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IL SALTO DELL’ACQUA – Pubblicato sulla rivista «Nature Communications» lo studio dell’Università di Padova che evidenzia che i corsi d’acqua montani rilasciano grandi quantità di gas serra in atmosfera.

Quando si parla di cambiamento climatico, il primo pensiero va alle emissioni di gas serra prodotte da attività antropiche e in particolare dai combustibili fossili. E se invece una parte considerevole di questi gas derivasse da una sorgente inaspettata come l’acqua? È quanto ha rilevato un gruppo di ricercatori dell’Università di Padova nello studio dal titolo “Steps dominate gas evasion from a mountain headwater stream” pubblicato su «Nature Communications», svolto nell’ambito del progetto europeo “DyNET: Dynamical River Networks” e coordinato dal prof. Gianluca Botter del dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale (ICEA).

Pochi sanno che – a scala regionale e globale – un rilevante quantitativo di anidride carbonica (circa 12 miliardi di quintali di carbonio all’anno, corrispondenti a oltre il 10% del totale) viene emesso in atmosfera dai fiumi, primi fra tutti i piccoli corsi d’acqua che solcano le regioni montane nel loro scorrere incessante verso il mare e gli oceani. I torrenti montani, infatti, risultano spesso sovrasaturi di CO2 e hanno una significativa capacità di scambio con l’atmosfera in ragione dell’elevata turbolenza della corrente idrica.

Il salto dell'acqua
i corsi d’acqua montani rilasciano grandi quantità di gas serra in atmosfera

Lo studio dell’Università di Padova ha però mostrato che le stime esistenti dei quantitativi di anidride carbonica rilasciati dalle acque dolci terrestri verso l’atmosfera potrebbero essere largamente sottostimate, poiché non hanno fino ad ora considerato in modo esplicito le emissioni localizzate in corrispondenza dei salti di fondo presenti nei torrenti montani. Nello specifico, i ricercatori hanno analizzato la Svizzera perché ricca di corsi d’acqua montani e perché soggetta a studi precedenti, quindi facile oggetto di confronto.

«Attraverso la ricerca abbiamo osservato che il frangimento del getto indotto dalle brusche discontinuità nella quota dell’alveo induce un significativo rilascio localizzato di gas in atmosfera favorito dalle bolle d’aria e dalla schiuma – le cosiddette “white waters” – che si formano a valle di ciascun salto. Le analisi svolte – afferma Gianluca Botter, primo autore dello studio – hanno sorprendentemente evidenziato che le emissioni gassose in corrispondenza dei salti di fondo sono in genere maggiori delle emissioni che avvengono in tutte le restanti parti del corso d’acqua, ossia in tutti i lunghi tratti continui senza salti che i fiumi incontrano nel loro complesso percorso verso il mare».

Gianluca Botter
Gianluca Botter

L’applicazione a scala regionale di questa scoperta ha dimostrato che, se si ricalcolasse la quantità di anidride carbonica emessa in atmosfera dai fiumi tenendo conto delle emissioni gassose in corrispondenza dei salti di fondo, la massa di CO2 evasa attraverso la totalità dei corsi d’acqua montani della Svizzera potrebbe aumentare da 3.5 fino a 9.6 kgC/m2/anno, quasi tre volte tanto le stime attuali.

Il risultato mette in discussione anche le stime esistenti a livello globale riguardanti le emissioni di CO2 dai corpi d’acqua dolce e pone nuove basi per lo studio del delicato equilibrio dei gas serra in atmosfera e del complesso ciclo del carbonio del nostro pianeta.

Link alla ricerca: https://www.nature.com/articles/s41467-022-35552-3

Titolo: Steps dominate gas evasion from a mountain headwater stream – «Nature Communications» – 2022

