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Istituto Nazionale di Astrofisica

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QUEL PICCOLO, GRANDE PUNTO ROSSO: ECCO BiRD, IL BUCO NERO CRESCIUTO IN FRETTA 10 MILIARDI DI ANNI FA, IDENTIFICATO NEL CAMPO CIRCOSTANTE IL QUASAR J1030+0524
LA SCOPERTA ITALIANA CON IL JAMES WEBB SPACE TELESCOPE

Al “mezzogiorno cosmico”, quando l’universo brillava come un enorme laboratorio in piena attività, è stato scoperto un raro punto rosso. Si chiama BiRD, acronimo di big red dot (in italiano, grande punto rosso), il nuovo oggetto cosmico scoperto con il James Webb Space Telescope da un team internazionale guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). L’oggetto è un raro rappresentante della misteriosa classe dei little red dot (LRD o in italiano piccoli punti rossi), identificati solo recentemente grazie alle capacità infrarosse del satellite delle agenzie spaziali statunitense ed europea NASA ed ESA. A produrre la luminosità di BiRD ci sarebbe un buco nero supermassiccio della massa di 100 milioni di volte quella del nostro Sole. La scoperta è in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Osservando una regione remota del cielo, in un’epoca cosmica che gli addetti ai lavori chiamano “mezzogiorno cosmico” – ovvero un periodo compreso tra 10 e 11 miliardi di anni fa – è stato individuato un insolito punto rosso: non è una stella né un pianeta, eppure brilla con caratteristiche uniche. Grazie al James Webb Space Telescope (JWST), questa scoperta apre una finestra sulle prime fasi di crescita dei buchi neri supermassicci e rivela dinamiche finora nascoste dell’universo, offrendo dati che mettono alla prova gli attuali modelli teorici.

Immagine di BiRD - I "puntini rossi" individuati nella regione di cielo attorno al quasar J1030. Bird è l'oggetto al centro: spicca rispetto agli altri puntini rossi perché più vicino e, dunque, più brillante. Crediti: F. Loiacono, NASA, ESA, CSA
Immagine di BiRD – I “puntini rossi” individuati nella regione di cielo attorno al quasar J1030. Bird è l’oggetto al centro: spicca rispetto agli altri puntini rossi perché più vicino e, dunque, più brillante. Crediti: F. Loiacono, NASA, ESA, CSA

BiRD è stato identificato inaspettatamente nel campo circostante il quasar J1030+0524, una regione del cielo studiata da anni dal gruppo INAF. Analizzando con attenzione immagini e spettri ottenuti con lo strumento NIRCam a bordo di JWST, il team di ricerca ha rilevato una sorgente insolita: un punto brillante, mai rilevato nei cataloghi X e radio precedenti.

Secondo gli autori, questa scoperta rappresenta un’occasione unica per fare luce su una popolazione di oggetti cosmici ancora sconosciuta e fondamentale per comprendere l’origine e l’evoluzione dei buchi neri nell’universo.

“L’area osservata è quella attorno al quasar J1030. A partire dalle immagini calibrate, è stato elaborato un catalogo delle sorgenti presenti nel campo. È lì che ci siamo accorti di BiRD: un oggetto puntiforme, brillante, che però non era una stella e non compariva nei cataloghi X e radio già esistenti”, spiega Federica Loiacono, assegnista di ricerca INAF alla guida del team e prima autrice dello studio, “Io ho analizzato il suo spettro, che ci racconta la composizione chimica e alcune delle proprietà fisiche dell’oggetto. Abbiamo trovato segnali chiari dell’idrogeno – in particolare la riga chiamata Paschen gamma (un’impronta luminosa che rivela la presenza di idrogeno ionizzato) – e dell’elio, visibile anche in assorbimento. Questi dettagli ci hanno permesso di stimare la distanza di BiRD, scoprendo che si trova relativamente vicino a noi rispetto alla maggior parte dei little red dot finora conosciuti. Sempre dall’analisi dello spettro di questa sorgente, abbiamo potuto stimare la massa del buco nero centrale: circa 100 milioni di volte quella del Sole”.

I little red dot sono sorgenti celesti molto compatte e rosse, con proprietà spettroscopiche insolite. Si pensa che siano legate a buchi neri supermassicci in fase di crescita, ma la loro natura resta ancora misteriosa. La loro scoperta è stata possibile solo grazie alla sensibilità infrarossa del telescopio spaziale JWST. Un aspetto sorprendente è la loro assenza nelle osservazioni ai raggi X: un comportamento inatteso, visto che i buchi neri in accrescimento di solito emettono intensamente proprio in quella banda. Secondo alcune teorie, i LRD potrebbero rappresentare le prime fasi evolutive dei “semi” da cui si formano i buchi neri supermassicci, ancora nascosti da spessi strati di gas che bloccano gran parte della radiazione emessa nelle loro vicinanze.

“Prima di BiRD, a questa stessa distanza cosmica erano noti solo altri due LRD con le stesse caratteristiche spettrali, comprese le righe di elio e la Paschen gamma”, prosegue Loiacono. “Confrontando le proprietà spettrali di BiRD con quelle degli altri due, abbiamo trovato forti analogie: la larghezza delle righe, l’assorbimento, la massa del buco nero e la densità del gas sono molto simili. Questo ci ha portato a concludere che BiRD appartiene alla stessa famiglia di LRD”.

Il gruppo di ricerca ha stimato l’abbondanza dei LRD nell’universo in corrispondenza del “mezzogiorno cosmico”. I risultati hanno rivelato che questi oggetti erano ancora numerosi in quel periodo, contraddicendo studi precedenti che invece indicavano un drastico calo già in epoche ancora più antiche. Una scoperta che obbliga a rivedere i modelli sull’evoluzione dei LRD e, di conseguenza, di quella dei buchi neri supermassicci.

“La sfida ora è estendere lo studio a un numero maggiore di LRD vicini, che possiamo studiare più nel dettaglio rispetto a quelli distanti, per costruire un quadro più completo”, conclude Loiacono. “JWST ha aperto una nuova frontiera nell’astrofisica extragalattica, rivelandoci oggetti di cui non sospettavamo neppure l’esistenza, e siamo solo all’inizio di questa avventura”.

Federica Loiacono
Federica Loiacono

Lo studio ha coinvolto anche altri istituti come l’Università di Bologna, STSCI, Johns Hopkins University, Universitat de Barcelona, ICREA, Clemson University, Eureka Scientific, Yale University, Università degli Studi Roma Tre, University of Cambridge (UK), University College London, Max-Planck-Institut für extraterrestrische Physik e si basa su dati spettroscopici e fotometrici ottenuti con NIRCam e accuratamente calibrati e interpretati dal team italiano.


 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “A big red dot at cosmic noon” di Federica Loiacono, Roberto Gilli, Marco Mignoli, Giovanni Mazzolari, Roberto Decarli, Marcella Brusa, Francesco Calura, Marco Chiaberge, Andrea Comastri, Quirino D’Amato, Kazushi Iwasawa, Ignas Juodžbalis, Giorgio Lanzuisi, Roberto Maiolino, Stefano Marchesi, Colin Norman, Alessandro Peca, Isabella Prandoni, Matteo Sapori, Matilde Signorini, Paolo Tozzi, Eros Vanzella, Cristian Vignali, Fabio Vito, e Gianni Zamorani, è stato accettato per la pubblicazione su Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

SN 2024bch, UNA SUPERNOVA ASOCIALE: L’ESPLOSIONE STELLARE CHE RIFIUTA L’INTERAZIONE

Uno studio a guida INAF analizza la radiazione emessa dalla supernova SN 2024bch e propone una spiegazione alternativa delle sue caratteristiche osservate nelle fasi iniziali, mettendo in discussione la classificazione tradizionale di queste immani esplosioni stellari. Il lavoro, condotto da un gruppo tutto italiano, ha importanti implicazioni nell’ambito dell’astronomia multimessaggera.

diagramma schematico, non in scala, del sito dell’esplosione di SN 2024bch. La supernova è indicata dalla stella al centro, mentre il materiale circumstellare che emette le righe strette è la regione blu più lontana. Le parabole rappresentano la luce emessa dalla supernova a diverse epoche e intercettano il mezzo circumstellare finché non raggiungono l’estremità opposta all’osservatore, circa 2,4 giorni dopo l’esplosione. Questa semplice geometria riesce a spiegare in modo molto efficace l’evoluzione del transiente nell’ipotesi in cui gli ejecta non interagiscono con il mezzo. Crediti: L. Tartaglia et al. / A&A 2025
diagramma schematico, non in scala, del sito dell’esplosione di SN 2024bch. La supernova è indicata dalla stella al centro, mentre il materiale circumstellare che emette le righe strette è la regione blu più lontana. Le parabole rappresentano la luce emessa dalla supernova a diverse epoche e intercettano il mezzo circumstellare finché non raggiungono l’estremità opposta all’osservatore, circa 2,4 giorni dopo l’esplosione. Questa semplice geometria riesce a spiegare in modo molto efficace l’evoluzione del transiente nell’ipotesi in cui gli ejecta non interagiscono con il mezzo. Crediti: L. Tartaglia et al. / A&A 2025

Un team di ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), con la partecipazione delle Università di Padova e dell’Aquila, ha analizzato in dettaglio le proprietà fotometriche e spettroscopiche della supernova di tipo II SN 2024bch, esplosa a circa 65 milioni di anni luce dalla Terra e osservata nel febbraio 2024. Lo studio, i cui risultati sono stati accettati per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics, mette in discussione un assunto fondamentale nello studio di questa classe di esplosioni stellari: la stretta relazione tra la presenza di righe strette negli spettri della radiazione emessa dalla supernova e l’interazione violenta degli ejecta (addensamenti di materiale stellare scagliati dall’esplosione della stella progenitrice) con il denso gas circostante (o mezzo circumstellare).

immagine a colori della galassia ospite di SN 2024bch (la supernova è indicata in verde), ottenuta sommando tre immagini in diversi filtri, acquisite con la camera AFOSC del telescopio Copernico, presso la stazione osservativa INAF di Asiago, gestita dall’Osservatorio Astronomico di Padova. Crediti: A. Reguitti / INAF
immagine a colori della galassia ospite di SN 2024bch (la supernova è indicata in verde), ottenuta sommando tre immagini in diversi filtri, acquisite con la camera AFOSC del telescopio Copernico, presso la stazione osservativa INAF di Asiago, gestita dall’Osservatorio Astronomico di Padova. Crediti: A. Reguitti / INAF

I 140 giorni di osservazione della supernova avevano rivelato righe di emissione molto strette nei suoi spettri iniziali. Questa caratteristica è stata finora la “prova regina” per classificare una supernova come “interagente”, ossia avvolta da un denso guscio di gas. Tali supernove sono considerate possibili sorgenti di neutrini ad alta energia. Tuttavia, l’analisi condotta dal team italiano ha dimostrato che l’energia sprigionata non deriva affatto dall’interazione tra il materiale esploso e quel guscio di gas. La supernova mostra un comportamento che, paragonato a quello degli esseri umani, si potrebbe definire “da asociale”, fornendo energia quasi esclusivamente tramite processi radioattivi tradizionali e non attraverso violenti scontri di materia. Per spiegare il mistero delle righe strette, il team ha proposto un meccanismo diverso: la cosiddetta “fluorescenza di Bowen”.

“Abbiamo applicato uno sguardo non tradizionale e privo di pregiudizi”, spiega Leonardo Tartaglia, ricercatore dell’INAF e primo autore dello studio. “Per la prima volta in questo tipo di transienti, dimostriamo che il meccanismo principale è la ‘fluorescenza di Bowen’, un fenomeno noto fin dalla prima metà del XX secolo che non era mai stato preso in considerazione nello studio di oggetti simili. Il nostro scenario descrive con grande precisione tutte le fasi evolutive della supernova”.

Di cosa si tratta? Questo fenomeno può essere immaginato come un’eco luminosa ad alta energia: l’intensa luce ultravioletta prodotta dall’esplosione colpisce ed eccita gli atomi di elio presenti nel materiale attorno alla supernova. Questi atomi, invece di rilasciare direttamente l’energia, la trasferiscono ad altri elementi chimici circostanti, come l’ossigeno e l’azoto. Ed è proprio questo trasferimento di energia a innescare l’emissione di righe strette che il team di ricerca ha osservato, senza che sia necessaria alcuna interazione fisica violenta tra il materiale espulso e il gas esterno.

La scoperta ha quindi imposto agli scienziati di ricalibrare i modelli finora utilizzati e di escludere una parte delle supernove simili dalla lista delle possibili sorgenti di neutrini.

“Con il nostro studio evidenziamo che, per almeno una frazione di questi transienti, l’interazione non è il motore principale delle emissioni e che ciò ha importanti implicazioni anche per l’astronomia multi-messaggera. Non mostrando evidenza di interazione, la supernova SN 2024bch non presenta le condizioni fisiche necessarie per l’emissione di neutrini ad alta energia”, conclude Tartaglia.

La campagna osservativa della supernova SN 2024bch è stata condotta tramite una rete di strumenti che ha consentito di raccogliere dati fotometrici e spettroscopici. Gran parte delle osservazioni ottiche è stata effettuata con gli strumenti dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, in particolare presso l’INAF di Padova (con il telescopio Copernico da 182 cm e lo Schmidt da 92 cm nella sede di Asiago). Dati aggiuntivi sono stati forniti dal Wide-field Optical Telescope (WOT), il telescopio Schmidt da 67/91 cm installato presso la stazione osservativa di Campo Imperatore dell’INAF d’Abruzzo. Il monitoraggio in banda ultravioletta è stato effettuato dal satellite Swift.

Il lavoro, interamente a firma italiana, è un esempio di come la ricerca scientifica necessiti di un approccio critico, mettendo in discussione le classificazioni tradizionali per ottenere progressi significativi.

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Signatures of anti-social mass-loss in the ordinary Type II SN 2024bch — A non-interacting supernova with early high-ionisation features”, di Leonardo Tartaglia, Giorgio Valerin, Andrea Pastorello, Andrea Reguitti, Stefano Benetti, Lina Tomasella, Paolo Ochner, Enzo Brocato, Luigi Condò, Fiore De Luise, Francesca Onori, Irene Salmaso, è stato accettato per la pubblicazione su Astronomy & Astrophysics.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

JVAS B1938+666: UN SOTTILISSIMO ARCO GRAVITAZIONALE RIVELA UN ELUSIVO CORPO CELESTE A MILIARDI DI ANNI LUCE

Grazie alla rete mondiale di radiotelescopi VLBI – tra cui la parabola INAF di Medicina – e alla tecnica delle cosiddette lenti gravitazionali è stata ottenuta l’immagine più nitida mai realizzata di un arco gravitazionale. Dalle osservazioni è emersa la presenza del più piccolo oggetto celeste mai individuato a distanze cosmologiche grazie al solo effetto della forza di gravità.

Immagine in falsi colori dell’arco gravitazionale del sistema JVAS B1938+666 osservato alla frequenza radio di 1,7 GHz con la tecnica VLBI. Crediti: J. P. McKean et al. / MNRAS 2025
Immagine in falsi colori dell’arco gravitazionale del sistema JVAS B1938+666 osservato alla frequenza radio di 1,7 GHz con la tecnica VLBI. Crediti: J. P. McKean et al. / MNRAS 2025

Grazie a una rete mondiale di radiotelescopi, con la partecipazione dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), un team internazionale ha ottenuto l’immagine radio più definita mai realizzata di un arco gravitazionale prodotto dalla deformazione delle onde radio provenienti da una galassia a 11 miliardi di anni luce, riuscendo a ricostruirne la struttura reale. Dalla stessa serie di osservazioni è emersa anche la presenza del più piccolo oggetto celeste mai individuato a distanze cosmologiche grazie al solo effetto della forza di gravità. I due risultati, pubblicati oggi rispettivamente su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society e su Nature Astronomy, aprono nuove prospettive nello studio delle galassie lontane e della materia oscura.

Il primo studio presenta osservazioni ad altissima risoluzione della lente gravitazionale JVAS B1938+666, già nota da tempo: una galassia ellittica massiccia in “primo piano”, a circa 6,5 miliardi di anni luce, agisce come lente gravitazionale e deforma la radiazione ottica e radio di una sorgente ancora più distante, a oltre 11 miliardi di anni luce, creando immagini multiple e un anello di Einstein quasi completo nel vicino infrarosso.

Il fenomeno della lente gravitazionale, previsto dalla relatività generale di Einstein, si verifica quando una massa molto grande curva lo spazio-tempo circostante. La luce proveniente da un oggetto posto dietro a questa massa viene deviata, come se passasse attraverso una lente ottica, producendo immagini multiple, archi o persino anelli. Lo studio di queste immagini distorte è oggi uno degli strumenti più potenti per indagare la materia oscura, che non possiamo osservare direttamente, ma che rivela la sua presenza solo attraverso gli effetti della forza di gravità.

In questo caso la lente gravitazionale è stata osservata con la tecnica del VLBI (Very Long Baseline Interferometry), collegando 22 radiotelescopi sparsi in tutto il mondo: l’European VLBI Network, il Very Long Baseline Array americano e il Green Bank Telescope negli Stati Uniti. Tra gli strumenti utilizzati c’è anche la parabola da 32 metri “Gavril Grueff” di Medicina (vicino a Bologna), gestita dall’INAF. La correlazione delle osservazioni di tutti questi radiotelescopi è stata effettuata presso JIVE (il Joint Institute for VLBI-ERIC nei Paesi Bassi), di cui INAF è membro. Questa tecnica consente di simulare un’unica gigantesca antenna virtuale con diametro pari alla distanza tra le parabole più distanti e, di conseguenza, di raggiungere un dettaglio estremo nelle osservazioni, pari a un millesimo di secondo d’arco. Alla distanza della radiosorgente osservata, questo equivale a distinguere strutture grandi appena una trentina di anni luce, cioè una decina di volte la distanza che separa il Sole dalla sua stella più vicina.

