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COVID-19: scoperta la “tempesta perfetta” che aumenta il rischio di trombosi

Due studi italiani, condotti da un gruppo di ricercatori della Sapienza Università di Roma su pazienti con infezione da Sars Cov-2, identificano un mix di fattori per riconoscere i soggetti a maggior rischio di trombosi e le indicazioni per ottimizzare la terapia anti-coagulante.

trombosi COVID-19
Foto di PIRO4D

Nei pazienti COVID-19 una delle principali cause di mortalità è l’elevato rischio di trombosi, che può presentarsi sia nel distretto venoso in forma di trombosi venosa profonda o embolia polmonare, sia in quello arterioso in forma di infarto del miocardio o ictus. Circa il 20% dei pazienti COVID-19 può andare incontro a queste gravi complicanze durante il ricovero.

Purtroppo fino a ora le evidenze disponibili non hanno consentito di identificare con chiarezza i pazienti COVID-19 a rischio di trombosi né le indicazioni alla terapia anticoagulante per la prevenzione del rischio tromboembolico.

Il gruppo di ricerca coordinato da Francesco Violi del Dipartimento di Medicina interna e specialità mediche della Sapienza Università di Roma, in collaborazione con Lorenzo Loffredo, Pasquale Pignatelli e Annarita Vestri dello stesso Ateneo, ha realizzato due studi nei quali vengono identificati quali sono i pazienti con maggiore rischio di trombosi e quali le dosi ideali di terapia anticoagulante per la prevenzione di eventi trombotici. Uno dei due lavori è pubblicato sulla rivista Thrombosis and Haemostasis e l’altro è in pubblicazione su Haematologica.

In particolare, il primo lavoro è consistito in uno studio multicentrico che ha incluso 674 pazienti COVID-19, nel quale la combinazione di 3 semplici variabili quali età, albumina serica e livelli di D-dimero, uno dei frammenti proteici della fibrina, responsabile della formazione di coaguli (trombi) nei vasi sanguigni, ha permesso di identificare i pazienti con maggior rischio di trombosi.

È stato visto che coloro che avevano una combinazione di età elevata (più di 70anni) bassa albumina (<35 g/L) e D-dimero elevato (>2000ng/ml) avevano una maggiore probabilità di trombosi, rispetto a pazienti di età inferiore e con valori normali di albumina e D-dimero.

“Avendo a disposizione questo semplice punteggio, chiamato ADA score – spiega Francesco Violi – è adesso possibile stabilire chi è a maggiore rischio di trombosi e che ha necessità di un trattamento anticoagulante”.

Il secondo lavoro, in pubblicazione su Haematologica, rivista ufficiale della Società Europea di Ematologia, risponde a una problematica ancora dibattuta dopo due anni dall’inizio della pandemia, ovvero se la prevenzione di questi eventi trombotici vada fatta con una terapia anticoagulante standard o con dosi profilattiche, cioè basse dosi di anticoagulanti. Questo aspetto è rilevante in quanto le basse dosi di anticoagulante, che tutt’oggi sono la terapia più usata, potrebbero essere insufficienti a ridurre il rischio di trombosi.

Il team di ricercatori ha effettuato una meta-analisi degli studi che hanno confrontato i due tipi di trattamento, dimostrando che le dosi standard di anticoagulanti sono superiori alle dosi profilattiche nel ridurre gli eventi trombotici senza aumentare il rischio di emorragie serie.

“La meta-analisi, che ha incluso circa 4500 pazienti COVID-19 – conclude Violi – dimostra come questa terapia rappresenterebbe un utile supporto non solo per ridurre gli eventi trombotici, ma anche della mortalità, che, purtroppo, rimane ancora elevata fra questi soggetti”.

Riferimenti:

The ADA (Age-D-Dimer-Albumin) score to predict thrombosis in SARS-CoV-2 – Francesco Violi, Pasquale Pignatelli, Annarita Vestri, Alessandra Spagnoli, Francesco Cipollone, Giancarlo Ceccarelli, Alessandra Oliva, Maria Amitrano, Matteo Pirro, Gloria Taliani, Roberto Cangemi, Miriam Lichtner, Francesco Pugliese, Marco Falcone, Mario Venditti, Claudio Maria Mastroianni, Lorenzo Loffredo – Thromb Haemost DOI: 10.1055/a-1788-7592

Full versus prophylactic-intermediate doses of anticoagulants in COVID-19: a meta-analysis – Lorenzo Loffredo, Augusto Di Castelnuovo, Giovanni Aldo Chiariello, Pasquale Pignatelli and Francesco Violi – Haematologica

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Da Napoli lo studio dell’equipe della Diabetologia della Federico II pubblicato su “Advances in Nutrition”

Mangiare pesce fa bene al cuore? Sì, ma solo se è grasso!

Il consumo di pesce azzurro, anche detto pesce grasso, riduce il rischio di malattie cardiovascolari e di mortalità precoce, mentre il pesce bianco, identificato come pesce magro, non ha lo stesso potenziale.

Importante l’impatto che la ricerca avrà sulle scelte alimentari della popolazione adulta e sull’ecosistema marino.

acciughe pesce cuore
Mangiare pesce fa bene al cuore? Acciuga europea o alice (Engraulis encrasicolus). Acciughe fotografate nel Mar Ligure. Foto di Alessandro Duci, caricata da Massimiliano Marcelli, in pubblico dominio

Chi di noi, rivolgendosi ad un esperto, non ha ricevuto l’indicazione di consumare pesce almeno tre volte a settimana? Ebbene, da oggi qualcosa potrebbe cambiare.

Se, infatti, numerosi studi hanno dimostrato che il consumo di pesce si associa alla riduzione del rischio di malattie cardiovascolari ischemiche, come l’infarto del miocardio, sino ad ora nessuno aveva chiarito se i tipi di pesce fossero intercambiabili o se fosse meglio preferire le alici alla spigola, le sardine ai gamberi, in sintesi se fosse meglio il pesce azzurro, anche detto pesce grasso o il pesce bianco, noto come pesce magro.

La risposta è arrivata dallo studio dell’equipe della Diabetologia del Policlinico Federico II, guidata dalla professoressa Olga Vaccaro, che ha analizzato tutti i dati disponibili in letteratura sulla relazione tra il consumo di pesce e le malattie cardiovascolari.

Utilizzando una metodologia basata sulla sistematicità della ricerca, grazie a procedure statistiche in grado di combinare tutti i dati disponibili, abbiamo analizzato una popolazione di 1,320,509 individui, seguiti per un periodo di tempo che va dai 4 ai 40 anni. I risultati hanno mostrato, con estrema chiarezza, che il consumo di 1-2 porzioni di pesce grasso a settimana si associa ad una riduzione significativa del rischio di infarto e di altre patologie cardiache che, per i casi fatali, si colloca intorno al 17%. Al contrario, il consumo abituale di pesce magro, pur non aumentando il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, non si associa a questi benefici”, spiega la professoressa Vaccaro.

Vale a dire che il consumo di pesce grasso, come sardine, sgombri ed altri pesci azzurri, riduce il rischio di malattie cardiovascolari e di mortalità precoce, mentre il pesce magro, come merluzzo, spigola, crostacei, molluschinon ha lo stesso potenziale.

I risultati di questo studio mettono in luce, per la prima volta, che l’effetto benefico sulla salute cardiovascolare attribuito finora al consumo di pesce in generale è in realtà limitato esclusivamente al pesce grasso. Questo ha una sua logica: il pesce grasso contiene, infatti, quantità fino a 10 volte più elevate di grassi cosiddetti omega-3, benefici per la salute, rispetto al pesce magro, inoltre, il pesce grasso è più ricco di molte altre sostanze salutari come calcio, potassio, ferro e Vitamina D, che possono contribuire all’impatto benefico del pesce azzurro sul cuore”, sottolinea il professore Gabriele Riccardi, già direttore della Diabetologia Federiciana.

Le conclusioni dello studio avranno implicazioni rilevanti per le scelte alimentari della popolazione adulta e per la preservazione dell’ecosistema marino.

La consapevolezza che bastano una o due porzioni di pesce azzurro a settimana per ridurre marcatamente il rischio di malattie cardiache facilita l’adesione alle raccomandazioni nutrizionali in confronto al generico consiglio di consumare ogni tipo di prodotto della pesca con una frequenza maggiore. Guardando agli aspetti ambientali, la scelta preferenziale di pesce azzurro di piccola taglia, e con un breve ciclo di vita come alici, sardine, sgombri, aringhe e molti altri pesci meno noti ma molto diffusi nel mar Mediterraneo, ha un impatto rilevante sull’ecosistema marino ed è molto più sostenibile dell’utilizzo di specie, ritenute più pregiate, che arrivano sulla nostra tavola grazie all’acquacultura o alla pesca intensiva”, conclude la professoressa Vaccaro.

All’innovativo studio, insieme ai professori Vaccaro e Riccardi, hanno preso parte le nutrizioniste Marilena Vitale e Ilaria Calabrese, la dottoranda di ricerca in “Nutraceuticals Functional Foods and Human Health” Annalisa Giosuè e la diabetologa Roberta Lupoli.

Testo dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli.