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Analizzato per la prima volta il DNA delle iene fossili della Sicilia

Le iene siciliane, che abitavano l’isola prima dell’arrivo di Homo sapiens, appartengono a un gruppo diverso da quelle africane: si tratta di una popolazione “relitta” di iene insulari, caratteristica che le rende uniche al mondo, il cui DNA fossile nei resti biologici è sopravvissuto al clima caldo del Mediterraneo. La pubblicazione su Quaternary Science Reviews.

Palermo, Milano, Roma, Firenze, 28 agosto 2024. Prima ancora che Homo sapiens arrivasse in Sicilia, circa 16 mila anni fa, sull’isola erano molto diffuse le iene del genere Crocuta.

Tra i più iconici carnivori delle savane, la iena macchiata è oggi presente in buona parte dell’Africa sub-sahariana, ma durante il Pleistocene, tra 800 e 16 mila anni fa, era diffusa in territori molto più ampi che includevano l’Europa e l’Asia, mentre l’unica isola dove la presenza di questa specie è stata documentata dai fossili, è la Sicilia. Questa caratteristica rende le iene siciliane uniche da un punto di vista paleobiologico e offre agli studiosi una rara opportunità per comprendere meglio sia gli adattamenti che i processi evolutivi legati all’isolamento geografico di un grande carnivoro, estremamente raro in contesti insulari.

Grazie ai recenti avanzamenti nello studio del DNA antico, negli ultimi anni i paleogenetisti sono stati in grado di analizzare porzioni di DNA di alcune iene fossili, ad oggi tutte provenienti da siti nord europei o dal nord della Russia e della Cina, dove le temperature basse favoriscono la conservazione del materiale genetico. In ambienti a clima caldo, come quello mediterraneo, nei resti antichi il DNA si conserva con maggiori difficoltà.

In un recente studio condotto dai ricercatori delle Università di Palermo, Statale di Milano, Firenze, Roma Sapienza, di Bangor e Cambridge, pubblicato sulla rivista internazionale Quaternary Science Reviews, è stato analizzato per la prima volta il DNA di una iena fossile della Sicilia. 

Il DNA nucleare è stato estratto con successo da un frammento di coprolite, un escremento fossilizzato di iena di oltre 20 mila anni, proveniente dal sito della Grotta San Teodoro (Messina). I risultati delle analisi hanno svelato che le iene siciliane possedevano caratteristiche genetiche molto particolari, uniche tra tutte le iene fossili di cui si conosce il DNA.

DNA delle iene fossili della Sicilia

Giulio Catalano, paleogenetista dell’Università di Palermo e primo autore dello studio, commenta: “Le analisi ci suggeriscono che le iene siciliane siano appartenute a un gruppo genetico molto antico, distinto dalle attuali iene africane e peculiare rispetto alle altre iene fossili”. Prosegue il ricercatore: “Questo insieme di caratteristiche ci fa ipotizzare che un tempo la popolazione di queste iene fosse ampiamente distribuita sul continente, circa 500mila anni fa. Ma arrivate in Sicilia, grazie all’isolamento geografico, questa popolazione ha conservato le proprie caratteristiche genetiche mentre nel resto d’Europa si è invece persa nel corso del tempo. Questo grazie anche al contributo dei diversi scambi genetici avvenuti con le iene africane”.

Questo tipo di analisi permette di ipotizzare che le iene pleistoceniche siciliane possano far parte di una popolazione genetica “relitta”, sopravvissuta sull’isola fino a circa 20 mila anni fa”, sottolinea Raffaele Sardella, paleontologo dell’Università Sapienza di Roma che ha partecipato alla ricerca.

Dawid A. Iurino, paleontologo dell’Università Statale di Milano e coautore dello studio, aggiunge: “Oltre al DNA di iena, nel coprolite abbiamo individuato tracce di DNA equino che ci ha permesso di rivelare il contenuto del pasto di una iena di 20 mila anni fa, costituito da Equus hydruntinus, l’unico equide vissuto in passato sull’isola. La scoperta e l’analisi di questo DNA fossile rappresentano una fonte inesauribile di ispirazione per nuove ricerche che rende il patrimonio geo-paleontologico della Sicilia una risorsa da preservare e valorizzare, in quanto unico nel suo genere”.

Luca Sineo, docente dell’Università di Palermo e responsabile del progetto, commenta: “Grotta San Teodoro, con il suo enorme patrimonio, si conferma tra i più importanti siti europei per lo studio del Pleistocene, ovvero gli ultimi 2.5 milioni di anni. Questa ricerca ha coinvolto studiosi internazionali ed è stata possibili grazie alla collaborazione con il Parco Archeologico di Tindari, la Proloco di Acquedolci e la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Messina”.

Questo studio dimostra come, ad oggi, lo sviluppo tecnologico consenta di ottenere informazioni genetiche anche da substrati biologici complessi, come i coproliti”, spiega la Dott.ssa Alessandra Modi dell’Università di Firenze che ha partecipato alla ricerca. “Grazie alla grande mole di dati che si possono ottenere da un numero sempre maggiore di resti appartenenti a specie diverse, siamo in grado di delineare con elevata precisione la storia evolutiva non solo dell’uomo, ma di molteplici forme viventi”, conclude David Caramelli, Professore Ordinario di Antropologia dell’Università di Firenze.

Testo e immagini dalla Direzione Comunicazione ed Eventi Istituzionali dell’Ufficio Stampa Università degli Studi di Milano

Presentazione degli eventi di celebrazione del 70° anniversario dal ritrovamento dello scheletro fossile del Mammut a L’Aquila

Il Museo Nazionale d’Abruzzo per i 70 anni dall’eccezionale ritrovamento del fossile del Mammut nella cava Santarelli in località Madonna della Strada nel Comune di Scoppito, avvenuta a marzo del 1954, avvia una serie di eventi nell’anno in corso per un protagonista eccezionale. Il fossile, di 1.300.000 anni, reperto importantissimo della preistoria italiana, fra i più completi d’Europa, ha arricchito enormemente la conoscenza del Patrimonio paleontologico dei grandi mammiferi nel Quaternario sul suolo italiano.

La Mostra documentaria

Le recenti ricerche d’archivio impongono la revisione della data della scoperta. È infatti del 17 marzo 1954 l’informativa dell’Anonima Materiali Argillosi alla Soprintendenza alle Antichità degli Abruzzi e del Molise con la quale si comunicava il ritrovamento, da parte degli operai della fornace, dei primi resti. La notizia fu poi diffusa qualche giorno dopo, il 25 marzo, dal Corriere della Sera e ripreso da altre testate i giorni successivi.

Questi passaggi, oltre alle recenti donazioni di foto inedite, oggetto di una mostra documentaria visitabile dal 19 aprile nel Bastione Est del Castello Cinquecentesco, permettono di ripercorrere le fasi della scoperta, recupero e studio dell’esemplare sotto la direzione della professoressa Angiola Maria Maccagno, direttrice dell’Istituto di Geologia e Paleontologia dell’Università di Roma, con la collaborazione di Antonio Ferri nel restauro.

È del 15 novembre 1957 l’importante documento del Direttore Generale delle Antichità e Belle Arti, Guglielmo de Angelis d’Ossat, per conto del Ministro della Pubblica Istruzione Aldo Moro, che dichiara il suo interessamento nel garantire l’allestimento di una sezione di paleontologia presso il Museo Nazionale d’Abruzzo con il Mammut, poi esposto al pubblico dal 1960 nel Bastione Est del Castello Cinquecentesco.

70° anniversario dal ritrovamento dello scheletro fossile del Mammut a L’Aquila. Gallery

L’accessibilità inclusiva

Grazie ad una consolidata collaborazione con l’Accademia di Belle Arti è in corso la realizzazione di due prototipi 3D: uno con il particolare del cranio e della zanna e l’altro è un modellino di 30 cm del Mammut che vanno ad integrare il disegno in braille già presente nell’attuale allestimento. La progettazione è a cura dei docenti dell’ABAQ Simone Rasetti, Tecniche di modellazione digitale, e Marco Cortopassi, Scenotecnica. È stato effettuato, durante la conferenza stampa, un test di leggibilità con le tecniche di esplorazione tattile di un modellino di prova del cranio e della zanna del Mammut condotte dalla tiflologa non vedente Deborah Tramentozzi. Questa attività di ricerca sulle modalità di apprendimento dell’immagine e dei processi cognitivi nelle persone non vedenti e ipovedenti si avvale della professionalità accademiche del laboratorio di modellazione dell’Accademia di Belle Arti e della tiflodidattica, tramite le tecniche di percezione tattile del rilievo operate dalla tiflologa, volte a verificare il grado di acquisizione e restituzione dell’immagine, esperita al tatto e successivamente ricostruita nella mente dell’utente.

I modelli 3D tattili potranno essere fruiti anche dai visitatori normovedenti, preziosa opportunità per attivare una sensorialità troppo spesso inibita, anche per la consapevolezza dell’impossibilità di toccare le opere d’arte nel contesto di una visita museale.

Video

Due documenti storici del 1954 appartenenti all’Archivio Luce Cinecittà, che si ringrazia per la concessione di utilizzo: Uscito dalla preistoria, durata 55’’ e Lo scheletro di un grosso mammuth trovato presso L’Aquila, segnalato dal Presidente del CdA di Abruzzo Film Commission Piercesare Stagni, Rep. Incom. senza sonoro, durata 3’, completano la suggestiva ricostruzione animata del Mammut già in proiezione nel Bastione realizzata dal Segretariato Regionale MiC per l’Abruzzo.

Tecnologia realtà aumentata

È stata possibile la produzione di contenuti digitali 3D fruibili con tecnologia AR core per la ricostruzione 1:1 del Mammuthus meridionalis. Tramite un QR code sulla pedana, i visitatori potranno avere un’esperienza di visita più dinamica ammirando il Mammut nelle affascinanti forme che aveva quando era in vita. RUP Maria Rita Copersino – Segretariato Regionale MiC – Abruzzo

Convegno scientifico

Nel mese di ottobre avrà luogo un convegno scientifico di rilevanza nazionale “Il Mammut del Castello – Settant’anni dalla sua scoperta. Nuovi dati nel quadro dell’evoluzione ambientale del Pleistocene” per condividere i risultati acquisiti attraverso nuove metodologie di indagine e restauro. Verranno affrontati diversi aspetti scientifici quali l’evoluzione geologica del bacino aquilano, la paleobotanica e paleoclima; il confronto tra il Mammut meridionalis di Madonna della Strada con gli altri elefanti del Pleistocene; lo stato dell’arte della diagnostica e del restauro; l’esemplare nella realtà aumentata 3D e bodymass; i primi risultati della paleopatologia, nonché il tema del ruolo sociale attuale della divulgazione scientifica.

Annullo filatelico

Per rafforzare il potenziale narrativo è stato previsto un annullo filatelico dedicato al Mammut

Accompagnamento didattico

Si sta provvedendo, tramite formazione del personale AFAV curata dai funzionari del Museo, a fornire un servizio di accompagnamento ai visitatori per una maggiore conoscenza del Mammut.

Premio Fossili regionali

Nel corso della conferenza stampa la direttrice del MuNDA Federica Zalabra ha ricevuto la targa di riconoscimento del Premio Fossili Regionali 2023 al Mammut per la Regione Abruzzo consegnata da due membri del comitato regionale della Società Paleontologica Italiana e la paleonotologa Maria Adelaide Rossi e Marco Romano dell’Università degli Studi della Sapienza. L’iniziativa è nata dalla sinergia tra il gruppo dei giovani della società Palaeontologist in Progress e il Consiglio SPI per favorire la divulgazione e la conoscenza delle ricchezze del patrimonio paleontologico italiano.

70° anniversario dal ritrovamento dello scheletro fossile del Mammut a L'Aquila
Presentazione degli eventi di celebrazione del 70° anniversario dal ritrovamento dello scheletro fossile del Mammut a L’Aquila

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa – Museo Nazionale d’Abruzzo – MuNDA

DASYOMYLIOBATIS THOMYORKEI, UN PESCE FOSSILE DI 50 MILIONI DI ANNI FA, LA STRAORDINARIA SCOPERTA DEI RICERCATORI DI UNITO: ANELLO MANCANTE DELL’EVOLUZIONE DELLE RAZZE, TRA LE SUPERFAMIGLIA DASYATOIDEA E MYLIOBATOIDEA

Il lavoro ha permesso di ricostruirne non solo l’aspetto, dieta e modo di vita, ma anche di appurare come questa nuova specie di razza miliobatiforme, Dasyomyliobatis thomyorkei, dedicata al cantante dei Radiohead, rappresenti una forma di transizione tra le specie attuali più primitive che si nutrono di prede dal corpo molle e vivono principalmente nei fondali, e quelle più evolute che si nutrono di prede dal guscio duro e vivono in mare aperto.

Uno studio appena pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Palaeontology a firma di un team italo-austriaco guidato dai paleontologi Giuseppe Marramà e Giorgio Carnevale, rispettivamente ricercatore e professore del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino, risolve un dibattito decennale della paleontologia: come e quando si è evoluta la durofagia e lo stile di vita pelagico nelle razze?

Il fossile oggetto dello studio è stato portato alla luce nel dicembre 2020 nel famoso giacimento paleontologico di Bolca (Monti Lessini, Verona), durante i recenti scavi condotti dal Museo di Civico di Storia Naturale di Verona. Conosciuta fin dal XVI secolo, Bolca è una delle località paleontologiche più conosciute al mondo per ricchezza, diversità ed eccezionale stato di conservazione dei suoi fossili, soprattutto pesci, che documentano la presenza di un antico mare tropicale poco profondo associato a barriere coralline di circa 50 milioni di anni fa, in un’epoca chiamata Eocene, dove oggi sorgono i Monti Lessini. E proprio per la loro importanza paleontologica, i giacimenti fossiliferi di Bolca, insieme ad altre località paleontologiche della Val d’Alpone, sono stati recentemente inseriti nella lista dei siti italiani candidati a diventare patrimonio UNESCO.

Fin dalle prime analisi era chiaro che si trattava di un esemplare eccezionale, non solo per la sua completezza e la qualità della sua conservazione ma anche per il suo significato evolutivo”, 

spiega il Dr. Roberto Zorzin, geologo e curatore del museo che ha supervisionato gli scavi e coautore dello studio.

Il fossile oggetto dello studio è una bellissima razza fossile che rappresenta una nuova specie appartenente ai miliobatiformi, un gruppo molto diversificato di razze oggi rappresentate da trigoni, pastinache, aquile di mare e mante, note per una caratteristica peculiare: la presenza di uno o più aculei veleniferi sulla coda che usano come arma di difesa contro altri pesci predatori e occasionalmente contro l’uomo. Queste razze possono essere raggruppate in due forme, o meglio due ecomorfotipi molto distinti sia dal punto di vista morfologico che ecologico: la superfamiglia Dasyatoidea comprende razze bentoniche e non-durofaghe come i trigoni e le pastinache che, avendo un disco pettorale discoidale con raggi poco mineralizzati hanno un nuoto di tipo ondulatorio e vivono principalmente sul fondale; grazie a batterie di piccoli e numerosi denti con radice bilobata catturano prede dal corpo molle, principalmente vermi policheti, piccoli pesci e crostacei. Al contrario, le razze della superfamiglia Myliobatoidea come le aquile di mare e le mante sono pelagiche o bentopelagiche, ovvero vivono in mare aperto grazie alla presenza di pinne pettorali a forma di ali sostenute da robusti raggi mineralizzati che permettono un nuoto di tipo oscillatorio, una sorta di “volo” subacqueo nella colonna d’acqua. Possiedono inoltre i lobi cefalici, proiezioni delle pinne pettorali posti anteriormente alla testa, utilizzate per localizzare e dissotterrare le prede. Alcune di queste razze pelagiche come le aquile di mare sono durofaghe, ovvero hanno pochi, grandi e robusti denti con radici multiple con cui frantumano i duri gusci dei molluschi e crostacei di cui si nutrono, mentre altre come le mante si nutrono di plancton.

La presenza di due ecomorfotipi oggi così diversi e senza forme intermedie rende difficile definire come e da chi abbiano avuto origine le razze pelagiche durofaghe, poiché fino ad oggi non avevamo forme di transizione fossili che potevano chiarire questo aspetto”, sottolinea il Prof. Giorgio Carnevale.

Lo studio di questa nuova razza fossile ha permesso non solo di ricostruirne aspetto, dieta e modo di vita, ma anche di appurare che essa rappresenta una sorta di “anello mancante”, o meglio, una forma di transizione tra le più primitive razze bentoniche non-durofaghe e le più derivate razze pelagiche durofaghe. Questa razza fossile possiede infatti un mix di caratteri comuni a entrambi i gruppi di razze: come trigoni e pastinache, aveva piccoli denti laterali a radice bilobata e raggi delle pinne pettorali poco mineralizzati, mentre come le aquile di mare possedeva pinne pettorali a forma di ali, lobi cefalici, e una fila di denti centrali con radici multiple.

Questa combinazione di caratteristiche consentiva a Dasyomyliobatis thomyorkei (nome ispirato a Thom Yorke, leader dei Radiohead) di passare dal nuoto ondulatorio a quello oscillatorio, consentendo a questa razza di sfruttare l’ampia gamma di habitat che offriva l’antico mare tropicale di Bolca, dall’eterogeneo ambiente marino poco profondo al mare aperto, ma anche di nutrirsi di un’ampia varietà di prede, sia dal corpo molle che dai gusci più robusti.

Questo nuovo fossile fornisce la prova diretta che la durofagia e lo stile di vita pelagico nelle razze miliobatiformi si sono evoluti a partire da circa 100 milioni di anni fa da un antenato comune appartenente ad una famiglia oggi estinta (chiamata Dasyomyliobatidae) che possedeva caratteristiche anatomiche comuni ad entrambi gli ecomorfotipi oggi esistenti, di cui Dasyomyliobatis thomyorkei fu probabilmente uno degli ultimi rappresentanti”, spiega il Dr. Giuseppe Marramà.

Lo studio dimostra che la paleontologia è una Scienza viva nel contesto italiano, e che la conservazione e valorizzazione a lungo termine del patrimonio paleontologico di Bolca sono necessarie in un’ottica di promozione culturale e turistica della Val d’Alpone e, in generale, di tutto il patrimonio paleontologico italiano.

Link all’articolo su Palaeontologyhttps://doi.org/10.1111/pala.12669

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

UN PESCE FOSSILE DI 48 MILIONI DI ANNI RIVELA L’INASPETTATA STORIA EVOLUTIVA DEI PESCI LUNA

Lo studio, effettuato da un team italo-irlandese guidato da Valentina Rossi della University College Cork, Irlanda e da Giorgio Carnevale dell’Università di Torino, è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica “Palaeontology”.ù

storia evolutiva pesce luna Bolca
Pesce fossile di 48 milioni di anni fa rivela la storia evolutiva dei pesci luna. Figura 1 – Mene rhombea (A) e ricostruzione schematica dell’anatomia (B)

Il recente ritrovamento di un nuovo esemplare di pesce luna (Mene rhombea – in figura 1) nei depositi fossiliferi di Bolca (Monti Lessini, Verona) ha stimolato un nuovo studio paleontologico che ha permesso di ricostruirne l’aspetto e determinarne la dieta e l’habitat. La ricerca, sviluppata da un team italo-irlandese guidato dalla ricercatrice Valentina Rossi della University College Cork, Irlanda e dal Prof. Giorgio Carnevale del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino, è stato pubblicato oggi sulla prestigiosa rivista scientifica “Palaeontology”.

I sedimenti fossiliferi di Bolca si sono accumulati nell’Eocene (circa 48 milioni di anni fa) in un mare tropicale che un tempo esisteva dove oggi sorgono i Monti Lessini, e sono ora conosciuti in tutto il mondo, da esperti e appassionati di paleontologia, per la straordinaria preservazione dei fossili che in essi sono conservati.

“I fossili rinvenuti dal sito della Pesciara sono definiti eccezionali in quanto presentano, oltre ai resti scheletrici, anche l’evidenza di tessuti non-mineralizzati come pelle, occhi, muscoli e organi interni”

ha dichiarato il Prof. Giorgio Carnevale, esperto delle faune di Bolca. L’esemplare studiato appartiene alla famiglia dei menidi, comunemente chiamati pesci luna per via del loro corpo appiattito, che al giorno d’oggi è rappresentata dalla sola Mene maculata, una specie che vive in acque poco profonde nell’Oceano Indo-Pacifico.

storia evolutiva pesce luna Bolca
Figura 2 – Mene maculata (A) e ricostruzione dell’aspetto del Mene rhombea, basata sui nuovi risultati scoperti dallo studio (B)

“Di esemplari di Mene rhombea ne sono stati trovati moltissimi, tanto che si può definire una vera e propria icona di questi giacimenti fossiliferi”, ha aggiunto Roberto Zorzin, “ma l’esemplare che abbiamo avuto l’opportunità di studiare è tra i meglio conservati mai rinvenuti”.

Sin dalle prime osservazioni effettuate presso il Museo Civico di Storia Naturale di Verona è stato chiaro per gli studiosi che si trattasse di un esemplare eccezionale (Fig. 1).

“Tre prominenti strie longitudinali di colore scuro alternate ad altrettante di colore più chiaro erano ben evidenti ad occhio nudo sui resti della pelle dell’animale. Grazie all’utilizzo di un microscopio ci siamo accorti che nell’addome erano presenti non solo i resti del suo ultimo pasto ma anche le tracce dell’intestino e altro materiale organico”, ha spiegato il Prof. Carnevale.

Ulteriori analisi morfologiche e chimiche di dettaglio hanno confermato la presenza di melanosomi nelle strie scure della pelle, nell’occhio e anche in alcune zone dell’addome. I melanosomi sono dei microscopici organelli cellulari contenti la melanina, il pigmento che dona il colore alla pelle, occhi, capelli e piume.

“Oggi sappiamo che nei vertebrati i melanosomi possono essere anche interni, ovvero contenuti all’interno degli organi, per esempio nel cuore, nel fegato e nei reni, per citarne alcuni” ha dichiarato la ricercatrice Valentina Rossi“trovarli in un fossile ci permette di ricostruirne il colore della pelle e l’anatomia interna”.

Lo studio comparativo con pesci attuali, la specifica distribuzione anatomica e la distinta geometria dei melanosomi nel fossile suggeriscono che questi organelli provengano da diversi tessuti, in particolare da pelle, rene, peritoneo e probabilmente cuore o fegato. L’analisi del contenuto dello stomaco invece ha rivelato la presenza di piccole ossa di pesce simili a quelle di una sardina, indicando che il M. rhombea avesse, almeno in parte, una dieta piscivora.

“Una dieta piscivora nei pesci attuali è spesso associata ad una livrea striata, con strie longitudinali con toni alternati chiari e scuri” ha aggiunto il Prof. Carnevale, “e questa informazione corrisponde perfettamente con i dati ottenuti dal nostro fossile confermando che in passato i pesci luna di Bolca preferivano mangiare piccoli pesci a differenza della specie attuale che invece si ciba di piccoli invertebrati e plancton”.

Un altro aspetto importante dello studio è la comparazione tra il pattern del colore della pelle osservabile nella specie vivente e quello rivenuto nel suo antenato fossile. Il primo è caratterizzato da una livrea maculata mentre il secondo da strie longitudinali e questo suggerisce che nel corso di quasi 50 milioni di anni la linea evolutiva dei menidi si sia diversificata e che le due specie avessero delle abitudini di vita diverse.

Nel Mene rhombea, le strie del dorso suggeriscono che l’animale abitasse ambienti di mare aperto. “È probabile che gli antichi pesci luna vivessero in banchi come gli attuali, ma preferissero nuotare in mare aperto, avvicinandosi alla costa solo per predare i piccoli pesci presenti in queste zone” ha spiegato il Prof. Carnevale.

Ma cosa ha portato a queste differenziazione delle livree? “Diverse modificazioni ambientali e genetiche hanno avuto un ruolo fondamentale nel cambiamento del pattern del colore nella linea evolutiva dei menidi”, ha aggiunto la ricercatrice Valentina Rossi. “Variazioni dei geni che controllano la formazione dei pattern della pelle possono avvenire molto rapidamente e sono osservabili nel giro di poche generazioni nei pesci; quindi, non è così strano ipotizzare gli stessi processi in due specie morfologicamente simili separate da ben 48 milioni di anni. La cosa incredibile è proprio che abbiamo potuto osservare direttamente un esemplare fossile così ben preservato da offrirci nuovi spunti per la ricerca dell’evoluzione del colore nelle specie ormai estinte. Rimango sempre affascinata dalla quantità di informazioni che possiamo estrarre dai fossili”.

Link all’articolo https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/pala.12600 

 

Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino sul pesce luna fossile di Bolca che rivela la storia evolutiva dei pesci luna.

Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa 

L’enigmatico fossile ritrovato nei pressi di Ponte Galeria (Roma) è stato analizzato da un gruppo di paleontologi e geologi del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza Università di Roma e dell’Università Statale di Milano. La ricostruzione 3D dei resti ha permesso di identificare il fossile come il più antico esemplare adulto di lupo (Canis lupus) in Europa, databile a circa 400.000 anni fa. I risultati dello studio, che gettano nuova luce sulle dinamiche di diffusione del lupo nel nostro continente, sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports.

Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa
Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa

Il lupo è una delle specie più emblematiche della biodiversità europea, animale simbolo delle foreste del nostro continente, così radicato nel nostro immaginario da entrare a far parte della cultura, del folklore e della tradizione di tutti i popoli europei. Sebbene l’uomo conviva con il lupo da migliaia di anni, la storia evolutiva di questo predatore iconico è ancora fonte di dibattito nella comunità scientifica, con punti interrogativi sul momento in cui questo animale si è diffuso nel nostro continente.

Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa
Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa

Un gruppo di paleontologi e geologi del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza Università di Roma e del Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” dell’Università Statale di Milano, ha esaminato un enigmatico cranio fossile di canide di grandi dimensioni sono stati ritrovati nei pressi di Roma, più precisamente a Ponte Galeria. La scansione 3D dei resti frammentari ha permesso di identificare il cranio fossile come il più antico esemplare adulto di lupo (Canis lupus), risalente a circa 400.000 anni fa (Pleistocene Medio). I risultati dello studio sono stati pubblicati su Scientific Reports, rivista scientifica internazionale del gruppo Nature.

“In particolare i frammenti fossili sono stati scansionati tramite TAC e poi uniti digitalmente per ricreare l’assetto originale del cranio, il quale è stato poi analizzato, misurato e comparato con altre scansioni di canidi moderni come lo sciacallo, o il lupo appenninico che popola attualmente la penisola italiana”, spiega Dawid A. Iurino, primo autore dello studio.

Poiché l’area di Ponte Galeria è ricca di giacimenti di diverse datazioni, il gruppo di ricerca ha analizzato il sedimento vulcanico che ricopriva e riempiva i frammenti fossili per stabilire l’età precisa del reperto.

“Prima di questa ricerca i resti fossili più antichi di lupo erano quelli datati intorno ai 300.000 anni ritrovati in Francia (Lunel-Viel) e in Italia (Polledrara di Cecanibbio, di cui però manca una descrizione formale del reperto) – commenta Raffaele Sardella, coordinatore dello studio. “Questo nuovo studio ha permesso quindi di individuare nel lupo di Ponte Galeria il resto fossile di questa specie più antico rinvenuta fino ad ora in Europa”.

Le nuove analisi hanno dimostrato come la dispersione del lupo sia avvenuta durante il “Mid-Brunhes Event”, una fase del Pleistocene caratterizzata dall’aumento dell’ampiezza dei cicli/interglaciali, che diventano più lunghi e più intensi. Questo cambiamento climatico ebbe una forte ripercussione sugli ecosistemi terrestri favorendo probabilmente la diffusione di nuove specie in Europa tra cui il lupo.

Riferimenti:

A Middle Pleistocene wolf from central Italy provides insights on the first occurrence of Canis lupus in Europe – Dawid A. Iurino, Beniamino Mecozzi, Alessio Iannucci, Alfio Moscarella, Flavia Strani, Fabio Bona, Mario Gaeta & Raffaele Sardella – Scientific Reports https://doi.org/10.1038/s41598-022-06812-5

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Quando le linci pardine popolavano l’Europa: dal Gargano nuove testimonianze sull’evoluzione di questi felini oggi a rischio di estinzione  

Un nuovo studio coordinato dal Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza e dall’Università di Perugia, con il contributo di altri enti e atenei internazionali, ha dimostrato per la prima volta che durante il Pleistocene la specie più diffusa nel nostro continente era la lince pardina. Questo singolare felino, dalla coda corta ma dalla lunga storia, oggi popola solo la penisola iberica ed è ad alto rischio di scomparsa. I risultati del lavoro sono stati pubblicati su Quaternary Science Reviews

La lince pardina (Lynx pardinus), che per sotto molti aspetti ricorda i suoi simili europei dalla coda corta, si distingue da questi ultimi per i caratteristici pennacchi sulle orecchie, i ciuffi sotto il mento e le macchie ben definite che spiccano sul pelo bruno-giallastro. Questo felino oggi vive soltanto in ristrette aree della penisola iberica ed è oggetto di numerosi progetti di conservazione e salvaguardia.

Un team di studiosi e paleontologi della Sapienza e dell’Università di Perugia, con il contributo di altri enti e università internazionali, ha ricostruito la storia evolutiva di questo predatore in nuovo studio pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews. I risultati del lavoro hanno dimostrato come le linci pardine abbiano avuto una storia evolutiva distinta rispetto a quelle eurasiatiche, diffuse nella penisola italiana solo in tempi molto più recenti.

L’analisi dei numerosi fossili rinvenuti nel Gargano, in Puglia, ha permesso infatti ai ricercatori di comprendere come migliaia di anni fa, nel corso del Pleistocene, la lince pardina fosse diffusa in gran parte dell’Europa mediterranea, mentre l’attuale lince eurasiatica, Lynx lynx, fosse meno diffusa di quanto comunemente creduto finora.

Cranio della lince da Ingarano

“I fossili studiati, conservati presso il Dipartimento di Scienze della Terra del nostro Ateneo, rappresentano il più ricco campione di resti di crani, mandibole e denti attribuibili a linci pleistoceniche – spiega Raffaele Sardella della Sapienza. “Sebbene precedentemente attribuiti alla lince eurasiatica, rappresentano in realtà esemplari di lince pardina. Le nuove analisi hanno dimostrato infatti che questo felino era molto più diffuso migliaia di anni fa di quanto si sapesse, con una distribuzione geografica che includeva tutta l’Europa mediterranea”.

linci pardine
Cranio ricostruito digitalmente della lince da Ingarano

Un ruolo di primo piano nello studio lo hanno avuto le analisi tomografiche, eseguite da Dawid A. Iurino, dell’Università di Perugia e coordinatore dello studio, che hanno permesso ai ricercatori di restaurare, virtualmente e senza comprometterne lo stato, i crani garganici e di studiarne l’anatomia in dettaglio.

“La ricostruzione della massa corporea – aggiunge Beniamino Mecozzi della Sapienza – rivela come le linci pardine del passato fossero comunque in generale più grandi rispetto a quelle che oggi sopravvivono nella penisola iberica. La forte contrazione dell’areale e la drastica riduzione del numero di individui, oggi solo poche decine di esemplari, è una condizione raggiunta all’inizio del Novecento”.

Le attuali popolazioni iberiche quindi rappresentano gli ultimi eredi di una linea evolutiva di linci molto antiche. Lo studio aggiunge un ulteriore elemento a sostegno della protezione di un felino dalla coda corta, ma dalla lunga storia.

linci pardine
Ricostruzione delle linci pardine da Ingarano

Riferimenti:

The tale of a short-tailed cat: new outstanding Late Pleistocene fossil Lynx pardinus from southern Italy – Mecozzi B., Sardella R., Boscaini A., Cherin M., Costeur L., Madurell-Malapeira J., Pavia M., Profico A., Iurino D.A. (2021). Quaternary Science Reviews. DOI: 10.1016/j.quascirev.2021.106840

Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Scoperte orme fossili di grandi rettili sulle Alpi occidentali

Uno studio appena pubblicato a firma di geologi e paleontologi delle Università di Torino, Roma Sapienza, Genova, Zurigo e del MUSE – Museo delle Scienze di Trento, ha istituito un tipo di impronta fossile nuova per la scienza, denominata Isochirotherium gardettensis, in riferimento all’Altopiano della Gardetta nell’Alta Val Maira in cui è stata scoperta.

orme fossili grandi rettili Alpi occidentali
Ipotetica ricostruzione dell’organismo che ha lasciato le impronte attribuite alla nuova icnospecie Isochirotherium gardettensis. Per gentile concessione di Fabio Manucci

Un’inattesa scoperta paleontologica, appena pubblicata sulla rivista internazionale PeerJ da un team multidisciplinare di ricercatori italiani e svizzeri, descrive una serie di orme fossili impresse da grandi rettili vagamente simili a coccodrilli nel passato più profondo delle Alpi occidentali, circa 250 milioni di anni fa. Le impronte sono state scoperte a circa 2200 metri di quota nella zona dell’Altopiano della Gardetta nell’Alta Val Maira (Provincia di Cuneo, Comune di Canosio) in seguito al lavoro di tesi del geologo dronerese Enrico Collo. Nel 2008, insieme al prof. Michele Piazza dell’Università di Genova e nel 2009 con Heinz Furrer dell’Università di Zurigo, identificarono nelle rocce della zona alcune tracce di calpestio lasciate da grandi rettili, originariamente lasciate fra i fondali fangosi ondulati di una antica linea di costa marina in prossimità di un delta fluviale.

L’Altopiano della Gardetta con al centro la Rocca la Meja – Foto di F.M. Petti

Lo studio appena pubblicato a firma di geologi e paleontologi del MUSE – Museo delle Scienze di Trento, dell’Istituto e Museo di Paleontologia dell’Università di Zurigo e delle Università di TorinoRoma Sapienza e Genova, in accordo con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Alessandria Asti e Cuneo, le descrive in parte come orme fossili dell’icnogenere Chirotherium istituisce inoltre un tipo di impronta fossile nuova per la scienza, denominata Isochirotherium gardettensis in riferimento all’altopiano in cui è stata scoperta.

È stato molto emozionante notare appena due fossette impresse nella roccia, spostare un ciuffo erboso e realizzare immediatamente che si trattava di un’impronta lunga oltre trenta centimetri: un vero tuffo nel tempo profondo, con il privilegio di poter appoggiare per primo la mano nella stessa cavità dove in centinaia di milioni di anni se n’era appoggiata soltanto un’altra; mi è venuto spontaneo rievocare subito l’immagine dell’animale che lasciò, inconsapevolmente, un segno duraturo nel fango morbido e bagnato, ma destinato a divenire roccia e innalzarsi per formare parte della solida ossatura delle Alpi” ha dichiarato il paleontologo Edoardo Martinetto del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino, primo scopritore delle nuove tracce.

orme fossili grandi rettili Alpi occidentali
Le orme che hanno consentito la descrizione della nuova icnospecie Isochirotherium gardettensis – Foto di F.M. Petti.

Secondo Fabio Massimo Petti del MUSE – Museo delle Scienze di Trento, esperto di orme fossili e primo autore del lavoro, si tratta di un ritrovamento unico in Europa: “Le orme sono eccezionalmente preservate e con una morfologia talmente peculiare da averci consentito la definizione di una nuova icnospecie che abbiamo deciso di dedicare all’Altopiano della Gardetta”.

Il paleontologo Massimo Bernardi del MUSE sottolinea che questi ritrovamenti testimoniano la presenza di rettili di grandi dimensioni in un luogo e un tempo geologico che si riteneva caratterizzato da condizioni ambientali inospitali. Le rocce che preservano le impronte della Gardetta, formatesi pochi milioni di anni dopo la più severa estinzione di massa della storia della vita, l’estinzione permotriassica, dimostrano che quest’area non era totalmente inospitale alla vita come proposto in precedenza.

“Non è possibile conoscere con precisione l’identità dell’organismo che ha lasciato le impronte che abbiamo attribuito a Isochirotherium gardettensis, ma, considerando la forma e la grandezza delle impronte, e altri caratteri anatomici ricavabili dallo studio della pista, si tratta verosimilmente di un rettile arcosauriforme di notevoli dimensioni, almeno 4 metri” ha rimarcato il paleontologo Marco Romano della Sapienza Università di Roma.

“Ricordo la grande emozione provata in occasione della prima scoperta, con l’amico Enrico Collo nel 2008, il piacere intellettuale della prima campagna di rilievi con Enrico e Heinz Furrer nel 2009 e poi la grande soddisfazione scientifica avuta nel lavorare con una così prestigiosa squadra di ricercatori, il tutto nella consapevolezza che questa rilevante novità scientifica si colloca in un territorio di spettacolare bellezza, accrescendone il già grandissimo valore” ha ricordato il Prof. Michele Piazza dell’Università di Genova.

Nell’area delle impronte sono frequenti i “ripple marks” tracce di moto ondoso lasciate circa 250 milioni di anni fa su un fango sabbioso ora diventato roccia – Foto di Enrico Collo

Per il raggiungimento di questi risultati è stato determinante il contributo organizzativo ed economico dell’Associazione Culturale “Escarton” che ha sostenuto il progetto a partire dal 2016 e che, grazie al Presidente Giovanni Raggi, ha rappresentato l’intermediario fra il mondo della ricerca e quello delle istituzioni locali rappresentate dai Sindaci dei comuni di Canosio e Marmora, nonché dall’Unione Montana Valle Maira.

Il progetto di ricerca è destinato a svilupparsi ulteriormente grazie all’estensione dell’area di ricerca e alla raccolta di ulteriori informazioni sulla associazione di rettili triassici che hanno lasciato tracce nella zona ma soprattutto grazie alla diffusione dei risultati delle ricerche geo-paleontologiche mediante la creazione di un Geo-Paleo park, comprendente un centro visitatori e un giardino geologico didattico-divulgativo.

“La nostra prossima sfida”, sottolinea il coordinatore del progetto Massimo Delfino del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino“è trovare la copertura finanziaria che garantisca una raccolta accurata ed esaustiva delle informazioni di importanza scientifica, la conservazione a lungo termine del patrimonio paleontologico della Gardetta e la sua valorizzazione in un’ottica di promozione culturale e turistica delle caratteristiche naturali della Val Maira”.

Riferimenti:

Archosauriform footprints in the Lower Triassic of Western Alps and their role in understanding the effects of the Permian-Triassic hyperthermal – Fabio Massimo Petti, Heinz Furrer, Enrico Collo, Edoardo Martinetto, Massimo Bernardi, Massimo Delfino, Marco Romano, Michele Piazza – PeerJ 2020. DOI 10.7717/peerj.10522

 

Testo, video e immagini da Sapienza Università di Roma e Università di Torino sulla scoperta di orme fossili di grandi rettili sulle Alpi occidentali.

7 MILIONI DI ANNI FA IL COCCODRILLO AFRICANO ATTRAVERSÒ L’ATLANTICO E COLONIZZÒ IL NUOVO MONDO

 

La ricostruzione in 3D dei resti del cranio di un coccodrillo, ritrovato ad As Sahabi (Libia) e conservato per quasi un secolo presso il Museo Universitario di Scienze della Terra (MUST) della Sapienza Università di Roma, ha permesso di identificare nel rettile sahariano l’antenato degli attuali coccodrilli americani. I risultati dello studio, sviluppato da Massimo Delfino dell’Università di Torino in collaborazione con l’Università di Firenze e altri ricercatori italiani, sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports, permettendo di ripercorrere milioni di anni di storia evolutiva.

