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Istituto Max Planck per l’Astronomia

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IL BUCO NERO DI MASSA INTERMEDIA DELL’AMMASSO STELLARE  OMEGA CENTAURI: L’ANELLO MANCANTE NELL’EVOLUZIONE DEI BUCHI NERI MASSICCI

Sette nuove stelle in rapido movimento identificate al centro dell’ammasso stellare Omega Centauri forniscono una solida prova dell’esistenza di un buco nero centrale nell’ammasso stesso. Con una massa di almeno 8200 masse solari, questo buco nero è il miglior candidato per appartenere alla classe di buchi neri chiamata di massa intermedia. Gli astronomi credono che questo tipo di buchi neri si formi nelle prime fasi dell’evoluzione delle galassie. Questa scoperta, a cui partecipa anche l’INAF, rafforza l’ipotesi che Omega Centauri sia la regione centrale di una galassia inglobata nella Via Lattea miliardi di anni fa. Spogliato delle sue stelle esterne, il nucleo galattico da allora è rimasto “congelato nel tempo”.

Osservando Omega Centauri con un piccolo telescopio, non appare diversa dagli altri cosiddetti ammassi globulari: una spettacolare collezione sferica di stelle, così densa verso il centro che diventa impossibile distinguere le singole stelle. Questo nuovo studio, guidato da Maximilian Häberle (Istituto Max Planck per l’astronomia di Heidelberg, MPIA) e a cui partecipa anche Mattia Libralato dell’INAF  – Istituto Nazionale di Astrofisica (e precedentemente in forza all’AURA per l’Agenzia Spaziale Europea presso lo Space Telescope Science Institute), porta nuova luce su questo oggetto celeste, confermando ciò che gli astronomi ipotizzavano da tempo: Omega Centauri ospita un buco nero centrale. Il buco nero sembra essere l'”anello mancante” tra i suoi simili di taglia stellare, che hanno masse comprese tra una e alcune decine di masse solari, e quelli supermassicci, con masse di milioni o miliardi di volte quelle del Sole, situati al centro delle galassie. Omega Centauri sembra essere il nucleo di una piccola galassia separata la cui evoluzione è stata interrotta quando è stata inglobata dalla Via Lattea.

This image presents three panels. The first image shows the global cluster Omega Centauri, appearing as a highly dense and numerous collection of shining stars. The second image shows the details of the central region of this cluster, with a closer view of the individual stars. The third image shows the location of the IMBH candidate in the cluster.
Una immagine che mostra, da sinistra, progressivi ingrandimenti  sull’ammasso stellare Omega Centauri. Nel pannello di destra, la zona circolare indica la regione dove dovrebbe essere situato il buco nero di massa intermedia. La barretta orizzontale in basso a destra del riquadro indica una lunghezza in scala di 0,1 anni luce. Crediti: ESA/Hubble & NASA, M. Häberle (MPIA)

Mattia Libralato, coautore dell’articolo appena pubblicato sulla rivista Nature che descrive la scoperta, commenta:

“L’esistenza di buchi neri di massa intermedia al centro degli ammassi globulari è un argomento molto controverso perché questi oggetti sono elusivi ed è difficile dedurre la loro presenza. In questa analisi sono state trovate sette stelle vicino al centro di Omega Centauri la cui velocità molto elevata e posizione sono compatibili con la presenza di un buco nero con una massa di almeno 8.200 volte quella del Sole al centro dell’ammasso. La scoperta di queste stelle è una delle prove più solide che sia stata raccolta dell’esistenza di un buco nero di massa intermedia”.

L’attuale teoria dell’evoluzione delle galassie ipotizza che le prime galassie dovessero avere buchi neri centrali di dimensioni intermedie, che sarebbero poi cresciuti nel tempo man mano che quelle galassie si evolvevano, inglobando galassie più piccole (come ha fatto la nostra Via Lattea) o fondendosi con galassie più grandi. Tali buchi neri di medie dimensioni sono notoriamente difficili da trovare: le galassie come la nostra Via Lattea hanno superato quella fase, contenendo ora buchi neri centrali molto più grandi, mentre le galassie nane invece sono difficili da osservare e rendono estremamente complicato rilevare i loro buchi neri centrali con la tecnologia attuale. Sebbene esistano candidati promettenti, fino ad ora non è mai stato rilevato un buco nero di massa intermedia.

Nadine Neumayer, capo gruppo al MPIA, e Anil Seth, dell’Università dello Utah, nel 2019 hanno dato vita ad un progetto di ricerca mirato a migliorare la comprensione della storia della formazione di Omega Centauri: identificare le stelle in rapido movimento attorno al buco nero centrale per poi misurarne la massa. Maximilian Häberle, uno studente di dottorato al MPIA, ha guidato il lavoro creando un enorme catalogo con i movimenti delle stelle in Omega Centauri e misurando le velocità di 1,4 milioni di stelle. Per questo lavoro, sono state utilizzate oltre 500 immagini di Hubble dell’ammasso, prodotte con lo scopo di calibrare gli strumenti del satellite, ma che con le loro visualizzazioni ripetute di Omega Centauri, si sono rivelate il set ideale di dati.

The central region of a globular cluster is shown, appearing as a highly dense and numerous collection of shining stars. Some stars show blue and orange glowing features around them.
Credit: ESA/Hubble & NASA, M. Häberle (MPIA)

“Cercare stelle in rapido movimento e documentarne il movimento era come cercare il proverbiale ago in un pagliaio”

 dice Häberle, che ha trovato ben sette stelle in rapido movimento in una piccola regione al centro di Omega Centauri dove non vi è nessun oggetto visibile. Tali stelle, con diverse velocità e direzioni di movimento, hanno permesso a Häberle e ai suoi colleghi di determinare la presenza di una massa centrale in Omega Centauri, di almeno 8.200 masse solari.

A una distanza di circa 18.000 anni luce, questo è l’esempio del più vicino buco nero massiccio ad oggi conosciuto. Infatti il buco nero supermassiccio nel centro della Via Lattea è a una distanza di circa 27.000 anni luce da noi. Questa rilevazione non solo promette di risolvere il dibattito decennale sul buco nero di massa intermedia in Omega Centauri, ma fornisce, in generale, anche il miglior candidato, fino ad ora, della rilevazione di un buco nero di massa intermedia.

“Negli ultimi 10 anni, l’astrometria, e in particolare lo studio della cinematica interna degli ammassi globulari, ha vissuto un vero e proprio “Rinascimento” grazie alla missione Gaia” ricorda Libralato. “Tuttavia, regioni affollate come il centro degli ammassi globulari sono difficili, e in alcuni casi impossibili, da studiare anche con Gaia, lasciando Hubble come unica risorsa. Il lavoro di Maximilian dimostra che anche dopo più di 30 anni dal suo lancio, il telescopio Hubble è uno dei migliori strumenti per ottenere astrometria di alta precisione in regioni estremamente affollate come il centro degli ammassi globulari”.

Neumayer, Häberle e i loro colleghi ora intendono studiare il centro di Omega Centauri con ancora maggiore dettaglio. Hanno già ottenuto l’approvazione per misurare il movimento delle stelle in rapido movimento utilizzando il Telescopio spaziale James Webb. L’utilizzo successivo di strumenti attualmente in costruzione, come GRAVITY+ al VLT dell’ESO e MICADO all’Extremely Large Telescope, potrebbe portare a misure più accurate delle posizioni delle stelle di quelle ottenute con le immagini di Hubble. L’obiettivo a lungo termine è determinare come le stelle accelerano e come curvano le loro orbite. Seguire le orbite intere delle stelle, come per le osservazioni del buco nero al centro della Via Lattea che hanno portato al premio Nobel, è un progetto per le future generazioni di astronomi. Infatti, la piccola massa del buco nero per Omega Centauri si traduce in tempi scala dieci volte più grandi rispetto a quelli utilizzati per lo studio del centro della Via Lattea, ovvero periodi orbitali di più di cento anni.

