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Davide Tamagnini

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Corna, zanne e palchi: un innovativo protocollo per la ricostruzione digitale 3D di crani complessi apre nuove frontiere 

Un team di ricercatori della Sapienza ha sviluppato un innovativo protocollo per la ricostruzione digitale 3D di crani complessi, offrendo nuove opportunità per la ricerca e per l’insegnamento. La procedura è stata pubblicata sulla rivista “STAR Protocols”.

Ricostruzione del Cranio del Damaliscus lunatus (AN.CO.ac331) dopo il processo di fotogrammetria
Ricostruzione del Cranio del Damaliscus lunatus (AN.CO.ac331) dopo il processo di fotogrammetria

Un team di ricercatori della Sapienza Università di Roma ha sviluppato un innovativo protocollo finalizzato alla digitalizzazione morfologica di crani. La procedura, pubblicata sulla rivista “STAR Protocols” del gruppo “CellPress”, permette di creare modelli tridimensionali altamente accurati, e di superare le sfide legate alla ricostruzione digitale di strutture complesse come corna, zanne e palchi.

La pubblicazione di questo protocollo e il suo approccio innovativo forniscono una guida pratica e dettagliata per i ricercatori e aprono nuove prospettive nel campo della paleontologia, della zoologia e della conservazione museale.

Il protocollo fa uso della tecnica della fotogrammetria 3D, la quale permette con grande precisione di ricostruire digitalmente le dimensioni di un oggetto e la sua posizione nello spazio partendo da fotografie.

L’impiego di questo metodo permette di conservare e analizzare digitalmente campioni preziosi, riducendo al minimo sia il rischio di danneggiamento dovuto alla manipolazione fisica sia i costi, offrendo quindi un’alternativa accessibile e di alta precisione per musei, università e centri di ricerca.

“Grazie a questo protocollo ­– spiega Naomi De Leo, dottoranda di Sapienza e prima autrice dello studio – riusciamo a ottenere modelli tridimensionali fedeli alla realtà anche per strutture ossee particolarmente complesse, migliorando le possibilità di analisi morfologica e di collaborazione scientifica a livello internazionale”.

Una parte dei modelli esaminati è ospitata nelle collezioni del Polo Museale Sapienza, in particolare del Museo di Zoologia e del Museo di Anatomia comparata “B. Grassi”. L’analisi di queste collezioni, recentemente incluse in un ambizioso progetto di digitalizzazione museale con l’obiettivo di accrescere l’accessibilità delle collezioni naturalistiche, permette di condurre studi comparativi su larga scala e di rendere i reperti consultabili dalla comunità scientifica attraverso archivi digitali.

“Questo strumento – specifica Davide Tamagnini, ricercatore della Sapienza e co-autore dello studio – rappresenta un passo avanti nella conservazione e condivisione dei dati morfologici, offrendo nuove opportunità per la ricerca e per l’insegnamento”

Riferimenti bibliografici:

Protocol for 3D photogrammetry and morphological digitization of complex skulls / DE LEO, Naomi; Chimenti, Claudio; Maiorano, Luigi; Tamagnini, Davide. – In: STAR PROTOCOLS. – ISSN 2666-1667. – 6:1(2025). [10.1016/j.xpro.2024.103572]

Teschio di Damaliscus lunatus
Teschio di Damaliscus lunatus

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Tigre dai denti a sciabola e gatto: più simili di quanto si creda

Uno studio, a cui ha preso parte la Sapienza, rivela una continuità morfologica tra specie estinte, dotate di canini lunghi come zanne, e i loro eredi moderni. La ricerca spiega anche le ragioni dell’acquisizione e della rapida scomparsa di tale caratteristica. I risultati, pubblicati sulla rivista Current Biology, forniscono nuove prospettive sull’evoluzione di alcune specie di predatori.

I denti a sciabola, ossia i canini superiori allungati caratteristici di alcuni dei più feroci predatori mai esistiti, hanno affascinato generazioni di scienziati e appassionati in tutto il mondo.

L’acquisizione di questa particolare caratteristica è comune principalmente ad alcune specie, oggi tutte estinte, appartenenti a due gruppi: i felidi (ossia la famiglia a cui appartengono leoni, tigri e gatti domestici) e i nimravidi, che sono completamente scomparsi. Essendo presenti in organismi non strettamente imparentati tra loro, i denti a sciabola sono considerati il classico esempio di un fenomeno noto come ‘convergenza evolutiva’. Tuttavia, il meccanismo progressivo che ha permesso a questi gruppi distinti di riuscire ad acquisire i loro canini allungati resta da chiarire scientificamente.

Un innovativo studio pubblicato su Current Biology e condotto da un team internazionale di biologi dell’evoluzione, a cui ha preso parte anche un ricercatore della Sapienza, con la partecipazione dell’Università della California – Berkeley ed dell’Università di Liegi, ha investigato i pattern evolutivi che stanno dietro allo sviluppo dei denti a sciabola per fare nuova luce su questo accattivante e popolare aspetto della paleontologia.

 Esempio di scansione 3D ad alta risoluzione comparata con l’esemplare originale. In questo caso, si tratta di una emimandibola destra di leone americano (Panthera atrox) proveniente dallo Smithsonian National Museum of Natural History (Washington DC, USA) (crediti Narimane Chatar)
Esempio di scansione 3D ad alta risoluzione comparata con l’esemplare originale. In questo caso, si tratta di una emimandibola destra di leone americano (Panthera atrox) proveniente dallo Smithsonian National Museum of Natural History (Washington DC, USA) (crediti Narimane Chatar)

Il gruppo di ricercatori ha raccolto dati morfologici cranio-mandibolari relativi a numerose specie attuali ed estinte mediante l’uso di moderni scanner 3D e li ha analizzati con test statistici. In questo modo è stato possibile rivelare una continuità morfologica tra i piccoli felidi attuali e i loro antenati dai denti a sciabola, andando di fatto a confutare la teoria ritenuta finora universalmente valida che ci fosse una netta separazione tra i due gruppi di specie.

“Abbiamo descritto la morfologia di 99 mandibole e 91 crani provenienti da diverse epoche e sparsi in tutto il mondo, ottenendo una chiara mappa dell’evoluzione di questi animali – spiega Davide Tamagnini del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin – In particolare la nostra ricerca conferma che l’acquisizione dei denti a sciabola sia stata favorevole nel breve termine poiché ha conferito un grande vantaggio in termini di predazione, ma nel lungo termine ha esposto le specie con tali caratteristiche a maggiori rischi di estinzione (dovuti a carenza di grandi prede, impatto di repentini cambiamenti ambientali ecc). Questo potrebbe spiegare perché siano comparsi numerosi gruppi differenti di animali dai denti a sciabola e si siano tutti contraddistinti per una storia dalla durata limitata. Infine – conclude Tamagnini – le nostre analisi hanno chiarito che la chiave per l’acquisizione dei denti a sciabola risiede in un tasso evolutivo particolarmente rapido che caratterizza le prime fasi del cambiamento cranio-mandibolare delle specie”.

Una parte del materiale osteologico studiato per comprendere l’evoluzione dei denti a sciabola è ospitata nelle collezioni del Polo Museale Sapienza, in particolare del Museo di Zoologia e del Museo di Anatomia comparata “B. Grassi”. Tali collezioni sono state recentemente incluse in un ambizioso progetto di digitalizzazione museale, coordinato da Isabella Saggio (Spoke 7– National Biodiversity Future Center), attraverso fotografie e ricostruzioni 3D digitali. L’obiettivo è quello di aumentare l’accessibilità delle collezioni naturalistiche, cercando di accrescere l’impatto di queste tematiche sulla comunicazione e promuovere il coinvolgimento del pubblico nella scienza.

Esempio di variazione morfologica osservata nel cranio di felidi e nimravidi in cui sono comparate specie con canini corti (“denti conici”) ed altre dai lunghi denti a sciabola (crediti Narimane Chatar)
Tigre dai denti a sciabola e gatto: più simili di quanto si creda secondo i risultati di uno studio pubblicato sulla rivista Current Biology. Esempio di variazione morfologica osservata nel cranio di felidi e nimravidi in cui sono comparate specie con canini corti (“denti conici”) ed altre dai lunghi denti a sciabola (crediti Narimane Chatar)

Riferimenti bibliografici:

Evolutionary patterns of cat-like carnivorans unveils drivers of the sabertoothed morphology – Chatar, N., Michaud, M., Tamagnini, D., Fischer, V. – Current Biology, http://doi.org/10.1016/j.cub.2024.04.055

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Convergenza evolutiva: la dieta come fattore determinante? Sì, ma solo in alcune specie

Un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza ha pubblicato sulla rivista Evolution uno studio sulla convergenza evolutiva tra le specie. La ricerca si interroga su quanto sia comune la convergenza morfologica nei carnivori e sulle possibili cause, con il risultato, inatteso, che essa derivi da interazioni complesse tra morfologia, ecologia e biomeccanica.

convergenza evolutiva dieta specie
Convergenza evolutiva: la dieta come fattore determinante? Sì, ma solo in alcune specie. Panda rosso (Ailurus fulgens), Aachen. Foto di Brunswyk, CC BY-SA 3.0

La convergenza evolutiva è un fenomeno per cui specie diverse, che vivono e si sono adattate ad ambienti simili, evolvono caratteristiche morfologiche e funzionali analoghe che li portano a somigliarsi moltissimo pur non avendo parentela in comune.

Una delle questioni più dibattute tra gli studiosi è quella di determinare in maniera affidabile quali siano i tratti maggiormente predisposti a convergere tra le specie, e quali le cause. Numerose le ipotesi ancora inesplorate, non solo ecologiche, ma anche comportamentali e filogenetiche. Il fattore ecologico che più frequentemente si presume abbia prodotto convergenza morfologica nei carnivori, e più specificamente nel loro complesso cranio-mandibolare, è la dieta.

Perché è importante fare chiarezza su questo aspetto? Perché se diete simili producessero morfologie dentali convergenti, i paleoecologi potrebbero arrivare a definire le condizioni ecologiche di una specifica area geografica del passato.

Se finora il numero di casi documentati di convergenza evolutiva è stato più basso di quanto ci si aspettasse, numerosi invece i casi basati su considerazioni unicamente qualitative che però non hanno consentito di comprendere la frequenza del fenomeno, rendendo difficile individuare delle tendenze evolutive ricorrenti, sia tra i vari gruppi tassonomici che al loro interno.

Oggi un nuovo studio pubblicato sulla rivista Evolution e coordinato da Luigi Maiorano del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, in collaborazione con il Museo di Zoologia dell’Ateneo, l’Università John Moores di Liverpool e l’Università di Napoli Federico II presenta la più vasta valutazione quantitativa mai realizzata, riguardante la convergenza evolutiva cranio-mandibolare nell’ordine Carnivora dei mammiferi.

“Questo studio – spiega Davide Tamagnini del Dipartimento di Biologia ambientale, primo nome dello studio – si inserisce in un trend crescente di ricerca, che impiega metodi innovativi (phylogenetic comparative method) per indagare fenomeni tradizionalmente descritti solo in maniera qualitativa. Nel lavoro si impiegano anche semplici dati morfologici, estratti da un gran numero di taxa dell’ordine Carnivora, per chiarire se la dieta causi convergenza nel loro complesso cranio-mandibolare”.

Le evidenze ottenute sostengono la rarità della convergenza evolutiva all’interno di vaste categorie ecologiche, ma mostrano invece una maggior frequenza di questo fenomeno evolutivo in casi isolati di specie che, pur non essendo imparentate tra loro, hanno lo stesso ruolo nell’ambiente in cui vivono.

È il caso del panda gigante e del panda rosso che appartengono a due famiglie diverse: il primo a quella degli ursidi (come gli orsi), mentre il secondo alla famiglia ailuridae (come i procioni) accomunati dall’alimentazione a base di bambù, dalle tipiche macchie nere intorno agli occhi e dal cosiddetto “falso pollice”.

Se per i panda, dunque, la convergenza si trova in due specie che vivono nello stesso habitat e nella stessa regione, tra i carnivori, invece, si trovano frequenti esempi di adattamenti morfologici convergenti anche in specie evolute in continenti diversi. Queste coppie di specie sono comunemente ritenute “ecologicamente equivalenti”, perché vivono in diverse regioni geografiche ma occupano nicchie ecologiche simili.

“In questa ricerca abbiamo studiato la convergenza morfologica, raggruppando le specie in base al tipo di cibo prevalente nella loro dieta. Poi, abbiamo considerato diversi casi di potenziale convergenza morfologica concentrandoci su specie ecologicamente equivalenti di dimensioni corporee simili, oppure taxa molto affini rispetto a dieta e habitat, ma con grandi differenze di taglia”.

“I nostri risultati – dichiara Luigi Maiorano, coordinatore del lavoro – non supportano quasi mai il verificarsi di un’evoluzione convergente nelle categorie alimentari dei carnivori viventi: l’evoluzione convergente in questo clade sembra essere un fenomeno raro”.

Il fenomeno della convergenza, dunque, è meno frequente di quanto atteso e tale risultato è probabilmente dovuto a interazioni complesse tra morfologia, ecologia e biomeccanica.

Questa ricerca sottolinea inoltre l’importanza della scala tassonomica considerata negli studi macroevolutivi.

Riferimenti:

Testing the occurrence of convergence in the craniomandibular shape evolution of living carnivorans – Davide Tamagnini, Carlo Meloro, Pasquale Raia, Luigi Maiorano – Evolution, 75(7): 1738-1752. DOI: https://doi.org/10.1111/evo.14229

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma sulla dieta come fattore determinante di convergenza evolutiva.