come un adattamento evolutivo al riscaldamento globale. In generale, questi risultati sottolineano l’importanza di monitorare le risposte delle specie ai cambiamenti climatici e di considerare più fattori ambientali quando si analizzano le variazioni fenotipiche nel tempo” conclude Romano.
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano
Mediterraneo: precipitazioni stabili dalla fine dell’Ottocento, ma in futuro è prevista una diminuzione
Un team di ricercatori di cui fa parte l’Università Statale di Milano ha tracciato l’evoluzione delle precipitazioni nel Mediterraneo a partire dalla fine del diciannovesimo secolo. I dati mostrano una sostanziale stabilità nel passato e confermano l’affidabilità delle recenti simulazioni modellistiche nel prevedere una diminuzione nel XXI secolo. Lo studio è stato pubblicato su Nature.
Milano, 21 marzo 2025 – L’evoluzione delle precipitazioni ha importanti implicazioni per le politiche sociali, economiche e ambientali nella regione del Mediterraneo.
Ora uno studio, condotto da un gruppo internazionale di ricercatori, coordinato da Sergio Vicente Serrano del Pyrenean Institute of Ecology e Yves Tramblay dell’Istituto Francese di Ricerca e Sviluppo (French Institute of Research for Development) e con un importante contributo dell’Università Statale di Milano, dell’Università del Salento e del CNR-ISAC (Consiglio Nazionale Delle Ricerche, Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima), ha rilevato che dal 1871 al 2020 le precipitazioni in quest’area sono rimaste sostanzialmente stabili anche se distribuite irregolarmente; tuttavia nel XXI secolo si prevede una diminuzione.
La ricerca, pubblicata su Nature, si basa su dati provenienti da 23.000 stazioni in 27 Paesi e colma una lacuna di conoscenza causata dalla mancanza di dati meteo completi, dovuta a politiche di alcuni Paesi del Mediterraneo non favorevoli a mettere in comune le serie osservative del passato. Questo problema è stato risolto sviluppando un metodo di lavoro innovativo che ha permesso elaborazioni svolte in modo distribuito, ma basate su un unico pacchetto di codici di analisi dati, senza che i singoli Paesi coinvolti dovessero condividere i dati originali.
Lo studio mostra che nel passato le precipitazioni nella regione sono state caratterizzate da una forte variabilità spaziale e temporale, ma sono rimaste fino ad ora in gran parte stabili nel lungo termine. Secondo i ricercatori, le tendenze che possono essere identificate per alcune aree e periodi sono attribuibili alle dinamiche collegate alla variabilità interna del clima. Inoltre evidenziano come le più recenti simulazioni modellistiche (prodotte nel Progetto internazionale CMIP 6) trovino conferma nelle osservazioni. Pertanto, i risultati del progetto attestano l’affidabilità dei modelli e dell’attesa futura diminuzionedelle precipitazioni per la regione mediterranea.
“Questo accordo tra le simulazioni modellistiche e le osservazioni sulla stabilità delle precipitazioni nel passato rafforza l’affidabilità delle previsioni di una futura riduzione delle piogge. Questa riduzione è molto preoccupante perché la regione del Mediterraneo sta già attraversando un periodo di crescente aridità climatica, causata dall’aumento dell’evaporazione dovuto al forte incremento delle temperature. Temiamo quindi che nei prossimi decenni si aggraverà la scarsità delle risorse idriche e l’aridità nella regione”,
conclude Maurizio Maugeri, docente del Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università Statale di Milano e tra i primi firmatari dello studio insieme al professor Piero Lionello del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali dell’Università del Salento.
Riferimenti bibliografici:
Vicente-Serrano, S.M., Tramblay, Y., Reig, F. et al. High temporal variability not trend dominates Mediterranean precipitation, Nature639, 658–666 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-024-08576-6
Conchiglie fossili: testimoni che raccontano i cambiamenti climatici del tempo profondo; conchiglie fossili di brachiopodi dall’Iran permettono di studiare i cambiamenti climatici dopo l’estinzione di fine Permiano Medio
Un team di ricercatori dell’Università Statale di Milano ha analizzato dal punto di vista geochimico conchiglie fossili di brachiopodi provenienti dall’Iran, che si sono dimostrate preziosi archivi di dati per aiutare a ricostruire le temperature delle acque marine nel Paleozoico. Questo studio, pubblicato su Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology, ci può fornire importanti strumenti per comprendere gli attuali cambiamenti climatici e le loro conseguenze.
