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Una nuova prospettiva terapeutica per i tumori del colon-retto: quando la chemioterapia “addestra” il sistema immunitario

Un team di ricercatori dell’IFOM, dell’Università di Torino e dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, l’Ospedale San Raffaele e l’Istituto di Candiolo, ha individuato una strategia innovativa per rendere i tumori del colon-retto sensibili all’immunoterapia, combinando due chemioterapici specifici. La scoperta, resa possibile grazie al sostegno dell’European Research Council (ERC) e della Fondazione AIRC, è stata pubblicata sull’autorevole rivista scientifica Cancer Cell e apre nuove possibilità terapeutiche per il tumore al colon-retto.

Il problema che affligge, ancora oggi, migliaia di pazienti oncologici è rappresentato dalla mancanza di terapie efficaci sebbene enormi passi avanti siano stati fatti. L’immunoterapia rappresenta una vera rivoluzione in oncologia negli ultimi 15 anni, incrementando le possibilità di cura per pazienti con melanoma, tumore del rene e alcune forme di cancro al polmone. Tuttavia, quando si tratta di tumore del colon-retto metastatico, questa terapia innovativa funziona solo in meno del 5% dei pazienti. La ragione sta nelle caratteristiche molecolari specifiche di questo tipo di cancro, che lo rendono praticamente “invisibile” al sistema immunitario.

“Da circa dieci anni nei nostri laboratorio studiamo una categoria di tumori che presentano un sistema di riparazione del DNA difettoso, chiamato mismatch repair”, spiega Alberto Bardelli, Direttore Scientifico di IFOM e Professore Ordinario del Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino, coordinatore dello studio. “Questi tumori definiti immunoresponsivi – prosegue Giovanni Germano, Ricercatore di IFOM e Professore associato di Istologia all’Università Statale di Milano, che ha coordinato lo studio insieme a Bardelli – sono particolari perché, a causa di questo difetto, accumulano centinaia di mutazioni che creano nuovi antigeni, ovvero molecole che funzionano come ‘bandierine rosse’ per richiamare l’attenzione del sistema immunitario.”

L’obiettivo era quindi trovare un modo per trasformare i tumori “freddi”, che il sistema immunitario non riesce a vedere, in tumori “caldi” che invece può attaccare efficacemente.

“In questa fase sperimentale, grazie al sostegno di Fondazione AIRC, avevamo già scoperto che alcuni farmaci come la temozolomide riescono a far emergere nel tumore le cellule in grado di presentare quelle bandierine rosse, quelle che il sistema immunitario riesce ad attaccare meglio – spiega Bardelli. – Il problema era che questo approccio funzionava solo per una piccola parte dei pazienti: meno del 20% di chi ha un tumore al colon-retto metastatico.”

“Partendo da queste considerazioni, quattro anni fa abbiamo avviato un percorso di studio innovativo. – illustra Pietro Paolo Vitiello, Ricercatore IFOM e Oncologo medico presso l’Università di Torino, primo autore dello studio pubblicato su Cancer Cell – Abbiamo pensato di osservare cosa succede quando esponiamo le cellule tumorali a specifiche combinazioni di chemioterapici.”

La svolta è arrivata studiando la combinazione di due farmaci: la temozolomide, già nota per la sua capacità di selezionare cellule con difetti nel riparo del DNA, e il cisplatino.

“La combinazione di questi due chemioterapici – prosegue Vitiello – riesce a indurre nelle cellule tumorali uno stato adattativo particolare. Per sfuggire all’azione distruttiva dei farmaci, infatti, le cellule riducono la loro capacità di riconoscere e riparare i danni al DNA”.

Il meccanismo di difesa del tumore si trasforma paradossalmente in una vulnerabilità:

“Le cellule trattate con questa combinazione – aggiunge Germano – hanno iniziato ad accumulare un numero elevatissimo di mutazioni, creando così tantissime nuove proteine, situazione simile a quando un batterio o un virus invadono da estranei il nostro organismo. È come se il tumore, nel tentativo di proteggersi dalla chemioterapia, si fosse reso riconoscibile e attaccabile dal sistema immunitario.”

Ma i benefici non si fermano qui: “Grazie ad una collaborazione con l’Ospedale San Raffaele – illustra Vitiello – abbiamo osservato che la combinazione di cisplatino e temozolomide è in grado di modificare anche l’ambiente circostante il tumore, il cosiddetto microambiente tumorale, rendendolo più favorevole all’attivazione della risposta immunitaria contro il cancro”.

La ricerca, sostenuta dall’Advanced Grant “TARGET” erogato dall’European Research Council e da un finanziamento della Fondazione AIRC, non è rimasta confinata ai laboratori: grazie a una collaborazione con il gruppo di Luis Diaz al Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, i primi 18 pazienti sono già stati trattati con questo approccio chemioterapico sperimentale.

“Il passaggio dai laboratori ai pazienti ha prodotto i primi risultati incoraggianti. – sottolinea Bardelli – le analisi dei campioni ematici di questi pazienti ci confermano che il trattamento funziona: aumenta effettivamente le mutazioni nelle cellule tumorali. Tuttavia – precisa lo scienziato – è ancora necessario un lavoro di ottimizzazione prima di poter proporre questo nuovo regime terapeutico a un numero maggiore di pazienti.”

Questa scoperta rappresenta un cambio di paradigma significativo: invece di combattere direttamente i meccanismi di resistenza del tumore, i ricercatori hanno imparato a sfruttarli.

“Possiamo pensare – riflette Bardelli – a trattamenti sempre più personalizzati che guidino l’evoluzione delle cellule tumorali verso uno stato che è più facilmente trattabile con le terapie immunologiche a disposizione.”

Il prossimo passo? “sarà di valutare – anticipa Bardelli – altre strategie per rendere i tumori più sensibili all’immunoterapia, agendo sia sulla produzione degli antigeni tumorali che sull’interazione tra sistema immunitario e cancro.”

“Questo lavoro dimostra quanto sia importante accorciare le distanze tra le scoperte biologiche e l’applicazione clinica”, conclude lo scienziato “È un risultato che non sarebbe stato possibile senza il programma IFOM dedicato ai Medici-Ricercatori, di cui Vitiello è stato parte integrante fin dal suo arrivo nel nostro istituto. Un programma che crea figure professionali dalle competenze trasversali e fortemente traslazionali.”

 

APPROFONDIMENTO SCIENTIFICO 

Il ruolo del sistema mismatch repair (MMR). I tumori con alterato sistema di riparo del DNA mismatch repair rappresentano il prototipo dei tumori responsivi all’immunoterapia. Questo perché a causa dell’alterato riparo del DNA, questi tumori accumulano centinaia di mutazioni che portano alla formazione di nuovi antigeni, molecole di derivazione proteica in grado di attirare l’attenzione del sistema immunitario.

Meccanismo molecolare della scoperta L’aggiunta di cisplatino alla temozolomide induce nelle cellule tumorali uno stato in cui il riparo del DNA è depotenziato. I due chemioterapici inducono numerosissime mutazioni al DNA tumorale, spingendo le cellule tumorali a ridurre la capacità di riconoscere e riparare i danni al DNA per sfuggire all’azione dei farmaci. Questo adattamento, che protegge transitoriamente le cellule dall’effetto della chemioterapia, crea però una nuova vulnerabilità sfruttabile terapeuticamente, rendendo i tumori più riconoscibili al sistema immunitario e più sensibili all’immunoterapia.

I due chemioterapici protagonisti

  • Temozolomide: farmaco alchilante che danneggia il DNA delle cellule tumorali introducendo lesioni specifiche. È efficace contro tumori con specifiche caratteristiche molecolari, ed è attualmente utilizzato principalmente nel trattamento di alcuni tumori cerebrali.
  • Cisplatino: composto a base di platino che forma legami crociati con il DNA, impedendo la replicazione cellulare. È uno dei chemioterapici più utilizzati in oncologia per il trattamento di tumori solidi come quelli del testicolo, dell’ovaio, della vescica e del polmone.

Modifiche del microambiente tumorale I tumori sono costituiti sia da cellule tumorali che da cellule dell’organismo che circondano e interagiscono con esse, come quelle del sistema immunitario, che costituiscono il cosiddetto “microambiente tumorale”. La combinazione di cisplatino e temozolomide è in grado di modificare le caratteristiche delle cellule presenti microambiente tumorale, potenziando gli elementi in grado di sostenere l’attivazione immunitaria contro il tumore.

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Una nuova prospettiva terapeutica per i tumori del colon-retto: quando la chemioterapia “addestra” il sistema immunitario. Foto di StockSnap

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

TUMORE DELL’OVAIO: PASSI AVANTI VERSO LA DIAGNOSI PRECOCE
Secondo i risultati di una ricerca l’applicazione di innovative tecniche di genomica permetterebbe di rilevare tracce di tumore ovarico con anni di anticipo rispetto alla manifestazione dei sintomi, grazie all’analisi del DNA sui tamponi utilizzati per il Pap test.
La scoperta potrebbe cambiare l’approccio alla malattia.

La ricerca, condotta in Humanitas, è stata portata a termine in maniera retrospettiva a partire dai tamponi di Pap test di 113 pazienti, raccolti e analizzati in collaborazione con numerosi centri su tutto il territorio italiano: IRCCS Ospedale San Gerardo di Monza, IRCCS Policlinico Gemelli di Roma, IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, il Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, l’Azienda Ospedaliero Universitaria Città della Salute e della Scienza di Torino, l’Istituto Mario Negri di Milano e l’Università degli Studi di Padova.

Rozzano, 6 dicembre 2023 – Il sogno di una diagnosi precoce per il tumore dell’ovaio è oggi un passo più vicino alla realtà: secondo i risultati di uno studio, pubblicati sulla rivista Science Translational Medicine, grazie a nuove tecniche di analisi genomica è possibile identificare la presenza di alterazioni molecolari specifiche del tumore ovarico, con anni di anticipo rispetto alle prime manifestazioni della malattia, nei tamponi usati per il Pap test, il comune esame di screening dei tumori del collo dell’utero.

La diagnosi precoce del tumore dell’ovaio, i cui sintomi si manifestano tardivamente, è fondamentale per la sopravvivenza. Questa passa infatti, a cinque anni dalla diagnosi, da appena il 30% per i tumori diagnosticati al III stadio a oltre il 90% per i tumori identificati al I stadio, quando la malattia è ancora nella fase inziale di sviluppo.

«La sopravvivenza al tumore dell’ovaio dipende fortemente dal momento in cui la malattia viene scoperta: cambiare la nostra capacità di fare diagnosi precoce, significa cambiare le possibilità di cura. Ed è quello che crediamo sia possibile fare grazie a un approccio innovativo, implementabile su larga scala e non invasivo: utilizzando i tamponi dei Pap test e applicando tecniche di analisi genomica in grado di identificare un’importante firma molecolare di questo tumore: la sua instabilità genomica1»,

affermano Maurizio D’Incalci, professore di farmacologia in Humanitas University e responsabile del laboratorio di Farmacologia Antitumorale in IRCCS Istituto Clinico Humanitas, e Sergio Marchini, responsabile dell’Unità di Genomica traslazionale dello stesso istituto, che hanno ideato e coordinato lo studio.

«Il tumore all’ovaio viene diagnosticato quando ormai è in fase avanzata, quando cioè la malattia è diffusa in più organi. Il trattamento in questo stadio è molto complesso e spesso le pazienti vanno incontro a resistenza alla terapia. Avere dei metodi per la diagnosi precoce diventa cruciale: nello studio appena pubblicato abbiamo dimostrato come sia possibile – usando campioni che vengono abitualmente presi per il Pap test cioè campioni non invasivi, facili da ottenere e già utilizzati per altri screening – identificare con largo anticipo rispetto al momento della diagnosi le alterazioni genomiche precoci tipiche delle cellule tumorali. Il lavoro – sottolinea la professoressa Chiara Romualdi del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova che ha partecipato alla pubblicazione – ha un’ampia parte sperimentale e una, altrettanto grossa, parte computazionale. Io mi sono occupata di supervisionare la parte biostatistica e computazionale di analisi del dato genomico per definire le soglie utilizzate per identificare un campione con presenza di cellule tumorali o meno».

La ricerca è stata condotta in maniera retrospettiva a partire dai tamponi di Pap test di 113 pazienti, raccolti e analizzati in collaborazione con numerosi centri su tutto il territorio italiano: IRCCS Ospedale San Gerardo di Monza, IRCCS Policlinico Gemelli di Roma, IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, il Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, l’Azienda Ospedaliero Universitaria Città della Salute e della Scienza di Torino, l’Istituto Mario Negri di Milano e l’Università degli Studi di Padova.

La ricerca è stata possibile grazie al sostegno di Fondazione Alessandra Bono, Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro e Alleanza Contro il Cancro. Gli studi proseguiranno anche grazie al contributo di Rinascente attraverso Fondazione Humanitas per la Ricerca.

Tumore dell’ovaio: la sfida della diagnosi precoce e il ruolo dell’instabilità genomica

In Italia ogni anno vengono diagnosticati più di 5000 nuovi casi di tumore all’ovaio, che si aggiungono alle circa trentamila donne che sono già in cura per la patologia. La forma più frequente di tumore ovarico è chiamato “carcinoma ovarico sieroso ad alto grado” (in acronimo HGSOC). Costituisce il 70% di tutte le diagnosi e rappresenta purtroppo la forma più aggressiva e letale della malattia, spesso resistente ai farmaci chemioterapici anche perché diagnosticata in fase avanzata. Il tumore all’ovaio è infatti una patologia che non dà sintomi facilmente riconoscibili.

Negli ultimi decenni diversi gruppi di ricerca nel mondo hanno provato a mettere a punto una tecnica di diagnosi precoce per il tumore ovarico, senza successo. Una di queste tecniche, come quella proposta da ricercatori di Humanitas su Science Translational Medicine, si basava sull’analisi dei tamponi per il Pap test, ma in quel caso si cercava una mutazione genetica che si è poi rivelata non sufficientemente specifica.

«A fare la differenza, questa volta, è l’idea di guardare a un’altra caratteristica molecolare delle cellule tumorali: la loro instabilità genomica – spiega Sergio Marchini –. Oggi sappiamo che già nelle prime fasi del processo di trasformazione tumorale, il DNA delle future cellule neoplastiche è caratterizzato da profonde anomalie nella sua struttura e organizzazione. L’instabilità genomica è quindi una caratteristica primitiva e non condivisa con le cellule sane, e quindi un’ottima base di partenza per sviluppare un test di diagnosi precoce».

Lo studio retrospettivo su 113 pazienti con tumore ovarico

Per realizzare lo studio, i ricercatori hanno raccolto i Pap test effettuati, anni prima della diagnosi, da 113 donne con tumore all’ovaio. I tamponi sono stati analizzati con una tecnica di sequenziamento del DNA che permette di rilevare anche piccole tracce di DNA tumorale e di misurare la loro instabilità genomica. I risultati così ottenuti sono poi stati confrontati con un gruppo di controllo: i Pap test di 77 donne sane, che non hanno ricevuto negli anni successivi alcuna diagnosi di tumore.

«Per la prima volta nella ricerca sulla diagnosi del tumore ovarico, i dati sono davvero promettenti: dimostrano che la tecnica impiegata è in grado di riconoscere nei tamponi la presenza di DNA tumorale con anni di anticipo rispetto alla manifestazione della malattia, in un caso addirittura nove anni prima. Il numero di falsi positivi nel gruppo di controllo è molto basso, così come il numero di falsi negativi tra i tamponi delle pazienti con tumore»,

spiegano Lara Paracchini e Laura Mannarino, prime autrici dello studio, di cui hanno curato rispettivamente gli esperimenti in laboratorio e l’analisi bioinformatica dei dati.

Si tratta però solo del primo fondamentale passo vero la dimostrazione di fattibilità ed efficacia di una tecnica di diagnosi precoce per questa malattia.

«I test diagnostici sono particolarmente complessi da testare perché vanno valutati nel mondo reale, su grandi numeri di pazienti e in modo prospettico. Solo così sarà possibile dimostrare che rilevando queste tracce di DNA altamente instabile siamo davvero in grado di predire la malattia e di implementare un percorso di monitoraggio che può salvare delle vite. I dati appena pubblicati su Science Translational Medicine aprono una strada: ora serve il sostegno di tutti per avviare un ampio e robusto studio prospettico, volto a confermare i dati e trasformare il sogno di una diagnosi precoce del tumore ovarico in una realtà concreta», conclude il prof. Maurizio D’Incalci.

DNA - Neuroscienze forensi
Foto di Darwin Laganzon

1 Pesenti C, Beltrame L, Velle A, et al. Copy number alterations in stage I epithelial ovarian cancer highlight three genomic patterns associated with prognosis. Eur J Cancer. 2022;171:85-95. https://doi.org/10.1016/j.ejca.2022.05.005

Per approfondire la notizia: https://www.humanitas.it/news/cancro-dell-ovaio-nuove-prospettive-di-cura-grazie-alla-genomica-molecolare/

 

Testi dagli Uffici Stampa dell’Università di Padova e della Humanitas University.

RICERCATORI DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO IDENTIFICANO DUE PROTEINE COINVOLTE NELLA CACHESSIA NEOPLASTICA

I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Cell Reports Medicine, suggeriscono un nuovo approccio terapeutico per trattare una sindrome, associata a molte patologie croniche, che ancora rappresenta un’esigenza medica.

cachessia neoplastica UniTo graphical abstract due proteine

Gli scienziati del Dipartimento di eccellenza di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, che lavorano al Molecular Biotechnology Center di via Nizza 52, hanno identificato il ruolo chiave di due proteine nella promozione della cachessia neoplastica e dell’atrofia muscolare. I risultati dello studio, coordinato dal Prof. Paolo E. Porporato del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze della Salute e sostenuto da Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro, sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Cell Reports Medicine.

La cachessia è una sindrome associata a molte patologie croniche, caratterizzata da un forte calo del peso corporeo e da una crescente atrofia muscolare, che incide drasticamente sulla qualità di vita e sulla prognosi dei pazienti. In ambito oncologico questa condizione affligge la maggior parte dei pazienti con malattia in stadio avanzato e rappresenta la causa di morte in almeno il 20% dei casi. Anche a causa delle scarse conoscenze alla base della cachessia neoplastica, attualmente non esistono cure specifiche ed efficaci.

Le cellule che costituiscono i tessuti del nostro corpo rispondono a stimoli dell’ambiente circostante con flussi di proteine che si attivano e inattivano, lungo specifiche vie di segnalazione cellulare. La ridotta attività di una di queste vie di segnalazione, chiamata “BMP-Smad”, induce una diminuzione della forza e della massa muscolare ed è uno dei meccanismi biologici noti alla base della cachessia neoplastica.

I ricercatori dell’Università di Torino hanno aggiunto un tassello a questo quadro, identificando due proteine coinvolte nella riduzione di questa via di segnalazione: l’ormone eritroferrone (ERFE) e la proteina intracellulare FKBP12. Grazie a una stretta collaborazione con l’Università di Padova e l’Ospedale San Raffaele di Milano, gli scienziati hanno osservato l’aumento dell’ormone ERFE nei muscoli di pazienti oncologici. Inoltre, in modelli sperimentali di cachessia neoplastica hanno trovato che tale aumento è indotto da uno stato persistente di infiammazione.

Una volta identificato ERFE come ulteriore inibitore della segnalazione del BMP-Smad, i ricercatori hanno valutato un possibile approccio terapeutico per riattivare questa via. Il gruppo ha in particolare studiato l’effetto della molecola FK506, che a basso dosaggio lega e rimuove la proteina FKBP12. Allentando il freno rappresentato dalla proteina FKBP12, la molecola FK506 riattiva la via del segnale del BMP-Smad nel muscolo. In particolare la Dott.ssa Erica Mina, prima autrice dell’articolo, ha individuato gli effetti positivi della molecola FK506 sul muscolo. Basse dosi di FK506 sono in grado di ripristinare la sintesi proteica e prevenire l’atrofia di fibre muscolari in vitro e in modelli sperimentali di cachessia neoplastica. FK506 impedisce la perdita del peso corporeo, proteggendo anche dalle alterazioni dell’apparato neuromuscolare: una condizione chiave per il miglioramento della qualità di vita in caso di cachessia.

I dati raccolti con questa ricerca, sostenuta da Fondazione AIRC, sono un interessante punto di partenza per la comprensione dei meccanismi alla base della cachessia neoplastica. Ulteriori studi saranno necessari per una futura applicazione clinica. Sarà, infatti, necessario sviluppare un approccio farmacologico che colpisca solo il muscolo, per garantire un effetto specifico del trattamento.

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Pubblicati su Nature nuovi indizi nella ricerca di una cura per la sclerosi multipla (SM)

I ricercatori identificano il primo marcatore genetico per la gravità della SM, aprendo nuovi orizzonti ai trattamenti per la disabilità a lungo termine.

28 giugno 2023. Uno studio multicentrico internazionale, a cui hanno collaborato in Italia l’Università del Piemonte Orientale, l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, l’Università degli Studi di Milano, la Fondazione IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza e l’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano, condotto su oltre 22.000 persone con sclerosi multipla (SM) ha scoperto la prima variante genetica associata a una progressione più rapida della malattia, che nel tempo può privare i pazienti della loro mobilità e indipendenza.

La sclerosi multipla è il risultato dell’azione del sistema immunitario che attacca erroneamente il cervello e il midollo spinale provocando riacutizzazioni dei sintomi, note come ricadute, e degenerazione a lungo termine, nota come progressione, cioè un accumulo di disabilità. Nonostante lo sviluppo di trattamenti efficaci per le ricadute, nessuno può prevenire in modo affidabile l’accumulo di disabilità.

Nuovi indizi nella ricerca di una cura per la sclerosi multipla

I risultati di questo lavoro, pubblicati su Nature, puntano l’attenzione sull’identificazione di una variante genetica che aumenta la gravità della malattia, fornendo un’informazione fondamentale nella comprensione e quindi nella lotta a questo aspetto della SM.

«Ereditare questa variante genetica da entrambi i genitori accelera di quasi quattro anni il tempo per avere bisogno di un ausilio per la deambulazione», ha affermato Sergio Baranzini, PhD, professore di neurologia presso l’UCSF e co-autore senior dello studio.

Il lavoro è stato il risultato di un’ampia collaborazione internazionale di oltre 70 istituzioni di tutto il mondo, guidate da ricercatori dell’UCSF (USA) e dell’Università di Cambridge (Regno Unito).

«Capire come la variante esercita i suoi effetti sulla gravità della SM aprirà auspicabilmente la strada a una nuova generazione di trattamenti in grado di prevenire la progressione della malattia», ha affermato Stephen Sawcer, professore all’Università di Cambridge ed altro co-autore senior di lo studio.

Una rinnovata attenzione al sistema nervoso

Per affrontare il mistero della gravità della SM, due grandi consorzi di ricerca sulla SM hanno unito le loro forze: l’International Multiple Sclerosis Genetics Consortium (IMSGC) e il MultipleMS Consortium. Ciò ha consentito ai ricercatori della SM di tutto il mondo di mettere in comune le risorse necessarie per iniziare a identificare i fattori genetici che influenzano l’andamento clinico della SM.

In Italia la ricerca è stata coordinata dalla professoressa Sandra D’Alfonso, docente di Genetica medica presso il Dipartimento di Scienze della salute dell’Università del Piemonte Orientale, a Novara (che insieme al dottor Maurizio Leone della Fondazione IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo (FG) coordina PROGEMUS, il network italiano di centri SM che ha partecipato allo studio e che comprende la Clinica Neurologica dell’AOU “Maggiore della Carità” di Novara), dal professor Filippo Martinelli Boneschi, docente di Neurologia del Dipartimento di Scienze della salute presso l’Università degli Studi di Milano e responsabile del centro Sclerosi Multipla presso l’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano, entrambi all’interno del gruppo strategico dell’IMSGC, e dalla dottoressa Federica Esposito, responsabile del laboratorio di Genetica Umana delle Malattie Neurologiche presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e membro dell’IMSGC con il professor Massimo Filippi, primario dell’Unità di Neurologia, Neuroriabilitazione e Neurofisiologia e del centro SM dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano.

Precedenti studi avevano dimostrato che la suscettibilità o il rischio di SM deriva in gran parte da disfunzioni del sistema immunitario e alcune di queste disfunzioni possono essere trattate, rallentando la malattia. Ma

«questi fattori di rischio non spiegano perché, a dieci anni dalla diagnosi, alcune persone con la SM siano sulla sedia a rotelle mentre altri continuino a correre maratone», ha spiegato Baranzini.

I due consorzi hanno integrato i dati di oltre 12.000 persone con SM per completare uno studio di associazione su tutto il genoma (GWAS), che utilizza la statistica per associare accuratamente le varianti genetiche a tratti particolari. In questo caso, i tratti di interesse erano correlati alla gravità della SM, comprendendo, per esempio, gli anni necessari a ciascuna persona per passare dalla diagnosi a un certo livello di disabilità.

I ricercatori italiani, membri di entrambi i consorzi fin dalla loro istituzione, hanno contribuito attivamente a tutte le fasi dello studio, dal disegno originale alle fasi di analisi e di preparazione dell’articolo. Essi, inoltre, hanno contribuito con un’ampia casistica italiana di persone con SM caratterizzate accuratamente da un punto di vista clinico, che costituiscono circa il 20% dell’intera popolazione in studio. I centri di ricerca italiani hanno fornito allo studio dati di un’ampia componente di una popolazione del sud Europa, altrimenti non rappresentata nell’intera casistica, sottolineando il valore della variabilità genetica negli studi di malattie multifattoriali come la SM.

Dopo aver setacciato oltre sette milioni di varianti genetiche, i ricercatori ne hanno trovata una associata a una progressione più rapida della malattia. La variante si trova tra due geni senza precedente associazione alla SM, chiamati DYSF e ZNF638. Il primo è coinvolto nella riparazione delle cellule danneggiate, il secondo aiuta a controllare le infezioni virali. La vicinanza della variante a questi geni suggerisce che potrebbero essere coinvolti nella progressione della malattia.

«Questi geni sono normalmente attivi nel cervello e nel midollo spinale, e non nel sistema immunitario», ha affermato Adil Harroud, MD, primo autore dello studio. «I nostri risultati suggeriscono che la resilienza e la riparazione nel sistema nervoso determinano il corso della progressione della SM e che dovremmo concentrarci su queste parti della biologia umana per terapie più efficaci

I risultati di questo studio costituiscono i primi indizi per affrontare la componente del sistema nervoso della SM.

«Sebbene sembri ovvio che la resilienza del cervello alle lesioni determinerebbe la gravità di una malattia come la SM, questo nuovo studio ci ha indirizzato verso i processi chiave che sono alla base di questa resilienza», ha detto Sawcer.

Una coalizione in continua espansione per affrontare la gravità della SM

Per confermare le loro scoperte, i ricercatori hanno studiato la genetica di quasi 10.000 ulteriori persone affette da SM. Quelli con due copie della variante sviluppano disabilità più velocemente. Sarà necessario ulteriore lavoro per determinare esattamente come questa variante genetica influenzi DYSF, ZNF638 e il sistema nervoso più in generale. I ricercatori stanno anche raccogliendo una serie ancora più ampia di campioni di DNA da persone con SM, aspettandosi di trovare altre varianti che contribuiscono alla disabilità a lungo termine nella SM.

«Questo studio ci dà una nuova opportunità per sviluppare nuovi farmaci che possono aiutare a preservare la salute di tutti coloro che soffrono di SM», ha detto Harroud.

I ricercatori italiani coinvolti nello studio internazionale Sandra D’Alfonso, Filippo Martinelli Boneschi e Federica Esposito sottolineano come

«questo lavoro rappresenta un’importante svolta nell’ambito della medicina di precisione, in quanto potrebbe, per esempio, portare all’uso di terapie più aggressive sin dall’inizio in quei soggetti portatori di varianti genetiche sfavorevoli per la progressione. Inoltre, la conoscenza di questa variante e dei due geni in prossimità della variante potrebbe permettere di sviluppare nuovi farmaci che agiscano sul meccanismo d’azione di questi due geni e rallentino la progressione della malattia.»

Finanziamenti

Questo lavoro è stato sostenuto in parte dai finanziamenti del NIH/NINDS (R01NS099240), del programma di finanziamento della ricerca e dell’innovazione Horizon 2020 dell’Unione Europea e della Multiple Sclerosis Society of Canada. I ricercatori italiani hanno ricevuto finanziamenti che negli anni hanno permesso di poter contribuire a questo studio da parte di FISM (Fondazione Italiana Sclerosi Multipla) e Ministero della Salute (Ricerca finalizzata, RF-2016-02361294).

Altri collaboratori italiani allo Studio

Nadia Barizzone, Dipartimento Scienze della Salute UPO, Novara

Paola Cavalla: Dipartimento di Neuroscienze e salute Mentale AOU Citta della Salute e della Scienza di Torino

Ferdinando Clarelli, Elisabetta Mascia, Silvia Santoro, Melissa Sorosina IRCCS Istituto Scientifico San Raffaele, Milano

Domenico Caputo: IRCCS Fondazione Don Gnocchi ONLUS, Milano

Giancarlo Comi: Università Vita-Salute San Raffaele, Milano

Domizia Vecchio: Clinica Neurologica AOU Maggiore della Carità, Novara, UPO

Locus for severity implicates CNS resilience in progression of multiple sclerosis, Nature (2023), DOI: 10.1038/s41586-023-06250-x

 

Testo e foto dall’Ufficio Comunicazione e Attività Istituzionali Università del Piemonte Orientale