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Cancro ovarico: un nuovo alleato diagnostico grazie all’intelligenza artificiale

L’Intelligenza artificiale potrebbe affiancare i medici nella definizione ecografica del rischio di malignità di formazioni ovariche. Lo dimostra un nuovo studio a cui hanno partecipato l’Università di Milano-Bicocca e la Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori.

 

Milano, 22 gennaio 2025 – Individuare un tumore in fase precoce è fondamentale per garantire una prevenzione e una cura efficaci. Oggi c’è un alleato in più, che sta imparando molto in fretta ed è sempre più preciso: si tratta dell’intelligenza artificiale. Lo dice un recente studio, pubblicato sulla rivista Nature Medicine, a cui ha collaborato Robert Fruscio, professore associato in Ginecologia e Ostetricia dell’Università di Milano-Bicocca e direttore della Struttura semplice di Ginecologia Preventiva della Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori: la ricerca, condotta da un team del Karolinska Institutet in Svezia, ha coinvolto 20 centri in otto Paesi e ha analizzato un dataset di oltre 17.000 immagini ecografiche provenienti da più di 3.600 pazienti, tra cui alcune che si sono rivolte all’Ospedale San Gerardo di Monza. L’obiettivo è stato quello di addestrare un programma di Intelligenza artificiale a distinguere, in queste immagini, le lesioni ovariche benigne da quelle maligne e testare le potenzialità di questi modelli nel supportare le diagnosi mediche, ridurre il margine di errore diagnostico e migliorare la gestione clinica delle pazienti.

«Le lesioni ovariche sono comuni e spesso rilevate incidentalmente, per questo è fondamentale, al fine di impostare un trattamento corretto, definirne il più precisamente possibile il rischio di malignità», spiega Robert Fruscio. «Abbiamo sviluppato e validato un sistema di Intelligenza artificiale in grado di distinguere, a partire da un’immagine ecografica, le lesioni ovariche benigne e quelle maligne. Abbiamo poi confrontato le prestazioni dell’IA con quelle di operatori ecografici esperti (tra i quali io e altri colleghi da tutto il mondo) e di operatori non esperti. Il modello si è rivelato superiore, seppur di pochissimo, agli esperti e significativamente migliore dei non esperti».

I modelli basati sull’Intelligenza artificiale, nello specifico, hanno raggiunto un tasso di accuratezza nell’individuazione del cancro ovarico dell’86%, rispetto all’82% degli esperti umani e al 77% di quelli con minore esperienza. I risultati sono stati consistenti indipendentemente dall’età dei pazienti, dai dispositivi ecografici utilizzati e dai contesti clinici.

L’importanza di questa sperimentazione avviene in un contesto generale in cui gli operatori esperti scarseggiano in molte parti del mondo e non sono disponibili in tutti gli ospedali. La carenza di ecografisti esperti ha come conseguenza da una parte l’esecuzione di interventi chirurgici non necessari e dall’altra una diagnosi ritardata di cancro.

«I modelli di intelligenza artificiale potrebbero quindi costituire un ausilio per gli operatori meno esperti nel processo di selezione di pazienti da inviare a centri di secondo livello e, dall’altra parte, evitare chirurgie inutili in pazienti con lesioni a basso rischio», continua Robert Fruscio. «In generale, è il classico caso in cui la IA non si sostituisce all’uomo, ma potrebbe migliorare l’efficienza di tutto il sistema e la gestione delle pazienti».

Sempre secondo lo studio, in una simulazione di triage, il supporto diagnostico guidato dall’IA ridurrebbe del 63% i rinvii agli esperti, superando significativamente le prestazioni diagnostiche della pratica corrente. Pur sottolineando che sono necessari ulteriori studi prospettici e randomizzati per convalidare il beneficio clinico e le prestazioni diagnostiche dei modelli di Intelligenza artificiale, lo studio offre spunti di riflessione sull’applicabilità dei sistemi di supporto diagnostico guidati dall’IA per la diagnosi del cancro ovarico.

Riferimenti bibliografici:

Christiansen, F., Konuk, E., Ganeshan, A.R. et al. International multicenter validation of AI-driven ultrasound detection of ovarian cancer, Nat Med 31, 189–196 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41591-024-03329-4

causa rischio metastasi tumore al seno
Foto di StockSnap

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca

TUMORE DELL’OVAIO: PASSI AVANTI VERSO LA DIAGNOSI PRECOCE
Secondo i risultati di una ricerca l’applicazione di innovative tecniche di genomica permetterebbe di rilevare tracce di tumore ovarico con anni di anticipo rispetto alla manifestazione dei sintomi, grazie all’analisi del DNA sui tamponi utilizzati per il Pap test.
La scoperta potrebbe cambiare l’approccio alla malattia.

La ricerca, condotta in Humanitas, è stata portata a termine in maniera retrospettiva a partire dai tamponi di Pap test di 113 pazienti, raccolti e analizzati in collaborazione con numerosi centri su tutto il territorio italiano: IRCCS Ospedale San Gerardo di Monza, IRCCS Policlinico Gemelli di Roma, IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, il Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, l’Azienda Ospedaliero Universitaria Città della Salute e della Scienza di Torino, l’Istituto Mario Negri di Milano e l’Università degli Studi di Padova.

Rozzano, 6 dicembre 2023 – Il sogno di una diagnosi precoce per il tumore dell’ovaio è oggi un passo più vicino alla realtà: secondo i risultati di uno studio, pubblicati sulla rivista Science Translational Medicine, grazie a nuove tecniche di analisi genomica è possibile identificare la presenza di alterazioni molecolari specifiche del tumore ovarico, con anni di anticipo rispetto alle prime manifestazioni della malattia, nei tamponi usati per il Pap test, il comune esame di screening dei tumori del collo dell’utero.

La diagnosi precoce del tumore dell’ovaio, i cui sintomi si manifestano tardivamente, è fondamentale per la sopravvivenza. Questa passa infatti, a cinque anni dalla diagnosi, da appena il 30% per i tumori diagnosticati al III stadio a oltre il 90% per i tumori identificati al I stadio, quando la malattia è ancora nella fase inziale di sviluppo.

«La sopravvivenza al tumore dell’ovaio dipende fortemente dal momento in cui la malattia viene scoperta: cambiare la nostra capacità di fare diagnosi precoce, significa cambiare le possibilità di cura. Ed è quello che crediamo sia possibile fare grazie a un approccio innovativo, implementabile su larga scala e non invasivo: utilizzando i tamponi dei Pap test e applicando tecniche di analisi genomica in grado di identificare un’importante firma molecolare di questo tumore: la sua instabilità genomica1»,

affermano Maurizio D’Incalci, professore di farmacologia in Humanitas University e responsabile del laboratorio di Farmacologia Antitumorale in IRCCS Istituto Clinico Humanitas, e Sergio Marchini, responsabile dell’Unità di Genomica traslazionale dello stesso istituto, che hanno ideato e coordinato lo studio.

«Il tumore all’ovaio viene diagnosticato quando ormai è in fase avanzata, quando cioè la malattia è diffusa in più organi. Il trattamento in questo stadio è molto complesso e spesso le pazienti vanno incontro a resistenza alla terapia. Avere dei metodi per la diagnosi precoce diventa cruciale: nello studio appena pubblicato abbiamo dimostrato come sia possibile – usando campioni che vengono abitualmente presi per il Pap test cioè campioni non invasivi, facili da ottenere e già utilizzati per altri screening – identificare con largo anticipo rispetto al momento della diagnosi le alterazioni genomiche precoci tipiche delle cellule tumorali. Il lavoro – sottolinea la professoressa Chiara Romualdi del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova che ha partecipato alla pubblicazione – ha un’ampia parte sperimentale e una, altrettanto grossa, parte computazionale. Io mi sono occupata di supervisionare la parte biostatistica e computazionale di analisi del dato genomico per definire le soglie utilizzate per identificare un campione con presenza di cellule tumorali o meno».

La ricerca è stata condotta in maniera retrospettiva a partire dai tamponi di Pap test di 113 pazienti, raccolti e analizzati in collaborazione con numerosi centri su tutto il territorio italiano: IRCCS Ospedale San Gerardo di Monza, IRCCS Policlinico Gemelli di Roma, IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, il Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, l’Azienda Ospedaliero Universitaria Città della Salute e della Scienza di Torino, l’Istituto Mario Negri di Milano e l’Università degli Studi di Padova.

La ricerca è stata possibile grazie al sostegno di Fondazione Alessandra Bono, Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro e Alleanza Contro il Cancro. Gli studi proseguiranno anche grazie al contributo di Rinascente attraverso Fondazione Humanitas per la Ricerca.

Tumore dell’ovaio: la sfida della diagnosi precoce e il ruolo dell’instabilità genomica

In Italia ogni anno vengono diagnosticati più di 5000 nuovi casi di tumore all’ovaio, che si aggiungono alle circa trentamila donne che sono già in cura per la patologia. La forma più frequente di tumore ovarico è chiamato “carcinoma ovarico sieroso ad alto grado” (in acronimo HGSOC). Costituisce il 70% di tutte le diagnosi e rappresenta purtroppo la forma più aggressiva e letale della malattia, spesso resistente ai farmaci chemioterapici anche perché diagnosticata in fase avanzata. Il tumore all’ovaio è infatti una patologia che non dà sintomi facilmente riconoscibili.

Negli ultimi decenni diversi gruppi di ricerca nel mondo hanno provato a mettere a punto una tecnica di diagnosi precoce per il tumore ovarico, senza successo. Una di queste tecniche, come quella proposta da ricercatori di Humanitas su Science Translational Medicine, si basava sull’analisi dei tamponi per il Pap test, ma in quel caso si cercava una mutazione genetica che si è poi rivelata non sufficientemente specifica.

«A fare la differenza, questa volta, è l’idea di guardare a un’altra caratteristica molecolare delle cellule tumorali: la loro instabilità genomica – spiega Sergio Marchini –. Oggi sappiamo che già nelle prime fasi del processo di trasformazione tumorale, il DNA delle future cellule neoplastiche è caratterizzato da profonde anomalie nella sua struttura e organizzazione. L’instabilità genomica è quindi una caratteristica primitiva e non condivisa con le cellule sane, e quindi un’ottima base di partenza per sviluppare un test di diagnosi precoce».

Lo studio retrospettivo su 113 pazienti con tumore ovarico

Per realizzare lo studio, i ricercatori hanno raccolto i Pap test effettuati, anni prima della diagnosi, da 113 donne con tumore all’ovaio. I tamponi sono stati analizzati con una tecnica di sequenziamento del DNA che permette di rilevare anche piccole tracce di DNA tumorale e di misurare la loro instabilità genomica. I risultati così ottenuti sono poi stati confrontati con un gruppo di controllo: i Pap test di 77 donne sane, che non hanno ricevuto negli anni successivi alcuna diagnosi di tumore.

«Per la prima volta nella ricerca sulla diagnosi del tumore ovarico, i dati sono davvero promettenti: dimostrano che la tecnica impiegata è in grado di riconoscere nei tamponi la presenza di DNA tumorale con anni di anticipo rispetto alla manifestazione della malattia, in un caso addirittura nove anni prima. Il numero di falsi positivi nel gruppo di controllo è molto basso, così come il numero di falsi negativi tra i tamponi delle pazienti con tumore»,

spiegano Lara Paracchini e Laura Mannarino, prime autrici dello studio, di cui hanno curato rispettivamente gli esperimenti in laboratorio e l’analisi bioinformatica dei dati.