Dopo una lunga traversata dell’Oceano Atlantico, l’esploratore scorge in lontananza la terra ferma, un continente fino a quel momento sconosciuto, dove presto però sarebbe stata scritta una nuova storia.

Sembra la narrazione dell’approdo di Cristoforo Colombo nel Nuovo Mondo circa 500 anni fa, eppure si tratta di quanto emerge da un nuovo studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports grazie al quale viene ricostruito un tassello della storia evolutiva dei coccodrilli. È possibile che alcuni esemplari di coccodrilli siano partiti circa 7 milioni di anni fa dal Nord Africa, e abbiano verosimilmente attraversato l’Oceano Atlantico per arrivare sulle coste del Sud America, dove si sono adattati e diversificati dando origine alle specie di Crocodylus, che ancora oggi abitano il continente americano.

La ricerca colloca il reperto africano del Miocene, identificato come Crocodylus checchiaialla base dell’albero evolutivo dei coccodrilli americani.

Libia
As Sahabi in Libia: è possibile che – 7 milioni di anni fa – esemplari di coccodrillo africano abbiano attraversato l’Oceano Atlantico

Il lavoro, sviluppato da Massimo Delfino dell’Università di Torino e coordinato da Raffaele Sardella, Direttore del Museo Universitario di Scienze della Terra (MUST) della Sapienza Università di Roma, in collaborazione con l’Università di Firenze, ha permesso di ricostruire in 3D l’unico “superstite” dei cinque crani fossili ritrovati agli inizi degli anni ‘30 nel corso di una spedizione scientifica in Libia, in una località del Sahara settentrionale chiamata As Sahabi. Il fossile studiato è stato conservato nelle collezioni del museo romano per quasi un secolo.

coccodrillo Atlantico Libia Crocodylus checchiai
Il cranio di Crocodylus checchiai ancora conservato al Museo Universitario di Scienze della Terra

“L’esemplare di Crocodylus checchiai – spiega Raffaele Sardella – è il cranio meglio conservato di questa specie vissuta nel Miocene, oltre 7 milioni di anni fa, in Africa, quando il Sahara era un territorio molto diverso da come appare oggi, popolato da grandi mammiferi e ricco di vegetazione e corsi d’acqua”.

 

“Abbiamo visto che il coccodrillo di As Sahabi condivide con le specie americane numerose particolarità anatomiche” – commenta Massimo Delfino, del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino“Ma non solo, abbiamo confrontato, grazie a specifici software, i dati ottenuti con le caratteristiche anatomiche di altre specie sia esistenti che fossili con lo scopo di realizzare una analisi filogenetica che ha chiarito che questa specie rappresenta una sorta di anello di congiunzione fra le specie africane e quelle americane”.

“Il nostro è un risultato di estrema importanza – afferma Lorenzo Rook dell’Università di Firenze – che valorizza le collezioni storiche di un giacimento paleontologico unico per la comprensione dei popolamenti faunistici dell’area circum-mediterranea alla fine del Miocene”.

Attraverso l’uso di scansioni tomografiche i ricercatori hanno ottenuto le immagini 3D sia dell’interno, sia dell’esterno del cranio. Le dimensioni della testa hanno permesso di stabilire che il coccodrillo fosse di età adulta e lungo poco più di 3 metri.

“L’uso di queste tecnologie – aggiunge Dawid A. Iurino, ricercatore del team che ha elaborato le TAC realizzate sul cranio libico, ora all’Università di Perugia – apre grandi prospettive nel campo della ricerca paleontologica e permette di analizzare elementi altrimenti impossibili da osservare”.

I risultati dello studio trovano infatti conferme anche da un punto di vista cronologico. Nel Nuovo Mondo infatti, i fossili più antichi di Crocodylus risalgono all’inizio del Pliocene (5 milioni di anni fa) risultando ben più recenti della specie studiata. È quindi possibile che durante il Miocene alcuni esemplari di C. checchiai (o una forma affine e ancora sconosciuta) abbiano attraversato l’Oceano Atlantico approdando sulle coste del sud America.

coccodrillo Atlantico Libia Crocodylus checchiai
Ricostruzione di Crocodylus checchiai: è possibile che esemplari di coccodrillo africano abbiano attraversato l’Oceano Atlantico

L’attraversamento di un così ampio tratto di mare, che nel Miocene era comunque più breve di oggi, potrebbe apparire sorprendente, ma tra i coccodrilli attuali esistono specie in grado di tollerare l’elevata salinità dell’acqua marina e di compiere ampi spostamenti in mare aperto sfruttando le correnti di superficie. Studi con tracciamento satellitare condotti su alcuni esemplari di coccodrillo marino australiano (Crocodylus porosus), hanno rivelato come, sfruttando le correnti, questi rettili siano in grado di percorrere in diversi giorni oltre 500 km in mare aperto.

I risultati di questo studio rappresentano un importante contributo per ricostruire la storia evolutiva e la paleobiogeografia dei coccodrilli, ovvero le modalità e i tempi con i quali questi rettili hanno colonizzato i diversi continenti raggiungendo la loro attuale distribuzione geografica.

 

Riferimenti:

Old African fossils provide new evidence for the origin of the American crocodiles – Delfino, M., Iurino, D., Mercurio, B., Piras, P., Rook, L., and Sardella, R., 2020, Scientific Reports  https://doi.org/10.1038/s41598-020-68482-5

 

Testo, video e immagine sul coccodrillo africano e l’attraversamento dell’Atlantico dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Università degli Studi di Torino.