Autori: Gianluca Botter, Anna Carozzani, Paolo Peruzzo e Nicola Durighetto

Link al progetto europeo: https://www.erc-dynet.it/

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova

OLTRE IL 2% DELLE EMISSIONI GLOBALI DI GAS SERRA SONO CAUSATE DAI FERTILIZZANTI SINTETICI

Lo studio internazionale condotto dal team di ricerca dell’Università di Torino, dell’Università di Exeter e di Greenpeace

fertilizzanti azotati sintetici gas serra

I fertilizzanti azotati sintetici sono responsabili del 2,1% delle emissioni globali di gas serra, secondo una nuova ricerca pubblicata sulla rivista Scientific Reports e intitolata “Greenhouse gas emissions from global production and use of nitrogen synthetic fertilisers in agriculture”. A differenza dei fertilizzanti organici, che provengono da materiale vegetale o animale, i fertilizzanti sintetici sono prodotti dall’uomo con processi chimici. La produzione e il trasporto causano emissioni di carbonio, mentre l’uso agricolo di questi fertilizzanti porta al rilascio di protossido di azoto (N₂O), un gas serra 265 volte più potente dell’anidride carbonica (CO₂) nell’arco di un secolo.

Il team di ricerca – dei Laboratori di Ricerca dell’Università di Torino, dell’Università di Exeter e di Greenpeace – ha scoperto che la filiera dei fertilizzanti azotati sintetici è stata responsabile dell’emissione dell’equivalente di 1,13 gigatonnellate di CO₂ nel 2018. Si tratta di oltre il 10% delle emissioni globali prodotte dall’agricoltura e di una quantità superiore alle emissioni dell’aviazione commerciale nello stesso anno. I primi quattro emettitori – Cina, India, Stati Uniti e UE28 (Paesi dell’Unione Europea più il Regno Unito) – hanno rappresentato il 62% del totale.

“Non c’è dubbio che le emissioni di fertilizzanti azotati sintetici debbano essere ridotte, invece di aumentare, come attualmente previsto”, ha dichiarato la Dott.ssa Reyes Tirado, dei Laboratori di ricerca di Greenpeace. “Il sistema agroalimentare globale si affida all’azoto sintetico per aumentare la resa dei raccolti, ma l’uso di questi fertilizzanti è insostenibileLe emissioni potrebbero essere ridotte senza compromettere la sicurezza alimentare. In un momento in cui i prezzi dei fertilizzanti sintetici stanno salendo alle stelle, riflettendo la crisi energetica, ridurne l’uso potrebbe giovare agli agricoltori e aiutarci ad affrontare la crisi climatica”.

Quando i fertilizzanti azotati vengono applicati al suolo, una parte viene assorbita dalle piante e una parte viene utilizzata dai microrganismi del suolo, che producono N₂O come sottoprodotto del loro metabolismo. L’azoto può anche finire per lisciviare dal sito. Secondo i ricercatori, la strategia più efficace per ridurre le emissioni è quella di ridurre l’eccesso di fertilizzazione, che attualmente si verifica nella maggior parte dei casi.  

“Abbiamo bisogno di un programma globale per ridurre l’uso complessivo dei fertilizzanti e aumentare l’efficienza del riciclo dell’azoto nei sistemi agricoli e alimentari”, ha dichiarato il Dott. Stefano Menegat, dell’Università di Torino. “Possiamo produrre cibo a sufficienza per una popolazione in crescita con un contributo molto minore alle emissioni globali di gas serra, senza compromettere le rese”.

Il cambiamento dei modelli alimentari verso una riduzione della carne e dei prodotti lattiero-caseari potrebbe svolgere un ruolo centrale. Tre quarti dell’azoto della produzione vegetale (espresso in termini di proteine e compresi i sottoprodotti della bioenergia) sono attualmente destinati alla produzione di mangimi per il bestiame a livello globale.

I dati dello studio, relativi al 2018, mostrano che il Nord America ha il più alto utilizzo annuale di fertilizzanti azotati per persona (40 kg), seguito dall’Europa (25-30 kg). L’Africa ha registrato il consumo più basso (2-3 kg). Il team di ricerca ha sviluppato il più grande set di dati disponibili a livello di campo sulle emissioni di N₂O nel suolo. Sulla base di questi dati, ha stimato i fattori di emissione diretta di N₂O a livello nazionale, regionale e globale, mentre ha utilizzato la letteratura esistente per trovare i fattori di emissione per le emissioni indirette di N₂O nel suolo e per la produzione e il trasporto di fertilizzanti azotati.

 

Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

I CAMBIAMENTI CLIMATICI POTREBBERO CAUSARE L’ESTINZIONE DELLE SALAMANDRINE

Foto di G. Bruni

Uno studio appena pubblicato su Scientific Reports di Nature dai paleontologi dell’Università di Torino e dell’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont ha messo in luce le potenziali connessioni tra i cambiamenti climatici del passato e le cause della scomparsa in gran parte d’Europa delle salamandrine, che oggi rappresentano l’unico genere di vertebrato esclusivo della Penisola Italiana. I cambiamenti climatici previsti per i prossimi decenni a causa delle crescenti emissioni di CO2 e altri gas serra potrebbero causarne l’estinzione definitiva.

Un gruppo di paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino e dell’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont, in un recente studio pubblicato su Scientific Reports di Nature, ha indagato le variabili climatiche in cui vivono le salamandrine e come queste si possano relazionare alle condizioni del passato e del futuro. I fossili sono l’unico strumento a disposizione dei ricercatori e delle ricercatrici per avere accesso diretto al passato e capire come gli organismi abbiano reagito ai diversi cambiamenti a cui è andata incontro la Terra. Il gruppo di ricerca di paleontologia dell’Università di Torino si occupa da molti anni di capire ciò che il record fossile del passato ci può insegnare sugli organismi attuali. Nel caso delle salamandrine, i fossili ci raccontano che questi animali, che oggi si trovano esclusivamente nell’Italia appenninica con due specie, in un periodo compreso tra circa 20 e 5 milioni di anni fa abitavano molte altre aree d’Europa, sparse tra Germania, Grecia, Spagna e Ungheria. 

Salamandrine cambiamenti climatici

Le analisi effettuate dal gruppo di lavoro, basate su metodi di modellizzazione della nicchia ecologica, hanno evidenziato che durante i cicli di glaciazione degli ultimi milioni di anni, il clima della maggior parte dell’Europa non era adatto alle salamandrine, ed è plausibile che i cambiamenti climatici avvenuti in questo intervallo di tempo ne abbiano causato l’estinzione da tutta l’Europa a esclusione dell’Italia peninsulare. Nello stesso tempo, le proiezioni sui modelli climatici futuri, sotto diversi scenari di riduzione di emissioni di CO2, hanno messo in luce una drastica riduzione dell’idoneità climatica per le salamandrine anche all’interno della nostra penisola nei prossimi 50 anni.

 
“Sebbene le salamandrine non siano ancora inserite tra gli organismi a rischio di estinzione, dovremmo avere un particolare occhio di riguardo per questo piccolo anfibio che rappresenta un’inestimabile ricchezza del patrimonio naturalistico italiano” sottolinea Loredana Macaluso, attualmente ricercatrice al Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino e primo autore dell’articolo.
“Non solo questa salamandra rappresenta l’unico genere di vertebrato endemico della Penisola Italiana, ma è anche un animale unico a livello mondiale sia per quanto riguarda il suo aspetto colorato, sia per quanto riguarda il suo particolare comportamento. Ricordiamoci che questo abitante del sottobosco italiano è una delle poche salamandre del mondo a mostrare il cosiddetto unkenreflex, un comportamento con cui mostra l’accesa colorazione di ventre, zampe e coda per intimorire i predatori, ed è l’unica al mondo attualmente nota per essere in grado di alzarsi sulle zampe posteriori e assumere una posizione bipede in determinate circostanze”. 
 
Questo contributo alla paleobiologia della conservazione rappresenta uno dei primi tentativi di collegare in modo diretto ciò che il record fossile ci testimonia e il futuro degli anfibi viventi, che sono in grave pericolo a causa dei cambiamenti climatici che stiamo inducendo tramite un utilizzo sconsiderato delle tecnologie a nostra disposizione, mostrando ancora una volta l’importanza di provvedimenti su larga scala per ridurre in modo più rapido possibile le emissioni di CO2.
Salamandrine salamandrina cambiamenti climatici
Foto di G. Bruni
 
Gli altri autori dell’articolo sono Andrea Villa, attualmente ricercatore post-doc presso l’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont di Barcellona, il Prof. Giorgio Carnevale e il Prof. Massimo Delfino, coordinatore del progetto, entrambi afferenti all’Università di Torino.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino

UN’ESTINZIONE DI MASSA 201 MILIONI DI ANNI FA – TRACCE DI EMISSIONI DI GAS SERRA ALLA FINE DEL TRIASSICO

Un nuovo studio pubblicato sulla rivista «Nature Communications» dal titolo “Massive methane fluxing from magma–sediment interaction in the end-Triassic Central Atlantic Magmatic Province” rivela un massiccio rilascio di metano dalle rocce dei bacini dell’Amazzonia durante l’estinzione di massa di fine Triassico. Circa 1 milione di chilometri cubi di magma basaltico ha intruso rocce contenenti carbonio, che sono state scaldate e, come risultato, hanno quindi liberato metano.

Affioramento lungo la strada Trans-Amazzonica di una delle intrusioni magmatiche nel Bacino Amazzonico nei pressi della città di Medicilândia (Stato di Pará, Brasile). Fotografia di Andrea Marzoli

Un gruppo di ricerca internazionale guidato da Manfredo Capriolo dell’Università di Padova e ora al centro CEED dell’Università di Oslo in Norvegia ha individuato la presenza di metano in micrometriche goccioline fluide preservate nei cristalli delle rocce magmatiche dell’Amazzonia.

Il metano è un gas serra molto impattante in atmosfera e il suo coinvolgimento nella crisi di fine Triassico era stato precedentemente ipotizzato, ma questa è la prima volta che il metano viene individuato in maniera diretta all’interno delle rocce magmatiche di fine Triassico.

«L’analisi di microscopiche inclusioni fluide intrappolate in cristalli magmatici di 201 milioni di anni ha fornito la prima evidenza diretta del rilascio di ingenti quantità di metano, prodotto dal riscaldamento di rocce ricche in materia organica, alla fine del Triassico» afferma Manfredo Capriolo.

estinzione di massa gas serra Triassico
Inclusione fluida micrometrica (indicata dalla freccia rossa) contenente una bolla di metano (di forma sferica) ed un cristallo di sale (di forma cubica) in un liquido acquoso salino, che preserva l’originaria composizione dei fluidi derivanti dall’interazione tra magma e sedimenti, all’interno di un cristallo di quarzo in una roccia doleritica proveniente dal Bacino Amazzonico (campione proveniente da Monte Alegre, Stato di Pará, Brasile). Fotomicrografia di Manfredo Capriolo

«Simili evidenze di metano, derivante dall’interazione di Grandi Province Magmatiche con rocce sedimentarie durante le estinzioni di massa, saranno probabilmente individuate anche per altri eventi di simile intensità» aggiungono Omar Bartoli del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova e Angelo De Min dell’Università di Trieste.

«Questo studio rappresenta un importante passo in avanti nella comprensione delle emissioni di gas serra dalla Grande Provincia Magmatica di fine Triassico, la cui attività era sincrona con una delle più catastrofiche estinzioni di massa nella storia della Terra» conclude Andrea Marzoli, Dipartimento di Territorio e Sistemi Agro-Forestali dell’Università di Padova.

Tutti i principali episodi di estinzione di massa negli ultimi 500 milioni di anni sono contemporanei a eventi magmatici eccezionali. Lo studio delle emissioni magmatiche di gas serra, che innescarono queste antiche crisi biotiche, possono contribuire alla comprensione dei possibili effetti dell’attuale cambiamento climatico.

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Veduta sul Rio delle Amazzoni dalla città di Monte Alegre (Stato di Pará, Brasile). Fotografia di Andrea Marzoli

Un’estinzione di massa 201 milioni di anni fa, tracce di emissioni di gas serra alla fine del Triassico

Link alla ricerca: https://www.nature.com/articles/s41467-021-25510-w

Titolo: “Massive methane fluxing from magma–sediment interaction in the end-Triassic Central Atlantic Magmatic Province” – «Nature Communications» – 2021

Autori: Manfredo Capriolo, Andrea Marzoli, László E. Aradi, Michael R. Ackerson, Omar Bartoli, Sara Callegaro, Jacopo Dal Corso, Marcia Ernesto, Eleonora M. Gouvêa Vasconcellos, Angelo De Min, Robert J. Newton & Csaba Szabó.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Padova.