Milano, 6 febbraio 2025 – Com’era il clima nel passato remoto? Quali cambiamenti si sono verificati e con quali conseguenze ambientali?
Le risposte a queste domande sono state trovate in quelli che si possono definire veri e propri bioarchivi fossili: le conchiglie dei brachiopodi. A dimostrarne l’efficacia come strumento per comprendere le variazioni climatiche del passato è uno studio multidisciplinare condotto da un team di ricercatori dell’Università Statale di Milano, dell’Università degli Studi di Ferrara, dell’Università di St. Andrews in Scozia e dell’Università Ludwig Maximilian di Monaco pubblicato su “Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology”.
Gli scienziati hanno analizzato alcune conchiglie fossili di brachiopodi provenienti dall’Iran, e in questo modo sono riusciti a ricostruire le variazioni stagionali di temperatura delle acque marine avvenute 260 milioni di anni fa, durante il Paleozoico. Un’era geologica (570-245 milioni di anni fa) che ha registrato drammatici cambiamenti ambientali e climatici e alcune delle più letali estinzioni di massa e per questo motivo di fondamentale importanza per gli studi paleoclimatici.
Conchiglie fossili di brachiopodi dall’Iran permettono di studiare i cambiamenti climatici dopo l’estinzione di fine Permiano Medio. Gallery
Microstrutture di conchiglie di brachiopode ben preservate che hanno registrato momenti freddi (blu, caratterizzati da alta oscillazione nei valori isotopici e quindi grande variazione stagionale di temperature) e momenti caldi (rosso, caratterizzati da bassa oscillazione nei valori isotopici e quindi minima variazione stagionale di temperature)
A) I brachiopodi fossili utilizzati nello studio, appartenenti alla specie Araxilevis intermedius. B) Schema di crescita di una conchiglia di brachiopode. I punti rossi mostrano i campioni di polveri analizzati
Ricercatori sul campo in Iran centrale, impegnati nella raccolta dei fossili utilizzati nello studio
In particolare lo scopo della ricerca è stato quello di studiare la durata della fase fredda avvenuta dopo l’estinzione di fine Permiano Medio (circa 260 milioni di anni fa), causata da intensa attività vulcanica nell’attuale Cina meridionale, e di analizzare la risposta dei brachiopodi al raffreddamento climatico.
“I brachiopodi, oggi rappresentati da qualche centinaio di specie, ma particolarmente diffusi e abbondanti nel Paleozoico, producono una conchiglia incorporando gli elementi chimici presenti nell’acqua del mare. Questi elementi possono quindi essere analizzati per ricostruire le condizioni ambientali e climatiche in cui questi animali hanno vissuto” spiega Marco Viaretti ricercatore presso il Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università Statale di Milano e primo autore dello studio.
Attraverso un approccio multidisciplinare volto a verificare lo stato di conservazione delle conchiglie e mediante la raccolta di polveri attraverso un campionamento ad alta risoluzione lungo le linee di accrescimento delle conchiglie, il team ha misurato i rapporti isotopici dell’ossigeno e del carbonio registrato dalle conchiglie. Gli isotopi dell’ossigeno, infatti, forniscono importanti informazioni per ricostruire le temperature dei mari del passato. Grazie all’approccio utilizzato in questo studio, è stato possibile ricostruire i cambiamenti stagionali di temperatura dell’acqua marina registrati dalle conchiglie su scala annuale.
Le analisi isotopiche hanno permesso di definire la durata della fase fredda post-estinzione, pari a circa 2 milioni di anni e di indentificare un’alta variazione stagionale. Successivamente alla fase fredda, le conchiglie hanno registrato la presenza di condizioni climatiche più calde caratterizzate da una bassa variazione stagionale. Le associazioni di brachiopodi si sono dimostrate particolarmente resilienti al raffreddamento climatico e non hanno registrato significativi cambiamenti di biodiversità.
“Si tratta di uno studio straordinario poiché non solo ha permesso di ricostruire le variazioni stagionali di temperatura delle acque marine avvenute 260 milioni di anni fa, ma anche dimostra le potenzialità dei brachiopodi come archivi di cambiamenti climatici del passato” aggiunge Viaretti.
“Le metodologie impiegate in questo studio potranno costituire un punto di partenza per l’analisi di altri intervalli del tempo geologico caratterizzati da variazioni del clima e offrire strumenti preziosi per comprendere meglio i cambiamenti climatici attuali e il loro impatto sugli ecosistemi e sulla biodiversità” conclude Lucia Angiolini, docente del Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università degli Studi di Milano.
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.
ERC Proof of Concept per il progetto FLORA (Fusing LiDAR Observations with Remote-sensing Analysis)
Innovazione e benessere urbano: un progetto dell’Università degli Studi di Milano si aggiudica un finanziamento complessivo di 150mila euro
Il riconoscimento dell’European Research Council è stato assegnato a due docenti della Statale di Milano: Valentina Bollati, al suo quarto ERC, ed Elia Biganzoli, con FLORA (Fusing LiDAR Observations with Remote-sensing Analysis), un progetto interdisciplinare per rispondere alle necessità di benessere e alla salute dei cittadini. Lo studio coinvolgerà le istituzioni e i cittadini di Legnano, in provincia di Milano, per creare un modello replicabile a livello globale.
Milano, 23 gennaio 2025 – Migliorare l’estetica urbana e la vivibilità delle città, per tutelare e promuovere la salute dei cittadini: èl’obiettivo che si pone il progetto FLORA (Fusing LiDAR Observations with Remote-sensing Analysis), vincitore di un ERC Proof of Concept (PoC) di 150 mila euro. FLORA è guidato da Valentina Bollati, docente dei Medicina del Lavoro e responsabile dell’EPIGET Lab, il Laboratorio di Epidemiologia, Epigenetica e Tossicologia del Dipartimento Scienze Cliniche e di Comunità ed Elia Biganzoli, docente di Statistica Medica e responsabile del gruppo di Epidemiologia e Statistica Bioinformatica del Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche dello stesso Ateneo, cofondatori dell’iniziativaINES nella quale si colloca anche il progetto FLORA e componenti del Centro di Ricerca Coordinata DESIRE sulla Scienza delle Decisioni.
FLORA avrà come compito quello di analizzare con metodi di Intelligenza Artificiale il legame tra la salute e l’esposoma, ovvero l’insieme di tutte le esposizioni ambientali, comportamentali e occupazionali, non genetiche, cui un individuo è esposto nel corso della sua vita. Questo studio, che sarà svolto a Legnano (Mi), è un’importante applicazione del progetto MAMELI “MApping the Methylation of repetitive elements to track the Exposome effects on health: the city of Legnano as a LIving lab”, progetto guidato sempre da Valentina Bollati per il quale nel 2023 si è aggiudicata un ERC Consolidator Grantdi circa 3 milioni di euro, che si è avvalso della collaborazione con diversi gruppi di ricerca di Ateneo, tra cui quello coordinato da Elia Biganzoli. Il riconoscimento PoC viene infatti conferito ai progetti che si propongono di esplorare il potenziale commerciale e sociale delle ricerche già finanziate da un ERC iniziale, risultando così ancora più significativo.
“Con FLORA avremo la possibilità di integrare alcune informazioni dettagliate sul paesaggio urbano – come spazi verdi, qualità dell’aria, flussi di traffico – con le percezioni dei cittadini. Inoltre si potranno creare metriche per quantificare la percezione estetica, la vivibilità e la salute urbana, identificando le aree che necessitano di interventi mirati. E soprattutto, coinvolgendo urbanisti, amministratori, comunità locali e abitanti, si potrà dare avvio a una nuova progettazione delle città che risponda alle esigenze di benessere e salute”,spiega Valentina Bollati, già vincitrice anche di un ERC Starting Grant nel 2011 e di un ERC PoC nel 2018.