Si tratta però solo del primo fondamentale passo vero la dimostrazione di fattibilità ed efficacia di una tecnica di diagnosi precoce per questa malattia.

«I test diagnostici sono particolarmente complessi da testare perché vanno valutati nel mondo reale, su grandi numeri di pazienti e in modo prospettico. Solo così sarà possibile dimostrare che rilevando queste tracce di DNA altamente instabile siamo davvero in grado di predire la malattia e di implementare un percorso di monitoraggio che può salvare delle vite. I dati appena pubblicati su Science Translational Medicine aprono una strada: ora serve il sostegno di tutti per avviare un ampio e robusto studio prospettico, volto a confermare i dati e trasformare il sogno di una diagnosi precoce del tumore ovarico in una realtà concreta», conclude il prof. Maurizio D’Incalci.

DNA - Neuroscienze forensi
Foto di Darwin Laganzon

1 Pesenti C, Beltrame L, Velle A, et al. Copy number alterations in stage I epithelial ovarian cancer highlight three genomic patterns associated with prognosis. Eur J Cancer. 2022;171:85-95. https://doi.org/10.1016/j.ejca.2022.05.005

Per approfondire la notizia: https://www.humanitas.it/news/cancro-dell-ovaio-nuove-prospettive-di-cura-grazie-alla-genomica-molecolare/

 

Testi dagli Uffici Stampa dell’Università di Padova e della Humanitas University.

AL PROF. ALBERTO AREZZO L’ERC SYNERGY GRANT DA 10 MILIONI DI EURO – Con un finanziamento per i prossimi 6 anni si apre una nuova strada per la diagnosi precoce e la terapia mininvasiva per le neoplasie del colon-retto

Alberto Arezzo
Alberto Arezzo

Giovedì 26 Ottobre il  Consiglio europeo della ricerca (European Research Council – ERC), organismo dell’Unione Europea che attraverso finanziamenti altamente competitivi sostiene l’eccellenza scientifica, ha pubblicato la lista dei progetti vincitori dei Synergy Grant, che attribuiscono un finanziamento di 10 milioni di euro per i prossimi 6 anni. Tra le ricerche finanziate compare quella del Prof. Alberto Arezzo, docente del Dipartimento di Scienze Chirurgiche dell’Università di Torino, che ha presentato il progetto intitolato “EndoTheranostics: Multi-sensor Eversion Robot Towards Intelligent Endoscopic Diagnosis and Therapy. La ricerca permetterà di ridisegnare i modelli di diagnosi e trattamento in un unico tempo delle neoplasie del tubo digerente, con particolare riferimento al colon-retto.

Il cancro del colon-retto è uno dei tipi di cancro più comuni in tutto il mondo, con oltre 1,9 milioni di nuovi casi e 935.000 decessi registrati nel 2020. Nonostante i progressi nella tecnologia medica, gli interventi vengono spesso eseguiti durante le ultime fasi dello sviluppo della malattia, portando a bassi tassi di sopravvivenza dei pazienti o scarsa qualità della vita. Il progetto nasce dall’osservazione che i programmi di screening endoscopico sono purtroppo largamente disattesi. In particolare, la colonscopia è percepita come un esame invasivo, cui la maggioranza delle persone tende a sottoporsi con dispiacere o a non farlo affatto. La ricerca ha perciò immaginato di ridisegnare tutto il processo di diagnosi e terapia delle neoplasie del colon e retto, ridiscutendo dalla base quali dovessero essere le caratteristiche ideali per uno strumento in grado di offrire diagnosi e possibile terapia locale al tempo stesso.

“L’idea – dichiara il Prof. Arezzo – è di offrire un sistema che sostituisca l’attuale tecnologia per endoscopia flessibile (colonscopia), che è in realtà solo relativamente flessibile, con uno più tollerato perché costituito da materiali soffici, un cosiddetto soft-robot. Ciò fungerà anche da veicolo all’interno dell’intestino per un microrobot, che, operato dall’esterno, consentirà in una sorta di sala operatoria miniaturizzata, di asportare lesioni anche di ampie dimensioni in maniera appropriata. Grazie a programmi di screening sempre più diffusi ci aspettiamo di diagnosticare sempre più spesso lesioni anche non di piccole dimensioni, ma suscettibili di escissione locale curativa, senza dover ricorrere alla resezione chirurgica di tratti di intestino. Per farlo, il microrobot sarà dotato di sensori di nuova concezione, capaci di studiare e caratterizzare ampie aree di tessuto in poco tempo. Gli stessi sensori serviranno per controllare i gesti “chirurgici” durante la procedura per prevenire possibili errori e quindi complicanze, e al tempo stesso, operando in parziale autonomia, velocizzare la procedura stessa”.

 La competizione per gli ERC è estrema, solo l’8% dei progetti è stato finanziato. Il lavoro presentato dal Prof. Arezzo è uno dei 37 progetti internazionali, su un totale di 395 proposte presentate in tutta Europa, comprendenti tutte le discipline. I Synergy Grant finanziano gruppi composti da due a quattro ricercatori principali per affrontare congiuntamente problemi di ricerca ambiziosi e complessi che non potrebbero essere affrontati singolarmente. Il gruppo vincitore, che comprende i Proff. Kaspar Althoefer (Queen Mary University di Londra), Bruno Siciliano (Università Federico II di Napoli) e Sebastien Ourselin, (King’s College di Londra), riunisce competenze eccezionali e complementari per intraprendere una ricerca pionieristica nei prossimi 6 anni per migliorare lo screening e il trattamento del cancro del colon-retto.

Il gruppo mira a rivoluzionare lo screening e il trattamento del cancro del colon-retto attraverso lo sviluppo di un “eversion robot” con una struttura a manica soffice che si “srotola” dall’interno quando insufflato, evitando così pressioni e frizioni sulle pareti. Il robot sarà in grado di estendersi in profondità nel colon e di percepire l’ambiente attraverso l’imaging e il rilevamento dell’ambiente circostante mediante sensori multimodali. Fungerà anche da condotto per trasferire strumenti miniaturizzati al sito remoto all’interno del colon per la diagnosi e la terapia (teranostica). I dispositivi robotici attuali hanno una destrezza limitata e non sono adatti a svolgere compiti delicati in luoghi remoti, come nelle profondità del colon. Al contrario, i soft-robots dimostrano una maggiore flessibilità e adattabilità nell’esecuzione dei compiti, portando a una maggiore sicurezza quando si lavora intorno o all’interno del corpo umano.

La soft-robotics per diagnosi e terapia ha il potenziale per mitigare gli interventi chirurgici non necessariaumentare i tassi di sopravvivenza e migliorare la qualità e la durata della vita delle persone affette da cancro del colon-retto. Per ottenere traduzioni della ricerca nel settore sanitario è fondamentale lavorare in modo interdisciplinare e, attraverso il gruppo di ricerca internazionale guidato dal Prof. Arezzo, si riuniranno competenze in chirurgia, endoscopia, controllo del movimento, intelligenza artificiale, sensori e robotica per offrire i migliori risultati possibili ai pazienti.

“L’ottenimento di questo prestigioso finanziamento – conclude il Prof. Arezzo – riflette l’eccellenza scientifica che l’Università di Torino rappresenta. Il gruppo del Prof Mario Morino, del quale mi pregio di far parte ormai da molti anni, e che ringrazio per le opportunità che in questi anni mi ha concesso, è assai stimato grazie a lui in campo internazionale, essendo egli pioniere delle tecniche mini invasive chirurgiche ed endoscopiche. Questa ricerca nasce dalla mia formazione in Germania presso l’Università di Tuebingen, sotto il Prof Gerhard Buess, inventore della microchirurgia endoscopica transanale e della chirurgia robotica, che hanno rivoluzionato il nostro settore negli ultimi decenni. Questo progetto è solamente la naturale evoluzione dei concetti che lui ha proposto con successo ormai 40 anni orsono, e che io ed altri suoi allievi abbiamo cercato di raccogliere, dopo la sua prematura scomparsa. Voglio però concludere con un appello a tutti affinché si sottopongano agli accertamenti per screening delle neoplasie del colon-retto come di ogni altra patologia, perché è con la prevenzione che si ottengono i migliori risultati in campo oncologico, e già oggi si può fare davvero molto per molte patologie”.

Alberto Arezzo
il professor Alberto Arezzo, al quale va uno dei Synergy Grant ERC

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Carcinoma mammario triplo negativo, scoperto un meccanismo molecolare che causa le metastasi polmonari

Lo studio dei ricercatori del CEINGE-Biotecnologie Avanzate apre la strada alla diagnosi precoce e a nuove possibili terapie mirate a ridurre il processo metastatico del tumore al seno più aggressivo

 

carcinoma triplo negativo
da destra: Veronica Ferrucci, Fatemeh Asadzadeh e Massimo Zollo

Il carcinoma mammario triplo negativo (TNBC) rappresenta il 20% dei tumori al seno ed è anche il sottotipo più aggressivo, a causa delle sue caratteristiche clinico-patologiche, tra cui la giovane età all’esordio e la maggiore propensione a sviluppare metastasi. Le pazienti con il triplo negativo metastatico hanno prognosi peggiore rispetto a quelli diagnosticati con altri sottotipi di cancro alla mammella metastatico: oggi non ci sono bersagli molecolari riconosciuti per la terapia.

Lo studio sviluppato nei laboratori del centro di ricerca di Napoli CEINGE-Biotecnologie avanzate in collaborazione con il Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche (Università di Napoli Federico II) e l’Unità di Patologia dell’Istituto Nazionale dei Tumori IRCS Fondazione Pascale ha dimostrato che la proteina Prune-1 è iper-espressa in circa il 50% dei pazienti con carcinoma mammario triplo negativo ed è correlata alla progressione del tumore, alle metastasi a distanza (polmonari) ed anche alla presenza di macrofagi M2 (presenti nel microambiente tumorale del TNBC e correlati ad un rischio più elevato di sviluppare metastasi).

carcinoma triplo negativo

I ricercatori hanno anche identificato nel modello murino una piccola molecola non tossica, che è in grado di inibire la conversione dei macrofagi verso il fenotipo M2 e di ridurre il processo metastatico al polmone.

Un traguardo importante, raggiunto da un team guidato da Massimo Zollo, genetista, professore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e Principal Investigator del CEINGE, del quale fanno parte, tra gli altri, due giovani ricercatrici della Federico II e del CEINGE Veronica Ferrucci e Fatemeh Asadzadeh (dottoranda SEMM).

La prima fase della ricerca ha riguardato lo studio di un modello murino geneticamente modificato di TNBC metastatico, caratterizzato dall’iper-espressione dei geni PRUNE1 e WNT1 nella ghiandola mammaria. «Il modello murino da noi studiato – spiega Veronica Ferrucci – genera non solo tumore primario di tipo triplo negativo, ma anche metastasi polmonari. Il modello murino ci ha consentito di identificare la presenza di macrofagi di tipo M2 sia nel microambiente del tumore primario che nel microambiente metastatico polmonare».

«Attraverso l’utilizzo di database di carcinoma mammario invasivo – aggiunge Fatemeh Asadzadeh –., abbiamo avuto la conferma che quando questi geni sono iper-espressi, si verificano prognosi peggiori. Il processo scoperto nel modello murino può essere lo stesso anche nella donna».

«Per noi un’ulteriore “prova” è stata l’aver riscontrato la presenza di alcune varianti genetiche identificate nel modello murino in campioni di carcinoma mammario TNBC umano presente in banche dati ma di funzione sconosciuta ora rese note grazie agli studi ottenuti nel modello murino», chiarisce Massimo Zollo.

carcinoma triplo negativo
Il gruppo di ricerca

La molecola e il kit per la diagnosi precoce

I ricercatori del CEINGE hanno valutato l’efficacia contro la progressione del carcinoma mammario triplo negativo di una piccola molecola, che ha la capacità di bloccare in vivo il processo metastatico. Per questa molecola sono state già eseguite le verifiche di tossicità nel modello murino. «Tale molecola è in grado di inibire la conversione dei macrofagi verso il fenotipo M2 e di ridurre il processo metastatico al polmone – spiega Zollo –. Ora è studio lo sviluppo di una seconda molecola più sensibile alla quale dovrà fare seguito la sperimentazione nel topo e poi sull’essere umano. È stato inoltre sviluppato un kit che è in grado di identificare all’esordio quali TNBC hanno maggiore probabilità di sviluppare metastasi con sede polmonare e/o in siti distanti. Questo kit utilizza gli studi genomici qui presentati e può aiutare l’oncologo nel determinare una terapia eventualmente più aggressiva sin dall’esordio. Occorreranno circa 1-2 anni di validazione, affinché sarà possibile dimostrare la sua efficacia nella diagnosi clinica».

Lo studio su iSCIENCE (gruppo CELL PRESS)*

La ricerca è stata pubblicata sulla rivista scientifica internazionale iSCIENCE (gruppo CELL PRESS) ed è stata finanziata dall’Unione Europea Progetto “PRIME-XS” e Tumic FP7, dall’AIRC Associazione per la Ricerca Sul Cancro, PON SATIN e dalla Fondazione Celeghin.

Tra le istituzioni coinvolte (oltre al CEINGE) il Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche DMMBM della “Federico II”, l’Unità di Patologia dell’Istituto Nazionale dei Tumori IRCS Fondazione Pascale, il centro di biotecnologie mediche VIB-UGent (Belgio), il Dipartimento di Sanità pubblica e il DAI Medicina di Laboratorio e Trasfusionale AOU Federico II e la Scuola Europea di Medicina Molecolare (SEMM).

Lo studio è stato coordinato dal prof. Massimo Zollo (Università di Napoli Federico II e CEINGE) in collaborazione con il prof. Kris Gevaert (Responsabile del Centro di Proteomica di Biotecnologie Mediche VIB-UGent, Belgio), la prof. Natascia Marino (Associate Professor,  Indiana University, Indianapolis, USA)  il prof. Maurizio Di Bonito (Unità di Patologia dell’Istituto Nazionale dei Tumori IRCS Fondazione Pascale), il prof. Giovanni Paolella (Università di Napoli Federico II e CEINGE) ed il prof. Francesco D’Andrea (Dipartimento di Sanità pubblica AOU Federico II).

 

*Prune-1 drives polarization of tumor-associated macrophages (TAMs) within the lungmetastatic niche in triple-negative breast cancer

Veronica Ferrucci, Fatemeh Asadzadeh, Francesca Collina, Roberto Siciliano, Angelo Boccia, Laura Marrone, Daniela Spano, Marianeve Carotenuto, Maria Cristina Chiarolla, Daniela De Martino, Gennaro De Vita, Alessandra Macrì, Luisa Dassi, Jonathan Vandenbussche, Natascia Marino, Monica Cantile, Giovanni Paolella, Francesco D’Andrea, Maurizio di Bonito, Kris Gevaert and Massimo Zollo

 

Foto e testo dall’Ufficio Stampa Università di Napoli Federico II

SLA: dai prelievi di saliva un nuovo metodo per la diagnosi precoce

La scoperta grazie a una tecnica innovativa messa a punto in uno studio di Fondazione Don Gnocchi, Istituto Auxologico e Università Statale di Milano.

Una delle patologie più invalidanti e ancora non comprese a fondo è la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), che colpisce in Italia più di sei mila persone, con un’incidenza di due mila nuovi casi ogni anno (dati EURALS Consortium). Tra le principali difficoltà nella presa in carico di questi pazienti ci sono certamente i tempi della diagnosi, che a volte, ancora oggi, possono sfiorare l’anno.

Un importante passo in avanti in questa direzione arriva dalla collaborazione tra l’IRCCS Fondazione Don Gnocchi, l’IRCCS Istituto Auxologico e Università Statale di Milano i cui ricercatori hanno individuato nella saliva – grazie a una tecnica innovativa – un biomarcatore utile alla diagnosi precoce della malattia.

Il progetto – portato avanti nell’ambito della rete IRCCS delle Neuroscienze e Neuroriabilitazione (RIN) – è stato ideato e coordinato dal Laboratorio di Nanomedicina e Biofotonica Clinica (LABION) dell’IRCCS Fondazione Don Gnocchi di Milano, guidato dalla dottoressa Marzia Bedoni, in collaborazione con l’Unità di Riabilitazione Intensiva Polmonare dello stesso IRCCS, diretta dal dottor Paolo Banfi.

Primo autore e responsabile dello studio – finanziato dal Ministero della Salute e pubblicato su Scientific Reports – è il dottor Cristiano Carlomagno, ricercatore di IRCCS Fondazione Don Gnocchi di Milano.

La SLA è una malattia degenerativa che porta alla progressiva e inesorabile paralisi della muscolatura. Ad oggi non esistono esami di laboratorio da eseguire sul sangue o su altri fluidi corporei capaci di garantire una diagnosi veloce e certa, o in grado di monitorarne la velocità di progressione.

Da qui l’idea di ricorrere alla spettroscopia Raman – spiega Marzia Bedoni  una tecnica innovativa in ambito bioclinico, presente da tempo nel LABION, basata sull’utilizzo della luce laser per studiare la composizione chimica di campioni complessi come la saliva. Si tratta di una tecnica non distruttiva, che dà risposte in tempi brevi, non richiede particolari condizioni per l’esecuzione della misura e può essere effettuata con una minima preparazione del campione”.

“Il ritardo nella diagnosi – aggiunge Paolo Banfi – causa spesso nel paziente un senso di impotenza, penalizzandolo poi nell’accesso ai trial clinici. L’individuazione di un nuovo metodo per accelerare la procedura diagnostica avrà importanti ricadute e costituisce un capitolo importante nello studio e nella battaglia contro questa patologia gravemente invalidante”.

“La possibilità di utilizzare un semplice prelievo non traumatico di saliva per definire un biomarcatore diagnostico per la SLA – commenta Vincenzo Silani, docente di Neurologia presso l’Università degli Studi di Milano e direttore della Unità Operativa di Neurologia e Laboratorio di Neuroscienze dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano – rappresenta un’opportunità di rilevanza storica. La metodologia utilizzata ha richiesto un’attenta messa a punto iniziale, ma poi è stata dirimente nel definire uno spettro diversificato nella SLA rispetto ai controlli sani e rispetto ad altre patologie egualmente invalidanti come le malattie di Alzheimer e Parkinson”.

“Siamo orgogliosi di questi risultati – conclude Cristiano Carlomagno – perché lo sviluppo e la validazione di questa innovativa metodologia permetterà di mettere a disposizione di medici e pazienti uno strumento in grado sia di accelerare la procedura diagnostica, che di personalizzare il trattamento terapeutico in base alle caratteristiche di ogni singolo paziente, con l’obiettivo a lungo termine di migliorarne la prognosi e la qualità della vita”.

Testo sul nuovo metodo per la diagnosi precoce della SLA a partire dai prelievi di saliva dall’Università Statale di Milano