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Fast-moving stars around an intermediate-mass black hole in ω Centauri”, di Häberle M., Anil Seth, Andrea Bellini, Mattia Libralato, Holger Baumgardt, Matthew Whitaker, Mayte Alfaro Cuello, Jay Anderson, Nikolay Kacharov, Sebastian Kamann, Antonino Milone, Renuka Pechetti e Glenn van de Ven è stato pubblicato online sulla rivista Nature.

 

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza
Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

IL JAMES WEBB SPACE TELESCOPE TROVA ACQUA NEL SISTEMA PLANETARIO IN FORMAZIONE DELLA STELLA PDS 70

Il James Webb Space Telescope (JWST) stupisce ancora e si conferma l’osservatorio spaziale più potente di cui dispone la comunità scientifica al momento. Utilizzando il telescopio di NASA ed ESA, la collaborazione MINDS (MIRI mid-INfrared Disk Survey), un team di ricerca guidato dall’Istituto Max Planck per l’Astronomia e a cui partecipa anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha scoperto acqua nella regione interna di un disco di gas e polvere attorno alla giovane stella PDS 70, a circa 370 anni luce di distanza da noi. Gli astronomi si aspettano che dei pianeti rocciosi – quindi di tipo terrestre – si stiano formando in quella zona. Come descritto in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature, si tratta del primo rilevamento di questo tipo in un disco di gas e polveri che ospita già almeno altri due pianeti.

Dall’analisi dei dati raccolti, risulta che eventuali pianeti rocciosi nati nel disco interno beneficerebbero di una significativa disponibilità d’acqua, migliorando le possibilità di sviluppare condizioni favorevoli alla vita. I ricercatori riescono quindi a provare che esiste un meccanismo che fornisce acqua a pianeti potenzialmente abitabili già durante la loro formazione.

Sulla Terra, l’acqua è alla base della vita come la conosciamo. Lo scenario attualmente più accreditato suggerisce che l’acqua sia arrivata sul nostro pianeta a seguito dei violenti impatti con asteroidi e comete che bombardarono la superficie del giovane pianeta. Ora, gli esperti ritengono però che l’acqua potrebbe essere disponibile sin dalla nascita di questi pianeti.

Rappresentazione artistica del disco intorno a PDS 70 acqua
Il James Webb Space Telescope trova acqua nel sistema planetario in formazione della stella PDS 70, lo studio è pubblicato su Nature: rappresentazione artistica del disco intorno a PDS70. Le osservazioni con JWST hanno permesso di scoprire acqua nelle regioni interne del disco, dove normalmente si formano pianeti di tipo terrestre. Due giganti gassosi, osservati in precedenza, hanno scavato un ampio spazio anulare nel disco di gas e polvere. Crediti: Istituto Max Planck per l’Astronomia

Alessio Caratti o Garatti, ricercatore dell’INAF di Napoli e co-autore dello studio, commenta:

“La scoperta di acqua intorno a PDS 70, una stella ancora in formazione e un pò meno massiccia del nostro Sole, ha un’importanza molteplice. Prima di tutto perché PDS 70 è l’unica stella giovane in cui sono stati osservati direttamente due pianeti in formazione (probabilmente dei giganti gassosi) posizionati nelle regioni esterne del disco. Quindi ci aspettiamo che ce ne possano essere altri di tipo roccioso in formazione nelle regioni più interne e non ancora osservati”. E aggiunge: “Il fatto più importante è che l’acqua osservata è situata proprio in questa regione interna, quindi ora sappiamo che possibili pianeti in formazione hanno una riserva d’acqua da cui possono attingere”.

Le osservazioni sono state effettuate sfruttando lo strumento MIRI (Mid-InfraRed Instrument) a bordo del James Webb. Secondo l’analisi dei dati, l’acqua è sotto forma di vapore caldo, compatibile  con una temperatura di circa 330 gradi Celsius (600 kelvin).

PDS 70 è il primo disco relativamente “anziano” – dall’età stimata di circa 5,4 milioni di anni – in cui gli astronomi abbiano trovato l’acqua. Nel corso del tempo, il contenuto di gas e polvere dei dischi che formano i pianeti diminuisce. Poiché studi precedenti non erano riusciti a rilevare l’acqua nelle regioni centrali di dischi simili, gli astronomi hanno sempre sospettato che potesse non sopravvivere alla radiazione stellare, portando così i pianeti rocciosi a formarsi in ambienti asciutti e aridi. Le osservazioni di MIRI confermano, però, che dopotutto i perimetri interni dei dischi privi di polvere potrebbero non essere così asciutti. In tal caso, molti pianeti terrestri che si formano in quelle zone potrebbero già nascere con un ingrediente chiave per garantirne l’abitabilità.

Di pianeti rocciosi nel disco di PDS 70 non vi è traccia al momento,  poiché sarebbero troppo deboli e vicini alla stella per essere osservati direttamente con gli attuali strumenti a disposizione. PDS 70 b e c sono gli unici due pianeti, gassosi, all’interno di questo sistema planetario. I due oggetti hanno accumulato polvere e gas orbitando attorno alla loro stella ospite, creando un ampio spazio anulare quasi privo di qualsiasi materiale rilevabile.

Ma da dove viene questo vapore acqueo? L’acqua trovata all’interno del disco potrebbe essere un residuo di una nebulosa inizialmente ricca di questa molecola. Un’altra fonte potrebbe essere polvere interstellare ricca di acqua e gas che entrano dai bordi esterni del disco di PDS 70. In determinate circostanze, l’ossigeno e l’idrogeno gassoso possono combinarsi e formare vapore acqueo.

“La verità sta probabilmente in una combinazione di tutte queste opzioni”, afferma Giulia Perotti, prima autrice dello studio e ricercatrice presso l’istituto Max Planck per l’Astronomia ad Heidelberg, in Germania. “Tuttavia, è probabile che un meccanismo svolga un ruolo decisivo nel sostenere il serbatoio d’acqua del disco PDS 70. Il nostro compito in futuro sarà scoprire qual è”.

“JWST sta rivoluzionando la nostra comprensione della formazione planetaria, rivelandoci la diversità e la ricchezza della chimica dei dischi, ovvero dell’habitat in cui i pianeti si formano”, conclude Alessio Caratti o Garatti. “Il progetto JWST MIRI mid-Infrared Disk Survey (MINDS) ha proprio lo scopo di studiare questo habitat in un numero significativo di stelle di tipo solare in formazione”.

 

 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Water in the terrestrial planet-forming zone of the PDS 70 disk”, di G. Perotti, V. Christiaens, T. Henning, B. Tabone, L. B. F. M. Waters, I. Kamp, G. Olofsson, S. L. Grant, D. Gasman, J. Bouwman, M. Samland, R. Franceschi, E. F. van Dishoeck, K. Schwarz, M. Güdel, P.-O. Lagage, T. P. Ray, B. Vandenbussche, A. Abergel, O. Absil, A. M. Arabhavi, I. Argyriou, D. Barrado, A. Boccaletti, A. Caratti o Garatti, V. Geers, A. M. Glauser, K. Justannont, F. Lahuis, M. Mueller, C. Nehmé, E. Pantin, S. Scheithauer, C. Waelkens, R. Guadarrama, H. Jang, J. Kanwar, M. Morales-Calderón, N. Pawellek, D. Rodgers-Lee, J. Schreiber, L. Colina, T. R. Greve, G. Östlin e G. Wright, è stato pubblicato sulla rivista Nature.

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza
Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)