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Istituto Nazionale di Astrofisica

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EINSTEIN PROBE: RIVELATA LA COMPLESSITÀ DEI FLASH DI RAGGI X NELL’EVENTO EP241021a

Un team di ricerca, con la guida e il contributo fondamentale dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha di recente analizzato nel dettaglio l’evento EP241021a, una sorgente di raggi X nota come flash di raggi X (X-Ray Flash o XRF) scoperta il 21 ottobre 2024 dalla missione cinese Einstein Probe. La ricerca, frutto di un’imponente campagna osservativa multibanda accettata per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics, getta nuova luce sull’origine e la natura di questi misteriosi e fugaci transienti cosmici, storicamente legati ai più noti lampi di raggi gamma (Gamma Ray Burst o GRB).

“Cugini” dei transienti veloci di raggi X (FXRT, dall’inglese fast X-ray transient), gli XRF sono brevissime esplosioni di raggi X, con durata che varia dai 10 secondi ai 10 minuti, prodotte da sorgenti extragalattiche. Identificati nei primi anni ’90 dal satellite italo-olandese BeppoSAX, questi eventi condividono molte caratteristiche con i lampi di raggi gamma, ma si differenziano per spettri più “soffici” e un picco energetico meno intenso. Lo strumento Wide-field X-ray Telescope (WXT) a bordo del satellite Einstein Probe, caratterizzato da una capacità unica di osservazione di vaste regioni del cielo in raggi X ad alta sensibilità, ha permesso di rivelare nuovi flash di raggi X e di studiarne in modo accurato la complessa emissione.

 Un disegno dello scenario proposto dal team di ricerca per EP241021a. A piccoli angoli polari viene prodotto un getto relativistico con un nucleo e ali ampie, mentre a grandi angoli polari il getto è circondato da un bozzolo strutturato. La linea di vista dell’osservatore si trova all’interno delle ali del getto. Crediti: G. Gianfagna (INAF) / A&A 2025
Un disegno dello scenario proposto dal team di ricerca per EP241021a. A piccoli angoli polari viene prodotto un getto relativistico con un nucleo e ali ampie, mentre a grandi angoli polari il getto è circondato da un bozzolo strutturato. La linea di vista dell’osservatore si trova all’interno delle ali del getto. Crediti: G. Gianfagna (INAF) / A&A 2025

EP241021a si distingue per la ricchezza delle sue componenti. Giulia Gianfagna, prima autrice dell’articolo e assegnista di ricerca presso l’INAF di Roma, spiega:

“EP241021a è probabilmente l’XRF scoperto dall’Einstein Probe che presenta nella sua emissione il maggior numero di componenti, e, di conseguenza, un grado di complessità nell’interpretazione fisica non indifferente. Ma, per lo stesso motivo, è l’evento che più dà informazioni sulla famiglia di questi oggetti”.

L’evento transiente presenta, infatti, la caratterizzazione di un getto strutturato che si evolve rapidamente e un ambiente stellare denso che ne modella la forma e la dinamica. Dopo l’emissione nei raggi X scoperta da Einstein Probe, osservazioni nel visibile e soprattutto nelle frequenze radio e millimetriche, grazie all’utilizzo di telescopi e network come ALMA, uGMRT, e-MERLIN e ATCA, hanno permesso di identificare le peculiarità.

“Tutte le componenti – dice Gianfagna – sono consistenti con il collasso di una stella massiccia: subito dopo il collasso, si è creato un sistema formato da un getto centrale stretto ed energetico (detto nucleo o core), circondato da ‘ali’ a più basse energie e meno veloci. Circonda le ali un ‘bozzolo’ sferico (detto cocoon), composto a sua volta da due componenti concentriche, con velocità che diminuisce verso l’esterno. L’emissione dei raggi gamma, quindi il lampo di raggi gamma, viene prodotta dal core del getto”.

Questa emissione gamma non è però visibile in quanto il getto punta lontano dalla Terra.

Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Einstein Probe. Crediti: Chinese Academy of Sciences
Einstein Probe: rivelata la complessità dei flash di raggi X nell’evento EP241021a; lo studio accettato su Astronomy & Astrophysics. Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Einstein Probe. Crediti: Chinese Academy of Sciences

Tali osservazioni sono un modello unificato secondo cui i flash di raggi X sono varianti dei lampi di raggi gamma, viste da angolazioni diverse o influenzate da condizioni ambientali peculiari, come la densità e la struttura del materiale espulso dalla stella progenitrice. EP241021a è inoltre il primo caso in cui tutte queste componenti si osservano simultaneamente con tale dettaglio.

“Terminata la missione BeppoSAX all’inizio degli anni 2000”, commenta Luigi Piro, dirigente di ricerca INAF e coautore dello studio, “osservare questi transienti è diventato molto più difficile a causa del ridotto campo di vista degli strumenti attivi. Einstein Probe, lanciato nel gennaio 2024, ha riportato in orbita un rilevatore con un ampio campo visivo e una sensibilità superiore. La capacità di osservare porzioni così ampie di cielo ci ha permesso, finalmente, di ricominciare a scoprire nuovi flash di raggi X”.

Gianfagna conclude: “Dimostrare che questo flash di raggi X può essere modellizzato come un lampo di raggi gamma, probabilmente con delle caratteristiche particolari, in un contesto più ampio porterebbe ad avere un’idea più chiara su come muoiono le stelle massicce e cosa producono dopo la loro morte”.

Lo studio in questione è il primo guidato da ricercatrici e ricercatori europei sull’analisi di eventi XRF con dati provenienti da Einstein Probe, segnando una tappa fondamentale nella collaborazione internazionale e nello studio delle esplosioni cosmiche.

 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo di Giulia Gianfagna, Luigi Piro, Gabriele Bruni, Aishwarya Linesh Thakur, Hendrik Van Eerten, Alberto Castro-Tirado, Yong Chen, Ye-hao Cheng, Han He, Shumei Jia, Zhixing Ling, Elisabetta Maiorano, Rosita Paladino, Roberta Tripodi, Andrea Rossi, Shuaikang Yang, Jianghui Yuan, Weimin Yuan, Chen Zhang, “The soft X-ray transient EP241021A: a cosmic explosion with a complex off-axis jet and cocoon from a massive progenitor”, è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

“NAPOLI. SECONDA STELLA A DESTRA”: SCIENZA, ASTRONOMIA E RICERCA COME ELEMENTI CHIAVE DELL’IDENTITÀ ITALIANA

Nasce la nuova guida astroturistica INAF – Studio Bleu, presentata nel corso della Conferenza degli Addetti scientifici e spaziali ed Esperti agricoli organizzata dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale all’Auditorium Nazionale dell’INAF presso l’Osservatorio Astronomico di Capodimonte.

Napoli. Seconda stella a destra, la guida astroturistica è aperta in foto

Napoli/Roma, 19 settembre 2025 – Venerdì scorso 12 settembre 2025 è stata presentata in anteprima “Napoli. Seconda stella a destra”, l’ultima uscita della collana “Seconda Stella a Destra” dedicata alla città in occasione dei 2500 anni dalla sua fondazione. La realizzazione della guida è stata promossa Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e la presentazione è avvenuta nella cornice della Conferenza degli Addetti scientifici e spaziali e degli Esperti agricoli, ospitata a Napoli dal 10 al 12 settembre, alla presenza del Vice Presidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani e della Ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini.

“Seconda Stella a Destra” è un progetto dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e Studio Bleu, realtà specializzata in progetti di divulgazione scientifica. Dietro le pagine, una rete di competenze: l’INAF garantisce rigore scientifico e selezione dei luoghi con astronomi e storici della scienza, Studio Bleu cura progetto editoriale e grafico, rendendo i contenuti accessibili e visivamente riconoscibili. Musei, Università, Soprintendenze ed enti culturali collaborano su fonti e materiali iconografici.

La guida di Napoli è l’ultima uscita di una collana di guide astronomico-turistiche dedicate alle città d’Italia e vede Mauro Gargano e Francesca M. Aloisio dell’INAF e Valeria Cappelli di Studio Bleu come autori. L’idea è semplice e al tempo stesso ambiziosa: raccontare le città attraverso l’astronomia. Non soltanto il cielo da osservare, ma i segni celesti impressi nella pietra e nella memoria: l’orientamento astronomico di chiese e palazzi, le costellazioni dipinte negli affreschi, gli strumenti scientifici custoditi nei musei, le tracce delle conoscenze antiche nelle tradizioni locali.

“Seconda stella a destra” è insieme progetto editoriale e percorso di divulgazione: astro-turismo nel senso più ampio, capace di intrecciare arte, architettura, storia della scienza e vita quotidiana, con un linguaggio chiaro e coinvolgente. Le guide rientrano nei progetti di divulgazione attraverso cui un ente di ricerca come INAF dissemina il valore dell’astronomia e della ricerca spaziale nella società.

Nella Prefazione, il Vice Presidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, On. Antonio Tajani, sottolinea come la guida costituisca

“Una chiave di lettura originale e innovativa della città di Napoli, offrendo un percorso unico che fonde la magnificenza del patrimonio culturale alle moderne eccellenze scientifiche italiane. In questo contesto, il connubio tra Arte, Cultura e Scienza è un fattore strategico per il nostro Paese, per valorizzare in un grande gioco di squadra la nostra identità e i nostri valori, e per promuovere crescita, benessere e sviluppo.”

“Con Seconda stella a destra uniamo rigore scientifico e racconto dei luoghi, mostrando come l’astronomia sia parte viva della storia e dell’identità italiana. La guida di Napoli conferma che la diplomazia della scienza può parlare a cittadine e cittadini, a scuola come nei musei, creando ponti tra ricerca, cultura e turismo”, dice Roberto Ragazzoni, Presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica.

“Lo straordinario patrimonio astronomico di Napoli è un tesoro diffuso, spesso sotto gli occhi di tutti, ma ancora poco riconosciuto. Questa guida propone itinerari pratici per riscoprire nei monumenti, nelle strade e nelle collezioni museali, il dialogo millenario tra cielo e città”, aggiunge Mauro Gargano, Responsabile scientifico per l’INAF della guida dedicata a Napoli.

Dalla Certosa di S.Martino, che custodisce una meridiana bella come un’opera d’arte, alla collina luminosa di Capodimonte, dove ha sede l’Osservatorio Astronomico; dai ‘cieli antichi’ custoditi tra le opere del Museo Archeologico a quelli contemporanei evocati al Museo MADRE, fino al Complesso dei Girolamini, con la sua Biblioteca memorabile, e alle strade di Spaccanapoli, orientate astronomicamente.

La guida dedicata a Napoli rappresenta l’ultima tappa di un percorso lungo dieci anni, partito dalla città di Padova nel 2015 e alla quale sono seguite pubblicazioni dedicate alle città di Firenze (2019), Palermo (2021), Roma (2024) e ora Napoli, in cantiere c’è già la città di Catania.

“La sfida che accogliamo ogni volta è quella di contribuire alla costruzione di una cultura scientifica italiana, dove le città si facciano testimoni di arte, bellezza e anche di scienza. Con questo progetto, arrivato ormai alla sesta città, desideriamo raccontare la meraviglia e lo stupore e guidare turisti e cittadini alla riscoperta di ciò che hanno vicino, magari accorciando quel gap che troppo spesso separa scienza e società”, conclude Chiara Di Benedetto, founder di Studio Bleu, agenzia che per la guida ha curato il progetto editoriale e grafico.

la cover di Napoli. Seconda stella a destra, la guida astroturistica

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

2023 CX1, CRONACA INTERNAZIONALE DI UN IMPATTO: PRIMA, DURANTE E DOPO
Per la prima volta un asteroide è stato seguito dall’osservazione nello spazio fino al recupero delle meteoriti al suolo. Lo studio, a cui partecipa anche l’INAF, apre nuove prospettive per la difesa planetaria.

Un asteroide scoperto appena sette ore prima di colpire la Terra è oggi al centro del primo studio che ne ricostruisce in modo completo la traiettoria, la disintegrazione in atmosfera e il recupero delle meteoriti al suolo. Si tratta di 2023 CX1, esploso nei cieli della Normandia nella notte del 13 febbraio 2023. La ricerca, a guida del Fireball Recovery and InterPlanetary Observation Network, Planetario di Montréal e Università dell’Ontario Occidentale (University of Western Ontario), e realizzata da un centinaio di scienziati in tutto il mondo – con la partecipazione anche dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) – è stata pubblicata oggi sulla rivista Nature Astronomy.

Fotografia scattata da Gijs de Reijke, ripresa dalla riserva naturale di Kampina nei Paesi Bassi
Fotografia scattata da Gijs de Reijke, ripresa dalla riserva naturale di Kampina nei Paesi Bassi

Scoperto il 12 febbraio 2023 alle 20:18 ora universale (o anche UTC in breve) alla stazione di Piszkéstető del Konkoly Observatory (Ungheria), 2023 CX1 è soltanto il settimo asteroide mai individuato prima di un impatto. Subito dopo la scoperta è stato seguito da una vasta rete di osservatori professionali e amatoriali in tutto il mondo, che hanno contribuito a definirne orbita, forma e moto di rotazione. L’orario e la zona dell’impatto sono stati stimati con uno scarto di meno di 20 metri: un’accuratezza senza precedenti.

Con un diametro appena inferiore al metro e una massa di circa 650 chilogrammi, l’asteroide è entrato nell’atmosfera terrestre sul Canale della Manica a una velocità superiore a 14 chilometri al secondo – oltre 50 mila chilometri l’ora – riscaldandosi e trasformandosi in un bolide, ovvero una meteora estremamente luminosa. Durante questa fase è stato osservato da numerose reti di sorveglianza del cielo (meteor e fireball network), tra cui FRIPON/Vigie-Ciel, alla quale partecipa anche la rete PRISMA (Prima Rete Italiana per la Sorveglianza sistematica di Meteore e Atmosfera), coordinata dall’INAF e secondo partner internazionale del programma.

L’asteroide si è disintegrato il 13 febbraio 2023 alle 02:59 UTC a circa 28 chilometri di quota, liberando il 98% della sua energia cinetica in un’unica esplosione e generando una potente onda d’urto sferica. Il fenomeno ha disperso oltre un centinaio di meteoriti, recuperate nei giorni successivi nell’area di caduta predetta e classificate sotto il nome ufficiale Saint-Pierre-Le-Viger (SPLV), località in cui è stato trovato il primo campione.

Lo studio analizza in dettaglio sia le osservazioni dell’asteroide in orbita sia il bolide atmosferico e, infine, le meteoriti recuperate, rappresentando un caso unico: è infatti la prima volta che il materiale di un asteroide viene studiato lungo l’intero percorso, dallo spazio al laboratorio. Le analisi indicano che 2023 CX1 era un frammento di un asteroide della Fascia Principale interna degli asteroidi, collocata tra Marte e Giove, da cui si è staccato circa 30 milioni di anni fa.

“L’impatto di 2023 CX1 in Normandia non è stato un episodio isolato”, sottolinea Dario Barghini ricercatore INAF, membro del Project Office di PRISMA e tra i co-autori dello studio. “Nei giorni immediatamente successivi si sono verificati altri due eventi che hanno portato al recupero di meteoriti al suolo: il 14 febbraio 2023 la rete PRISMA ha registrato un brillante bolide sopra i cieli di Puglia e Basilicata. L’analisi delle traiettorie da parte del nostro team ha permesso di individuare rapidamente l’area di caduta e, appena tre giorni più tardi, il 17 febbraio, è stata recuperata la meteorite Matera, una condrite ordinaria. Il giorno successivo, il 15 febbraio, un altro bolide è stato osservato sopra il Texas, dove le ricerche sul campo hanno portato al ritrovamento di meteoriti”.

Nonostante abbia resistito a pressioni oltre 40 volte superiori a quelle che sperimentiamo al livello del mare, l’oggetto si è disintegrato improvvisamente, producendo un’onda d’urto sferica e compatta. Le simulazioni condotte nello studio mostrano che una frammentazione di questo tipo può avere effetti al suolo più gravi rispetto a eventi come quello di Čeljabinsk nel 2013, caratterizzati invece da una frammentazione graduale.

Per determinare con precisione l’area di dispersione dei frammenti, tipicamente estesa per alcuni chilometri quadrati, i ricercatori hanno utilizzato sia i dati della rete FRIPON sia le immagini raccolte da camere di sorveglianza e strumenti di cittadini e osservatori non professionisti. La triangolazione della traiettoria atmosferica ha dato il via, il 15 febbraio, alle ricerche sul terreno in Normandia da parte di ricercatori e volontari, inclusi i partecipanti al programma di citizen science Vigie-Ciel.

Questo ha portato al recupero dopo poche ore di ricerca di una prima meteorite di circa 100 grammi a Saint-Pierre-Le-Viger, tra Dieppe e Doudeville, in Francia, nella zona indicata dalle previsioni. Le ricerche sono proseguite nelle settimane successive, portando al recupero di oltre un centinaio di frammenti, per un peso complessivo di diversi chilogrammi.

Le meteoriti SPLV sono state classificate come condriti ordinarie di tipo L6, con struttura petrografica e contenuto ferroso tipici di questa classe. Le abbondanze isotopiche confermano la provenienza da un corpo progenitore di Fascia Principale. Sebbene si tratti della classe più comune di meteoriti terrestri, è la prima volta che una condrite L viene collegata direttamente a un asteroide osservato in orbita prima dell’impatto.

L’analisi di 2023 CX1 rappresenta dunque un’opportunità senza precedenti sia per la scienza sia per la difesa planetaria. Lo studio mostra che, per asteroidi con caratteristiche simili, non basta prevedere tempo e luogo dell’impatto: è cruciale valutare anche il modo in cui esploderanno. Una frammentazione improvvisa e concentrata, come quella osservata in Normandia, può infatti amplificare i danni al suolo e rendere necessarie misure straordinarie di protezione civile, come l’evacuazione preventiva delle aree più a rischio.

Tre eventi ravvicinati che hanno offerto alla comunità scientifica e amatoriale un’occasione senza precedenti per confrontare osservazioni e risultati, e che al tempo stesso hanno evidenziato l’importanza crescente delle reti di sorveglianza e della collaborazione internazionale.

“In questo contesto reti di sorveglianza come PRISMA sono fondamentali non solo per il recupero di meteoriti, ma anche per ricostruire l’orbita del corpo progenitore e modellizzarne le modalità di impatto”, conclude Daniele Gardiol, primo tecnologo INAF e coordinatore del progetto PRISMA.

I ricercatori INAF Dario Barghini e Daniele Gardiol. Crediti: Chiara Lamberti (PRISMA / INAF)
I ricercatori INAF Dario Barghini e Daniele Gardiol. Crediti: Chiara Lamberti (PRISMA / INAF)

Riferimenti bibliografici:

Egal, A., Vida, D., Colas, F. et al., Catastrophic disruption of asteroid 2023 CX1 and implications for planetary defence, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-025-02659-8

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

INDIVIDUATE NUOVE TRACCE DI SOSTANZE ORGANICHE NEI SOLFATI SU MARTE

Tracce di composti organici associati a solfati sono state individuate sulla superficie di Marte. A riportare la scoperta è un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature Astronomy, basato su dati raccolti dallo spettrometro Sherloc a bordo del rover Perseverance della NASA, in campioni prelevati nel cratere marziano Jezero. Non è possibile escludere che queste molecole organiche siano residui derivanti dalla degradazione di materia microbica antica, sebbene l’origine più probabile sia considerata abiotica, più specificamente attraverso reazioni di gas magmatici con ossidi di ferro presenti nelle rocce vulcaniche. A guidare il team è Teresa Fornaro, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

Vista 3D del target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio deltizio di Jezero crater, dove lo strumento Sherloc del rover Perseverance della NASA ha rilevato firme spettrali compatibili con idrocarburi policiclici aromatici all’interno di grani di solfato, suggerendo la preservazione di molecole organiche complesse in matrici minerali evaporitiche. Crediti: Teresa Fornaro, Andrew Alberini, Giovanni Poggiali, con modello 3D del target Pilot Mountain da: "M2020 WATSON -- Pilot Mountain, sol 874" (https://skfb.ly/oJWWx) by Mastcam-Z is licensed under Creative Commons Attribution (http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/)
Vista 3D del target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio deltizio di Jezero crater, dove lo strumento Sherloc del rover Perseverance della NASA ha rilevato firme spettrali compatibili con idrocarburi policiclici aromatici all’interno di grani di solfato, suggerendo la preservazione di molecole organiche complesse in matrici minerali evaporitiche. Crediti: Teresa Fornaro, Andrew Alberini, Giovanni Poggiali, con modello 3D del target Pilot Mountain da: “M2020 WATSON — Pilot Mountain, sol 874” (https://skfb.ly/oJWWx) by Mastcam-Z is licensed under Creative Commons Attribution (http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/)

La ricerca di molecole organiche su Marte è centrale per capire se il pianeta abbia mai offerto condizioni favorevoli alla vita. Alcuni composti organici possono infatti rappresentare nutrienti, mentre altri, più complessi, potrebbero costituire vere e proprie biofirme. Nonostante in passato siano già state individuate molecole organiche, la loro origine e conservazione restano ancora poco chiare.

Proprio per questo il cratere Jezero, antica area deltizia che un tempo ospitava un lago e che potrebbe aver avuto un alto potenziale di abitabilità, è oggi uno dei luoghi più interessanti da studiare. Qui, lo strumento Sherloc (Scanning Habitable Environments with Raman and Luminescence for Organics and Chemicals) a bordo del rover Perseverance ha rilevato segnali Raman forti e complessi associati a solfati, in particolare nelle aree denominate Quartier e Pilot Mountain, rispettivamente sul fondo del cratere e sul ventaglio deltizio.

“Quando Sherloc ha rivelato forti segnali Raman nella regione spettrale degli organici nel target Quartier, ci siamo entusiasmati. Questi segnali erano associati spazialmente a solfati di magnesio e calcio, che sulla Terra mostrano grandi capacità di preservazione della materia organica”, sottolinea Teresa Fornaro. “L’associazione con i solfati era davvero un enigma affascinante e mi ha spinta a esaminare uno per uno gli 839 spettri acquisiti da Sherloc in cui sono stati rilevati solfati sul fondo del cratere e sul ventaglio deltizio di Jezero, alla ricerca di segnali potenzialmente indicativi di composti organici. In questo modo, ho scoperto che il target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio, mostra segnali Raman simili a quelli osservati in Quartier”.

Per verificare l’ipotesi che i segnali osservati sono effettivamente dovuti a molecole organiche, il team ha condotto esperimenti nel Laboratorio di Astrobiologia dell’INAF a Firenze. Sono stati utilizzati materiali analoghi marziani e strumenti simili a Sherloc, riproducendo processi naturali in condizioni controllate. Il confronto con i dati acquisiti in situ ha permesso di consolidare l’interpretazione organica.

“Il Laboratorio di Astrobiologia di Arcetri, grazie al supporto dell’INAF e dell’Agenzia Spaziale Italiana, ha acquisito nel corso degli anni strumentazioni all’avanguardia che ci hanno permesso di ritagliarci un ruolo di rilievo nel contesto internazionale per quanto riguarda i temi dell’astrobiologia” spiega John Brucato dell’INAF, responsabile del laboratorio e coautore dello studio. “Siamo in grado di caratterizzare i composti organici presenti nei materiali che ci giungono dallo spazio, come le meteoriti o i campioni riportati a terra dalle missioni, e di simulare le condizioni e i processi chimico-fisici che possono verificarsi sulla superficie di Marte. Grazie alla partecipazione alle missioni marziane con i rover Perseverance della NASA e Rosalind Franklin dell’ESA, il nostro ambizioso obiettivo è riuscire a trovare le biofirme di una vita extraterrestre”.

“Nello specifico, abbiamo mescolato minerali solfati con molecole organiche aromatiche facilmente rilevabili da Sherloc, utilizzando metodi che imitano processi naturali potenzialmente avvenuti in passato in un ambiente acquoso a Jezero, seguiti da essiccazione. Successivamente, abbiamo analizzato i campioni preparati con strumenti analoghi a Sherloc”, spiega ancora Fornaro. “Questo metodo ci ha permesso di acquisire un set di dati di riferimento da confrontare direttamente con le osservazioni in situ, essenziali per interpretare correttamente i complessi segnali provenienti da Marte. Sulla base di queste indagini, abbiamo potuto attribuire questi segnali a idrocarburi policiclici aromatici preservati all’interno dei solfati”.

Il Cratere Jezero su Marte ripreso dalla sonda Mars Express dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA). Crediti: ESA/DLR/FU Berlin
Il Cratere Jezero su Marte ripreso dalla sonda Mars Express dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Crediti: ESA/DLR/FU Berlin

Il rilevamento in rocce vulcaniche suggerisce che gli idrocarburi policiclici aromatici possano essersi formati attraverso processi magmatici e, in seguito, essere stati mobilizzati dall’acqua e intrappolati nei solfati. I fluidi circolanti, comprese possibili acque idrotermali, avrebbero favorito il loro accumulo selettivo e la conservazione nelle rocce del cratere Jezero. Questi risultati si aggiungono a precedenti evidenze da meteoriti e dal cratere Gale, rafforzando il ruolo dei solfati nella conservazione della materia organica marziana.

“Sebbene non siano state trovate prove che questa materia organica sia di origine biologica, non è possibile escludere completamente che le sostanze organiche rilevate in queste rocce possano derivare dall’alterazione chimica di antichi composti biotici” conclude Fornaro“In attesa di un possibile futuro ritorno di questi campioni marziani per analisi più dettagliate sulla Terra, stiamo continuando a indagare sulla natura delle altre componenti di questi segnali complessi, la cui origine è ancora da chiarire del tutto”.

Riferimenti bibliografici:
L’articolo Evidence for polycyclic aromatic hydrocarbons detected in sulfates at Jezero crater by the Perseverance rover, di Teresa Fornaro, Sunanda Sharma, Ryan S. Jakubek, Giovanni Poggiali, John Robert Brucato, Rohit Bhartia, Andrew Steele, Ashley E. Murphy, Mike Tice, Mitchell D. Schulte, Kevin P. Hand, Marc D. Fries, William J. Abbey, Andrew Alberini, Daniela Alvarado-Jiménez, Kathleen C. Benison, Eve L. Berger, Sole Biancalani, Adrian J. Brown, Adrian Broz, Wayne P. Buckley, Denise K. Buckner, Aaron S. Burton, Sergei V. Bykov, Emily L. Cardarelli, Edward Cloutis, Stephanie A. Connell, Cristina Garcia-Florentino, Felipe Gómez, Nikole C. Haney, Carina Lee, Valeria Lino, Paola Manini, Francis M. McCubbin, Michelle Minitti, Richard V. Morris, Yu Yu Phua, Nicolas Randazzo, Joseph Razzell Hollis, Francesco Renzi, Sandra Siljeström, Justin I. Simon, Anushree Srivastava, Nicola Tasinato, Kyle Uckert, Roger C. Wiens, Amy J. Williams, è stato pubblicato su Nature Astronomy.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

UNA “STELE DI ROSETTA”, IL PROGETTO ROSETTA STONE PER STUDIARE LA FORMAZIONE STELLARE

Coordinato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica e sostenuto dall’European Research Council, il progetto Rosetta Stone propone un confronto senza precedenti tra simulazioni numeriche e osservazioni astronomiche nello studio della formazione stellare. I primi tre articoli, pubblicati su Astronomy & Astrophysics, mostrano come le simulazioni possano essere trattate come vere osservazioni per analizzare con maggiore precisione i processi che portano alla nascita delle stelle.

Il progetto Rosetta Stone, coordinato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e finanziato dall’European Research Council nell’ambito del Synergy Grant ECOGAL, rivoluziona lo studio della formazione stellare con un approccio innovativo e senza precedenti. Per la prima volta in questo campo, simulazioni numeriche sofisticate e osservazioni astronomiche vengono trattate con gli stessi metodi e algoritmi, creando un linguaggio comune che consente un confronto diretto e preciso tra teoria e realtà.

Link al progetto: https://www.the-rosetta-stone-project.eu/

La nascita delle stelle, un processo complesso e ancora poco compreso, viene così analizzata grazie a tre articoli appena pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics, che illustrano come le simulazioni possano essere “post-processate” per replicare fedelmente le immagini e le osservazioni reali ottenute con strumenti di punta come l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA).

Il primo articolo (guidato da Ugo Lebreuilly dell’Università di Parigi-Saclay) presenta una vasta gamma di simulazioni magneto-idrodinamiche (RMHD) di regioni di formazione stellare massiva, in cui sono stati variati parametri chiave come massa, raggio, livello di turbolenza e intensità del campo magnetico. Il secondo studio (con prima firma Ngo-Duy Tung dell’Università di Parigi-Saclay) si concentra sulla generazione di immagini artificiali e “ideali” nella banda delle onde millimetriche e sub-millimetriche, simili a quelle ottenute da ALMA e dal satellite Herschel. Nel terzo lavoro (questa volta a prima firma Alice Nucara di INAF), un codice ad hoc sviluppato all’interno del software CASA ha permesso di creare simulazioni di osservazioni ALMA estremamente realistiche, basate sui dati della survey SQUALO (Star formation in QUiescent And Luminous Objects).

Alessio Traficante, ricercatore INAF e coordinatore del progetto, afferma: “Per la prima volta, grazie al progetto Rosetta Stone, è possibile estrarre informazioni dalle simulazioni trattate con le stesse tecniche e gli stessi algoritmi usati per le osservazioni, permettendo di verificare se le informazioni che deduciamo dalle osservazioni hanno un riscontro nelle simulazioni e viceversa, con un’accuratezza nel confronto mai ottenuta prima nel campo della formazione stellare. È possibile infatti dedurre se effettivamente i parametri chiave osservativi, come il rapporto tra la luminosità e la massa, riflettano caratteristiche chiave degli addensamenti di gas e polveri come età ed efficienza di formazione stellare, e misurare l’effetto di fattori non osservabili direttamente, come l’intensità del campo magnetico”.