Le osservazioni di JVAS B1938+666 condotte alla frequenza radio di 1,7 GHz, per un totale di 14 ore, hanno rivelato un arco gravitazionale sottilissimo e quasi completo, il più definito mai osservato con questa tecnica. Il team è poi riuscito a ricostruire la morfologia reale della radiosorgente di sfondo, modellando con grande precisione la distribuzione di massa della galassia-lente.

I risultati indicano che la sorgente, situata a 11 miliardi di anni luce, è una radiosorgente molto compatta e simmetrica, considerata una fase giovanile dell’attività di un buco nero supermassiccio. La struttura ricostruita appare estesa per circa 2000 anni luce, con due regioni di emissione radio poste ai lati della galassia ospite, prive di un nucleo centrale evidente e caratterizzate da zone brillanti ai bordi.

“Questo articolo è il primo di una serie e presenta le osservazioni VLBI, che sono state particolarmente complesse – afferma Cristiana Spingola, ricercatrice INAF e co-autrice dello studio. “Si tratta di un aspetto cruciale di questo lavoro: abbiamo utilizzato 22 antenne – tra cui la parabola di Medicina – il che ha richiesto un notevole impegno sia nella correlazione dei dati sia nella calibrazione”.

“Fin dalla prima immagine ad alta risoluzione, abbiamo immediatamente notato una certa anomalia nell’arco gravitazionale, segno rivelatore che eravamo sulla buona strada. Solo la presenza di un altro piccolo accumulo di massa tra noi e la radiogalassia lontana avrebbe potuto causare questo effetto” – aggiunge John McKean, ricercatore all’Università di Groningen e all’Università di Pretoria che ha coordinato le osservazioni ed è primo autore di questo articolo.

Il secondo studio, pubblicato su Nature Astronomy e basato sullo stesso gruppo di osservazioni VLBI delle sottili distorsioni dell’arco gravitazionale, ha portato all’identificazione del più piccolo oggetto mai individuato nell’Universo lontano grazie al solo effetto della forza di gravità.

Sovrapposizione dell'emissione infrarossa (in bianco e nero) con l'emissione radio (a colori) dell’arco gravitazionale del sistema JVAS B1938+666. L'oggetto oscuro e di piccola massa si trova nel vuoto nella parte luminosa dell'arco sul lato destro. Crediti: Keck/EVN/GBT/VLBA/John McKean
Sovrapposizione dell’emissione infrarossa (in bianco e nero) con l’emissione radio (a colori) dell’arco gravitazionale del sistema JVAS B1938+666. L’oggetto oscuro e di piccola massa si trova nel vuoto nella parte luminosa dell’arco sul lato destro. Crediti: Keck/EVN/GBT/VLBA/John McKean

Per analizzare l’enorme e complesso set di dati, il team ha dovuto sviluppare nuovi algoritmi avanzati che potessero essere eseguiti su supercomputer, confrontando modelli di massa per l’oggetto che agisce da lente gravitazionale con le osservazioni reali. La piccola anomalia riscontrata nell’arco gravitazionale rappresenta la firma inequivocabile della presenza di massa addizionale lungo la linea di vista, troppo debole e compatta per essere osservata direttamente.

“I dati sono così grandi e complessi che abbiamo dovuto sviluppare nuovi approcci numerici per modellarli. Non è stato semplice, perché non era mai stato fatto prima”, dice Simona Vegetti dell’Istituto Max Planck per l’astrofisica. “Ci aspettiamo che ogni galassia, compresa la nostra Via Lattea, sia piena di ammassi di materia oscura, ma trovarli e convincere la comunità scientifica della loro esistenza richiede un’enorme quantità di calcoli”.

Immagine in falsi colori della sorgente compatta con massa pari a 1 milione di soli, identificata nello studio pubblicato su Nature Astronomy. Crediti: D. M. Powell, et al. / Nature Astronomy
Immagine in falsi colori della sorgente compatta con massa pari a 1 milione di soli, identificata nello studio pubblicato su Nature Astronomy. Crediti: D. M. Powell, et al. / Nature Astronomy

Si tratta di una concentrazione di massa probabilmente situata alla stessa distanza della galassia massiccia che agisce da lente gravitazionale, ossia circa 6,5 miliardi di anni luce dalla Terra. La sua massa è di circa un milione di Soli, un valore di gran lunga inferiore ai mille miliardi tipici di una galassia. La scoperta è rivoluzionaria: mai prima d’ora era stato possibile identificare un oggetto di massa così ridotta a una distanza cosmologica così grande.

“È la prima volta che un oggetto di massa così ridotta viene rilevato a una distanza cosmologica basandosi unicamente sul suo effetto gravitazionale”, aggiunge Spingola, coinvolta anche in questo lavoro. “La possibilità di individuare corpi oscuri di questa scala rappresenta un test cruciale per comprendere la natura della materia oscura. “Infatti, ci si aspetta la presenza di oggetti di questa massa in scenari con materia oscura fredda, cioè coerenti con il modello cosmologico standard”.

Cristiana Spingola, co-autrice dello studio e ricercatrice INAF presso l’Istituto di Radioastronomia, Bologna. Crediti: INAF
Cristiana Spingola, co-autrice dello studio e ricercatrice INAF presso l’Istituto di Radioastronomia, Bologna. Crediti: INAF

Ulteriori osservazioni e analisi sono in corso per chiarire la natura di questo oggetto celeste: potrebbe trattarsi di un alone di materia oscura, di un ammasso stellare molto compatto o di una piccola galassia nana spenta. Il team sta anche cercando altri casi di questo tipo in altre parti dell’universo utilizzando la stessa tecnica e, se verranno trovati, alcune teorie sulla materia oscura potrebbero essere definitivamente escluse.


 

L’articolo “An extended and extremely thin gravitational arc from a lensed compact symmetric object at redshift 2.059”, di J. P. McKean, C. Spingola, D. M. Powell and S. Vegetti è pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society
L’articolo “A million-solar-mass object detected at cosmological distance using gravitational imaging”, di D. M. Powell, J. P. McKean, S. Vegetti, C. Spingola, S. D. M. White, C. D. Fassnacht è stato pubblicato sulla rivista Nature Astronomy

Per altre informazioni:
Il Joint Institute for VLBI ERIC (JIVE) ha come missione primaria quella di gestire e sviluppare il correlatore dei dati dell’European VLBI Network, un potente supercomputer che combina i segnali dei radiotelescopi dislocati in tutto il pianeta. Fondato nel 1993, JIVE è diventato nel 2015 un Consorzio Europeo per le Infrastrutture di Ricerca (ERIC), con sette paesi membri: Francia, Italia, Lettonia, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna e Svezia. Ulteriore supporto è fornito da istituti partner in Cina, Germania e Sudafrica. La sede del JIVE si trova negli uffici dell’Istituto Olandese per la Radioastronomia (ASTRON) nei Paesi Bassi. L’European VLBI Network (EVN) è una rete interferometrica di radiotelescopi distribuiti in Europa, Asia, Sudafrica e Americhe, che svolge osservazioni radioastronomiche uniche e ad alta risoluzione di sorgenti radio cosmiche. Fondato nel 1980, l’EVN è cresciuto fino a diventare la rete VLBI più sensibile al mondo, includendo oltre 20 telescopi individuali, tra cui alcuni dei radiotelescopi più grandi e sensibili a livello globale. L’EVN è composto da 13 Istituti Membri Effettivi e 5 Istituti Membri Associati.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

DA GALILEO AL FUTURO DELL’ASTRONOMIA: UNA CELEBRAZIONE PER L’AVVIO DELL’OSSERVATORIO CTAO (CHERENKOV TELESCOPE ARRAY OBSERVATORY)

Padova, 06 ottobre 2025 – Oggi, presso la Sala dei Giganti dell’Università di Padova si è celebrato l’avvio delle attività del Cherenkov Telescope Array Observatory (CTAO) che, una volta completato, sarà il più grande e potente al mondo per l’osservazione dell’Universo nello spettro dei raggi gamma.  La cerimonia, voluta dal Ministero dell’Università e della Ricerca, ha visto la presenza del Ministro Anna Maria Bernini e la partecipazione di autorità e delegati dei Membri Fondatori del CTAO.

“Con l’avvio delle attività del Cherenkov Telescope Array Observatory – dichiara il Ministro dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini – celebriamo un momento di grande orgoglio per la ricerca e per l’Italia. Padova, la città dove Galileo trascorse gli anni più proficui per i suoi studi, segnando l’inizio di una nuova stagione per la scienza, oggi rafforza il suo ruolo di protagonista dell’innovazione grazie a questo progetto internazionale di straordinaria portata. Il CTAO conferma la capacità dell’Italia di essere centrale nella costruzione delle più avanzate infrastrutture di ricerca. Il nostro Paese non è soltanto tra i fondatori del CTAO ERIC, ma continua a offrire un contributo decisivo in termini di competenze e tecnologie. Il Veneto concorre così a rafforzare la competitività dell’intero sistema Paese, creando opportunità per i giovani ricercatori e aprendo nuove strade di collaborazione a livello globale. È così che onoriamo la nostra tradizione scientifica, da Galileo ad oggi, guardando al futuro con la fiducia di chi sa che la conoscenza è la chiave del progresso”.

Il CTAO ERIC (acronimo di Consorzio Europeo di Infrastrutture di Ricerca CTAO, forma giuridica di diritto comunitario) vede il supporto internazionale di 10 Paesi e di un’organizzazione intergovernativa. Tra essi l’Italia che, oltre a esserne tra i Membri Fondatori e anche il Paese che ha guidato e ospitato i negoziati per la sua costituzione, ospita la sede centrale del CTAO e contribuisce allo sviluppo tecnologico, alla costruzione e alle operazioni dell’Osservatorio.

“Il CTAO è diventato un ERIC, un’organizzazione europea con una portata e un sostegno che si estendono oltre il continente. Con questo passo, siamo stati in grado di avviare attività di costruzione su larga scala nel nostro sito meridionale e di aumentare il nostro supporto per le attività del sito settentrionale. Tutto ciò è stato possibile solo grazie al sostegno di un numero sempre crescente di membri da tutto il mondo, ai quali siamo grati”, spiega Stuart McMuldroch, Direttore Generale del CTAO. “È un piacere essere qui oggi per celebrare questo progresso internazionale che porterà a importanti scoperte scientifiche”.

L’ambizioso progetto scientifico e tecnologico del CTAO prevede la costruzione di una schiera di oltre 60 telescopi di tre differenti dimensioni distribuiti in due siti, presso l’isola di La Palma (arcipelago delle Canarie, Spagna) per l’emisfero boreale e in Cile per quello australe. Presso il sito CTAO-Nord è attualmente in fase di collaudo il prototipo dei telescopi più grandi, cosiddetti Large-Sized Telescope o LST, che hanno uno specchio principale di 23 metri di diametro, insieme ad altri tre LST in diversi stadi di costruzione. Nei prossimi anni saranno costruiti altri tre LST e un telescopio di dimensioni intermedie (Medium-Sized Telescope, MST), con uno specchio principale di circa 12 metri. Presso il sito CTAO-Sud, presto inizieranno i lavori di installazione dei primi cinque telescopi di piccola taglia, denominati Small-Sized Telescopes (SST) e due MST, la cui consegna è prevista il prossimo anno. L’Osservatorio potrà gestire configurazioni intermedie di telescopi già a partire dal 2027. Queste sottomatrici della configurazione finale saranno già più sensibili di qualsiasi analogo strumento oggi operativo, avvicinando l’Osservatorio ai suoi primi risultati scientifici.

Il CTAO studierà le sorgenti cosmiche più violente dell’Universo, come buchi neri, pulsar e supernove, per comprendere i fenomeni fisici ad altissime energie che li governano e fornire una visione senza precedenti dell’Universo. Obiettivi che saranno raggiunti grazie allo sviluppo e all’utilizzo di tecnologie all’avanguardia e sistemi informatici di raccolta, analisi e archiviazione di enormi quantità di dati di ultima generazione.

“L’Istituto Nazionale di Astrofisica anche in questo caso fa gioco di squadra, sia nella collaborazione internazionale, sia con la continua e proficua collaborazione con Enti ed Università italiane”, dice Roberto Ragazzoni, Presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. “Di particolare menzione la collaborazione con l’INFN, coinvolgendo in maniera sinergica le diverse strutture dell’INAF, valorizzandone le specificità e le competenze guadagnate nel tempo. Questo nuovo osservatorio dedicato alla radiazione elettromagnetica di alta energia rappresenta un altro importante tassello nella creazione di infrastrutture con capacità multimessaggera”.

Il CTAO è anche un progetto che produrrà Big Data e genererà centinaia di petabyte di dati in un anno. Basandosi sul suo impegno verso l’Open Science, il CTAO sarà il primo osservatorio di raggi gamma del suo genere a operare come osservatorio aperto, guidato da proposte, fornendo accesso pubblico ai suoi dati scientifici di alto livello e ai prodotti software. Il trattamento dei dati sarà gestito presso il suo Centro di Gestione dei Dati Scientifici in Germania.

Il CTAO è stato riconosciuto come “Punto di Riferimento” nella Roadmap 2018 del Forum Europeo Strategico sulle Infrastrutture di Ricerca (ESFRI) ed è stato classificato come la principale priorità tra le nuove infrastrutture da terra nella Roadmap 2022-2035 di ASTRONET. I membri del CTAO ERIC sono Austria, Croazia, European Southern Observatory (ESO), Francia, Germania, Italia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Spagna, e Svizzera. Altri Paesi (Australia, Brasile, Giappone, Stati Uniti e Sudafrica) sono attualmente impegnati nel processo di adesione al CTAO ERIC con lo status di Strategic Partner o Third Party.

rendering dei telescopi dell'osservatorio CTAO
Cherenkov Telescope Array Observatory – CTAO: avvio delle attività dell’osservatorio che sarà il più grande e potente al mondo per l’osservazione dell’Universo nello spettro dei raggi gamma. rendering dei telescopi CTAO

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

EINSTEIN PROBE: RIVELATA LA COMPLESSITÀ DEI FLASH DI RAGGI X NELL’EVENTO EP241021a

Un team di ricerca, con la guida e il contributo fondamentale dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha di recente analizzato nel dettaglio l’evento EP241021a, una sorgente di raggi X nota come flash di raggi X (X-Ray Flash o XRF) scoperta il 21 ottobre 2024 dalla missione cinese Einstein Probe. La ricerca, frutto di un’imponente campagna osservativa multibanda accettata per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics, getta nuova luce sull’origine e la natura di questi misteriosi e fugaci transienti cosmici, storicamente legati ai più noti lampi di raggi gamma (Gamma Ray Burst o GRB).

“Cugini” dei transienti veloci di raggi X (FXRT, dall’inglese fast X-ray transient), gli XRF sono brevissime esplosioni di raggi X, con durata che varia dai 10 secondi ai 10 minuti, prodotte da sorgenti extragalattiche. Identificati nei primi anni ’90 dal satellite italo-olandese BeppoSAX, questi eventi condividono molte caratteristiche con i lampi di raggi gamma, ma si differenziano per spettri più “soffici” e un picco energetico meno intenso. Lo strumento Wide-field X-ray Telescope (WXT) a bordo del satellite Einstein Probe, caratterizzato da una capacità unica di osservazione di vaste regioni del cielo in raggi X ad alta sensibilità, ha permesso di rivelare nuovi flash di raggi X e di studiarne in modo accurato la complessa emissione.

 Un disegno dello scenario proposto dal team di ricerca per EP241021a. A piccoli angoli polari viene prodotto un getto relativistico con un nucleo e ali ampie, mentre a grandi angoli polari il getto è circondato da un bozzolo strutturato. La linea di vista dell’osservatore si trova all’interno delle ali del getto. Crediti: G. Gianfagna (INAF) / A&A 2025
Un disegno dello scenario proposto dal team di ricerca per EP241021a. A piccoli angoli polari viene prodotto un getto relativistico con un nucleo e ali ampie, mentre a grandi angoli polari il getto è circondato da un bozzolo strutturato. La linea di vista dell’osservatore si trova all’interno delle ali del getto. Crediti: G. Gianfagna (INAF) / A&A 2025

EP241021a si distingue per la ricchezza delle sue componenti. Giulia Gianfagna, prima autrice dell’articolo e assegnista di ricerca presso l’INAF di Roma, spiega:

“EP241021a è probabilmente l’XRF scoperto dall’Einstein Probe che presenta nella sua emissione il maggior numero di componenti, e, di conseguenza, un grado di complessità nell’interpretazione fisica non indifferente. Ma, per lo stesso motivo, è l’evento che più dà informazioni sulla famiglia di questi oggetti”.

L’evento transiente presenta, infatti, la caratterizzazione di un getto strutturato che si evolve rapidamente e un ambiente stellare denso che ne modella la forma e la dinamica. Dopo l’emissione nei raggi X scoperta da Einstein Probe, osservazioni nel visibile e soprattutto nelle frequenze radio e millimetriche, grazie all’utilizzo di telescopi e network come ALMA, uGMRT, e-MERLIN e ATCA, hanno permesso di identificare le peculiarità.

“Tutte le componenti – dice Gianfagna – sono consistenti con il collasso di una stella massiccia: subito dopo il collasso, si è creato un sistema formato da un getto centrale stretto ed energetico (detto nucleo o core), circondato da ‘ali’ a più basse energie e meno veloci. Circonda le ali un ‘bozzolo’ sferico (detto cocoon), composto a sua volta da due componenti concentriche, con velocità che diminuisce verso l’esterno. L’emissione dei raggi gamma, quindi il lampo di raggi gamma, viene prodotta dal core del getto”.

Questa emissione gamma non è però visibile in quanto il getto punta lontano dalla Terra.

Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Einstein Probe. Crediti: Chinese Academy of Sciences
Einstein Probe: rivelata la complessità dei flash di raggi X nell’evento EP241021a; lo studio accettato su Astronomy & Astrophysics. Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Einstein Probe. Crediti: Chinese Academy of Sciences

Tali osservazioni sono un modello unificato secondo cui i flash di raggi X sono varianti dei lampi di raggi gamma, viste da angolazioni diverse o influenzate da condizioni ambientali peculiari, come la densità e la struttura del materiale espulso dalla stella progenitrice. EP241021a è inoltre il primo caso in cui tutte queste componenti si osservano simultaneamente con tale dettaglio.

“Terminata la missione BeppoSAX all’inizio degli anni 2000”, commenta Luigi Piro, dirigente di ricerca INAF e coautore dello studio, “osservare questi transienti è diventato molto più difficile a causa del ridotto campo di vista degli strumenti attivi. Einstein Probe, lanciato nel gennaio 2024, ha riportato in orbita un rilevatore con un ampio campo visivo e una sensibilità superiore. La capacità di osservare porzioni così ampie di cielo ci ha permesso, finalmente, di ricominciare a scoprire nuovi flash di raggi X”.

Gianfagna conclude: “Dimostrare che questo flash di raggi X può essere modellizzato come un lampo di raggi gamma, probabilmente con delle caratteristiche particolari, in un contesto più ampio porterebbe ad avere un’idea più chiara su come muoiono le stelle massicce e cosa producono dopo la loro morte”.

Lo studio in questione è il primo guidato da ricercatrici e ricercatori europei sull’analisi di eventi XRF con dati provenienti da Einstein Probe, segnando una tappa fondamentale nella collaborazione internazionale e nello studio delle esplosioni cosmiche.

 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo di Giulia Gianfagna, Luigi Piro, Gabriele Bruni, Aishwarya Linesh Thakur, Hendrik Van Eerten, Alberto Castro-Tirado, Yong Chen, Ye-hao Cheng, Han He, Shumei Jia, Zhixing Ling, Elisabetta Maiorano, Rosita Paladino, Roberta Tripodi, Andrea Rossi, Shuaikang Yang, Jianghui Yuan, Weimin Yuan, Chen Zhang, “The soft X-ray transient EP241021A: a cosmic explosion with a complex off-axis jet and cocoon from a massive progenitor”, è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

“NAPOLI. SECONDA STELLA A DESTRA”: SCIENZA, ASTRONOMIA E RICERCA COME ELEMENTI CHIAVE DELL’IDENTITÀ ITALIANA

Nasce la nuova guida astroturistica INAF – Studio Bleu, presentata nel corso della Conferenza degli Addetti scientifici e spaziali ed Esperti agricoli organizzata dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale all’Auditorium Nazionale dell’INAF presso l’Osservatorio Astronomico di Capodimonte.

Napoli. Seconda stella a destra, la guida astroturistica è aperta in foto

Napoli/Roma, 19 settembre 2025 – Venerdì scorso 12 settembre 2025 è stata presentata in anteprima “Napoli. Seconda stella a destra”, l’ultima uscita della collana “Seconda Stella a Destra” dedicata alla città in occasione dei 2500 anni dalla sua fondazione. La realizzazione della guida è stata promossa Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e la presentazione è avvenuta nella cornice della Conferenza degli Addetti scientifici e spaziali e degli Esperti agricoli, ospitata a Napoli dal 10 al 12 settembre, alla presenza del Vice Presidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani e della Ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini.

“Seconda Stella a Destra” è un progetto dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e Studio Bleu, realtà specializzata in progetti di divulgazione scientifica. Dietro le pagine, una rete di competenze: l’INAF garantisce rigore scientifico e selezione dei luoghi con astronomi e storici della scienza, Studio Bleu cura progetto editoriale e grafico, rendendo i contenuti accessibili e visivamente riconoscibili. Musei, Università, Soprintendenze ed enti culturali collaborano su fonti e materiali iconografici.

La guida di Napoli è l’ultima uscita di una collana di guide astronomico-turistiche dedicate alle città d’Italia e vede Mauro Gargano e Francesca M. Aloisio dell’INAF e Valeria Cappelli di Studio Bleu come autori. L’idea è semplice e al tempo stesso ambiziosa: raccontare le città attraverso l’astronomia. Non soltanto il cielo da osservare, ma i segni celesti impressi nella pietra e nella memoria: l’orientamento astronomico di chiese e palazzi, le costellazioni dipinte negli affreschi, gli strumenti scientifici custoditi nei musei, le tracce delle conoscenze antiche nelle tradizioni locali.

“Seconda stella a destra” è insieme progetto editoriale e percorso di divulgazione: astro-turismo nel senso più ampio, capace di intrecciare arte, architettura, storia della scienza e vita quotidiana, con un linguaggio chiaro e coinvolgente. Le guide rientrano nei progetti di divulgazione attraverso cui un ente di ricerca come INAF dissemina il valore dell’astronomia e della ricerca spaziale nella società.

Nella Prefazione, il Vice Presidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, On. Antonio Tajani, sottolinea come la guida costituisca

“Una chiave di lettura originale e innovativa della città di Napoli, offrendo un percorso unico che fonde la magnificenza del patrimonio culturale alle moderne eccellenze scientifiche italiane. In questo contesto, il connubio tra Arte, Cultura e Scienza è un fattore strategico per il nostro Paese, per valorizzare in un grande gioco di squadra la nostra identità e i nostri valori, e per promuovere crescita, benessere e sviluppo.”

“Con Seconda stella a destra uniamo rigore scientifico e racconto dei luoghi, mostrando come l’astronomia sia parte viva della storia e dell’identità italiana. La guida di Napoli conferma che la diplomazia della scienza può parlare a cittadine e cittadini, a scuola come nei musei, creando ponti tra ricerca, cultura e turismo”, dice Roberto Ragazzoni, Presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica.

“Lo straordinario patrimonio astronomico di Napoli è un tesoro diffuso, spesso sotto gli occhi di tutti, ma ancora poco riconosciuto. Questa guida propone itinerari pratici per riscoprire nei monumenti, nelle strade e nelle collezioni museali, il dialogo millenario tra cielo e città”, aggiunge Mauro Gargano, Responsabile scientifico per l’INAF della guida dedicata a Napoli.

Dalla Certosa di S.Martino, che custodisce una meridiana bella come un’opera d’arte, alla collina luminosa di Capodimonte, dove ha sede l’Osservatorio Astronomico; dai ‘cieli antichi’ custoditi tra le opere del Museo Archeologico a quelli contemporanei evocati al Museo MADRE, fino al Complesso dei Girolamini, con la sua Biblioteca memorabile, e alle strade di Spaccanapoli, orientate astronomicamente.

La guida dedicata a Napoli rappresenta l’ultima tappa di un percorso lungo dieci anni, partito dalla città di Padova nel 2015 e alla quale sono seguite pubblicazioni dedicate alle città di Firenze (2019), Palermo (2021), Roma (2024) e ora Napoli, in cantiere c’è già la città di Catania.

“La sfida che accogliamo ogni volta è quella di contribuire alla costruzione di una cultura scientifica italiana, dove le città si facciano testimoni di arte, bellezza e anche di scienza. Con questo progetto, arrivato ormai alla sesta città, desideriamo raccontare la meraviglia e lo stupore e guidare turisti e cittadini alla riscoperta di ciò che hanno vicino, magari accorciando quel gap che troppo spesso separa scienza e società”, conclude Chiara Di Benedetto, founder di Studio Bleu, agenzia che per la guida ha curato il progetto editoriale e grafico.

la cover di Napoli. Seconda stella a destra, la guida astroturistica

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

2023 CX1, CRONACA INTERNAZIONALE DI UN IMPATTO: PRIMA, DURANTE E DOPO
Per la prima volta un asteroide è stato seguito dall’osservazione nello spazio fino al recupero delle meteoriti al suolo. Lo studio, a cui partecipa anche l’INAF, apre nuove prospettive per la difesa planetaria.

Un asteroide scoperto appena sette ore prima di colpire la Terra è oggi al centro del primo studio che ne ricostruisce in modo completo la traiettoria, la disintegrazione in atmosfera e il recupero delle meteoriti al suolo. Si tratta di 2023 CX1, esploso nei cieli della Normandia nella notte del 13 febbraio 2023. La ricerca, a guida del Fireball Recovery and InterPlanetary Observation Network, Planetario di Montréal e Università dell’Ontario Occidentale (University of Western Ontario), e realizzata da un centinaio di scienziati in tutto il mondo – con la partecipazione anche dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) – è stata pubblicata oggi sulla rivista Nature Astronomy.