Un team multidisciplinare di eccellenza, composto anche da Fabio Mosca (Università degli Studi di Milano), Pilar Guerrieri (Politecnico di Milano), Andrea Cattaneo (Università dell’Insubria) e Giovanni Sanesi (Università degli Studi di Bari) collaborerà con le autorità locali e i cittadini di Legnano per raccogliere dati e implementare un cruscotto di indicatori multidimensionali (FLORA dashboard), capace di integrare diverse tecnologie, come lo strumento laser LiDAR (Light Detection and Ranging) per rilevare la distanza di un oggetto, i sistemi GIS (Geographic Information System) e i sondaggi sulla percezione umana, con l’obiettivo finale di creare un modello replicabile e trasferibile a livello globale.
“La forza di FLORA risiede proprio nella capacità di unire competenze interdisciplinari, con l’uso responsabile e trasparente dell’Intelligenza Artificiale e della Scienza delle Decisioni, superando i tradizionali approcci settoriali e adottando una visione integrata e sostenibile del benessere urbano”, conclude Elia Biganzoli.
Università Statale di Milano: innovativo studio “in vivo” sulle metastasi, su come migrano le cellule tumorali
Un team di scienziati coordinati dall’Università Statale di Milano ha osservato “in vivo”, grazie a tecniche di imaging avanzate, la migrazione delle cellule tumorali nei tessuti viventi, rivelando il meccanismo con cui si spostano all’interno del corpo. Lo studio, pubblicato sulla rivistaProceedings of the National Academy of Sciences (PNAS)sarà cruciale per identificare nuove strategie di intervento sulle metastasi.
Milano, 15 gennaio 2025 – Il 90% delle morti da tumore sono dovute alle metastasi, cioè ai tumori secondari che si formano a distanza dal tumore iniziale e sono causati dalla migrazione delle cellule malate. Ecco perché comprendere i meccanismi di questa migrazione è fondamentale per cercare di identificare nuove strategie di intervento sulle metastasi. Ad oggi sappiamo che queste cellule possono muoversi individualmente o in gruppo, ma la maggior parte degli studi fatti finora sono stati svolti in vitro.
Ora, un gruppo di ricercatori del Centro per Complessità e Biosistemi dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con il Centro Medico dell’Università Radboud di Nimega (Radboud University Medical Centre), nei Paesi Bassi, ha pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) uno studio che mostra “in vivo” come avviene l’invasione collettiva di cellule tumorali nel derma.
Da questa osservazione, effettuata grazie alla microscopia intravitale a multifotone, una tecnica che consente l’osservazione dei tessuti ad alta risoluzione e su diversi piani focali consentendo una ricostruzione tridimensionale delle immagini, è risultato che le cellule si muovono usando una modalità di migrazione multicellulare poco coesiva,caratterizzata da un moto turbolento che si auto-organizza in percorsi alternati persistenti in cui le cellule si spostano avanti e indietro dal tumore originale, utilizzando interstizi già presenti nei tessuti.
“Abbiamo analizzato le deformazioni indotte dalle cellule nella matrice extracellulare e abbiamo osservato come le cellule si facessero largo tra i tessuti comprimendoli” spiega Stefano Zapperi, professore al Dipartimento di Fisica “Aldo Pontremoli” dell’Università degli Studi di Milano e coautore dello studio, “mostrando come la presenza di un tessuto che racchiude e comprime il tumoregioca un ruolo chiave nell’organizzazione e nel moto delle cellule tumorali”.
“Un aspetto molto interessante”, aggiunge Caterina La Porta docente di Patologia Generale del dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Ateneo e coordinatrice dello studio, “è che la migrazione collettiva delle cellule tumorale sfrutta le vie utilizzate dai linfociti T del nostro sistema immunitario. Complessivamente” conclude La Porta, “i nostri risultati contribuiscono a chiarire i modelli di migrazione delle cellule tumorali in vivo e forniscono indicazioni quantitative per lo sviluppo di modelli realistici in vitro e in silico (simulazione matematica al computer)”.
Riferimenti bibliografici:
O. Chepizhko, J. Armengol-Collado, S. Alexander, E. Wagena, B. Weigelin, L. Giomi, P. Friedl, S. Zapperi, C.A.M. La Porta, Confined cell migration along extracellular matrix space in vivo, Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A. (2025) 122 (1) e2414009121, DOI: https://doi.org/10.1073/pnas.2414009121
Un innovativo studio “in vivo” sulle metastasi, su come migrano le cellule tumorali, pubblicato oggi sulla rivista PNAS. Foto di Konstantin Kolosov
Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.