La prima versione del progetto, chiamata Rosetta Stone 1.0, è solo il punto di partenza. Sono già in preparazione le successive due nuove fasi: RS2.0, che includerà simulazioni di dati ALMA relativi alla survey ALMAGAL che includono una fisica più ampia e complessa, e RS3.0, focalizzata sullo studio della chimica delle regioni di formazione stellare e sull’analisi delle righe spettrali necessarie per tracciare la dinamica e l’evoluzione chimica di queste zone.

“Il progetto è il culmine di tre anni di lavoro, milioni di ore di calcolo su supercomputer, la produzione di centinaia di mappe e una stretta collaborazione tra gruppi teorici e osservativi. Con questo approccio innovativo, il progetto Rosetta Stone inaugura un nuovo modo di studiare la nascita delle stelle, rendendo possibile per la prima volta un confronto realmente diretto tra simulazione e osservazione”, conclude Traficante.

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “The Rosetta Stone Project. I. A suite of radiative magnetohydrodynamics simulations of high-mass star-forming clumps”, di Ugo Lebreuilly, Alessio Traficante et al., è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “The Rosetta Stone Project. II. The correlation between star formation efficiency and L/M indicator for the evolutionary stages of star-forming clumps in post-processed radiative magnetohydrodynamics simulations”, di Ngo-Duy Tung, Alessio Traficante et al., è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “The Rosetta Stone project. III. ALMA synthetic observations of fragmentation in high-mass star-forming clumps”, di Alice Nucara, Alessio Traficante et al., è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

CALVERA È ESPLOSA DOVE NON DOVEVA: UNA PULSAR “IN FUGA” SFIDA LE REGOLE DELLA VIA LATTEA

Un’esplosione stellare, una pulsar in fuga e un resto di supernova: è la storia di Calvera, un sistema scoperto a oltre 6500 anni luce sopra il piano galattico, che sta mettendo in discussione ciò che sappiamo sull’evoluzione delle stelle. A raccontarla è un team di ricerca dell’INAF in uno studio pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Immagine nei raggi X della stella di neutroni Calvera, indicata dal cerchio giallo, e della regione di emissione diffusa oggetto di studio di questo articolo, identificata dall'ellisse bianca. Il materiale responsabile dell'emissione osservata ha una temperatura compresa tra 1 e 10 milioni di gradi Celsius. Crediti: E. Greco, INAF
Immagine nei raggi X della stella di neutroni Calvera, indicata dal cerchio giallo, e della regione di emissione diffusa oggetto di studio di questo articolo, identificata dall’ellisse bianca. Il materiale responsabile dell’emissione osservata ha una temperatura compresa tra 1 e 10 milioni di gradi Celsius. Crediti: E. Greco, INAF

Un gruppo di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università degli Studi di Palermo ha approfondito lo studio di un sistema unico nel suo genere: una pulsar e un resto di supernova situati a oltre 6500 anni luce sopra il piano della nostra galassia, la Via Lattea, in una zona finora considerata estremamente rarefatta e quasi priva di oggetti di questo tipo. Grazie a nuove osservazioni e analisi, pubblicate sulla rivista Astronomy & Astrophysics, la ricerca sfida l’idea che queste regioni periferiche della galassia siano poco attive dal punto di vista energetico, offrendo nuovi importanti spunti sull’origine e l’evoluzione delle stelle massicce.

A oltre 6500 anni luce sopra il piano della Via Lattea, dove la densità di stelle si dirada e il vuoto interstellare domina, un sistema estremo sfida le regole dell’evoluzione stellare. È lì che è stato identificato un raro resto di supernova associato a una pulsar in fuga, nota con il nome di Calvera, un omaggio all’antagonista del film “I Magnifici 7”, film western del 1960 diretto da John Sturges. Come il suo omonimo cinematografico, Calvera si muove ai margini, fuori dalle regole, e sta riscrivendo ciò che sappiamo sulla vita e la morte delle stelle massicce nelle regioni più estreme della nostra galassia.

La storia del resto di supernova di Calvera inizia nel 2022, quando grazie allo strumento LOFAR – un network europeo di radiotelescopi progettato per osservare il cielo a basse frequenze – viene individuata una struttura estesa e quasi perfettamente circolare, interpretabile come un resto di supernova. Si trova a circa 37 gradi di latitudine galattica, molto lontano dal piano della galassia, dove solitamente si concentrano le esplosioni stellari. A pochi arcominuti di distanza, una pulsar già nota agli astronomi per la sua intensa emissione nei raggi X e battezzata anch’essa Calvera, si presenta come potenziale compagna del resto di supernova. Tuttavia, la sua traiettoria mostra un moto proprio molto marcato, circa 78 milliarcosecondi all’anno, che suggerisce che si stia allontanando dal centro dell’esplosione. Il quadro che emerge è quello di un legame fisico tra i due oggetti: una stella massiccia esplosa migliaia di anni fa, che ha lasciato dietro di sé un guscio di gas in espansione e una stella di neutroni in fuga.

Per ricostruire questa storia cosmica, un team guidato da Emanuele Greco dell’INAF ha analizzato osservazioni dettagliate nella banda dei raggi X ottenute con il satellite XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea. Le proprietà del gas caldo all’interno del resto di supernova, combinate con il moto della pulsar e le informazioni multi-banda raccolte da diversi strumenti, hanno permesso di stimare età e distanza del sistema. Le analisi indicano che il resto di supernova si trova a una distanza compresa tra 13.000 e 16.500 anni luce, e che ha un’età tra i 10.000 e i 20.000 anni. Dati perfettamente compatibili con quelli della pulsar, che rafforzano l’ipotesi di un’origine comune.

“Le stelle massicce – cioè almeno otto volte più grandi del Sole – si formano quasi esclusivamente sul piano galattico, dove la densità del gas è più alta e favorisce la nascita stellare”, spiega Greco. “Trovarne i resti a simili distanze dal piano è estremamente raro. La nostra analisi ha permesso di stimare con maggiore precisione la distanza, l’età e perfino le caratteristiche della possibile stella progenitrice che ha originato sia la pulsar Calvera che il suo resto di supernova”.

A rendere il quadro ancora più interessante è il fatto che il sistema si trovi in un ambiente molto diverso da quello tipico del piano galattico. L’emissione di raggi gamma rilevata nel sistema proviene, infatti, da un ambiente estremamente rarefatto, lontano dalle regioni dense del piano galattico. Tradizionalmente si pensa che per attivare uno dei principali meccanismi di produzione della radiazione gamma siano necessarie elevate densità di particelle, soprattutto di protoni. Questo risultato, invece, mostra che anche nelle “periferie” della galassia, considerate per lo più “vuote”,  possono esistere le condizioni sufficienti ad attivare meccanismi energetici intensi, capaci di produrre emissione gamma in modo efficiente.

“Grazie ai telescopi spaziali come XMM-Newton e Fermi/LAT, e a strumenti terrestri come il Telescopio Nazionale Galileo, possiamo analizzare i resti di supernova e le pulsar in diverse bande dello spettro elettromagnetico”, prosegue Greco. “Nel caso di Calvera, abbiamo mostrato che anche in ambienti rarefatti può esserci emissione di plasma a milioni di gradi, se l’onda d’urto dell’esplosione incontra addensamenti locali. Questi addensamenti, a loro volta, raccontano qualcosa sulla storia evolutiva della stella che è esplosa”.

Il lavoro nasce dalla collaborazione tra le sedi INAF di Palermo e Milano, che hanno unito competenze complementari: da un lato lo studio degli oggetti compatti come le pulsar, dall’altro l’analisi delle strutture diffuse associate ai resti di supernova. Le osservazioni effettuate con il Telescopio Nazionale Galileo mostrano la presenza di filamenti di idrogeno ionizzato, mentre nei raggi X si evidenzia una struttura estesa ma compatta, coerente con l’impatto dell’onda d’urto sui materiali presenti nell’ambiente e rilasciati dalla stella progenitrice di Calvera. Questo indica che la zona, seppur remota, può presentare localmente degli addensamenti di materia, al contrario di quanto si assume per le regioni ad alta latitudine galattica.

La scoperta – e il legame tra la pulsar Calvera e il suo resto di supernova – dimostrano che anche lontano dal piano galattico possono trovarsi, in modo del tutto inatteso, stelle massicce. Alcune di queste riescono a sfuggire al loro luogo di origine e a esplodere come supernovae in regioni remote della Galassia, lasciando dietro di sé una nube di gas in espansione e un oggetto compatto come una stella di neutroni.

“Il nostro studio mostra che anche le zone più tranquille e apparentemente vuote della galassia possono nascondere processi estremi”, conclude Greco. “Non solo abbiamo vincolato le proprietà fisiche del sistema Calvera con precisione, ma abbiamo anche dimostrato che, localmente, è possibile trovare densità sufficienti a generare emissioni X e gamma anche molto lontano dal piano galattico. Una scoperta che ci invita a guardare con occhi nuovi alle periferie della Via Lattea”.

Emanuele Greco, ricercatore INAF presso la sede di Palermo
Emanuele Greco, ricercatore INAF presso la sede di Palermo

Riferimenti bibliografici: 

L’articolo “Multi-wavelength study of the high Galactic latitude supernova remnant candidate G118.4+37.0 associated with the Calvera pulsar”, di Emanuele Greco et al., è stato pubblicato su Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

TOI-5800 b, TOI-5817 b E TOI-5795 b: TRE ESOPIANETI NETTUNIANI CALDI RIVELANO NUOVI INDIZI SULLA FORMAZIONE DEI SISTEMI PLANETARI

Un team internazionale guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università di Roma Tor Vergata ha confermato e caratterizzato tre nuovi esopianeti della categoria “Nettuniani caldi” — pianeti extrasolari con dimensioni e masse simili a quelle di Urano e Nettuno ma che si muovono intorno alle loro stelle su orbite molto più strette (pochi giorni invece di un centinaio di anni). Le scoperte sono state rese possibili grazie al programma Hot Neptune Initiative (HONEI) e alle misure di alta precisione effettuate con gli spettrografi HARPS all’Osservatorio La Silla dell’ESO in Cile e HARPS-N installato sul Telescopio Nazionale Galileo dell’INAF nelle Canarie, in Spagna, integrando i dati raccolti dal telescopio spaziale TESS della NASA.

Rappresentazione artistica di TOI-5800 b, l’esopianeta più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi”. Crediti: INAF
Rappresentazione artistica di TOI-5800 b, l’esopianeta più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi”. Crediti: INAF

Tra i tre pianeti spicca TOI-5800 b, il nettuniano più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi” — una regione dello spazio dove si riscontra una marcata scarsità di pianeti di dimensioni simili a quelle di Nettuno ma su orbite molto vicine alle proprie stelle, scarsità che può essere causata da diversi fenomeni, come la “migrazione planetaria”, in cui l’orbita dei pianeti viene modificata, l’evaporazione atmosferica che porta a una diminuzione delle loro dimensioni o l’interazione gravitazionale con altri corpi relativamente vicini. In particolare, questa “zona desertica” comprende pianeti con raggi da circa 3 a 7 volte quelli terrestri e periodi orbitali inferiori a pochi giorni.

Nato da una collaborazione tra ricercatori italiani e statunitensi, il programma HONEI ha come obiettivo quello di scoprire e misurare con grande precisione le masse e le altre proprietà fisiche e orbitali dei candidati “Nettuniani caldi” identificati dal satellite TESS. Tali misure permettono di selezionare i migliori target da puntare con i telescopi di nuova generazione come il James Webb Space Telescope, per determinare la composizione chimica delle atmosfere di questi pianeti. La capacità di misurare le masse con strumenti di alta precisione consente di confermare la natura planetaria di questi corpi e di valutare la loro evoluzione dinamica e strutturale. I primi risultati del programma HONEI sono stati presentati per la prima volta in due articoli scientifici appena accettati per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Rappresentazione artistica di TOI-5800 b, l’esopianeta più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi”. Crediti: INAF
Rappresentazione artistica di TOI-5800 b, l’esopianeta più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi”. Crediti: INAF

Come spiega Luca Naponiello, primo autore del primo articolo, ex studente di dottorato all’università di Roma Tor Vergata, ora post-doc INAF e fondatore del programma HONEI,

“TOI-5800 b è un sub-Nettuno molto vicino alla propria stella, con un periodo orbitale di soli 2,6 giorni. Ha un raggio di circa 2,5 volte quello terrestre e una massa di circa 9,5 volte quella terrestre. Ciò che ne testimonia l’unicità è l’elevata eccentricità orbitale, inusuale per pianeti con orbite così strette che, per effetto delle forze mareali, di norma si ‘circolarizzano’ rapidamente. Questa eccentricità lascia ipotizzare che il pianeta sia ancora in fase di migrazione orbitale o influenzato gravitazionalmente da un altro corpo celeste nel sistema, ancora da individuare. Inoltre, TOI-5800 b si sta progressivamente avvicinando alla sua stella, perdendo momento angolare, e in futuro potrebbe stabilizzarsi in una regione ancora più interna del deserto dei Nettuniani caldi”.

Rappresentazione artistica di un nettuniano caldo e della sua stella realizzata con software d’intelligenza artificiale. Crediti: INAF
TOI-5800 b, TOI-5817 b e TOI-5795 b: tre esopianeti nettuniani caldi rivelano nuovi indizi sulla formazione dei sistemi planetari. Rappresentazione artistica di un nettuniano caldo e della sua stella realizzata con software d’intelligenza artificiale. Crediti: INAF

Il secondo pianeta, classificato come TOI-5817 b, ha un’orbita più ampia di circa 15,6 giorni ed è ideale per studi atmosferici grazie alla luminosità della sua stella ospite.

In un secondo articolo del programma HONEI, con prima autrice Francesca Manni, dottoranda presso il dipartimento di Fisica dell’università di Roma Tor Vergata sotto la supervisione del professor Luigi Mancini, viene presentata la scoperta di TOI-5795 b, un “super-Nettuno caldo” in orbita con un periodo di 6,14 giorni attorno a una stella povera di metalli (ovvero di elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio).

Francesca Manni spiega: “L’esopianeta è stato scoperto dal satellite TESS intorno alla stella TOI-5795, a circa 162 parsec (ossia circa 528 anni luce) dalla Terra. È stato poi osservato anche con lo spettrografo HARPS, per misurare le variazioni di velocità radiale e quindi stimare la massa del pianeta. La stella è un po’ più grande del Sole ma più povera di metalli. Il pianeta ha un’orbita molto stretta e circolare, e caratteristiche da ‘super-Nettuno caldo’, ovvero massa e raggio superiori a quelli di Nettuno, ma temperature elevate”.

E aggiunge: “Questo pianeta si inserisce al confine del deserto dei Nettuniani caldi e la sua orbita quasi circolare e la composizione stellare pongono sfide ai modelli di formazione planetaria attuali, suggerendo che dinamiche successive alla formazione abbiano modellato la sua configurazione attuale”.

Naponiello sottolinea: “Dopo la scoperta del pianeta ultra-denso TOI-1853 b, confermiamo l’interesse cruciale della comunità scientifica per il deserto dei Nettuniani caldi. Questi risultati gettano nuova luce sui processi di migrazione e perdita atmosferica, fondamentali per capire la formazione di questo tipo di mondi”.

Tali risultati, ottenuti mediante l’impiego di spettrografi di eccellenza gestiti con il coinvolgimento rilevante di INAF, pongono solide basi per il futuro studio delle atmosfere planetarie con il telescopio spaziale James Webb e con telescopi terrestri di nuova generazione come l’Extremely Large Telescope (ELT), e saranno fondamentali per comprendere la diversità dei sistemi planetari e la storia evolutiva del nostro stesso Sistema solare.

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “The Hot-Neptune Initiative (HONEI). I. Two hot sub-Neptunes on a close-in eccentric orbit (TOI-5800b) and a farther-out circular orbit (TOI-5817b)”, di L. Naponiello et al., è stato accettato per la pubblicazione online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “The Hot Neptune Initiative (HONEI) II. TOI-5795 b: A hot super-Neptune orbiting a metal-poor star”, di F. Manni et al., è stato accettato per la pubblicazione online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testi e immagini dagli Uffici Stampa dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata  e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

LA VERA ETÀ DI GIOVE RIVELATA DA GOCCE DI ROCCIA FUSA – Uno studio INAF e Università di Nagoya svela come la nascita del gigante gassoso abbia innescato la formazione delle condrule nei meteoriti, permettendo di datare con precisione la nascita di Giove, avvenuta 1,8 milioni di anni dopo l’inizio del Sistema solare.

Un nuovo studio guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università di Nagoya ha dimostrato che la nascita del pianeta Giove ha innescato la formazione delle condrule nei meteoriti, permettendo di stabilire che il corpo celeste si è formato 1,8 milioni di anni dopo l’inizio del Sistema solare.

Schema che mostra come la gravità di Giove ha causato collisioni tra planetesimi che hanno poi fuso la roccia in goccioline, disperse dal vapore acqueo in espansione. Crediti: Diego Turrini e Sin-iti Sirono
Uno studio chiarisce in dettaglio il processo di formazione delle condrule e, grazie a ciò, riusce a datare con precisione la nascita di Giove: lo studio è pubblicato su Scientific Reports. Schema che mostra come la gravità di Giove ha causato collisioni tra planetesimi che hanno poi fuso la roccia in goccioline, disperse dal vapore acqueo in espansione. Crediti: Diego Turrini e Sin-iti Sirono

Quattro miliardi e mezzo di anni fa, Giove crebbe rapidamente fino a raggiungere la sua enorme massa, quella che oggi gli conferisce il primato di pianeta più grande del Sistema solare. La sua potente forza di attrazione gravitazionale sconvolse le orbite di piccoli corpi rocciosi e ghiacciati, simili agli odierni asteroidi e comete e noti come planetesimi. Queste perturbazioni provocarono collisioni a velocità dell’ordine di diversi chilometri al secondo, capaci di fondere le rocce e le polveri contenute in questi “piccoli” oggetti celesti. Il materiale fuso si frammentò in goccioline incandescenti di silicato – le condrule (o condri) – che oggi troviamo conservate nei meteoriti e chiamate, appunto, condriti.

Ora, due ricercatori hanno per la prima volta chiarito in dettaglio il processo di formazione di queste goccioline e, grazie a ciò, sono riusciti a datare con precisione la nascita di Giove. Lo studio, pubblicato oggi su Scientific Reports, mostra che le caratteristiche delle condrule – in particolare le loro dimensioni e le velocità di raffreddamento – sono spiegabili grazie all’acqua contenuta nei planetesimi impattanti. Questo risultato risolve un enigma di lunga data e dimostra che la formazione delle condrule è stata una conseguenza diretta della nascita dei pianeti.

“Il legame genetico tra la formazione di Giove e delle condrule determina che il pianeta si sia formato 1,8 milioni di anni dopo l’epoca delle cosiddette inclusioni ricche di calcio e alluminio (ossia l’inizio della storia del nostro sistema planetario, ndr), anticipando di 1-3 milioni di anni la formazione del pianeta gigante rispetto alle datazioni precedenti”, afferma Diego Turrini, coautore dell’articolo e primo ricercatore INAF.

Le condrule sono piccole sfere, di dimensioni tra 0,1 e 2 millimetri, che si sono formate durante le prime fasi del Sistema solare e sono state incorporate negli asteroidi in formazione. Nel corso del tempo, frammenti di questi asteroidi sono caduti sulla Terra come meteoriti. La loro forma tondeggiante ha costituito un mistero per decenni.

“Una delle principali teorie per la loro formazione è la fusione di rocce durante impatti e la successiva solidificazione di gocce di materiale fuso nella nebulosa solare”, spiega Turrini. “I modelli precedenti o non erano in grado di spiegare caratteristiche delle condrule come il rapido raffreddamento o le piccole dimensioni, oppure richiedevano condizioni molto particolari durante la formazione del Sistema solare”.

“Quando questi antichi planetesimi si scontravano, l’acqua contenuta al loro interno vaporizzava istantaneamente generando espansioni di vapore simili a piccole esplosioni. Questo processo frantumava e raffreddava la roccia silicatica fusa in gocce molto piccole, dando origine alle condrule che oggi osserviamo nei meteoriti”, spiega Sin-iti Sirono, coautore dello studio e docente presso la Graduate School of Earth and Environmental Sciences dell’Università di Nagoya in Giappone. “ll modello descritto nel nostro lavoro riesce a spiegare l’esistenza e le caratteristiche delle condrule grazie a un processo naturale, ossia l’evaporazione ed espansione dei ghiacci cometari, in risposta a fenomeni altrettanto naturali avvenuti in concomitanza con la formazione di Giove nella nebulosa solare, senza richiedere condizioni speciali”.

I due ricercatori sono arrivati a queste conclusioni grazie alla combinazione di simulazioni dinamiche e collisionali dettagliate, studiando come la rapida crescita della forza di gravità di Giove durante la sua formazione abbia causato impatti ad alta velocità tra planetesimi rocciosi e ricchi d’acqua e come l’interazione tra il materiale roccioso fuso e il ghiaccio evaporato formatisi in seguito a questi impatti abbia generato le condrule.

“I risultati sono sorprendenti”, commenta ancora Turrini. “Le caratteristiche e la quantità di condrule generate in queste simulazioni sono in accordo con i dati provenienti dai meteoriti. Inoltre, la produzione massima di condrule coincide con la fase di rapida acquisizione di gas da parte di Giove, che ha portato alla sua enorme massa. Poiché i dati dei meteoriti indicano che la formazione di condrule ebbe il picco 1,8 milioni di anni dopo l’inizio del Sistema solare, possiamo affermare di aver riconosciuto con precisione anche il momento della nascita di Giove”.

Lo studio getta luce sul processo di formazione del nostro sistema planetario, ma la durata limitata della produzione di condrule causata da Giove spiega anche perché nei meteoriti si trovano condrule di età diverse. Probabilmente pianeti giganti come Saturno hanno innescato eventi simili alla loro nascita. Analizzando i condriti di differenti epoche si potrà dunque ricostruire la sequenza di nascita dei pianeti e la storia evolutiva del Sistema solare.

Riferimenti bibliografici:

Sirono, Si., Turrini, D. Chondrule formation by collisions of planetesimals containing volatiles triggered by Jupiter’s formation, Sci Rep 15, 30919 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-025-12643-x

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Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

Da Pantelleria a Marte: in un lago siciliano si sperimenta l’origine della vita

Nell’isola siciliana, un team di ricercatori italiani ha identificato un ambiente naturale con analogie geologiche con Marte e che potrebbe simulare anche le condizioni della Terra primordiale. Lo studio, pubblicato sull’International Journal of Molecular Sciences, è frutto della collaborazione tra Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), Istituto nazionale di astrofisica (INAF) e le Università della Tuscia e Sapienza di Roma, finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI).
In una lettera del 1871 al suo amico Joseph Dalton Hooker, Charles Darwin ipotizzava che la vita potesse essere nata in ‘un piccolo stagno caldo’. Oggi, a oltre 150 anni di distanza, quell’ipotesi trova maggiori conferme grazie allo studio che un team interdisciplinare di scienziati italiani ha effettuato sull’isola di Pantelleria, in particolare presso il piccolo lago termale chiamato ‘Bagno dell’Acqua’: Questo luogo si è rivelato un laboratorio naturale ideale per simulare ambienti simili a quelli che potrebbero essere esistiti miliardi di anni fa sia sulla Terra che su Marte, offrendo preziosi indizi sui meccanismi universali dell’origine della vita.
Immagine satellitare con esperimenti
Immagine satellitare con esperimenti

La ricerca, pubblicata sull’International Journal of Molecular Sciences, è stata condotta da ricercatori e ricercatrici del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), dell’Università della Tuscia, dell’Istituto nazionale di astrofisica (INAF), dell’Università Sapienza di Roma, con la collaborazione dell’Ente Parco nazionale Isola di Pantelleria e finanziata dall’Agenzia spaziale italiana (ASI)  con i progetti ‘ExoMars’ e ‘Migliora’.

“Il lago ‘Bagno dell’Acqua’ si distingue per la combinazione unica di alta alcalinità, attività idrotermale, diversità mineralogica e attività microbica. Utilizzando l’acqua del lago, ricca di minerali, siamo riusciti a sintetizzare molecole di RNA (una delle due molecole, assieme al DNA, fondamentali per la vita) a partire da alcuni suoi precursori: i nucleotidi contenenti la guanina, una delle quattro famose basi azotate”,
spiega Giovanna Costanzo, biologa molecolare dell’Istituto di biologia e patologia molecolari del CNR (CNR-IBPM).
“A Pantelleria, in un’ambiente esterno al laboratorio, dove solitamente si svolgono le nostre attività, abbiamo verificato la possibilità di condurre esperimenti di astrobiologia, sfruttando le proprietà chimiche e fisiche di un lago con caratteristiche simili sia a quelle ipotizzate per la Terra primitiva, ovvero il nostro pianeta circa 4,5 miliardi di anni fa, che a quelle rilevate in aree marziane di grande interesse astrobiologico, come il cratere Jezero e la regione di Oxia Planum, attualmente considerati prioritari per la ricerca di antiche forme di vita”.
I ricercatori sono riusciti a sintetizzare non solo l’RNA, ma anche tutte le basi azotate presenti sia nel DNA che nell’RNA.
“Inoltre, sono stati ottenuti anche componenti del PNA (Acido Peptidico Nucleico), un potenziale precursore degli attuali acidi nucleici, che potrebbe aver rappresentato un ponte tra genetica e metabolismo” spiega il chimico organico Raffaele Saladino dell’Università della Tuscia di Viterbo. “La vita, pertanto, avrebbe potuto avere una modalità di origine chimica comune sia nel lontano passato di Marte che sulla Terra primitiva”.
Il progetto Migliora (‘Modeling Chemical Complexity: all’Origine di questa e di altre Vite per una visione aggiornata delle missioni spaziali’) si inserisce all’interno di un programma nazionale di astrobiologia che Asi sta coordinando già dal 2020.
“I risultati di questo progetto costituiscono un tassello fondamentale nella conoscenza dell’origine della vita sulla Terra” sottolinea Claudia Pacelli, Responsabile Scientifico del progetto per Asi. “Riteniamo che queste ricerche contribuiranno inoltre a rafforzare il ruolo della comunità scientifica italiana nel contesto della ricerca astrobiologica internazionale”.
microbialite Pantelleria
microbialite Pantelleria
Riferimenti bibliografici:
Valentina Ubertini, Eleonora Mancin, Enrico Bruschini, Marco Ferrari, Agnese Piacentini, Stefano Fazi, Cristina Mazzoni, Bruno Mattia Bizzarri, Raffaele Saladino, Giovanna Costanzo, “The “Bagno dell’Acqua” Lake as a Novel Mars-like Analogue: Prebiotic Syntheses of PNA and RNA Building Blocks and Oligomers”, International Journal of Molecular Sciences, 2025, 26, 6952. https://doi.org/10.3390/ijms26146952
Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
L’Italia al centro della rivoluzione tecnologica, con l’Alleanza Quantistica Italiana

L’intesa nazionale, che coinvolge otto atenei e centri di ricerca, nasce per promuovere le eccellenze italiane nel campo delle tecnologie quantistiche, grazie a un ecosistema coeso, capace di competere a livello internazionale, in linea con la nuova Strategia Italiana per le Scienze e Tecnologie Quantistiche.

 

L’Italia protagonista della rivoluzione quantistica. È la visione da cui prende vita l’Alleanza Quantistica Italiana (AQI), un’intesa nazionale che riunisce università e istituti di ricerca, industrie e istituzioni pubbliche per creare un ecosistema unitario e coeso, capace di competere a livello internazionale e promuovere l’eccellenza italiana nel campo delle tecnologie quantistiche.
L’Alleanza, che si muove in linea con la nuova Strategia Italiana per le Scienze e Tecnologie Quantistiche, coinvolge al momento otto partner: Università di Bologna, CINECA, INRIM – Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica, Università di Padova, INAF – Istituto Nazionale di Astrofisica, INFN – Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, Università di Pavia e Politecnico di Milano.
Altri soggetti hanno manifestato interesse per l’iniziativa e l’Associazione sta già raccogliendo nuove adesioni da tutte le istituzioni rilevanti, in modo da ampliare l’Alleanza e avere una voce comune nel costruire l’ecosistema futuro.
Quello della quantistica è un settore di frontiera e in rapido sviluppo, che promette di dare vita a nuove tecnologie strategiche, con impatti potenzialmente rivoluzionari in campo industriale ed economico, nel settore della formazione e per lo sviluppo sociale. Si parla di innovazioni come computer quantistici, comunicazioni quantistiche sicure e sensoristica quantistica di precisione, reti quantistiche e applicazioni nel mondo quantistico dell’intelligenza artificiale.
In questa prospettiva, l’Alleanza Quantistica Italiana nasce per promuovere le eccellenze nazionali nel campo delle tecnologie quantistiche, integrando mondo accademico, scientifico, industriale e istituzionale in un’unica visione strategica. L’obiettivo è evitare la frammentazione delle risorse, superare le inefficienze operative e garantire che l’Italia possa contribuire come attore di primo piano alla nascita delle tecnologie quantistiche più avanzate al mondo.
A pochi giorni dall’annuncio della nuova Strategia Europea e della prima Strategia Italiana per le Scienze e Tecnologie Quantistiche, l’Alleanza Quantistica Italiana si posiziona come attore centrale. Un soggetto aperto al contributo di tutte le accademie, enti di ricerca e attori del settore privato che, con le loro competenze ed eccellenze, vogliano contribuire al panorama italiano in maniera integrata, creando sinergie strategiche per lo sviluppo di progetti, la formazione delle competenze e la promozione del trasferimento tecnologico.
Testo dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica –  INAF