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Duecento anni fa, i dinosauri

20 febbraio del 1824. Il presidente della Società Geologica di Londra, William Buckland, prende la parola e comincia così a fare la storia:

«Ho intenzione di presentare queste illustrazioni di parti dello scheletro di un enorme animale fossile, trovato a Stonesfield vicino a Woodstock, circa dodici miglia a nordovest di Oxford».

Un rettile enorme, dissimile da ogni altro organismo conosciuto. Buckland lo chiamò – accogliendo il suggerimento di un collega, William Conybeare – Megalosaurus, “lucertola gigantesca”. Un nome che oggi magari fa sorridere, alle nostre orecchie è più adatto a un b-movie giapponese che a una scoperta storica; ma all’epoca era allo stesso tempo esatto ed evocativo. Megalosaurus fu infatti il primo dinosauro mai presentato alla comunità scientifica.

Megalosaurus 1845
la prima tavola con la mandibola di Megalosaurus, tratta dallo studio di William Buckland, XXI.—Notice on the Megalosaurus or great Fossil Lizard of Stonesfield, Transactions of the Geological Society of London
Series 2, Volume 1, DOI: https://doi.org/10.1144/transgslb.1.2.390. Immagine utilizzata secondo licenza

All’inizio del XIX secolo il terreno era fertile di passato. Georges Cuvier aveva dimostrato poco più di vent’anni prima che erano esistite specie estinte: la Terra di colpo aveva guadagnato un passato, altri mondi erano sorti e crollati prima di sfumare nel nostro. All’improvviso, si susseguivano ritrovamenti di inconcepibili mostri primordiali. Nel 1808 fu lui a identificare il primo mosasauro, vicino a Maastricht, e a riconoscere come un rettile volante il fossile trovato in Baviera e descritto nel 1784 da Cosimo Collini, segretario di Voltaire – lo battezzò dunque Pterodactylus. Nel frattempo Mary Anning aveva raccolto ittiosauri e plesiosauri, brulicanti dalle scogliere giurassiche di Lyme Regis. I mari del passato ospitavano draghi finora ignoti, ma sulla terraferma?

tavola 16 dal libro Evolution in the past, di Henry R. Knipe; con illustrazioni di Alice B. Woodward e Ernest Bucknall, London, Herbert and Daniel, 1912, DOI: https://doi.org/10.5962/bhl.title.25747. Immagine in pubblico dominio
tavola 16 dal libro Evolution in the past, di Henry R. Knipe; con illustrazioni di Alice B. Woodward e Ernest Bucknall, London, Herbert and Daniel, 1912, DOI: https://doi.org/10.5962/bhl.title.25747. Immagine Biodiversity Heritage Library in pubblico dominio

Il mostro trovato da Buckland era poco più di una serie di frammenti – femori, vertebre, parti del bacino e della mandibola, eppure non era equivocabile: parlava di un mondo di creature terrestri fuori da ogni riferimento dell’epoca. Forse questa alterità lo intimidì; Buckland ci mise anni prima di descriverlo ufficialmente – trovò le ossa intorno al 1818, sei anni prima, in circostanze che non descrisse con chiarezza. Nei circoli geologici se ne discuteva da tempo; James Parkinson (il medico da cui prende il nome il morbo di Parkinson) lo citava già nel 1822 nel suo Outlines of Oryctology

William Buckland era la persona giusta per gestire un ritrovamento del genere. Fu un intellettuale eccentrico e poliedrico che si occupò anche di medicina e di pesca (era famoso per il suo zoo personale, incluso un orso che amava vestire con tocco e toga accademica; si faceva inoltre vanto di aver assaggiato gli animali più improbabili), unita a una statura scientifica indiscutibile. Coraggio e credibilità gli permisero così di suggerire, dall’analisi della dentatura, che la creatura doveva essere un rettile. Anche se l’idea di una lucertola lunga -così stimò Cuvier, dopo aver analizzato le ossa per Buckland- dodici metri era qualcosa di assolutamente fantascientifico per l’epoca.

Megalosaurus diede la stura a un torrente di scoperte che tuttora non si ferma, anzi, è sempre più tumutuoso. Altre lucertole giganti sarebbero seguite a ruota. L’erbivoro Iguanodon, descritto nel 1825 da Gideon Mantell (anche se le ossa le scoprì la moglie), che nel 1832 avrebbe descritto anche Hylaeosaurus, oggi riconosciuto come un anchilosauro. Le tre specie sarebbero state unite infine da Richard Owen in un nuovo gruppo di viventi, le “lucertole terribili” o Dinosauria, nel 1842

Megalosaurus diede la stura a un torrente di scoperte che tuttora non si ferma, anzi, è sempre più tumutuoso. Oggi sappiamo che Megalosaurus non era una lucertola anfibia gigantesca, come pensava Buckland: era un teropode, un rappresentante di quel ramo evolutivo a cui appartengono sia i tirannosauri sia gli uccelli attuali, che abitava l’Europa 165-168 milioni di anni fa. Era solo uno delle migliaia di specie di quello che è forse il gruppo di vertebrati di maggior successo mai esistito sulla Terra, un insieme di creature gigantesche e minuscole che non solo popolò ogni ambiente di terraferma del pianeta per tutto il Mesozoico, ma che lo popola tuttora, sotto forma di uccelli. E soprattutto abita la nostra immaginazione, da piccini e da grandi, creando una sorta di mitologia laica a cui siamo affezionati. Megalosaurus non è il più importante o più speciale dinosauro mai scoperto. Ma fu il primo: dedichiamogli un pensiero, per i suoi primi 200 anni. 

Scoperte orme fossili di grandi rettili sulle Alpi occidentali

Uno studio appena pubblicato a firma di geologi e paleontologi delle Università di Torino, Roma Sapienza, Genova, Zurigo e del MUSE – Museo delle Scienze di Trento, ha istituito un tipo di impronta fossile nuova per la scienza, denominata Isochirotherium gardettensis, in riferimento all’Altopiano della Gardetta nell’Alta Val Maira in cui è stata scoperta.

orme fossili grandi rettili Alpi occidentali
Ipotetica ricostruzione dell’organismo che ha lasciato le impronte attribuite alla nuova icnospecie Isochirotherium gardettensis. Per gentile concessione di Fabio Manucci

Un’inattesa scoperta paleontologica, appena pubblicata sulla rivista internazionale PeerJ da un team multidisciplinare di ricercatori italiani e svizzeri, descrive una serie di orme fossili impresse da grandi rettili vagamente simili a coccodrilli nel passato più profondo delle Alpi occidentali, circa 250 milioni di anni fa. Le impronte sono state scoperte a circa 2200 metri di quota nella zona dell’Altopiano della Gardetta nell’Alta Val Maira (Provincia di Cuneo, Comune di Canosio) in seguito al lavoro di tesi del geologo dronerese Enrico Collo. Nel 2008, insieme al prof. Michele Piazza dell’Università di Genova e nel 2009 con Heinz Furrer dell’Università di Zurigo, identificarono nelle rocce della zona alcune tracce di calpestio lasciate da grandi rettili, originariamente lasciate fra i fondali fangosi ondulati di una antica linea di costa marina in prossimità di un delta fluviale.

L’Altopiano della Gardetta con al centro la Rocca la Meja – Foto di F.M. Petti

Lo studio appena pubblicato a firma di geologi e paleontologi del MUSE – Museo delle Scienze di Trento, dell’Istituto e Museo di Paleontologia dell’Università di Zurigo e delle Università di TorinoRoma Sapienza e Genova, in accordo con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Alessandria Asti e Cuneo, le descrive in parte come orme fossili dell’icnogenere Chirotherium istituisce inoltre un tipo di impronta fossile nuova per la scienza, denominata Isochirotherium gardettensis in riferimento all’altopiano in cui è stata scoperta.

È stato molto emozionante notare appena due fossette impresse nella roccia, spostare un ciuffo erboso e realizzare immediatamente che si trattava di un’impronta lunga oltre trenta centimetri: un vero tuffo nel tempo profondo, con il privilegio di poter appoggiare per primo la mano nella stessa cavità dove in centinaia di milioni di anni se n’era appoggiata soltanto un’altra; mi è venuto spontaneo rievocare subito l’immagine dell’animale che lasciò, inconsapevolmente, un segno duraturo nel fango morbido e bagnato, ma destinato a divenire roccia e innalzarsi per formare parte della solida ossatura delle Alpi” ha dichiarato il paleontologo Edoardo Martinetto del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino, primo scopritore delle nuove tracce.

orme fossili grandi rettili Alpi occidentali
Le orme che hanno consentito la descrizione della nuova icnospecie Isochirotherium gardettensis – Foto di F.M. Petti.

Secondo Fabio Massimo Petti del MUSE – Museo delle Scienze di Trento, esperto di orme fossili e primo autore del lavoro, si tratta di un ritrovamento unico in Europa: “Le orme sono eccezionalmente preservate e con una morfologia talmente peculiare da averci consentito la definizione di una nuova icnospecie che abbiamo deciso di dedicare all’Altopiano della Gardetta”.

Il paleontologo Massimo Bernardi del MUSE sottolinea che questi ritrovamenti testimoniano la presenza di rettili di grandi dimensioni in un luogo e un tempo geologico che si riteneva caratterizzato da condizioni ambientali inospitali. Le rocce che preservano le impronte della Gardetta, formatesi pochi milioni di anni dopo la più severa estinzione di massa della storia della vita, l’estinzione permotriassica, dimostrano che quest’area non era totalmente inospitale alla vita come proposto in precedenza.

“Non è possibile conoscere con precisione l’identità dell’organismo che ha lasciato le impronte che abbiamo attribuito a Isochirotherium gardettensis, ma, considerando la forma e la grandezza delle impronte, e altri caratteri anatomici ricavabili dallo studio della pista, si tratta verosimilmente di un rettile arcosauriforme di notevoli dimensioni, almeno 4 metri” ha rimarcato il paleontologo Marco Romano della Sapienza Università di Roma.

“Ricordo la grande emozione provata in occasione della prima scoperta, con l’amico Enrico Collo nel 2008, il piacere intellettuale della prima campagna di rilievi con Enrico e Heinz Furrer nel 2009 e poi la grande soddisfazione scientifica avuta nel lavorare con una così prestigiosa squadra di ricercatori, il tutto nella consapevolezza che questa rilevante novità scientifica si colloca in un territorio di spettacolare bellezza, accrescendone il già grandissimo valore” ha ricordato il Prof. Michele Piazza dell’Università di Genova.

Nell’area delle impronte sono frequenti i “ripple marks” tracce di moto ondoso lasciate circa 250 milioni di anni fa su un fango sabbioso ora diventato roccia – Foto di Enrico Collo

Per il raggiungimento di questi risultati è stato determinante il contributo organizzativo ed economico dell’Associazione Culturale “Escarton” che ha sostenuto il progetto a partire dal 2016 e che, grazie al Presidente Giovanni Raggi, ha rappresentato l’intermediario fra il mondo della ricerca e quello delle istituzioni locali rappresentate dai Sindaci dei comuni di Canosio e Marmora, nonché dall’Unione Montana Valle Maira.

Il progetto di ricerca è destinato a svilupparsi ulteriormente grazie all’estensione dell’area di ricerca e alla raccolta di ulteriori informazioni sulla associazione di rettili triassici che hanno lasciato tracce nella zona ma soprattutto grazie alla diffusione dei risultati delle ricerche geo-paleontologiche mediante la creazione di un Geo-Paleo park, comprendente un centro visitatori e un giardino geologico didattico-divulgativo.

“La nostra prossima sfida”, sottolinea il coordinatore del progetto Massimo Delfino del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino“è trovare la copertura finanziaria che garantisca una raccolta accurata ed esaustiva delle informazioni di importanza scientifica, la conservazione a lungo termine del patrimonio paleontologico della Gardetta e la sua valorizzazione in un’ottica di promozione culturale e turistica delle caratteristiche naturali della Val Maira”.

Riferimenti:

Archosauriform footprints in the Lower Triassic of Western Alps and their role in understanding the effects of the Permian-Triassic hyperthermal – Fabio Massimo Petti, Heinz Furrer, Enrico Collo, Edoardo Martinetto, Massimo Bernardi, Massimo Delfino, Marco Romano, Michele Piazza – PeerJ 2020. DOI 10.7717/peerj.10522

 

Testo, video e immagini da Sapienza Università di Roma e Università di Torino sulla scoperta di orme fossili di grandi rettili sulle Alpi occidentali.