Fotografia scattata da Gijs de Reijke, ripresa dalla riserva naturale di Kampina nei Paesi Bassi
Fotografia scattata da Gijs de Reijke, ripresa dalla riserva naturale di Kampina nei Paesi Bassi

Scoperto il 12 febbraio 2023 alle 20:18 ora universale (o anche UTC in breve) alla stazione di Piszkéstető del Konkoly Observatory (Ungheria), 2023 CX1 è soltanto il settimo asteroide mai individuato prima di un impatto. Subito dopo la scoperta è stato seguito da una vasta rete di osservatori professionali e amatoriali in tutto il mondo, che hanno contribuito a definirne orbita, forma e moto di rotazione. L’orario e la zona dell’impatto sono stati stimati con uno scarto di meno di 20 metri: un’accuratezza senza precedenti.

Con un diametro appena inferiore al metro e una massa di circa 650 chilogrammi, l’asteroide è entrato nell’atmosfera terrestre sul Canale della Manica a una velocità superiore a 14 chilometri al secondo – oltre 50 mila chilometri l’ora – riscaldandosi e trasformandosi in un bolide, ovvero una meteora estremamente luminosa. Durante questa fase è stato osservato da numerose reti di sorveglianza del cielo (meteor e fireball network), tra cui FRIPON/Vigie-Ciel, alla quale partecipa anche la rete PRISMA (Prima Rete Italiana per la Sorveglianza sistematica di Meteore e Atmosfera), coordinata dall’INAF e secondo partner internazionale del programma.

L’asteroide si è disintegrato il 13 febbraio 2023 alle 02:59 UTC a circa 28 chilometri di quota, liberando il 98% della sua energia cinetica in un’unica esplosione e generando una potente onda d’urto sferica. Il fenomeno ha disperso oltre un centinaio di meteoriti, recuperate nei giorni successivi nell’area di caduta predetta e classificate sotto il nome ufficiale Saint-Pierre-Le-Viger (SPLV), località in cui è stato trovato il primo campione.

Lo studio analizza in dettaglio sia le osservazioni dell’asteroide in orbita sia il bolide atmosferico e, infine, le meteoriti recuperate, rappresentando un caso unico: è infatti la prima volta che il materiale di un asteroide viene studiato lungo l’intero percorso, dallo spazio al laboratorio. Le analisi indicano che 2023 CX1 era un frammento di un asteroide della Fascia Principale interna degli asteroidi, collocata tra Marte e Giove, da cui si è staccato circa 30 milioni di anni fa.

“L’impatto di 2023 CX1 in Normandia non è stato un episodio isolato”, sottolinea Dario Barghini ricercatore INAF, membro del Project Office di PRISMA e tra i co-autori dello studio. “Nei giorni immediatamente successivi si sono verificati altri due eventi che hanno portato al recupero di meteoriti al suolo: il 14 febbraio 2023 la rete PRISMA ha registrato un brillante bolide sopra i cieli di Puglia e Basilicata. L’analisi delle traiettorie da parte del nostro team ha permesso di individuare rapidamente l’area di caduta e, appena tre giorni più tardi, il 17 febbraio, è stata recuperata la meteorite Matera, una condrite ordinaria. Il giorno successivo, il 15 febbraio, un altro bolide è stato osservato sopra il Texas, dove le ricerche sul campo hanno portato al ritrovamento di meteoriti”.

Nonostante abbia resistito a pressioni oltre 40 volte superiori a quelle che sperimentiamo al livello del mare, l’oggetto si è disintegrato improvvisamente, producendo un’onda d’urto sferica e compatta. Le simulazioni condotte nello studio mostrano che una frammentazione di questo tipo può avere effetti al suolo più gravi rispetto a eventi come quello di Čeljabinsk nel 2013, caratterizzati invece da una frammentazione graduale.

Per determinare con precisione l’area di dispersione dei frammenti, tipicamente estesa per alcuni chilometri quadrati, i ricercatori hanno utilizzato sia i dati della rete FRIPON sia le immagini raccolte da camere di sorveglianza e strumenti di cittadini e osservatori non professionisti. La triangolazione della traiettoria atmosferica ha dato il via, il 15 febbraio, alle ricerche sul terreno in Normandia da parte di ricercatori e volontari, inclusi i partecipanti al programma di citizen science Vigie-Ciel.

Questo ha portato al recupero dopo poche ore di ricerca di una prima meteorite di circa 100 grammi a Saint-Pierre-Le-Viger, tra Dieppe e Doudeville, in Francia, nella zona indicata dalle previsioni. Le ricerche sono proseguite nelle settimane successive, portando al recupero di oltre un centinaio di frammenti, per un peso complessivo di diversi chilogrammi.

Le meteoriti SPLV sono state classificate come condriti ordinarie di tipo L6, con struttura petrografica e contenuto ferroso tipici di questa classe. Le abbondanze isotopiche confermano la provenienza da un corpo progenitore di Fascia Principale. Sebbene si tratti della classe più comune di meteoriti terrestri, è la prima volta che una condrite L viene collegata direttamente a un asteroide osservato in orbita prima dell’impatto.

L’analisi di 2023 CX1 rappresenta dunque un’opportunità senza precedenti sia per la scienza sia per la difesa planetaria. Lo studio mostra che, per asteroidi con caratteristiche simili, non basta prevedere tempo e luogo dell’impatto: è cruciale valutare anche il modo in cui esploderanno. Una frammentazione improvvisa e concentrata, come quella osservata in Normandia, può infatti amplificare i danni al suolo e rendere necessarie misure straordinarie di protezione civile, come l’evacuazione preventiva delle aree più a rischio.

Tre eventi ravvicinati che hanno offerto alla comunità scientifica e amatoriale un’occasione senza precedenti per confrontare osservazioni e risultati, e che al tempo stesso hanno evidenziato l’importanza crescente delle reti di sorveglianza e della collaborazione internazionale.

“In questo contesto reti di sorveglianza come PRISMA sono fondamentali non solo per il recupero di meteoriti, ma anche per ricostruire l’orbita del corpo progenitore e modellizzarne le modalità di impatto”, conclude Daniele Gardiol, primo tecnologo INAF e coordinatore del progetto PRISMA.

I ricercatori INAF Dario Barghini e Daniele Gardiol. Crediti: Chiara Lamberti (PRISMA / INAF)
I ricercatori INAF Dario Barghini e Daniele Gardiol. Crediti: Chiara Lamberti (PRISMA / INAF)

Riferimenti bibliografici:

Egal, A., Vida, D., Colas, F. et al., Catastrophic disruption of asteroid 2023 CX1 and implications for planetary defence, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-025-02659-8

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

INDIVIDUATE NUOVE TRACCE DI SOSTANZE ORGANICHE NEI SOLFATI SU MARTE

Tracce di composti organici associati a solfati sono state individuate sulla superficie di Marte. A riportare la scoperta è un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature Astronomy, basato su dati raccolti dallo spettrometro Sherloc a bordo del rover Perseverance della NASA, in campioni prelevati nel cratere marziano Jezero. Non è possibile escludere che queste molecole organiche siano residui derivanti dalla degradazione di materia microbica antica, sebbene l’origine più probabile sia considerata abiotica, più specificamente attraverso reazioni di gas magmatici con ossidi di ferro presenti nelle rocce vulcaniche. A guidare il team è Teresa Fornaro, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

Vista 3D del target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio deltizio di Jezero crater, dove lo strumento Sherloc del rover Perseverance della NASA ha rilevato firme spettrali compatibili con idrocarburi policiclici aromatici all’interno di grani di solfato, suggerendo la preservazione di molecole organiche complesse in matrici minerali evaporitiche. Crediti: Teresa Fornaro, Andrew Alberini, Giovanni Poggiali, con modello 3D del target Pilot Mountain da: "M2020 WATSON -- Pilot Mountain, sol 874" (https://skfb.ly/oJWWx) by Mastcam-Z is licensed under Creative Commons Attribution (http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/)
Vista 3D del target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio deltizio di Jezero crater, dove lo strumento Sherloc del rover Perseverance della NASA ha rilevato firme spettrali compatibili con idrocarburi policiclici aromatici all’interno di grani di solfato, suggerendo la preservazione di molecole organiche complesse in matrici minerali evaporitiche. Crediti: Teresa Fornaro, Andrew Alberini, Giovanni Poggiali, con modello 3D del target Pilot Mountain da: “M2020 WATSON — Pilot Mountain, sol 874” (https://skfb.ly/oJWWx) by Mastcam-Z is licensed under Creative Commons Attribution (http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/)

La ricerca di molecole organiche su Marte è centrale per capire se il pianeta abbia mai offerto condizioni favorevoli alla vita. Alcuni composti organici possono infatti rappresentare nutrienti, mentre altri, più complessi, potrebbero costituire vere e proprie biofirme. Nonostante in passato siano già state individuate molecole organiche, la loro origine e conservazione restano ancora poco chiare.

Proprio per questo il cratere Jezero, antica area deltizia che un tempo ospitava un lago e che potrebbe aver avuto un alto potenziale di abitabilità, è oggi uno dei luoghi più interessanti da studiare. Qui, lo strumento Sherloc (Scanning Habitable Environments with Raman and Luminescence for Organics and Chemicals) a bordo del rover Perseverance ha rilevato segnali Raman forti e complessi associati a solfati, in particolare nelle aree denominate Quartier e Pilot Mountain, rispettivamente sul fondo del cratere e sul ventaglio deltizio.

“Quando Sherloc ha rivelato forti segnali Raman nella regione spettrale degli organici nel target Quartier, ci siamo entusiasmati. Questi segnali erano associati spazialmente a solfati di magnesio e calcio, che sulla Terra mostrano grandi capacità di preservazione della materia organica”, sottolinea Teresa Fornaro. “L’associazione con i solfati era davvero un enigma affascinante e mi ha spinta a esaminare uno per uno gli 839 spettri acquisiti da Sherloc in cui sono stati rilevati solfati sul fondo del cratere e sul ventaglio deltizio di Jezero, alla ricerca di segnali potenzialmente indicativi di composti organici. In questo modo, ho scoperto che il target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio, mostra segnali Raman simili a quelli osservati in Quartier”.

Per verificare l’ipotesi che i segnali osservati sono effettivamente dovuti a molecole organiche, il team ha condotto esperimenti nel Laboratorio di Astrobiologia dell’INAF a Firenze. Sono stati utilizzati materiali analoghi marziani e strumenti simili a Sherloc, riproducendo processi naturali in condizioni controllate. Il confronto con i dati acquisiti in situ ha permesso di consolidare l’interpretazione organica.

“Il Laboratorio di Astrobiologia di Arcetri, grazie al supporto dell’INAF e dell’Agenzia Spaziale Italiana, ha acquisito nel corso degli anni strumentazioni all’avanguardia che ci hanno permesso di ritagliarci un ruolo di rilievo nel contesto internazionale per quanto riguarda i temi dell’astrobiologia” spiega John Brucato dell’INAF, responsabile del laboratorio e coautore dello studio. “Siamo in grado di caratterizzare i composti organici presenti nei materiali che ci giungono dallo spazio, come le meteoriti o i campioni riportati a terra dalle missioni, e di simulare le condizioni e i processi chimico-fisici che possono verificarsi sulla superficie di Marte. Grazie alla partecipazione alle missioni marziane con i rover Perseverance della NASA e Rosalind Franklin dell’ESA, il nostro ambizioso obiettivo è riuscire a trovare le biofirme di una vita extraterrestre”.

“Nello specifico, abbiamo mescolato minerali solfati con molecole organiche aromatiche facilmente rilevabili da Sherloc, utilizzando metodi che imitano processi naturali potenzialmente avvenuti in passato in un ambiente acquoso a Jezero, seguiti da essiccazione. Successivamente, abbiamo analizzato i campioni preparati con strumenti analoghi a Sherloc”, spiega ancora Fornaro. “Questo metodo ci ha permesso di acquisire un set di dati di riferimento da confrontare direttamente con le osservazioni in situ, essenziali per interpretare correttamente i complessi segnali provenienti da Marte. Sulla base di queste indagini, abbiamo potuto attribuire questi segnali a idrocarburi policiclici aromatici preservati all’interno dei solfati”.

Il Cratere Jezero su Marte ripreso dalla sonda Mars Express dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA). Crediti: ESA/DLR/FU Berlin
Il Cratere Jezero su Marte ripreso dalla sonda Mars Express dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Crediti: ESA/DLR/FU Berlin

Il rilevamento in rocce vulcaniche suggerisce che gli idrocarburi policiclici aromatici possano essersi formati attraverso processi magmatici e, in seguito, essere stati mobilizzati dall’acqua e intrappolati nei solfati. I fluidi circolanti, comprese possibili acque idrotermali, avrebbero favorito il loro accumulo selettivo e la conservazione nelle rocce del cratere Jezero. Questi risultati si aggiungono a precedenti evidenze da meteoriti e dal cratere Gale, rafforzando il ruolo dei solfati nella conservazione della materia organica marziana.

“Sebbene non siano state trovate prove che questa materia organica sia di origine biologica, non è possibile escludere completamente che le sostanze organiche rilevate in queste rocce possano derivare dall’alterazione chimica di antichi composti biotici” conclude Fornaro“In attesa di un possibile futuro ritorno di questi campioni marziani per analisi più dettagliate sulla Terra, stiamo continuando a indagare sulla natura delle altre componenti di questi segnali complessi, la cui origine è ancora da chiarire del tutto”.

Riferimenti bibliografici:
L’articolo Evidence for polycyclic aromatic hydrocarbons detected in sulfates at Jezero crater by the Perseverance rover, di Teresa Fornaro, Sunanda Sharma, Ryan S. Jakubek, Giovanni Poggiali, John Robert Brucato, Rohit Bhartia, Andrew Steele, Ashley E. Murphy, Mike Tice, Mitchell D. Schulte, Kevin P. Hand, Marc D. Fries, William J. Abbey, Andrew Alberini, Daniela Alvarado-Jiménez, Kathleen C. Benison, Eve L. Berger, Sole Biancalani, Adrian J. Brown, Adrian Broz, Wayne P. Buckley, Denise K. Buckner, Aaron S. Burton, Sergei V. Bykov, Emily L. Cardarelli, Edward Cloutis, Stephanie A. Connell, Cristina Garcia-Florentino, Felipe Gómez, Nikole C. Haney, Carina Lee, Valeria Lino, Paola Manini, Francis M. McCubbin, Michelle Minitti, Richard V. Morris, Yu Yu Phua, Nicolas Randazzo, Joseph Razzell Hollis, Francesco Renzi, Sandra Siljeström, Justin I. Simon, Anushree Srivastava, Nicola Tasinato, Kyle Uckert, Roger C. Wiens, Amy J. Williams, è stato pubblicato su Nature Astronomy.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

UNA “STELE DI ROSETTA”, IL PROGETTO ROSETTA STONE PER STUDIARE LA FORMAZIONE STELLARE

Coordinato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica e sostenuto dall’European Research Council, il progetto Rosetta Stone propone un confronto senza precedenti tra simulazioni numeriche e osservazioni astronomiche nello studio della formazione stellare. I primi tre articoli, pubblicati su Astronomy & Astrophysics, mostrano come le simulazioni possano essere trattate come vere osservazioni per analizzare con maggiore precisione i processi che portano alla nascita delle stelle.

Il progetto Rosetta Stone, coordinato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e finanziato dall’European Research Council nell’ambito del Synergy Grant ECOGAL, rivoluziona lo studio della formazione stellare con un approccio innovativo e senza precedenti. Per la prima volta in questo campo, simulazioni numeriche sofisticate e osservazioni astronomiche vengono trattate con gli stessi metodi e algoritmi, creando un linguaggio comune che consente un confronto diretto e preciso tra teoria e realtà.

Link al progetto: https://www.the-rosetta-stone-project.eu/

La nascita delle stelle, un processo complesso e ancora poco compreso, viene così analizzata grazie a tre articoli appena pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics, che illustrano come le simulazioni possano essere “post-processate” per replicare fedelmente le immagini e le osservazioni reali ottenute con strumenti di punta come l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA).

Il primo articolo (guidato da Ugo Lebreuilly dell’Università di Parigi-Saclay) presenta una vasta gamma di simulazioni magneto-idrodinamiche (RMHD) di regioni di formazione stellare massiva, in cui sono stati variati parametri chiave come massa, raggio, livello di turbolenza e intensità del campo magnetico. Il secondo studio (con prima firma Ngo-Duy Tung dell’Università di Parigi-Saclay) si concentra sulla generazione di immagini artificiali e “ideali” nella banda delle onde millimetriche e sub-millimetriche, simili a quelle ottenute da ALMA e dal satellite Herschel. Nel terzo lavoro (questa volta a prima firma Alice Nucara di INAF), un codice ad hoc sviluppato all’interno del software CASA ha permesso di creare simulazioni di osservazioni ALMA estremamente realistiche, basate sui dati della survey SQUALO (Star formation in QUiescent And Luminous Objects).

Alessio Traficante, ricercatore INAF e coordinatore del progetto, afferma: “Per la prima volta, grazie al progetto Rosetta Stone, è possibile estrarre informazioni dalle simulazioni trattate con le stesse tecniche e gli stessi algoritmi usati per le osservazioni, permettendo di verificare se le informazioni che deduciamo dalle osservazioni hanno un riscontro nelle simulazioni e viceversa, con un’accuratezza nel confronto mai ottenuta prima nel campo della formazione stellare. È possibile infatti dedurre se effettivamente i parametri chiave osservativi, come il rapporto tra la luminosità e la massa, riflettano caratteristiche chiave degli addensamenti di gas e polveri come età ed efficienza di formazione stellare, e misurare l’effetto di fattori non osservabili direttamente, come l’intensità del campo magnetico”.

La prima versione del progetto, chiamata Rosetta Stone 1.0, è solo il punto di partenza. Sono già in preparazione le successive due nuove fasi: RS2.0, che includerà simulazioni di dati ALMA relativi alla survey ALMAGAL che includono una fisica più ampia e complessa, e RS3.0, focalizzata sullo studio della chimica delle regioni di formazione stellare e sull’analisi delle righe spettrali necessarie per tracciare la dinamica e l’evoluzione chimica di queste zone.

“Il progetto è il culmine di tre anni di lavoro, milioni di ore di calcolo su supercomputer, la produzione di centinaia di mappe e una stretta collaborazione tra gruppi teorici e osservativi. Con questo approccio innovativo, il progetto Rosetta Stone inaugura un nuovo modo di studiare la nascita delle stelle, rendendo possibile per la prima volta un confronto realmente diretto tra simulazione e osservazione”, conclude Traficante.

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “The Rosetta Stone Project. I. A suite of radiative magnetohydrodynamics simulations of high-mass star-forming clumps”, di Ugo Lebreuilly, Alessio Traficante et al., è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “The Rosetta Stone Project. II. The correlation between star formation efficiency and L/M indicator for the evolutionary stages of star-forming clumps in post-processed radiative magnetohydrodynamics simulations”, di Ngo-Duy Tung, Alessio Traficante et al., è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “The Rosetta Stone project. III. ALMA synthetic observations of fragmentation in high-mass star-forming clumps”, di Alice Nucara, Alessio Traficante et al., è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

CALVERA È ESPLOSA DOVE NON DOVEVA: UNA PULSAR “IN FUGA” SFIDA LE REGOLE DELLA VIA LATTEA

Un’esplosione stellare, una pulsar in fuga e un resto di supernova: è la storia di Calvera, un sistema scoperto a oltre 6500 anni luce sopra il piano galattico, che sta mettendo in discussione ciò che sappiamo sull’evoluzione delle stelle. A raccontarla è un team di ricerca dell’INAF in uno studio pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Immagine nei raggi X della stella di neutroni Calvera, indicata dal cerchio giallo, e della regione di emissione diffusa oggetto di studio di questo articolo, identificata dall'ellisse bianca. Il materiale responsabile dell'emissione osservata ha una temperatura compresa tra 1 e 10 milioni di gradi Celsius. Crediti: E. Greco, INAF
Immagine nei raggi X della stella di neutroni Calvera, indicata dal cerchio giallo, e della regione di emissione diffusa oggetto di studio di questo articolo, identificata dall’ellisse bianca. Il materiale responsabile dell’emissione osservata ha una temperatura compresa tra 1 e 10 milioni di gradi Celsius. Crediti: E. Greco, INAF

Un gruppo di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università degli Studi di Palermo ha approfondito lo studio di un sistema unico nel suo genere: una pulsar e un resto di supernova situati a oltre 6500 anni luce sopra il piano della nostra galassia, la Via Lattea, in una zona finora considerata estremamente rarefatta e quasi priva di oggetti di questo tipo. Grazie a nuove osservazioni e analisi, pubblicate sulla rivista Astronomy & Astrophysics, la ricerca sfida l’idea che queste regioni periferiche della galassia siano poco attive dal punto di vista energetico, offrendo nuovi importanti spunti sull’origine e l’evoluzione delle stelle massicce.

A oltre 6500 anni luce sopra il piano della Via Lattea, dove la densità di stelle si dirada e il vuoto interstellare domina, un sistema estremo sfida le regole dell’evoluzione stellare. È lì che è stato identificato un raro resto di supernova associato a una pulsar in fuga, nota con il nome di Calvera, un omaggio all’antagonista del film “I Magnifici 7”, film western del 1960 diretto da John Sturges. Come il suo omonimo cinematografico, Calvera si muove ai margini, fuori dalle regole, e sta riscrivendo ciò che sappiamo sulla vita e la morte delle stelle massicce nelle regioni più estreme della nostra galassia.

La storia del resto di supernova di Calvera inizia nel 2022, quando grazie allo strumento LOFAR – un network europeo di radiotelescopi progettato per osservare il cielo a basse frequenze – viene individuata una struttura estesa e quasi perfettamente circolare, interpretabile come un resto di supernova. Si trova a circa 37 gradi di latitudine galattica, molto lontano dal piano della galassia, dove solitamente si concentrano le esplosioni stellari. A pochi arcominuti di distanza, una pulsar già nota agli astronomi per la sua intensa emissione nei raggi X e battezzata anch’essa Calvera, si presenta come potenziale compagna del resto di supernova. Tuttavia, la sua traiettoria mostra un moto proprio molto marcato, circa 78 milliarcosecondi all’anno, che suggerisce che si stia allontanando dal centro dell’esplosione. Il quadro che emerge è quello di un legame fisico tra i due oggetti: una stella massiccia esplosa migliaia di anni fa, che ha lasciato dietro di sé un guscio di gas in espansione e una stella di neutroni in fuga.

Per ricostruire questa storia cosmica, un team guidato da Emanuele Greco dell’INAF ha analizzato osservazioni dettagliate nella banda dei raggi X ottenute con il satellite XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea. Le proprietà del gas caldo all’interno del resto di supernova, combinate con il moto della pulsar e le informazioni multi-banda raccolte da diversi strumenti, hanno permesso di stimare età e distanza del sistema. Le analisi indicano che il resto di supernova si trova a una distanza compresa tra 13.000 e 16.500 anni luce, e che ha un’età tra i 10.000 e i 20.000 anni. Dati perfettamente compatibili con quelli della pulsar, che rafforzano l’ipotesi di un’origine comune.

“Le stelle massicce – cioè almeno otto volte più grandi del Sole – si formano quasi esclusivamente sul piano galattico, dove la densità del gas è più alta e favorisce la nascita stellare”, spiega Greco. “Trovarne i resti a simili distanze dal piano è estremamente raro. La nostra analisi ha permesso di stimare con maggiore precisione la distanza, l’età e perfino le caratteristiche della possibile stella progenitrice che ha originato sia la pulsar Calvera che il suo resto di supernova”.

A rendere il quadro ancora più interessante è il fatto che il sistema si trovi in un ambiente molto diverso da quello tipico del piano galattico. L’emissione di raggi gamma rilevata nel sistema proviene, infatti, da un ambiente estremamente rarefatto, lontano dalle regioni dense del piano galattico. Tradizionalmente si pensa che per attivare uno dei principali meccanismi di produzione della radiazione gamma siano necessarie elevate densità di particelle, soprattutto di protoni. Questo risultato, invece, mostra che anche nelle “periferie” della galassia, considerate per lo più “vuote”,  possono esistere le condizioni sufficienti ad attivare meccanismi energetici intensi, capaci di produrre emissione gamma in modo efficiente.

“Grazie ai telescopi spaziali come XMM-Newton e Fermi/LAT, e a strumenti terrestri come il Telescopio Nazionale Galileo, possiamo analizzare i resti di supernova e le pulsar in diverse bande dello spettro elettromagnetico”, prosegue Greco. “Nel caso di Calvera, abbiamo mostrato che anche in ambienti rarefatti può esserci emissione di plasma a milioni di gradi, se l’onda d’urto dell’esplosione incontra addensamenti locali. Questi addensamenti, a loro volta, raccontano qualcosa sulla storia evolutiva della stella che è esplosa”.

Il lavoro nasce dalla collaborazione tra le sedi INAF di Palermo e Milano, che hanno unito competenze complementari: da un lato lo studio degli oggetti compatti come le pulsar, dall’altro l’analisi delle strutture diffuse associate ai resti di supernova. Le osservazioni effettuate con il Telescopio Nazionale Galileo mostrano la presenza di filamenti di idrogeno ionizzato, mentre nei raggi X si evidenzia una struttura estesa ma compatta, coerente con l’impatto dell’onda d’urto sui materiali presenti nell’ambiente e rilasciati dalla stella progenitrice di Calvera. Questo indica che la zona, seppur remota, può presentare localmente degli addensamenti di materia, al contrario di quanto si assume per le regioni ad alta latitudine galattica.

La scoperta – e il legame tra la pulsar Calvera e il suo resto di supernova – dimostrano che anche lontano dal piano galattico possono trovarsi, in modo del tutto inatteso, stelle massicce. Alcune di queste riescono a sfuggire al loro luogo di origine e a esplodere come supernovae in regioni remote della Galassia, lasciando dietro di sé una nube di gas in espansione e un oggetto compatto come una stella di neutroni.

“Il nostro studio mostra che anche le zone più tranquille e apparentemente vuote della galassia possono nascondere processi estremi”, conclude Greco. “Non solo abbiamo vincolato le proprietà fisiche del sistema Calvera con precisione, ma abbiamo anche dimostrato che, localmente, è possibile trovare densità sufficienti a generare emissioni X e gamma anche molto lontano dal piano galattico. Una scoperta che ci invita a guardare con occhi nuovi alle periferie della Via Lattea”.

Emanuele Greco, ricercatore INAF presso la sede di Palermo
Emanuele Greco, ricercatore INAF presso la sede di Palermo

Riferimenti bibliografici: 

L’articolo “Multi-wavelength study of the high Galactic latitude supernova remnant candidate G118.4+37.0 associated with the Calvera pulsar”, di Emanuele Greco et al., è stato pubblicato su Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF