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Un ululato dal Medioevo – Uno studio multidisciplinare firmato dalle Università Sapienza, Bologna e Parma fornisce la descrizione più completa di un campione di lupo del Medioevo in Italia.

lupo medioevo Po
Un ululato dal Medioevo: un campione di lupo del Po. Foto del ritrovamento del cranio di lupo sulla spiaggia Boschi Maria Luigia, presso Coltaro (PR), 2018. (Foto di Davide Persico)

È stato pubblicato nei giorni scorsi un importante articolo sullo studio di un cranio fossile di lupo (Canis lupus), rinvenuto nel settembre 2018 nel Fiume Po da Davide Persico, Professore associato presso l’Università di Parma e autore senior che ha diretto lo studio.

Il fossile, completo e in ottimo stato di conservazione, è esposto nel Museo Paleoantropologico del Po di San Daniele Po (CR) ed è già stato oggetto di uno studio paleogenetico nel 2019. Nel recente articolo scientifico però, viene presentata la sua prima descrizione completa basata su un approccio multidisciplinare.

“Il riconoscimento e la prima classificazione tassonomica dell’esemplare, nonché la deter-minazione dell’età anagrafica e del sesso, sono state eseguite attraverso un’analisi biome-trica svolta presso il Dipartimento di Scienze Chimiche della Vita e della Sostenibilità ambientale dell’Università di Parma” – afferma Davide Persico.

Il cranio quasi completo è stato ritrovato sulla barra alluvionale del Fiume Po denominata Boschi Marialuigia, in sponda destra ma in territorio cremonese. Mediante l’analisi radiometrica al Carbonio 14, il fossile è stato collocato in pieno Medioevo, esattamente tra il 967 e il 1157 d.C.

Il periodo medievale ha rappresentato una fase cruciale per la storia evolutiva del lupo in quanto segnato sia da importanti cambiamenti ecosistemici, soprattutto nei paesaggi boschivi, sia da pesanti persecuzioni umane, che hanno portato questa specie a un drammatico declino demografico. Nonostante il lupo sia senza dubbio uno dei predatori più iconici e ampiamente studiati di tutti i tempi, in Europa i resti osteologici di lupi medievali sono estremamente rari, limitando la comprensione delle dinamiche e dei fenomeni che hanno influenzato l’evoluzione delle popolazioni passate di questa specie. Per questo motivo, il cranio fossile oggetto di studio ha rappresentato un’eccezionale e rara opportunità di ricerca.

Scansione tomografica del cranio (Foto di Dawid A. Iurino)

“Le analisi biometriche e quelle basate sulla Tomografia Computerizzata (TC)” – afferma Raffaele Sardella, professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze della Terra di Sapienza Università di Roma – “indicano che il lupo del Po rientra nella variabilità cranica della sottospecie Canis lupus italicus esistente tutt’oggi nella nostra penisola”.

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Confronto tra l’immagine fotografica del cranio (sinistra) e il modello 3D ottenuto tramite l’elaborazione di immagini tomografiche (destra). (Immagine di Dawid A. Iurino)

 

“L’usura dei denti ha consentito di ricondurre il cranio ad un individuo adulto tra i 6 e gli 8 anni, di sesso femminile – ha sottolineato Dawid Adam Iurino, primo autore dell’articolo, esperto di paleopatologie e applicazioni della paleontologia virtuale presso Sapienza. Questo esemplare – continua lo studioso – manifesta chiare prove di una grave parodontite che ha causato la completa perdita del canino sinistro producendo un grande foro che collega l’alveolo con la cavità nasale. Tale condizione patologica ha probabilmente debilitato gravemente il soggetto; non è però possibile stabilire con certezza se la morte sia stata una conseguenza di questa malattia”.

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Scansione tomografica del cranio (Foto di Dawid A. Iurino)

Le analisi filogenetiche, condotte presso il Laboratorio del DNA antico dell’Università di Bologna, hanno collocato il pool genetico del DNA mitocondriale (piccola porzione del genoma ereditata solo per via materna) del reperto all’interno della variabilità genetica dei lupi moderni, chiaramente distinto da quello dei cani. In particolare, secondo Elisabetta Cilli, Professoressa a contratto di Archeogenetica all’Università di Bologna e co-autrice dello studio, il campione rientra nell’aplogruppo 2 dei lupi, cioè fa parte delle linee di discendenza materne più antiche che derivano tutte da un antenato comune. In Europa tale aplogruppo, a partire da almeno 2.700-1.200 anni fa, è stato in gran parte sostituito dal più recente aplogruppo 1, tranne in Italia dove persiste solo l’aplogruppo 2. Le stesse analisi hanno inoltre dimostrato che la sequenza mitocondriale dell’esemplare studiato è molto simile a quella tipica greca, chiamata W15, da cui mostra solo una mutazione di differenza.

Estrazione del DNA antico dal reperto (Foto Elisabetta Cilli)

Secondo Elisabetta Cilli, questa sequenza di DNA rappresenta parte dell’antica variabilità genetica della popolazione italiana di lupi oggi persa a causa dell’impatto negativo delle persecuzioni antropiche perpetrate nel Medioevo e, per l’Europa occidentale, in particolare negli ultimi 150 anni.

Questo studio multidisciplinare fornisce la descrizione più completa di un campione di lupo del Medioevo in Italia e dimostra come i campioni archeozoologici rappresentino una fonte essenziale di informazioni per comprendere le dinamiche, la diversità e la distribuzione dei lupi tra presente e passato.

Tra gli autori anche Romolo Caniglia, ricercatore di ISPRA, Elena Fabbri, ricercatrice di ISPRA, Marta Maria Ciucani dell’Università di Copenaghen e Beniamino Mecozzi di Sapienza Università di Roma.

Esemplare di Lupo ripreso recentemente nella bassa Pianura Padana (Foto di Alessandro Barbieri)

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Lupo: l’ibridazione con il cane domestico mette a rischio la conservazione della specie

Lo studio, condotto da ricercatori Sapienza, ha stimato nel Parco nazionale dell’Appennino tosco-emiliano e nelle zone circostanti dell’Appennino settentrionale una prevalenza di ibridazione del 70%, sulla base di 152 campioni raccolti, corrispondenti a 39 lupi in 7 branchi differenti. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista The Journal of Wildlife Management, evidenziano la necessità di arginare il fenomeno per preservare l’integrità genetica del lupo.

 

L’integrità genetica del lupo italiano è sempre più minacciata dall’ibridazione con il cane domestico. È quanto dimostrato in un recente studio condotto dalla Sapienza Università di Roma in collaborazione con il Parco nazionale dell’Appennino tosco-emiliano, l’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale (Ispra) e il Centre Nationale de la Recherche Scientifique (Francia), pubblicato sulla rivista The Journal of Wildlife Management.

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Ibridi di Cerreto. Foto di Luigi Molinari

Il cane domestico è il risultato di una forte selezione attuata dall’uomo e di millenni di isolamento riproduttivo dal lupo. Nel tempo il cane ha sviluppato forme e comportamenti più appropriati alle necessità dell’uomo e profondamente diversi rispetto al suo progenitore selvatico. Dal punto di vista biologico, il cane e il lupo sono la stessa specie e in determinate circostanze possono accoppiarsi e generare ibridi fertili. Eppure, nonostante l’ibridazione con il lupo sia occasionalmente avvenuta fin dall’origine stessa della domesticazione del cane, oggi il timore è che il fenomeno sia in forte aumento a causa dell’espansione del lupo in aree maggiormente antropizzate, dove il rapporto numerico risulta ampiamente a favore della popolazione canina.

“Dai primi rari avvistamenti di ibridi negli anni ’70 e ’80, il fenomeno è stato ampiamente sottovalutato negli anni successivi – spiega Paolo Ciucci del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza Università di Roma, coordinatore lo studio. “Questo sia per le difficoltà tecniche intrinseche all’identificazione degli individui ibridi, inclusi i re-incroci di successiva generazione, sia per le complesse e delicate implicazioni gestionali del fenomeno. Inoltre, ad oggi sono stati pochi gli studi che hanno realmente quantificato l’ibridazione tra cane e lupo secondo parametri popolazionistici e modelli statistici adeguati, mentre gli strumenti di cui oggi disponiamo ci permettono di produrre stime più accurate”.

Sulla base di 152 campioni raccolti, corrispondenti a 39 lupi in 7 branchi differenti, i ricercatori hanno stimato una prevalenza di ibridazione del 70%, con individui ibridi presenti in almeno 6 dei 7 branchi monitorati. Inoltre, attraverso la ricostruzione genealogica è stato accertato che in almeno due di questi branchi gli individui ibridi godono dello status di riproduttori, e sono in grado quindi di tramandare le varianti genetiche di origine canina alle generazioni successive.

Nonostante la presenza di casi di ibridazione fosse stata originariamente ipotizzata, se si considerano gli effetti potenzialmente negativi che i geni di origine canina possono avere per la sopravvivenza del lupo allo stato selvatico, i risultati dello studio evidenziano uno scenario allarmante per la conservazione della specie e per la tutela della sua identità genetica.

“Grazie a una rete di collaboratori con competenze complementari, che ci ha permesso di applicare adeguate strategie di campionamento, congiuntamente a metodi formali di stima demografica e a tecniche di diagnosi genetica particolarmente efficienti, nel nostro lavoro abbiamo prodotto una stima accurata del fenomeno su scala locale – aggiunge Nina Santostasi, ricercatrice dello stesso Dipartimento e prima autrice dello studio. “I risultati che abbiamo ottenuto sottolineano con enfasi come le presunte barriere riproduttive comportamentali tra cani e lupi, o la diluizione di geni di origine canina nella popolazione di lupo, non siano da sole sufficienti a prevenire l’ibridazione e il suo dilagare all’interno della popolazione di lupo. Purtroppo, con ogni probabilità, questa situazione non è limitata all’area in cui abbiamo lavorato ed è fondamentale replicare con urgenza lo stesso tipo di studio anche nelle altre aree dell’areale della specie”.

I risultati dello studio evidenziano quanto sia fondamentale non ignorare il fenomeno e mettere in campo tutte le migliori competenze e capacità gestionali per preservare l’integrità genetica del lupo. Ma non solo, è necessario informare e sensibilizzare l’opinione pubblica sul rischio di estinzione genomica. “È questo un concetto molto più difficile da comprendere e condividere di quanto non lo sia stato il rischio di estinzione demografica quando, nei primi anni ’70, l’Italia si è detta favorevole alla protezione legale della specie – conclude Ciucci. “Paradossalmente, 50 anni più tardi, è la stessa identità genetica del lupo che è messa a rischio come conseguenza delle dinamiche espansive della specie, dell’elevato numero di cani vaganti e dell’inerzia gestionale”.

Le tecniche genetiche utilizzate dai ricercatori per identificare gli ibridi, che utilizzano il DNA estratto dagli escrementi di lupo, sono state messe a punto nel laboratorio di Genetica della Conservazione dell’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale (Ispra), da anni attivo nel settore.

La stima della prevalenza degli ibridi è stata effettuata nella popolazione di lupo che vive nel Parco nazionale dell’Appennino tosco-emiliano e nelle zone circostanti dell’Appennino settentrionale, un’area centrale e strategica della distribuzione del lupo nell’Appennino, dove i primi individui ibridi, o comunque morfologicamente devianti rispetto allo standard morfologico del lupo, erano già stati osservati dalla fine degli anni ’90.

Riferimenti:

Estimating Admixture at the Population Scale: Taking Imperfect Detectability and Uncertainty in Hybrid Classification Seriously – Nina L. Santostasi, Olivier Gimenez, Romolo Caniglia, Elena Fabbri, Luigi Molinari, Willy Reggioni, Paolo Ciucci – The Journal of Wildlife Management https://doi.org/10.1002/jwmg.22038

 

Testo, foto e video dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma