News
Ad
Ad
Ad
Tag

European Southern Observatory

Browsing

PSR J1023+0038, TRA GLI ALTI E BASSI DI UNA PULSAR: IL SEGRETO È NELLA SUA POLARIZZAZIONE

Un team internazionale guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica ha misurato per la prima volta la polarizzazione della luce emessa da una pulsar al millisecondo transizionale in tre diverse bande dello spettro elettromagnetico. Lo studio, pubblicato su The Astrophysical Journal Letters, indica che l’emissione è dominata dal vento di particelle prodotto della pulsar e non dalla materia che la pulsar stessa sta risucchiando alla sua stella compagna.

Rappresentazione artistica delle regioni centrali del sistema PSR J1023+0038, che mostra la pulsar, il disco di accrescimento interno e il vento della pulsar. Crediti: Marco Maria Messa (Università di Milano e INAF) e Maria Cristina Baglio (INAF)
Rappresentazione artistica delle regioni centrali del sistema PSR J1023+0038, che mostra la pulsar, il disco di accrescimento interno e il vento della pulsar. Crediti: Marco Maria Messa (Università di Milano e INAF) e Maria Cristina Baglio (INAF)

Un team internazionale, guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha individuato nuove prove su come le pulsar al millisecondo transizionali, una particolare classe di resti stellari, interagiscono con la materia circostante. Il risultato, pubblicato su The Astrophysical Journal Letters, è stato ottenuto grazie a osservazioni effettuate con l’Imaging X-ray Polarimetry Explorer (IXPE) della NASA, il Very Large Telescope (VLT) dell’European Southern Observatory (ESO) in Cile e il Karl G. Jansky Very Large Array (VLA) nel New Mexico: si tratta di una delle prime campagne osservative di polarimetria multi-banda mai realizzate su una sorgente binaria a raggi X, coprendo simultaneamente le bande X, ottica e radio.

La missione spaziale IXPE in preparazione prima del lancio. Crediti: NASA
La missione spaziale IXPE in preparazione prima del lancio. Crediti: NASA

La sorgente analizzata è PSR J1023+0038, una cosiddetta pulsar al millisecondo transizionale. Questi oggetti sono particolarmente interessanti perché alternano fasi in cui si comportano come pulsar “canoniche” – ovvero stelle di neutroni isolate che ruotano su sé stesse centinaia di volte in un secondo, emettendo fasci di luce pulsata – a fasi in cui attraggono e accumulano materia da una stella compagna vicina, formando un disco di accrescimento visibile nei raggi X.

“Le pulsar al millisecondo transizionali sono laboratori cosmici che ci aiutano a capire come le stelle di neutroni evolvono nei sistemi binari”, spiega Maria Cristina Baglio, ricercatrice INAF e prima autrice dello studio. “J1023 è una sorgente particolarmente preziosa di dati perché transita chiaramente tra il suo stato attivo, in cui si nutre della stella compagna, e uno stato più dormiente, in cui si comporta come una pulsar standard emettendo onde radio rilevabili. Durante le osservazioni, la pulsar era in una fase attiva a bassa luminosità, caratterizzata da rapidi cambiamenti tra diversi livelli di luminosità in raggi X”.

Maria Cristina Baglio
Maria Cristina Baglio

In questo studio, per la prima volta, si è misurata simultaneamente la polarizzazione della luce emessa da questa sorgente in tre bande dello spettro elettromagnetico: raggi X (con IXPE), luce visibile (con il VLT) e onde radio (con il VLA). In particolare, IXPE ha rilevato un livello di polarizzazione nei raggi X di circa il 12%, il più elevato mai osservato finora in un sistema binario come quello di J1023. Nella banda ottica, la sorgente mostra una polarizzazione più bassa (circa 1%), ma con un angolo perfettamente allineato a quello della radiazione X, suggerendo una comune origine fisica. Nelle onde radio, invece, è stato fissato un limite massimo di polarizzazione di circa il 2%.

“Questa osservazione, data la bassa intensità del flusso X, è stata estremamente impegnativa, ma la sensibilità di IXPE ci ha permesso di rilevare e misurare con sicurezza questo notevole allineamento tra la polarizzazione ottica e quella nei raggi X”, afferma Alessandro Di Marco, ricercatore INAF e co-autore del lavoro. “Questo studio rappresenta un modo ingegnoso per testare scenari teorici grazie a osservazioni polarimetriche su più lunghezze d’onda”.

I risultati confermano una previsione teorica pubblicata nel 2023 da Maria Cristina Baglio e Francesco Coti Zelati, ricercatore presso l’Istituto di scienze spaziali di Barcellona, Spagna e co-autore dello studio, secondo cui l’emissione polarizzata osservata sarebbe generata dall’interazione tra il vento della pulsar e la materia del disco di accrescimento. La forte polarizzazione nei raggi X prevista, tra il 10 e il 15%, è stata effettivamente rilevata, confermando il modello teorico. Si tratta di un’indicazione chiara che le pulsar al millisecondo transizionali sono alimentate principalmente dalla rotazione e dal vento relativistico della pulsar, piuttosto che dal solo accrescimento di materia dalla stella compagna.

Capire cosa alimenta davvero queste stelle ultra-compatte, che alternano due nature profondamente diverse, rappresenta un passo fondamentale per decifrare il comportamento della materia e dell’energia in condizioni estreme. Questo studio porta la comunità scientifica un passo più vicino a comprendere meccanismi universali che regolano fenomeni come i getti dei buchi neri e le nebulose da vento di pulsar.

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Polarized multiwavelength emission from pulsar wind – accretion disk interaction in a transitional millisecond pulsar”, di M. C. Baglio, F. C. Zelati, A. Di Marco, F. La Monaca, A. Papitto, A. K. Hughes, S. Campana, D. M. Russell, D. F. Torres, F. Carotenuto, S. Covino, D. De Martino, S. Giarratana, S. E. Motta, K. Alabarta, P. D’Avanzo, G. Illiano, M. M. Messa, A. M. Zanon e N. Rea, è stato pubblicato online sulla rivista Astrophysical Journal Letters.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

L’UNIONE EUROPEA FINANZIA LO STUDIO CONCETTUALE DELLA NUOVA INFRASTRUTTURA ASTRONOMICA DA TERRA WIDE FIELD SPECTROSCOPIC TELESCOPE – WST

È stato firmato lo scorso 4 novembre il contratto per il finanziamento dello studio concettuale di un nuovo telescopio, il Wide Field Spectroscopic Telescope (in breve WST), che potrebbe diventare operativo in Cile dopo il 2040.  Il consorzio internazionale che ha ottenuto il finanziamento, proporrà WST come progetto candidato a diventare la prossima infrastruttura osservativa dello European Southern Observatory (ESO) dopo il completamento dello Extremely Large Telescope (ELT), attualmente in costruzione nelle Ande Cilene.

Link: https://www.wstelescope.com/

Rendering del progetto WST. Crediti: G.Gausachs/WST
Rendering del progetto WST. Crediti: G.Gausachs/WST

L’innovativo progetto WST per realizzare un telescopio interamente dedicato a survey – campagne osservative estese – spettroscopiche di tutti i tipi di oggetti celesti, dalle galassie più lontane, agli asteroidi e comete del nostro Sistema Solare, è stato selezionato nell’ambito del Programma Quadro Horizon Europe dell’Unione Europea con un bando competitivo destinato alle infrastrutture di ricerca. Il consorzio internazionale alla guida del progetto WST ha ottenuto tre milioni di euro da utilizzare nei prossimi tre anni – durante il triennio 2025-2027 – per completare uno studio concettuale dettagliato del nuovo telescopio.

Il consorzio internazionale vede la partecipazione di diciannove istituti di ricerca in Europa e in Australia, con un team scientifico composto da oltre seicento membri provenienti da trentadue Paesi di tutti e cinque i continenti. Alla guida del consorzio Roland Bacon del Centro Nazionale della Ricerca Scientifica (Centre National de la Recherche Scientifique – CNRS, Francia) e Sofia Randich dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), supportati da un Project Office e da uno Steering Commitee del quale fanno parte rappresentanti di tutti gli istituti coinvolti. L’Italia partecipa, oltre che con l’INAF, anche con l’Università di Bologna. Nutrito è il coinvolgimento di ricercatori e ricercatrici del nostro Paese in ruoli chiave e di responsabilità in WST, sia sugli aspetti scientifici che tecnologici.

WST promette di rispondere a una necessità individuata dalla comunità scientifica internazionale: un telescopio della classe dei 10 metri, con ampio campo visivo,  dedicato in modo esclusivo all’acquisizione di spettri delle sorgenti celesti. La necessità di avere a disposizione questo tipo di struttura osservativa compare esplicitamente in molti piani scientifici strategici internazionali che individuano i punti chiave della ricerca astrofisica della prossima decade, tra cui lo European Astronet Roadmap 2023.

Infatti, nonostante siano in fase di costruzione telescopi da terra con specchi principali di 30-40 metri, non esiste un telescopio fra quelli esistenti, in via di sviluppo, o proposti che presenti le stesse caratteristiche di WST e che lo rende un unicum: l’attuale disegno prevede infatti uno specchio principale del diametro di 12 metri, il funzionamento simultaneo di uno spettrografo multi-oggetto (MOS) in grado di osservare su un ampio campo visivo (tre gradi quadrati, quanto la superficie apparente di 12 lune piene) e altissime capacità di “multiplex” (20.000 fibre), insieme a uno spettrografo a campo integrale panoramico (IFS) che copre una superficie apparente di cielo di 9 minuti d’arco quadrati.

“Queste specifiche sono molto ambiziose e collocano il progetto WST al di sopra delle infrastrutture osservative da terra esistenti e in fase di programmazione. In soli cinque anni di attività, il MOS permetterebbe di ottenere spettri di 250 milioni di galassie e 25 milioni di stelle a bassa risoluzione spettrale e più 2 milioni di stelle ad alta risoluzione, mentre l’IFS fornirebbe 4 miliardi di spettri, grazie ai quali  i ricercatori potranno ottenere una caratterizzazione completa delle sorgenti. Per mettere questi numeri in contesto, sarebbero necessari 43 anni per ottenere gli stessi 4 miliardi di spettri utilizzando la IFS disponibile sul telescopio VLT dell’ESO oppure 375 anni dello strumento 4MOST che sta per diventare operativo, per osservare i 250 milioni di galassie, raggiungendo la stessa ‘profondità’ ”, dice Roland Bacon.

“Il Wide Field Spectroscopic Telescope produrrà scienza di punta e trasformativa, e permetterà di affrontare temi e domande scientifiche rilevanti riguardanti la cosmologia; la formazione, l’evoluzione, arricchimento chimico delle galassie (inclusa la Via Lattea); l’origine di stelle e pianeti; l’astrofisica che studia eventi transienti o variabili nel tempo; l’astrofisica-multimessaggera”, aggiunge Sofia Randich.

 Il Wide Field Spectroscopic Telescope (WST) verrà utilizzato per affrontare molte questioni aperte nell'astrofisica moderna: dalla formazione delle strutture su larga scala nell'universo primordiale, all'interazione delle galassie nella rete cosmica, dalla formazione della nostra stessa Galassia, fino all'evoluzione delle stelle e alla formazione di pianeti intorno a esse. Crediti: WST/V.Springel, Max-Planck-Institut für Astrophysik/ESO
Il Wide Field Spectroscopic Telescope (WST) verrà utilizzato per affrontare molte questioni aperte nell’astrofisica moderna: dalla formazione delle strutture su larga scala nell’universo primordiale, all’interazione delle galassie nella rete cosmica, dalla formazione della nostra stessa Galassia, fino all’evoluzione delle stelle e alla formazione di pianeti intorno a esse. Crediti: WST/V.Springel, Max-Planck-Institut für Astrophysik/ESO

Lo studio concettuale finanziato grazie ai fondi del programma Horizon Europe affronterà tutti gli aspetti rilevanti necessari per avere un quadro completo: il disegno del telescopio e degli strumenti che verranno installati a bordo, l’individuazione del sito in Cile dove collocare il telescopio stesso, l’ulteriore definizione dei casi scientifici, la predisposizione di un “survey plan” insieme allo sviluppo di un modello operativo per il telescopio, schemi e idee innovative per l’analisi dei dati acquisiti, con lo scopo di massimizzare il ritorno scientifico.

Lo studio concettuale presterà particolare attenzione alla sostenibilità ambientale.  L’impatto ambientale sarà infatti uno dei criteri che guiderà le scelte tecnologiche e si svilupperanno soluzioni che permetteranno di mitigare le principali fonti di emissione di anidride carbonica. L’impatto ambientale previsto sia in fase di costruzione, che in fase di operatività di WST sarà documentato in dettaglio alla fine dello studio.

Nel futuro prossimo, l’ESO aprirà una call for ideas per valutare i progetti più innovativi e promettenti dal punto di vista scientifico su cui investire dopo la realizzazione di Elt, la cui prima luce è prevista nel 2028. Se approvato, il WST diventerebbe la prossima grande infrastruttura dell’ESO, con il potenziale per affrontare questioni astrofisiche dal carattere rivoluzionario dal 2040 in poi.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

CONSORZIO ANDES, VIA LIBERA ALLO SPETTROGRAFO CHE CI INFORMERÀ SULLE PROPRIETÀ DEGLI OGGETTI ASTRONOMICI E CI DIRÀ DOVE C’È VITA SU ALTRI MONDI

Oggi l’ESO ha firmato l’accordo con un consorzio internazionale guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) per la progettazione e la costruzione di ANDES, uno strumento di altissima tecnologia che sarà installato sull’Extremely Large Telescope (ELT) dell’ESO, in costruzione sulle Ande cilene. ANDES verrà utilizzato per cercare segni di vita negli esopianeti e studiare le prime stelle che si sono accese nell’Universo, ma anche per testare le variazioni delle costanti fondamentali della fisica e misurare l’accelerazione dell’espansione dell’Universo.

rendering dell'Extremely Large Telescope, in costruzione sulla cima del Cerro Armazones in Cile, ad oltre 3000 metri di quota. Crediti: ESO
rendering dell’Extremely Large Telescope, in costruzione sulla cima del Cerro Armazones in Cile, ad oltre 3000 metri di quota. Crediti: ESO

L’accordo è stato firmato dal Direttore Generale dell’European Southern Observatory (ESO) Xavier Barcons e da Roberto Ragazzoni, Presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), l’Ente che guida il consorzio ANDES. Alla cerimonia della firma erano presenti anche Sergio Maffettone, Console Generale d’Italia a Monaco di Baviera, e Alessandro Marconi dell’Università di Firenze e associato INAF, Principal Investigator di ANDES, oltre ad altri rappresentanti dell’ESO, dell’INAF e del consorzio ANDES, che vede la partecipazione di Istituti, Università ed Enti di Ricerca di 13 Paesi. La firma ha avuto luogo presso il quartier generale dell’ESO a Garching, in Germania.

foto della firma dell'accordo. Crediti: ESO
foto della firma dell’accordo. Crediti: ESO

“ANDES è una macchina che sfrutta molte delle tecnologie sviluppate in Italia e che complementa gli sforzi che come INAF stiamo facendo per individuare mondi alieni” commenta Roberto Ragazzoni, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. “Poterne analizzare chimicamente la composizione delle atmosfere è uno di quei problemi formidabili che mettono a dura prova la filiera tecnologica sia della ricerca che industriale. Anche se al limite delle sue capacità, potrebbe riuscire a fornire misure dirette della espansione dell’universo, ma certamente aprire nuovi quesiti che solleciteranno ulteriori sviluppi tecnologici, in un circolo virtuoso che l’INAF porta avanti da tempo”.

rappresentazione artistica dello strumento ANDES. Crediti: ESO
Consorzio ANDES, via libera allo spettrografo che ci informerà sulle proprietà degli oggetti astronomici e ci dirà dove c’è vita su altri mondi. L’immagine è una rappresentazione artistica dello strumento ANDES. Crediti: ESO

Precedentemente denominato HIRES, ANDES (ArmazoNes high Dispersion Echelle Spectrograph) è un sofisticato spettrografo, uno strumento che divide la luce nelle lunghezze d’onda che la compongono in modo che gli astronomi possano determinare importanti proprietà degli oggetti astronomici, come la loro composizione chimica. Lo strumento avrà prestazioni senza precedenti nelle osservazioni in luce visibile e nel vicino infrarosso e, in combinazione con il potente sistema di specchi ed ottica adattiva che costituiscono ELT, consentirà enormi passi in avanti nello studio dell’Universo.

“ANDES è uno strumento con un enorme potenziale per scoperte scientifiche rivoluzionarie, che possono influenzare profondamente la nostra percezione dell’Universo ben oltre la comunità di scienziati”, afferma Alessandro Marconi.

ANDES permetterà di realizzare indagini dettagliate delle atmosfere di esopianeti simili alla Terra, consentendo agli astronomi di analizzare la loro composizione, alla ricerca di tracce legate alla presenza di vita. Sarà anche in grado di analizzare elementi chimici in oggetti lontani nell’Universo primordiale, rendendolo probabilmente il primo strumento in grado di rilevare le firme delle stelle di Popolazione III, le prime stelle in assoluto che si sono formate nell’Universo. Inoltre, gli astronomi saranno in grado di utilizzare i dati ANDES per verificare se le costanti fondamentali della fisica variano nel tempo e nello spazio. I suoi dati saranno utilizzati anche per misurare direttamente l’accelerazione dell’espansione dell’Universo, uno degli enigmi ancora insoluti dell’astrofisica.

Il contributo di INAF ad ANDES, oltre alla responsabilità di gestione manageriale e ingegneristica del progetto a livello di sistema e di sviluppo software (con le sedi coinvolte di Trieste per il management, Milano per l’ingegneria del sistema e Bologna per la parte di collegamento scientifico), copre anche la progettazione e la successiva realizzazione opto-meccanica e software, di alcuni moduli che compongono ANDES. In particolare, la sede INAF di Firenze con i contributi di quelle di Trieste e Brera è responsabile sia del collegamento in fibra ottica che consentirà il passaggio della luce tra i vari moduli di ANDES che del modulo di ottica adattiva. Oltre all’aspetto tecnologico, quello scientifico vede la partecipazione di ricercatrici e ricercatori di quasi tutte le sedi INAF, con quella di Trieste responsabile anche del coordinamento del pacchetto scientifico che studierà le galassie ed il mezzo intergalattico.

Il telescopio ELT dell’ESO è attualmente in costruzione nel deserto di Atacama, nel nord del Cile. Quando entrerà in funzione alla fine di questo decennio, l’ELT sarà il più grande telescopio mai costruito al mondo, che aprirà letteralmente una nuova era nell’astronomia da Terra.

Per ulteriori informazioni:

https://andes.inaf.it/

https://elt.eso.org/

 

Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

PROGETTO FATE: PREVISIONI DELLA TURBOLENZA OTTICA PER SPINGERE IL VERY LARGE TELESCOPE AL MASSIMO DELLE SUE POTENZIALITÀ

Per ottenere immagini astronomiche sempre più accurate non basta solo aumentare le dimensioni dei nuovi telescopi o dotarli di strumentazione allo stato dell’arte. Le prestazioni della maggior parte degli strumenti che osservano il cielo, soprattutto nella luce visibile e nell’infrarosso, dipendono fortemente dalle condizioni meteorologiche in atto durante le operazioni, e in particolare dalla turbolenza dell’atmosfera sopra di essi.  Conoscere con sufficiente anticipo tali condizioni diventa quindi sempre più importante e decisivo per ottimizzare l’utilizzo dei migliori telescopi al mondo, come l’attuale Very Large Telescope (VLT) e il futuro Extremely Large Telescope (ELT), sulle Ande cilene, entrambi dell’European Southern Observatory (ESO). È cruciale poter sfruttare al massimo le capacità di questi gioielli della tecnologia compatibilmente con le condizioni atmosferiche massimizzando il ritorno scientifico prodotto.  Il costo tipico di una notte di osservazioni con il VLT si aggira infatti attorno ai 100mila euro: una cifra che spiega da sé quanto sia critico sfruttare al meglio le condizioni ideali dell’atmosfera. Con questi obiettivi l’Istituto Nazionale di Astrofisica ha vinto un bando internazionale di ESO finalizzato a produrre previsioni della turbolenza ottica (TO) e dei principali parametri atmosferici per ottimizzare le osservazioni astronomiche del VLT e di tutti gli strumenti di cui è equipaggiato. Il progetto selezionato, denominato FATE (Forecasting Atmosphere and Turbulence for ESO sites) vede la collaborazione del consorzio CNR/Regione Toscana LaMMA (Laboratorio di Monitoraggio e Modellistica Ambientale per lo sviluppo sostenibile), che fornisce servizi meteo anche per la Protezione Civile italiana.

Il progetto FATE è iniziato nel novembre 2022 e nel periodo settembre – dicembre 2023 è entrato in fase di ‘commissioning’, con i test di verifica delle specifiche tecniche e di funzionamento. Una volta terminato, si entrerà nella fase operativa in cui ESO potrà ottimizzare strategie osservative per il VLT e iniziare a pianificare quelle di ELT, la cui entrata in funzione è attualmente prevista per il 2028.

“Il commissioning è durato 4 mesi e aveva come scopo quello di verificare la robustezza del sistema di previsione e il rispetto delle specifiche tecniche richieste da ESO, ovvero dell’accuratezza delle previsioni dei distinti parametri a scale temporali differenti” dice Elena Masciadri, ricercatrice INAF e responsabile scientifica del progetto FATE. “Le fluttuazioni spazio-temporali della turbolenza ottica hanno scale tipiche molto più piccole di quelle dei classici parametri atmosferici e pertanto la previsione della turbolenza ottica è un obiettivo molto più difficile da raggiungere. Le specifiche tecniche di ESO sono inoltre abbastanza stringenti come è naturale aspettarsi, considerando che il VLT è senza dubbio uno dei telescopi di maggior prestigio al mondo ma anche uno dei più complessi, essendo costituito da ben quattro telescopi da 8,2 m di diametro più quattro telescopi ausiliari da 1.8 metri, dotati di una grande varietà di strumentazione e quindi di possibilità osservative. Possiamo dire di essere soddisfatti del commissioning – prosegue Masciadri – in quanto ci ha permesso di dimostrare la robustezza e l’affidabilità del sistema e allo stesso tempo di meglio definire i margini di miglioramento dell’accuratezza delle previsioni dove ci concentreremo nella seconda fase del progetto”.

I moderni telescopi sono ormai dotati di strumentazione intercambiabile che ha specifiche condizioni di utilizzo, che dipende anche dalle condizioni atmosferiche in essere durante le osservazioni. Alcuni di questi strumenti sono poco sensibili, ad esempio, ad una elevata concentrazione di umidità nell’aria, altri invece ne vengono quasi completamente “accecati”. Per alcune tipologie di programmi scientifici è molto importante raccogliere dati in presenza di poca turbolenza atmosferica, ad esempio in tutte le osservazioni che necessitano un elevato livello di dettaglio in piccole porzioni di cielo che sfruttano i benefici dell’ottica adattiva, come nella ricerca di esopianeti. In generale la conoscenza della turbolenza ottica è fondamentale in tutte le osservazioni supportate da ottica adattiva (OA).  L’ELT sarà una facility supportata al 100% dall’OA quindi la previsione della TO è certamente cruciale per l’astronomia del prossimo futuro.

Oltre a prevedere una serie di parametri atmosferici sopra il sito osservativo del VLT come temperatura, intensità e direzione del vento, umidità relativa, vapore acqueo e copertura nuvolosa, il progetto FATE si occuperà nelle ore notturne anche della previsione di parametri cosiddetti astroclimatici, tra cui il cosiddetto seeing, un parametro che indica il livello di perturbazione dell’atmosfera nella qualità delle immagini astronomiche. Ma cosa è la turbolenza ottica? Le fluttuazioni di temperatura nell’aria generano fluttuazioni dell’indice di rifrazione che a sua volta perturba il fronte d’onda della luce proveniente dagli oggetti celesti osservati. Tale fronte d’onda risulta così ‘imperfetto’ e l’immagine raccolta dal telescopio perde l’accuratezza dei dettagli, limitando così le potenzialità della strumentazione impiegata. Le tecniche di ottica adattiva hanno l’obiettivo di correggere queste perturbazioni, ma le loro prestazioni dipendono dallo stato della turbolenza: per questo è fondamentale poter disporre di una previsione accurata della turbolenza ottica.

Un sistema di previsione come quello previsto nel progetto FATE si basa su modelli idrodinamici che si definiscono a “mesoscala”: il modello viene applicato su una regione limitata della Terra, raggiungendo una più alta risoluzione rispetto a quello che potrebbe fornire una previsione su scala globale. Si tratta di una previsione che viene realizzata usando come dati di inizializzazione quelli prodotti da modelli a circolazione generale, ovvero applicati all’intero globo terrestre dallo European Centre for Medium Range Weather Forecast (ECMWF), il centro che agisce per conto dell’intera comunità europea.

L’esperienza di INAF nel campo delle previsioni di turbolenza ottica per l’astronomia acquisita negli anni è stata fondamentale per arrivare al progetto FATE:

“Abbiamo sviluppato un modello per la previsione della turbolenza ottica, denominato Astro-Meso-NH negli anni ’90 e da allora il sistema si è evoluto, è stato applicato a diversi tra i maggiori osservatori al mondo e più recentemente è stato automatizzato rendendo il modello utilizzabile in modalità operativa e non solo di ricerca” ricorda Elena Masciadri. “lo sviluppo delle moderne tecniche di ‘assimilation data’ e più in generale le tecniche statistiche di filtraggio spaziale ci hanno garantito livelli di accuratezza inimmaginabili solo una decina di anni fa. INAF – conclude Masciadri – ha la responsabilità scientifica del progetto FATE, curando lo sviluppo del sistema automatico di previsione operativa, dello studio e sviluppo degli algoritmi necessari per ottenere le specifiche tecniche del sistema di previsione e di tutte le attività necessarie al miglioramento delle prestazioni che verrà attuato nel corso dei primi anni della fase operativa. Il LaMMA ha la responsabilità operativa di gestire e monitorare il sistema di previsione, sia a livello giornaliero che su intervalli temporali più lunghi e di garantire quindi una copertura ottimale del sistema.” “Il software per la produzione delle previsioni della turbolenza ottica è operativo presso il LaMMA e sfrutta risorse computazionali dei sistemi HPC (High Performance Computing) dedicate esclusivamente a FATE e acquisite anche grazie ad un contributo di Regione Toscana. La collaborazione del LaMMA in questo progetto poggia in primis sul suo Centro di Calcolo che da oltre venti anni, ha mostrato la propria affidabilità in termini di robustezza e resilienza nell’ambito del servizio meteo svolto per la Regione Toscana” dice Alberto Ortolani, ricercatore del LaMMA e responsabile delle attività LaMMA in FATE. “Le notevoli competenze scientifiche sviluppate presso INAF nel campo della previsione della turbolenza ottica e la pluriennale esperienza del Consorzio LaMMA nel gestire servizi operativi ha fatto sì che la proposta risultasse vincitrice nella call internazionale aperta da ESO. Aver vinto con una proposta toscana ci rende particolarmente orgogliosi”.

Progetto FATE Very Large Telescope VLT La Via Lattea si staglia sopra ai telescopi che costituiscono il Very Large Telescope, all'Osservatorio del Paranal, in Cile. Crediti: P. Horálek/ESO
La Via Lattea si staglia sopra ai telescopi che costituiscono il Very Large Telescope, all’Osservatorio del Paranal, in Cile. Crediti: P. Horálek/ESO

Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

TRIPUDIO DI GALASSIE IN TRE NUOVE IMMAGINI DEL TELESCOPIO VST MOSTRANO ABELL 1689, HGC 90 ED ESO 510-G13

L’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) pubblica tre splendide immagini di galassie, gruppi e ammassi di galassie, realizzate con il telescopio italiano VST, gestito da INAF nel deserto di Atacama, in Cile. Le immagini sono state presentate oggi durante il VST Science Workshop a Napoli.

Galassie, lontane e lontanissime. Galassie interagenti, la cui forma è stata scolpita dalla reciproca influenza gravitazionale, ma anche galassie che formano gruppi e ammassi, tenute insieme dalla mutua gravità. Sono le protagoniste di tre nuove immagini rilasciate dal VLT Survey Telescope (VST) in occasione del convegno dedicato alle attività scientifiche del telescopio, in corso dal 16 al 18 aprile presso l’Auditorium nazionale dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a Napoli.

Il VST è un telescopio ottico dal diametro di 2,6 metri, costruito completamente in Italia e operativo dal 2011 presso l’osservatorio dello European Southern Observatory (ESO) di Paranal, in Cile. Da ottobre 2022, il telescopio è gestito interamente da INAF attraverso il Centro Italiano di Coordinamento per VST presso la sede INAF di Napoli, con il 90% del tempo osservativo dedicato alla comunità astronomica italiana. Il VST è specializzato nelle osservazioni di grandi aree del cielo grazie alla sua fotocamera a grande campo, OmegaCAM, un vero e proprio “grandangolo celeste” in grado di immortalare, in ciascuna ripresa, un grado quadrato di cielo, ovvero una porzione della volta celeste larga due volte il diametro apparente della Luna piena. Oltre alle immagini raccolte per la ricerca astrofisica, che per il VST spazia dalle stelle alle galassie fino alla cosmologia, nell’ultimo anno il telescopio ha condotto un nuovo programma dedicato al grande pubblico, osservando nebulose, galassie e altri oggetti celesti iconici durante alcune notti di Luna piena, nelle quali la luminosità del nostro satellite naturale disturba l’acquisizione dei dati scientifici. Nuove immagini saranno pubblicate nei prossimi mesi.

“Oltre alla ricerca scientifica, uno degli obiettivi del centro VST è quello di disseminare la conoscenza scientifica e condividere le meraviglie dell’universo con i non-esperti del settore. In particolare, ci piacerebbe che le nuove generazioni di ragazze e ragazzi, attraverso queste fantastiche immagini, possano scoprire ed alimentare l’interesse per l’astrofisica”, commenta Enrichetta Iodice, ricercatrice INAF a Napoli e responsabile del Centro Italiano di Coordinamento per VST.

ESO 510-G13, HGC 90 e Abell 1689 nelle nuove immagini dal Telescopio VST. Gallery

ESO 510-G13 Telescopio VST galassie
Crediti: INAF/VST. Acknowledgment: M. Spavone (INAF), R. Calvi (INAF)

Una delle tre immagini rilasciate oggi ritrae ESO 510-G13, una curiosa galassia lenticolare a circa 150 milioni di anni luce da noi, in direzione della costellazione dell’Idra. Spicca il rigonfiamento centrale della galassia, su cui si staglia la silhouette scura del disco di polvere visto di taglio, che ne oscura parte della luce. La forma distorta del disco ricorda vagamente una S rovesciata, indice del passato turbolento di ESO 510-G13, che potrebbe aver acquisito la sua attuale conformazione a seguito di una collisione con un’altra galassia. Nell’angolo in basso a destra, tra le tantissime stelle della Via Lattea disseminate nell’immagine, si distingue anche una coppia di galassie a spirale a circa 250 milioni di anni luce da noi. Zoomando nell’immagine, si possono notare molte altre galassie ancora più distanti, visibili come piccole macchie di luce elongate tra i tanti puntini sullo sfondo.

Hickson Compact Group 90 HGC 90 Telescopio VST galassie
Crediti: INAF/VST. Acknowledgment: M. Spavone (INAF), R. Calvi (INAF)

La seconda immagine mostra un piccolo gruppo formato da quattro galassie, chiamato Hickson Compact Group 90 (HGC 90), che dista circa 100 milioni di anni luce di distanza dalla Terra, verso la costellazione del Pesce Australe. Le due macchie di luce rotondeggianti vicino al centro dell’immagine sono le galassie ellittiche NGC 7173 e NGC 7176. La striscia luminosa che si biforca e collega queste due galassie è la terza componente del gruppo, la galassia a spirale NGC 7174: la sua forma singolare tradisce l’interazione in corso tra i tre corpi celesti, che ha strappato loro stelle e gas, rimescolandone la distribuzione. Un alone di luce diffusa avvolge le tre galassie. Non sembra partecipare a questa danza celeste la quarta galassia appartenente al gruppo, NGC 7172, visibile nella parte superiore dell’immagine: si tratta di una galassia il cui nucleo, solcato da scure nubi di polvere, nasconde un buco nero supermassiccio che divora attivamente il materiale circostante. Il quartetto di galassie HGC 90 è immerso in una struttura molto più vasta, che comprende decine di galassie, alcune delle quali visibili in questa immagine.

Abell 1689 Telescopio VST galassie
Crediti: INAF/VST. Acknowledgment: M. Spavone (INAF), R. Calvi (INAF)

La terza immagine mostra un raggruppamento di galassie molto più ricco e ancora più distante: l’ammasso di galassie Abell 1689, che si può osservare nella costellazione della Vergine. Abell 1689 contiene più di duecento galassie, visibili per lo più come macchie di colore giallo-arancio, la cui luce ha viaggiato per circa due miliardi di anni prima di raggiungere il VST. L’enorme massa, che oltre alle galassie comprende anche enormi quantità di gas caldo e della misteriosa materia oscura, deforma lo spazio-tempo in prossimità dell’ammasso, che funge così da “lente gravitazionale” sulle galassie ancora più lontane, amplificando la  loro luce e creando immagini distorte, in modo non dissimile da quanto farebbe una comune lente ottica. Alcune di queste galassie si possono distinguere sotto forma di puntini e di minuscoli trattini dalla forma leggermente curva, in particolare intorno alle regioni centrali dell’ammasso.


 

Per ulteriori informazioni:

L’immagine di HCG 90 fa parte del progetto di ricerca VST Elliptical Galaxy Survey (VEGAS) e consiste di 266 immagini per un totale di circa 11 ore di osservazioni. Le immagini di ESO 510-G13 e di Abell 1689 fanno parte del programma GIOB, dedicato alla raccolta di immagini per il public engagement, e consistono rispettivamente di 19 immagini (1,5 h) e 66 immagini (5,5 h).

Il sito web del VST: https://vst.inaf.it/

 

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

CILE: PRIMA LUCE PER LE OTTICHE ADATTIVE DELLO SPETTROGRAFO ERIS

Ha completato con successo le sue prime osservazioni di prova lo spettrografo ERIS (Enhanced Resolution Imager and Spectrograph), uno strumento di nuova generazione installato al VLT (Very Large Telescope) dell’ESO a Cerro Paranal, in Cile. Con ERIS sarà possibile osservare il Sistema solare, gli esopianeti e le galassie lontane con un dettaglio senza precedenti grazie anche al suo modulo per l’ottica adattiva completamente a firma italiana. In particolare, l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) è impegnato in prima linea nella progettazione e nella realizzazione del modulo di ottica adattiva e calibrazione di ERIS e nell’architettura generale del software di gestione di tutto lo strumento.

Cile: prima luce per le ottiche adattive dello spettrografo ERIS
Questa immagine mostra un progetto concettuale per lo strumento ERIS, il nuovo spettrografo del Very Large Telescope dell’ESO in Cile. ERIS, che sarà attivo per almeno dieci anni dopo la sua installazione, utilizzerà l’Adaptive Optics Facility che corregge gli effetti di sfocatura dell’atmosfera terrestre. Crediti: ESO/ERIS Phase A team

ERIS sfrutta la tecnologia dell’ottica adattiva destinata al fuoco Cassegrain del telescopio Yepun, uno dei quattro telescopi che formano il VLT. La versatilità di ERIS permetterà di ottenere risultati di rilevante interesse scientifico in molti campi della ricerca astronomica utilizzando uno solo dei 4 telescopi da 8,2 metri che costituiscono il VLT. ERIS rimpiazza altri due strumenti di grande successo: NACO e SINFONI. Lo spettrografo sarà operativo per almeno dieci anni.

Cile: prima luce per le ottiche adattive dello spettrografo ERIS
ERIS, il nuovissimo occhio a infrarossi sul cielo del Very Large Telescope, rivela l’anello interno della galassia NGC 1097 con dettagli sbalorditivi. Questa galassia si trova a 45 milioni di anni luce dalla Terra, nella costellazione della Fornace. ERIS ha catturato l’anello gassoso e polveroso che si trova proprio al centro dell’oggetto. I punti luminosi sull’anello sono vivai stellari. Questa immagine è stata acquisita attraverso i quattro diversi filtri dall’imager a infrarossi all’avanguardia di ERIS, il Near Infrared Camera System, o NIX, che rimpiazzerà l’imager NACO utilizzato finora al VLT. Per mettere in prospettiva la risoluzione di NIX, questa immagine mostra, in dettaglio, una porzione di cielo inferiore allo 0,03% delle dimensioni della Luna piena. Crediti: Martin Kornmesser/ESO

Le osservazioni di prova di ERIS sono state ottenute in tre fasi, a febbraio, agosto e nuovamente a novembre 2022, per poter testare i limiti dello strumento. Durante una di queste osservazioni, è stato possibile rilevare con un dettaglio senza precedenti l’anello interno della galassia NGC 1097, situata a 45 milioni di anni luce dalla Terra, in direzione della costellazione della Fornace. Per renderci conto della risoluzione di ERIS, questa immagine mostra una porzione di cielo inferiore allo 0,03% delle dimensioni apparenti della luna piena.

Cile: prima luce per le ottiche adattive dello spettrografo ERIS. ERIS, il nuovissimo occhio a infrarossi sul cielo del Very Large Telescope, rivela l’anello interno della galassia NGC 1097 con dettagli sbalorditivi. Questa galassia si trova a 45 milioni di anni luce dalla Terra, nella costellazione della Fornace. ERIS ha catturato l’anello gassoso e polveroso che si trova proprio al centro dell’oggetto. I punti luminosi sull’anello sono vivai stellari. Questa immagine è stata acquisita attraverso i quattro diversi filtri dall’imager a infrarossi all’avanguardia di ERIS, il Near Infrared Camera System, o NIX, che rimpiazzerà l’imager NACO utilizzato finora al VLT. Per mettere in prospettiva la risoluzione di NIX, questa immagine mostra, in dettaglio, una porzione di cielo inferiore allo 0,03% delle dimensioni della Luna piena. Crediti: Martin Kornmesser/ESO

L’Enhanced Resolution Imager and Spectrograph è dotato di un modulo di ottica adattiva che utilizza sensori ad alta risoluzione e ad alta velocità per analizzare gli effetti di disturbo introdotti dall’atmosfera terrestre in tempo reale. Il modulo è capace di inviare, fino a mille volte al secondo, le informazioni alla Adaptive Optics Facility del VLT, che provvede a correggere tali effetti grazie allo specchio secondario deformabile, utilizzando se necessario una stella guida artificiale prodotta da un raggio laser.

Nell’equipaggiamento dello spettrografo è presente poi un imager infrarosso all’avanguardia – il Near Infrared camera System o NIX – utilizzato proprio per riprendere l’anello interno di NGC 1097. Grazie a una tecnica chiamata coronografia, che blocca la luce delle stelle in modo simile a un’eclissi solare, ci permetterà di osservare alcuni degli oggetti astronomici più deboli.

ERIS dispone anche di uno spettrografo 3D chiamato SPIFFIER, che catturerà uno spettro per ogni singolo pixel all’interno del suo campo di vista, fatto che consentirà per esempio agli astronomi di studiare la dinamica di galassie lontane con dettagli incredibili.

 

L’INAF ha un ruolo di prima linea nella progettazione e nella realizzazione di ERIS: fa parte del Consorzio Internazionale insieme al Max Planck Institute (Germania, alla guida del progetto), allo UK Astronomy Technology Centre di Edimburgo (Scozia), l’ETH di Zurigo (Svizzera), NOVA-Leiden (Olanda) e lo European Southern Observatory (ESO).

In particolare l’INAF di Firenze è responsabile di tutto il sistema di ottica adattiva: il team guidato da Simone Esposito e Armando Riccardi ha realizzato i due sensori di ottica adattiva, uno a ‘stella

guida laser’ (Lgs) e l’altro ‘a stella guida naturale’ (Ngs). “Il sistema di ottiche adattive che abbiamo sviluppato per ERIS rende lo strumento estremamente versatile fornendo la risoluzione necessaria per tipologie di osservazioni diversificate: dallo studio di pianeti intorno a stelle vicine della nostra galassia, a osservazioni dettagliate di galassie così lontane e deboli da richiedere di generare una stella artificiale con un laser proiettato da terra per far funzionare in modo ottimale il nostro sistema di ottiche adattive”, spiega Riccardi, responsabile della realizzazione tecnica del modulo di ottica adattiva di ERIS. “Questa versatilità permetterà di andare oltre gli obiettivi prefissati per ERIS, fornendo un grimaldello alla capacità degli astronomi di esplorare nuove frontiere per aprire porte su una più profonda conoscenza del cosmo”.

L’unità di calibrazione è stata invece realizzata da tecnologi e ricercatori dell’INAF di Teramo coordinati da Mauro Dolci, il quale commenta:

“Come gruppo tecnologico eravamo alla nostra prima collaborazione alla realizzazione di uno strumento ESO. Per noi è stata un’esperienza entusiasmante: certamente impegnativa ma al contempo molto formativa. Sapevamo che la Calibration Unit è un sottosistema di importanza fondamentale, al pari di tutti gli altri sottosistemi: calibrare i dati acquisiti li rende effettivamente utilizzabili dal punto di vista scientifico. Ma nel caso di ERIS si trattava di qualcosa di più: oltre alle funzionalità “standard”, legate alle calibrazioni dello spettrografo SPIFFIER e della camera NIX, la Calibration Unit infatti proietta sul piano focale del telescopio alcune immagini di sorgenti artificiali, che vengono utilizzate per monitorare ed ottimizzare le funzionalità e le prestazioni del modulo di Ottica Adattiva e dello spettrografo stesso. È stata una sfida importante, un impegno ampiamente ripagato non solo dalle operazioni al Very Large Telescope, ma anche dall’uso intensivo che è stato fatto della Calibration Unit per la cruciale fase di integrazione e test di ERIS in Europa. Il completamento della Science Verification, con l’inizio della fase operativa che ne conseguirà, è insomma per noi motivo di grandissima soddisfazione”.

L’architettura generale del software di gestione di tutto lo strumento è infine sotto la guida dei ricercatori dell’INAF di Padova coordinati da Andrea Baruffolo. Il ricercatore sottolinea:

“Per noi si tratta del coronamento di un percorso iniziato sin dalle prime fasi, ovvero dallo studio concettuale, del progetto per la costruzione di ERIS. Un lavoro impegnativo, data la complessità dello strumento. In ERIS, il software di controllo deve coordinare le operazioni, monitorare e raccogliere i dati di un sofisticato modulo di Ottica Adattiva, una Unità di Calibrazione ricca di funzioni e due canali scientifici infrarossi avanzati (Spettrografo a Campo Integrale e Imager). Il software integra un Real-Time Computer (RTC), fornito da ESO, che calcola in tempo reale le correzioni di Ottica Adattiva, e deve anche interfacciarsi al telescopio VLT/UT4, alla Adaptive Optics Facility (AOF), e al sistema delle stelle artificiali laser (4LGSF). Per il gruppo “software di controllo,” arrivare alla Science Verification è un traguardo reso possibile dall’ottimo spirito di collaborazione tra tutti i membri dei vari Istituti che ne fanno parte”.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) sul completamento delle prime osservazioni di prova con le ottiche adattive dello spettrografo ERIS. Video ESO.

PROTOSTELLE: LA VIA PER STUDIARE LA FORMAZIONE DEI PIANETI

Uno studio condotto da un team internazionale a cui hanno partecipato ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica ha analizzato le primissime fasi di formazione delle stelle di piccola massa per comprendere in dettaglio il processo di accrescimento che porta alla nascita di stelle come il Sole e pianeti come quelli del Sistema solare. La ricerca ha rivelato una relazione tra il tasso di accrescimento delle protostelle e il disco di materia che le circonda sin dai primordi della formazione stellare. Questi risultati, basati su osservazioni di 26 protostelle, permetteranno di individuare le condizioni iniziali che danno luogo alla formazione dei pianeti.

PROTOSTELLE: LA VIA PER STUDIARE LA FORMAZIONE DEI PIANETI
Illustrazione che mostra i diversi stadi della formazione stellare. Crediti: Bill Saxton, Nrao/Aui/Nsf

Le stelle di piccola massa, come il nostro Sole, si formano a partire da concentrazioni di gas e polveri cosmiche che collassano sotto la loro stessa gravità. Durante il collasso, questi oggetti ruotano e condensano la massa al centro, dando origine a una protostella, attorno alla quale si forma un disco circumstellare, il tutto all’interno di un alone, o inviluppo, di materia. Un nuovo studio, guidato da Eleonora Fiorellino dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha analizzato queste prime fasi della formazione stellare in cerca di una possibile relazione fra il tasso di accrescimento di una stella in formazione e il suo disco circumstellare. I risultati sono stati pubblicati su The Astrophysical Journal Letters.

“Pensiamo che sia l’inviluppo che il disco attorno a una protostella dissipino la propria massa nel tempo, espellendola nel mezzo interstellare e al contempo accrescendo la massa della stella in formazione”, afferma Fiorellino, ricercatrice post-doc presso la sede INAF di Napoli, che ha svolto parte dello studio anche presso il Konkoly Observatory di Budapest, in Ungheria. “Questo lavoro tratta proprio del processo di accrescimento per il quale una parte del materiale del disco, seguendo le linee di campo magnetico della stella in formazione, arriva sulla stella, accrescendone la massa”.

Una simile analisi era già stata realizzata per oggetti un po’ più evoluti: le cosiddette “stelle di pre-sequenza principale”, ovvero lo stadio che precede la sequenza principale, fase fondamentale dell’evoluzione di una stella, caratterizzata dalla fusione dell’idrogeno nel nucleo della stella. Per questi oggetti si era trovata una relazione fra le varie grandezze fisiche in gioco, individuando alcuni modelli teorici, in particolare il modello viscoso e quello che prevede venti idrodinamici, in grado di spiegare i dati osservativi. Il nuovo studio si concentra, per la prima volta, sulle protostelle, cioè lo stadio precedente alle stelle di pre sequenza, registrando un trend evolutivo con le stelle di pre-sequenza, come aspettato, ma anche alcune differenze.

“Paradossalmente, come spesso accade in fisica, sono proprio le differenze che troviamo ad essere interessanti”, commenta Fiorellino, “perché potrebbero dirci non solo come si formano le stelle ma anche darci le condizioni iniziali per la formazione planetaria, che sempre più lavori ci indicano avvenire proprio durante la fase prestellare. Per interpretare al meglio questi dati osservativi, abbiamo capito che abbiamo bisogno di modelli teorici ancora più accurati perché quelli che abbiamo al momento non tengono conto di aspetti specifici della fase protostellare”.

I processi fisici che avvengono mentre le stelle in formazione acquistano massa non sono ancora del tutto chiari. La conoscenza attuale è limitata alla fase di pre-sequenza, facile da osservare in banda ottica. Al contrario, gli oggetti più giovani, nella fase protostellare, non sono visibili nell’ottico ed è molto più complicato studiarli, poiché occorrono osservazioni in banda infrarossa.

La ricercatrice Eleonora Fiorellino, post-doc presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica a Napoli (a sinistra) e Lukasz Tychoniec, ricercatore post-doc presso il quartier generale dell’ESO a Garching (a destra). Crediti: E. Fiorellino; L. Tychoniec

Grazie a nuovi strumenti, tra i quali KMOS montato sul Very Large Telescope dell’ESO – European Southern Observatory in Cile, e all’uso di nuove tecniche di analisi, Fiorellino ha studiato le 26 protostelle più brillanti entro circa 1600 anni luce da noi, calcolando i loro tassi di accrescimento. Inoltre, osservazioni ottenute con l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA) hanno permesso al collega Lukasz Tychoniec, ricercatore post-doc presso il quartier generale dell’ESO a Garching, in Germania, di calcolare la massa dei dischi che circondano queste protostelle, per capire se i processi fisici che valgono per le stelle di pre-sequenza sono gli stessi che valgono per le protostelle.

“Questo lavoro mostra un trend evolutivo evidente fra protostelle brillanti (dette di classe I) e stelle di pre-sequenza (classe II), suggerendoci di andare a studiare protostelle ancora più giovani e meno brillanti (classe 0) con strumenti più potenti da Terra o con JWST nello spazio. Inoltre mostra che i modelli che hanno successo nello spiegare le fasi di pre-sequenza falliscono se applicati alle protostelle. Pensiamo che il motivo per cui ciò avvenga sia dovuto al fatto che l’inviluppo delle protostelle, trascurato nelle stelle di pre-sequenza, giochi invece un ruolo cruciale durante l’accrescimento”, conclude Fiorellino. “Queste grandezze non sono utili solo a capire come le stelle si formano ma anche a dare le condizioni iniziali per la formazione dei pianeti, come la Terra, che hanno origine sempre nel disco circumstellare”.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “The relation between the Mass Accretion Rate and the Disk Mass in Class I Protostars” di Eleonora Fiorellino, Lukasz Tychoniec, Carlo F. Manara, Giovanni Rosotti, Simone Antoniucci, Fernando Cruz-Sáenz de Miera, Ágnes Kóspál e Brunella Nisini, è stato pubblicato online sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

WFIRST (Wide Field InfraRed Survey Telescope) – da poco ribattezzato Roman Telescope in onore dell’astronoma statunitense Nancy Grace Roman, affettuosamente chiamata “la mamma di Hubble” – è un progetto NASA designato ad indagare su alcuni grandi misteri dell’Universo come la materia e l’energia oscura e per cercare nuovi mondi in orbita attorno ad altre stelle della nostra galassia.

ScientifiCult ha l’onore di poter intervistare il dott. Valerio Bozza, ricercatore presso l’Università degli Studi di Salerno e attualmente impegnato a collaborare con la NASA per la realizzazione del Telescopio Roman.

Valerio Bozza
Il dott. Valerio Bozza

Può raccontarci i momenti della Sua carriera professionale che ricorda con più piacere?

In vent’anni di ricerca ho avuto la fortuna di vivere tante soddisfazioni e di lavorare con le persone che hanno scritto i libri su cui ho studiato. Certamente, partecipare alle discussioni nello studio di Gabriele Veneziano al CERN con i cosmologi più importanti del mondo e poter assistere alla nascita di idee geniali su quella lavagna è stata un’esperienza formativa fondamentale. Quando ho avuto il mio primo invito a relazionare ad un workshop all’American Institute of Mathematics sul gravitational lensing di buchi neri e ho ricevuto i complimenti di Ezra T. Newman, ho capito che potevo davvero dire la mia anche io.

Ricordo ancora le notti di osservazioni allo European Southern Observatory a La Silla in Cile, sotto il cielo più bello del pianeta. Ricordo l’invito al Collège de France a Parigi da parte di Antoine Layberie per un seminario, che poi ho scoperto di dover tenere in francese! Poi non ci dimentichiamo la notizia della vittoria al concorso da ricercatore, che mi ha raggiunto mentre ero in Brasile per un altro workshop sulle perturbazioni cosmologiche. Infine, ricordo con una certa malinconia le notti e i giorni di lavoro all’Osservatorio Astronomico UNISA per mettere su un programma di ricerca competitivo. Tutto è finito con la copertina di Nature sulla scoperta del pianeta KELT-9b, il più caldo mai visto, e la distruzione dell’Osservatorio nel febbraio 2019, una ferita ancora aperta.

Adesso, però, è ora di concentrarsi sullo sviluppo del nuovo telescopio spaziale WFIRST della NASA, che il 20 maggio scorso è stato rinominato Nancy Grace Roman Space Telescope (o semplicemente “Roman”, in breve), in onore della astronoma che ha contribuito alla nascita dei primi telescopi spaziali della NASA.

Infine, ricordo con una certa malinconia le notti e i giorni di lavoro all’Osservatorio Astronomico UNISA con il Prof. Gaetano Scarpetta, per mettere su un programma di ricerca competitivo.

Ci sono degli aggiornamenti sulla data del lancio di Roman?

Il lancio del telescopio Roman era programmato per il 2025, ma diverse vicende hanno giocato contro in questi ultimi anni: il ritardo nel lancio del JWST, lo shutdown del governo americano ad inizio 2019 e soprattutto l’epidemia di COVID-19, che sta provocando ritardi su tutte le scadenze nella tabella di marcia. A questo punto, direi che uno slittamento all’anno successivo possa essere plausibile. Tuttavia, l’interesse verso questa missione sta continuando a crescere sia dentro che fuori l’ambito accademico, mettendola al riparo da eventuali tagli di budget.


Roman viene spesso paragonato al telescopio spaziale Hubble. Quali sono le differenze e le somiglianze? E con il JWST?

Si tratta di tre telescopi spaziali che spesso vengono citati insieme, ma sono tutti e tre profondamente diversi: Hubble opera nella banda del visibile e nell’ultravioletto, mentre non è molto sensibile all’infrarosso. Al contrario, sia JWST che Roman opereranno nel vicino infrarosso. JWST avrà un campo di vista molto più piccolo anche di Hubble, perché il suo scopo è fornirci immagini con dettagli mai visti prima di sistemi stellari e planetari in formazione. Roman, invece, avrà un campo di vista cento volte più grande di Hubble, perché il suo scopo è quello di scandagliare aree di cielo molto grandi alla ricerca di galassie o fenomeni transienti. La grande novità è che Roman condurrà queste survey a grande campo con una risoluzione di 0.1 secondi d’arco, simile a quella di Hubble! Quindi, avremo la possibilità di condurre la scienza di Hubble su enormi aree di cielo contemporaneamente. JWST, invece, condurrà osservazioni con un dettaglio molto migliore di Hubble e di Roman, ma su un singolo oggetto in un’area molto limitata.

Roman telescope Valerio Bozza
Immagine 3D del veicolo spaziale Roman (luglio 2018). Immagine NASA (WFIRST Project and Dominic Benford), adattata, in pubblico dominio


Quali sono i target scientifici della missione e come vengono raggiunti?

A differenza di Hubble e JWST, Roman avrà poco spazio per richieste estemporanee di osservazioni. Sarà un telescopio essenzialmente dedicato a due programmi principali: una survey delle galassie lontane e una survey del centro della nostra Galassia. La prima survey effettuerà delle immagini di tutto il cielo alla ricerca di galassie deboli e lontane. Queste immagini consentiranno di capire meglio la distribuzione della materia nel nostro Universo, fissare le tappe dell’espansione cosmologica e chiarire i meccanismi alla base dell’espansione accelerata, scoperta venti anni fa attraverso lo studio delle supernovae Ia. I cosmologi si aspettano che Roman possa fornirci risposte fondamentali sulla natura della cosiddetta Dark Energy, che è stata ipotizzata per spiegare l’accelerazione del nostro Universo, ma la cui natura è del tutto sconosciuta.

Il secondo programma osservativo è una survey delle affollatissime regioni centrali della nostra galassia. Monitorando miliardi di stelle, ci aspettiamo che, almeno per una frazione di queste, la loro luce verrà amplificata da effetti temporanei di microlensing dovuti a stelle che attraversano la linea di vista. Il microlensing è un’amplificazione dovuta al ben noto effetto “lente gravitazionale” previsto dalla relatività generale di Einstein. Se la stella che fa da lente è anche accompagnata da un pianeta, l’amplificazione riporterà delle “anomalie” che potranno essere utilizzate per studiare e censire i sistemi planetari nella nostra galassia. Roman sarà così sensibile da rivelare anche pianeti piccoli come Marte o Mercurio!

microlensing
Il fenomeno del microlensing: la sorgente (in alto) appare più brillante quando una stella lente passa lungo la linea di vista. Se la lente è accompagnata da un pianeta, la luminosità mostra anche una breve anomalia. Credits: © ESA


Quali differenze tra le caratteristiche dei pianeti extrasolari che andrà a scoprire
Roman e quelle dei pianeti che ha osservato Kepler e che osserva TESS?

Il metodo del microlensing, utilizzato da Roman, è in grado di scoprire pianeti in orbite medio-larghe intorno alle rispettive stelle. Al contrario, sia Kepler che TESS, utilizzano il metodo dei transiti, in cui si misura l’eclisse parziale prodotta dal pianeta che oscura parte della sua stella. Questi due satelliti, quindi, hanno scoperto tipicamente pianeti molto vicini alle rispettive stelle.

Ipotizzando di osservare una copia del Sistema Solare, Kepler e TESS potrebbero vedere Mercurio o Venere, nel caso di un buon allineamento. Roman, invece, avrebbe ottime probabilità di rivelare tutti i pianeti da Marte a Nettuno.

Un’altra differenza è che Roman scoprirà pianeti distribuiti lungo tutta la linea di vista fino al centro della Galassia, consentendo un’indagine molto più ampia della distribuzione dei pianeti di quanto si possa fare con altri metodi, tipicamente limitati al vicinato del Sole. Purtroppo, però, i pianeti scoperti col microlensing non si prestano ad indagini approfondite, poiché, una volta terminato l’effetto di amplificazione, i pianeti tornano ad essere inosservabili e sono perduti per sempre.

In definitiva, la conoscenza dei pianeti nella nostra Galassia passa per il confronto tra diversi metodi di indagine complementari. Ognuno ci aiuta a comprendere una parte di un puzzle che si rivela sempre più complesso, mano mano che scopriamo mondi sempre più sorprendenti.

 

Nancy Grace Roman, in una foto NASA del 2015, in pubblico dominio