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HSCHARME: scoperto un nuovo gene chiave per la salute del cuore

Una ricerca condotta da Sapienza Università di Roma, in collaborazione con l’Istituto di biologia e patologia molecolari del CNR, ha identificato un gene finora sconosciuto nell’essere umano, che gioca un ruolo cruciale nello sviluppo delle cellule del cuore. La scoperta, pubblicata su Nature Communications, apre nuove prospettive nella diagnosi e nella terapia delle cardiomiopatie.

Identificato per la prima volta nell’essere umano un gene finora sconosciuto, che tuttavia ha un ruolo cruciale nella maturazione dei cardiomiociti, le cellule responsabili della contrazione cardiaca. La scoperta è di un gruppo di ricerca del Dipartimento di biologia e biotecnologie ‘Charles Darwin’ della Sapienza Università di Roma in collaborazione con l’Istituto di biologia e patologia molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IBPM) di Roma. La scoperta è stata pubblicata sulla rivista Nature Communications.

Lo studio ha rivelato come il malfunzionamento di questo gene, battezzato HSCHARME, sia associato a cardiomiopatie in diverse coorti di pazienti, aprendo nuove prospettive per diagnosi più precise e terapie mirate.

“Questo gene appartiene alla categoria dei cosiddetti RNA non codificanti lunghi (lncRNA), molecole che non danno origine a proteine ma regolano finemente l’attività di altri geni”, afferma la prof.ssa Monica Ballarino della Sapienza Università di Roma. “HSCHARME agisce come un vero e proprio ‘architetto’ del genoma che guida la corretta attività dei geni del cuore. HSCHARME si è rivelato cruciale per guidare lo sviluppo e la maturazione dei cardiomiociti, le cellule muscolari responsabili della contrazione cardiaca. Quando questo gene non funziona correttamente, le cellule non si sviluppano in maniera adeguata, con conseguenze sulla salute dell’intero organo”.

“Lo studio ha mostrato per la prima volta che HSCHARME controlla un processo fondamentale chiamato ‘splicing alternativo’, che consente a singoli geni di produrre proteine diverse per garantire la complessità necessaria al buon funzionamento delle cellule”, continua Pietro Laneve del CNR-IBPM. “Nei pazienti affetti da cardiomiopatia ipertrofica e dilatativa, due patologie gravi e diffuse, la funzione di HSCHARME risulta alterata, con effetti negativi sui geni cardiaci e sul cuore. Questo rende il gene un potenziale bersaglio per nuove diagnosi precoci e terapie personalizzate”.

Il risultato è stato reso possibile grazie a un insieme di tecnologie d’avanguardia, dalla genomica comparativa alla trascrittomica a singola cellula, fino al genome editing e all’uso di cellule staminali pluripotenti indotte, differenziate in cardiomiociti umani. Grazie a questi strumenti i ricercatori hanno ricostruito i partner molecolari del gene e ne hanno studiato la funzione in modelli cellulari e in campioni clinici, individuando la proteina PTBP1 come cofattore fondamentale.

Si tratta di una scoperta che va oltre la ricerca di base: le malattie cardiache colpiscono milioni di persone nel mondo e, nonostante i progressi nella genetica, resta difficile prevederne l’evoluzione. Studi come questo aprono nuove prospettive verso una medicina di precisione in grado di identificare gli individui a maggior rischio e di guidare terapie personalizzate, con l’obiettivo di prevenire eventi drammatici come la morte cardiaca improvvisa.

Allo studio ha collaborato anche l’Istituto italiano di tecnologia (IIT).

Immagine rappresentativa di cardiomiociti umani derivati da cellule staminali pluripotenti
HSCHARME: scoperto un nuovo gene chiave per la salute del cuore, che apre nuove prospettive nella diagnosi e nella terapia delle cardiomiopatie. Immagine rappresentativa di cardiomiociti umani derivati da cellule staminali pluripotenti
 
Riferimenti bibliografici:

Buonaiuto G, Desideri F, Setti A, Palma A, D’Angelo A, Storari G, Santini T, Laneve P, Trisciuoglio D, Ballarino M., LncRNA HSCHARME is altered in human cardiomyopathies and promotes stem cell-derived cardiomyogenesis via splicing regulation, Nat Commun. 2025 Aug 23;16(1):7880. doi: 10.1038/s41467-025-62754-2, PMID: 40849301, Link: https://rdcu.be/eB3Fr

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Come batte il nostro cuore: una collaborazione tra ingegneri e matematici dell’Università di Pisa risolve un problema aperto da anni; un metodo matematico applicato alla serie dalle misure della frequenza cardiaca per stabilire se la dinamica del sistema cardiovascolare è regolare

Lo studio è stato riconosciuto con il Best Student Paper Award alla Conferenza della Società Internazionale di Ingegneria biomedica

Una collaborazione tra studiosi del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione e del Dipartimento di Matematica dell’Università di Pisa ha risolto un problema ancora aperto nella comunità scientifica medica e della bioingegneria sin dagli anni novanta. La scoperta porta a una maggior comprensione della dinamica del sistema cardiovascolare aprendo la strada alla definzione di nuovi biomarcatori in grado di quantificare il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari.

Lo studio applica infatti un metodo matematico innovativo alla serie ricavata dalle misure della frequenza cardiaca e ha stabilito che la dinamica del sistema cardiovascolare è regolare e non caotica.
Al centro Martina Bianco, alla sua sinistra Riccardo Valenza
Un metodo matematico applicato alla serie ricavata dalle misure della frequenza cardiaca e ha stabilito che la dinamica del sistema cardiovascolare è regolare. Al centro Martina Bianco, alla sua sinistra Riccardo Valenza

Lo scorso 16 luglio, durante l’International Conference of the IEEE Engineering in Medicine and Biology Society (EMBC), la principale conferenza internazionale di ingegneria biomedica, il lavoro ha ricevuto il “Best Student Paper Award”. Gli autori sono Martina Bianco, dottoranda al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione e prima autrice dell’articolo, Andrea Scarciglia e Gaetano Valenza (Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione ) e Claudio Bonanno (Dipartimento di Matematica). La conferenza ha visto la partecipazione di studiosi da oltre 70 paesi, e l’articolo premiato ha superato la concorrenza di lavori di ricercatori da Cina, Giappone, Australia, Messico, Stati Uniti, Emirati Arabi e diversi stati europei.

“Gli intervalli di tempo tra battiti cardiaci consecutivi – spiega Martina Bianco, dottoranda in ingegneria biomedica e con una laurea in matematica alle spalle –  formano una serie chiamata serie della Variabilità della Frequenza Cardiaca (HRV). Questa serie, composta da intervalli successivi ottenuti dell’elettrocardiogramma deriva da molteplici input fisiologici, come quelli del  sistema nervoso centrale, simpatico e parasimpatico, la respirazione, la pressione sanguigna e l’attività ormonale”.

Martina Bianco
Martina Bianco

“Durante il mio lavoro di tesi al dipartimento di matematica – continua Bianco – avevo messo a punto un metodo per capire se una serie di dati può essere interpretata come output di un sistema regolare, il cui stato cioè è determinabile in ogni momento, oppure caotico, cioè dipendente in modo essenziale dalle condizioni iniziali, e che quindi si evolve in modo non predicibile se tali condizioni cambiano anche di poco. E’ stata per me una bellissima sfida applicare un metodo matematico elaborato in astratto a dati numerici reali, come sono le serie derivanti dagli elettrocardiogrammi. Questo perché nei dati reali spesso è presente una componente casuale ”di disturbo” ,il cosiddetto “rumore fisiologico”. che non dipende solo dall’errore di misurazione, ma soprattutto da interazioni e fluttuazioni  interne al sistema in esame. Il risultato che abbiamo ottenuto è abbastanza netto: la dinamica del sistema cardiovascolare è regolare, e non caotica”.

“Sono molto contento di questa collaborazione tra due dipartimenti di eccellenza dell’Università di Pisa – aggiunge Gaetano Valenza, docente di bioingegneria all’Università di Pisa – Il metodo sviluppato consente di avere una conoscenza più approfondita del sistema cardiovascolare e, più in generale, delle dinamiche neurofisiologiche. Questa maggiore conoscenza ci potrebbe consentire, per esempio, di definire nuovi biomarcatori in grado di quantificare il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, che ancora oggi rimangono una delle principali cause di morte a livello mondiale.”

“Questo riconoscimento – conclude Claudio Bonanno, docente di fisica matematica all’Università di Pisa –   premia innanzitutto il lavoro di tesi di Martina, ma anche quello di Andrea, anche lui laureato in matematica e con la cui tesi è iniziata la collaborazione con il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione.  Premia anche il coraggio di Martina e Andrea nel decidere di spendere le loro competenze matematiche nelle applicazioni alla bioingegneria. Mi auguro che questo riconoscimento, che nasce da una fruttuosa collaborazione tra due dipartimenti del nostro ateneo, serva a ribadire l’importanza del portare avanti, in contemporanea, la ricerca di base e la ricerca applicata.”

Testo e immagini dall’Ufficio comunicazione di Ateneo dell’Università di Pisa.

Il mistero della connessione cuore-cervello in uno studio pubblicato su Nature Reviews Cardiology

Uno studio dell’Università di Pisa fornisce per la prima volta una caratterizzazione ampia del funzionamento dell’asse cuore-cervello.

Un’immagine scientifica dello studio sulla connessione cuore-cervello, pubblicato sulla rivista Nature Reviews Cardiology
Un’immagine scientifica dello studio sulla connessione cuore-cervello, pubblicato sulla rivista Nature Reviews Cardiology

Uno studio tutto pisano fornisce per la prima volta una descrizione d’insieme dei componenti fondamentali del misterioso asse “cuore-cervello”, ovvero l’insieme delle connessioni anatomiche e funzionali tra il sistema cardiovascolare e il sistema nervoso centrale. L’articolo è a firma di un team di bioingegneri del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, Gaetano ValenzaZoran Matić e Vincenzo Catrambone, ed è stato pubblicato su Nature Reviews Cardiology, la rivista internazionale più importante nel settore della cardiologia.

“Che cuore e cervello siano strettamente connessi – spiega Gaetano Valenza, docente di bioingegneria all’Università di Pisa – è un’ipotesi che, a partire dai primi anni duemila, si è fatta sempre più strada, e che si basa sull’osservazione che malattie cardiologiche e neurologiche sono spesso associate. Per esempio, i soggetti con patologie neurologiche sono maggiormente a rischio di malattie cardiovascolari mentre, viceversa, pazienti che hanno subito un infarto hanno un rischio di depressione aumentato di oltre il 50%. Queste osservazioni hanno portato la convergenza di molti sforzi da parte di cardiologi, neurologi, neuroscienziati e ingegneri biomedici per comprendere il funzionamento di quello che è considerato un vero e proprio “organo virtuale”, chiamato “asse cuore-cervello”.

I meccanismi e i componenti fisiologici di questo asse erano sconosciuti nel dettaglio, perché ogni campo del sapere ha operato separatamente, dando le proprie caratterizzazioni specifiche, che però non arrivano a una descrizione completa.

In questo articolo, e per la prima volta, i ricercatori hanno messo insieme tutta la conoscenza prodotta fino ad ora sull’argomento e messo in luce che è possibile caratterizzare le tre componenti fondamentali dell’asse cuore-cervello: la parte di tessuto neurale, collegata a regioni specifiche del cervello, che rende possibile l’interazione tra sistema nervoso autonomo e sistema nervoso centrale; la parte meccanica, cioè le pulsazioni nelle arterie cerebrali indotte dal battito cardiaco, che abbiamo constatato essere una parte essenziale nella trasmissione dell’informazione lungo l’asse; e la parte biochimica, che comprende ormoni ed altre biomolecole avvertite sia da cuore che da cervello.

“Questo approccio integrato ci ha consentito di introdurre un fondamentale cambio di paradigma nello studio della relazione cuore-cervello, basato anche sullo studio di come le tre componenti identificate interagiscono tra di loro”, aggiunge Valenza.

Lo studio del team pisano si fonda su lavori recentissimi ed estremamente avanzati sui singoli componenti dell’asse cuore-cervello, e pone le basi per un concreto avanzamento nella conoscenza. Questo approccio infatti ha mostrato che l’influenza tra sistema cardiovascolare e sistema nervoso centrale ha una direzione preferenziale in base allo stato psico-fisico/emozionale dell’individuo.

“In studi molto recenti – conclude Valenza – è stato dimostrato che in realtà è il cuore a modulare principalmente l’attività cerebrale, ed è quindi il cuore, prima del cervello, ad essere responsabile della percezione di emozioni, cognizione e coscienza. Qualche anno fa avevamo dimostrato questa teoria con un modello matematico. Oggi possiamo studiare questa connessione addirittura a livello molecolare, cioè guardando come i neuroni cardiaci controllano le emozioni insieme al metabolismo di ogni individuo. Si tratta di un campo di ricerca assolutamente pionieristico, e che in pochissimi mesi sta facendo decisivi passi avanti, verso lo sviluppo di conoscenza e tecnologie centrate sulla comprensione di aspetti fondamentali dell’essere umano”.

Due degli autori dello studio, da sinistra Gaetano Valenza e Vincenzo Catrambone
Due degli autori dello studio, da sinistra Gaetano Valenza e Vincenzo Catrambone

Riferimenti bibliografici:

Valenza, G., Matić, Z. & Catrambone, V. The brain–heart axis: integrative cooperation of neural, mechanical and biochemical pathways, Nat Rev Cardiol (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41569-025-01140-3

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

ALTERAZIONE DEI RITMI CIRCADIANI, ISOLAMENTO E STRESS PSICOFISICO: L’UNIVERSITÀ DI PADOVA TESTA I LIMITI DI CORPO E MENTE IN AMBIENTI ESTREMI

Pubblicata su «European Journal of Applied Physiology» la ricerca dell’Ateneo patavino che studia gli effetti dell’esposizione a condizioni difficili sul corpo umano

In che modo l’esposizione a condizioni ambientali estreme, simili a quelle spaziali, può influenzare il corpo umano? Come reagisce il corpo allo stress dell’isolamento e del distacco dalle condizioni abituali terrestri? L’esplorazione spaziale non è più un sogno lontano ma una realtà tangibile: capire come questi fattori interagiscono con i processi biologici è fondamentale non solo per preparare gli astronauti a missioni future, ma anche per applicare tali conoscenze al miglioramento della sicurezza e della salute in ambienti estremi sulla Terra come quelli affrontati da subacquei, aviatori, alpinisti e persino lavoratori in ambienti industriali difficili.

Questo è stato argomento di studio del gruppo di ricerca dell’Università di Padova all’interno del programma EMMPOL (Euro Moon Mars POLand analog mission) che offre una piattaforma sperimentale di simulazione di missioni spaziali in ambienti che ne mimano i possibili habitat e che offrono una prospettiva unica su come lo stress, l’isolamento e l’esposizione a condizioni difficili possano influenzare il corpo umano studiando gli effetti di tali condizioni su stress ossidativo, infiammazione e invecchiamento biologico.

Le missioni EMMPOL, coordinate da Sofia Pavanello del Dipartimento di Scienze Cardio-Toraco-Vascolari e Sanità Pubblica dell’Università di Padova, e responsabile del BioAgingLab – che ha l’obiettivo di esplorare il tema dell’invecchiamento biologico –, hanno prodotto preziosi dati scientifici che avvicinano non solo alla comprensione delle sfide legate ai voli spaziali, ma offrono anche soluzioni per migliorare la salute in condizioni estreme sulla Terra.

Durante una di queste missioni simulate Tommaso Antonio Giacon, medico specializzando dell’Università di Padova, insieme ad altri quattro studenti di diverse nazionalità e università, ha trascorso una settimana di missione come astronauta analogo in isolamento nel Centro di Addestramento per Astronauti Analoghi (AATC) in Polonia. All’interno di un habitat che riproduce le condizioni di un insediamento lunare, gli studenti hanno affrontato sfide complesse come l’alterazione dei ritmi circadiani, l’isolamento, gli alti carichi di lavoro e lo stress psicofisico, esplorando i limiti del corpo e della mente umana.

I risultati di questa missione, pubblicati nello studio dal titolo “Environmental study and stress-related biomarkers modifications in a crew during analog astronaut mission EMMPOL 6” sulla rivista scientifica «European Journal of Applied Physiology», rivelano un aumento significativo dello stress ossidativo e dei livelli di cortisolo, segno che anche brevi periodi di isolamento e stress psicofisico possono alterare parametri biologici chiave. La ricerca vede come primo autore Tommaso Antonio Giacon, medico specializzando dell’Università di Padova, e come coordinatrice Sofia Pavanello, docente del Dipartimento di Scienze Cardio-Toraco-Vascolari e Sanità Pubblica dell’Università di Padova con la partecipazione di Gerardo Bosco, docente del dipartimento di Scienze biomediche dell’Ateneo patavino e di Simona Mrakic-Sposta del CNR di Milano, entrambi coautori.

La riduzione delle ore di sonno e la compromissione della qualità del riposo hanno ulteriormente evidenziato l’impatto profondo che queste condizioni hanno sul benessere psicofisico.

«La simulazione di una missione spaziale ci permette di comprendere come il corpo umano si adatti a condizioni estreme. Questi risultati non si limitano ai futuri astronauti, ma offrono preziose informazioni per migliorare la salute e la sicurezza di chi vive o lavora in ambienti estremi, come alpinisti, subacquei e lavoratori in contesti industriali complessi» spiega Sofia Pavanello, coordinatrice dello studio.

Sofia Pavanello
Sofia Pavanello

Le missioni EMMPOL rappresentano un esempio brillante di ricerca multidisciplinare: la collaborazione tra diversi settori – dalla biomedicina, alla fisiologia, fino all’ingegneria e architettura spaziale – ha permesso di raccogliere dati che arricchiscono la conoscenza scientifica e hanno ricadute pratiche per molteplici ambiti della vita quotidiana.

La partecipazione degli studenti dell’Università di Padova a queste missioni analoghe va oltre il semplice traguardo accademico: queste esperienze, presentate anche durante il festival Science4All dell’Università di Padova e supportate dal Rotary Club Padova, evidenziano il ruolo centrale dell’ateneo nel formare i ricercatori del futuro e dimostrano come la ricerca spaziale non sia confinata al cosmo, ma abbia un impatto concreto e diretto sulla nostra vita quotidiana. Attraverso l’esplorazione dei confini della scienza, i giovani ricercatori aprono nuove prospettive per un futuro più sicuro e sostenibile, gettando le basi per migliorare il benessere umano anche in condizioni ambientali estreme.

Link alla ricerca: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/39320485/

Titolo: Environmental study and stress-related biomarkers modifications in a crew during analog astronaut mission EMMPOL 6 – «European Journal of Applied Physiology» – 2024

Autori: T. A. Giacon, S. Mrakic-Sposta, G. Bosco, A. Vezzoli, C. Dellanoce, M. Campisi, M. Narici, M. Paganini, B. Foing, A. Kołodziejczyk, M. Martinelli & S. Pavanello

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

Dagli scarti di melagrana un estratto, una protezione per il cuore

Una ricerca condotta dall’Istituto per la bioeconomia del CNR e dall’Università di Pisa ha rivelato che i residui della trasformazione dei frutti di melograno offrono un’importante protezione cardiovascolare dall’ipertensione. Lo studio, pubblicato su Nutrients, apre a potenziali applicazioni mediche favorendo anche un minor impatto degli scarti di melagrana sull’ambiente

Sottoprodotti derivanti dall’estrazione
Sottoprodotti derivanti dall’estrazione. Crediti per la foto: Francesco Meneguzzo

Un estratto di bucce e semi di melagrana completamente solubile in acqua, ottenuto mediante una tecnica innovativa, verde, efficiente e scalabile fino a capacità produttive industriali, si rivela efficace nel trattamento dell’ipertensione, sia acuta che cronica. Lo dimostra una ricerca in vivo condotta su un modello murino, pubblicata sulla rivista Nutrients e realizzata da un gruppo di ricerca dell’Istituto per la bioeconomia del Consiglio nazionale delle ricerche di Firenze (CNR-IBE) e dell’Università di Pisa.

Estratto ottenuto da bucce e semi
Estratto ottenuto da bucce e semi. Crediti per la foto: Francesco Meneguzzo

L’estrazione del succo di melagrana genera sottoprodotti non edibili, bucce e semi, pari al 60% del peso del frutto, che sono disponibili in grandi quantità e conosciuti da tempo per le loro proprietà salutari, in gran parte dovute ai cosiddetti ellagitannini, in particolare punicalagina e acido ellagico.

“Finora, il recupero e la valorizzazione di questi sottoprodotti sono stati ostacolati dalla mancanza di una tecnica di estrazione adeguata, in grado di restituire un prodotto completamente solubile in acqua e più sicuro per l’organismo. Infatti, la qualità e le proprietà degli estratti di prodotti naturali, tra cui i sottoprodotti della melagrana, dipendono anche dalla tecnica estrattiva. L’applicazione della cavitazione idrodinamica, già verificata con successo su sottoprodotti degli agrumi e delle filiere forestali, ha consentito di estrarre una grande quantità di bucce e semi di melagrana in sola acqua, a bassa temperatura e in pochi minuti, con un consumo energetico molto limitato, restituendo un prodotto completamente solubile”, sottolinea Francesco Meneguzzo, ricercatore del CNR-IBE.

Lo studio ha previsto la somministrazione dell’estratto di melagrana per via orale a ratti spontaneamente ipertesi. “Dopo la somministrazione orale, i risultati hanno dimostrato una buona bioaccessibilità intestinale e la capacità di contrastare efficacemente l’incremento della pressione in un modello sperimentale di ipertensione, migliorando la disfunzione e riducendo lo spessore dell’endotelio, che è il tessuto che riveste l’interno dei vasi sanguigni. In aggiunta a questo, la somministrazione dell’estratto di melagrana ha dimostrato importanti effetti a livello cardiaco, perché ha consentito di abbassare i livelli di citochine, le molecole responsabili dei processi infiammatori e fibrotici a livello cellulare. Questi riscontri suggeriscono la possibilità di sviluppare meccanismi diversi e a più ampio spettro, rispetto alla protezione cardiovascolare”, afferma Lara Testai dell’Università di Pisa.

Questo tipo di ricerca scientifica dimostra come gli scarti della lavorazione di prodotti vegetali come la melagrana siano ricchi di sostanze preziose per la salute, rappresentando anche un valore aggiunto in un’ottica di sostenibilità. Gli esiti dello studio, infatti, oltre a suggerire i potenziali benefici per la salute umana, potranno contribuire ad aumentare il valore della filiera della melagrana e ad abbattere l’impatto ambientale connesso ai relativi sottoprodotti.

Processo estrattivo del succo di melagrana
Processo estrattivo del succo di melagrana. Crediti per la foto: Francesco Meneguzzo

Roma, 21 febbraio 2024

 

La scheda

Chi: Istituto per la bioeconomia del Consiglio nazionale delle ricerche di Sesto Fiorentino (Firenze), Università degli studi di Pisa – dipartimento di farmacia, Università degli studi di Parma – dipartimento di medicina e chirurgia, Azienda ospedaliero-universitaria di Parma – divisione di cardiologia, Azienda unità sanitaria locale-Ircss di Reggio Emilia – dipartimento di salute pubblica, HyRes srl

Che cosa: Benedetti G., Flori L., Spezzini J., Miragliotta V., Lazzarini G., Pirone A., Meneguzzo C., Tagliavento L., Martelli A., Antonelli M., Donelli D., Faraloni C., Calderone V., Meneguzzo F. and Testai L. (2024) Improved Cardiovascular Effects of a Novel Pomegranate Byproduct Extract Obtained through Hydrodynamic Cavitation «Nutrients» 16, 506

Link alla ricerca: https://doi.org/10.3390/nu16040506

Testo e foto dall’Ufficio Stampa del Consiglio nazionale delle ricerche – CNR

CARDIOMIOPATIA ARITMOGENA: finanziato con 4 milioni di euro il progetto di ricerca IMPACT, coordinato dall’Università di Padova

Finanziato con 4 milioni di euro e coordinato dall’Università di Padova, studierà il ruolo e l’impatto di alterazioni genetiche sulla progressione clinica della cardiomiopatia aritmogena aprendo la strada allo sviluppo di nuove terapie per la gestione clinica della malattia e a un miglioramento della qualità di vita dei pazienti.

Si chiama IMPACT – Cardiogenomics meets Artificial Intelligence: a step forward in arrhythmogenic cardiomyopathy diagnosis and treatment – il progetto di ricerca della durata di 36 mesi finanziato con 4 milioni di euro dall’European Innovation Council per la cardiogenomica. La missione dell’European Innovation Council, istituito dalla Commissione europea nel 2021, è quella di individuare e sviluppare tecnologie innovative per la ricerca.

LOGO IMPACT

 Il team internazionale – coordinato dalla professoressa Alessandra Rampazzo del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova e composto da Universiteit Maastricht (dottoressa Martina Calore), Universitair Medisch Centrum Utrecht (dottoressa Anneline te Riele), Gruppo Lutech (dottoressa Barbara Alicino), Consorzio Italbiotec (dottoressa Melissa Balzarotti), Ksilink (dottor Peter Sommer) e Italfarmaco (dottor Christian Steinkuhler) – studierà lo sviluppo di nuove terapie per la cardiomiopatia aritmogena (ACM), una malattia genetica che colpisce il cuore e che rappresenta una delle principali cause di aritmie ventricolari e morte cardiaca improvvisa. Con un’incidenza di 1 su 5000, può essere considerata una malattia cardiovascolare di grande rilevanza.

Del gruppo padovano guidato da Alessandra Rampazzo fanno parte il professor Libero Vitiello e la dottoressa Martina Calore del dipartimento di Biologia che si focalizzeranno sull’analisi di modelli in vivo e in vitro di malattia allo scopo di identificare dei bersagli terapeutici, la professoressa Milena Bellin sempre del dipartimento di Biologia che valuterà l’effetto patogeno di varianti genetiche utilizzando microtessuti cardiaci umani generati da cellule staminali pluripotenti coltivate in laboratorio, la professoressa Paola Braghetta del dipartimento di Medicina Molecolare e il dottor Nicola Facchinello del CNR-Istituto di Neuroscienze  che metteranno a disposizione le competenze istologiche e biochimiche per studiare i meccanismi molecolari che controllano la funzionalità cardiaca nei modelli di malattia.

Alessandra Rampazzo cardiomiopatia aritmogena
Alessandra Rampazzo, coordinatrice del progetto di ricerca IMPACT per lo sviluppo di nuove terapie per la cardiomiopatia aritmogena – ACM

La cardiomiopatia aritmogena è una patologia degenerativa che interessa il cuore, frequentemente coinvolta nella morte improvvisa di atleti e adolescenti. Il segno istopatologico caratterizzante è la sostituzione fibroadiposa del miocardio, che pregiudica il funzionamento del muscolo cardiaco portando all’insorgenza di aritmie ventricolari. Ad oggi non è disponibile alcuna terapia per prevenire o almeno rallentare le progressive modificazioni del tessuto cardiaco.

Numerosi sono i geni le cui mutazioni sono certamente coinvolte in questa patologia, alcuni dei quali scoperti dal gruppo di ricerca della professoressa Alessandra Rampazzo. Tuttavia, molte delle alterazioni genetiche identificate nel DNA dei pazienti affetti sono di significato incerto e non ancora direttamente correlati alla patologia, e quindi di utilità limitata sia per i genetisti che per i medici.

«Grazie ai finanziamenti ottenuti da Horizon Europe, il nostro progetto di ricerca si propone di aprire nuove prospettive terapeutiche basandosi sui risultati ottenuti nei diversi modelli proposti. Si tratta di un progetto innovativo e multidisciplinare, il cui successo è fortemente sostenuto dalle diverse ma complementari competenze dei partner europei che fanno capo a istituzioni accademiche e aziende leader nel settore informatico, biotecnologico e farmaceutico – dice la professoressa Alessandra Rampazzo del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, coordinatrice scientifica del team internazionale –. Una tale collaborazione consentirà di raggiungere gli ambiziosi traguardi prefissati. L’obiettivo generale del progetto finanziato dalla comunità europea è quello di integrare e analizzare mediante l’intelligenza artificiale i dati clinici e molecolari provenienti dal registro dei pazienti con ACM con dati provenienti da analisi strutturali e funzionali di modelli cellulari, quali microtessuti cardiaci tridimensionali, e modelli in vivo. Questi risultati ci permetteranno di ottenere una migliore comprensione del ruolo e dell’impatto di alterazioni genetiche sulla progressione clinica della cardiomiopatia aritmogena. Inoltre – conclude Alessandra Rampazzo – il progetto prevede uno screening e una successiva valutazione del potenziale terapeutico di numerosi composti e molecole innovative, sia in modelli cellulari che animali».

La scoperta di nuovi bersagli terapeutici e la comprensione dei meccanismi patogenetici sottostanti non solo potrebbero portare a nuove terapie per l’ACM, ma potrebbero aprire la strada ad una migliore gestione clinica della malattia e a un miglioramento della qualità di vita dei pazienti.

Il meeting di tutti i partecipanti, che ufficializzerà l’avvio del progetto, si terrà a Padova il 26 e 27 ottobre 2023.

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MORTI IMPROVVISE E CARDIOMIOPATIA ARITMOGENA: GIOVEDÌ VERRÀ PRESENTATO IL PROGETTO IMPACT

Giovedì 26 ottobre 2023, dalle ore 14.00, nella Casa della Rampa Carrarese della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo in via Arco Valaresso 32 a Padova verranno presentati partner, competenze e dati preliminari del progetto IMPACT.

Il meeting si concluderà nel primo pomeriggio di venerdì 27 ottobre nella Sala Conferenze di Palazzo del Monte di Pietà in piazza Duomo 14 a Padova della Fondazione Cariparo con la discussione degli aspetti tecnico scientifici del progetto IMPACT.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova. Aggiornato il 24 ottobre 2023.

I MECCANISMI DI RIGENERAZIONE DELLE CELLULE DANNEGGIATE NEL CUORE, DAL PESCE ZEBRA ALL’UOMO?

Scoperti i meccanismi che rigenerano le cellule del cuore nel pesce zebra. Il ruolo di LRRC10 nel decidere se la cellula del muscolo cardiaco si dividerà o proseguirà verso la maturazione.

Lo studio, pubblicato su «Science» dai ricercatori dell’Hubrecht Institute, ha visto la collaborazione del gruppo padovano di Milena Bellin.

cellule cuore pesce zebra
Rigenerazione: le cellule muscolari del cuore del pesce zebra, 60 giorni dopo il danneggiamento. Crediti per la foto: Phong Nguyen. Copyright: Hubrecht Institute.

Le malattie cardiovascolari, quali l’infarto, sono fra le principali cause di morte a livello globale a causa della limitata capacità rigenerativa del cuore. Diversamente dall’uomo, il pesce zebra (zebrafish) ha la straordinaria capacità di guarire da danni a livello cardiaco. I ricercatori del gruppo di Jeroen Bakkers (Hubrecht Institute) hanno impiegato zebrafish per fare luce sulla capacità rigenerativa di questo organismo scoprendo un nuovo meccanismo che agisce da interruttore per spingere le cellule del muscolo cardiaco alla maturazione durante il processo di rigenerazione. Questo meccanismo si è conservato a livello evolutivo, avendo effetti molto simili sulle cellule muscolari cardiache del topo e dell’uomo. Applicare queste scoperte alle cellule del muscolo cardiaco umano potrebbe contribuire allo sviluppo di nuove terapie per contrastare le malattie cardiovascolari.

Si stima che ogni anno 18 milioni di persone muoiano a causa di malattie cardiovascolari nel mondo. Molti di questi decessi sono associati a infarto. Quando ciò avviene, coaguli del sangue bloccano l’apporto di nutrienti e ossigeno a regioni del cuore. Di conseguenza, le cellule muscolari cardiache presenti nella porzione di cuore ostruita muoiono, portando a insufficienza cardiaca. Benché esistano terapie capaci di gestire tali sintomi, non esistono trattamenti capaci di rimpiazzare il tessuto perso con cellule del muscolo cardiaco mature e funzionali, in modo così da curare il paziente.

Diversamente dall’uomo, lo zebrafish ha la capacità di rigenerare il cuore: entro 90 giorni dal danno possono recuperare completamente la funzionalità del cuore. Le cellule muscolari cardiache che sopravvivono al danno si dividono e producono altre cellule. Questa caratteristica unica fornisce al cuore di zebrafish una fonte di nuovo tessuto per rimpiazzare le cellule muscolari cardiache andate perse. Studi precedenti hanno già identificato fattori che potrebbero stimolare la divisione delle cellule del muscolo cardiaco, mai però si è indagato su cosa succede alle cellule muscolari cardiache appena generate.

«Non è chiaro – dice Phong Nguyen dell’Hubrecht Institute e primo autore dello studio – come queste cellule smettano di dividersi e maturino abbastanza da poter contribuire al normale funzionamento del cuore. Ci ha stupito il fatto che nel cuore di zebrafish, il tessuto neoformato maturi naturalmente e si integri al tessuto cardiaco preesistente senza alcun problema».

La regolazione del trasporto del calcio, dentro e fuori le cellule muscolari cardiache, è importante per il controllo della contrazione cardiaca e permette di predire la maturità delle cellule. Per questa ragione i ricercatori hanno sviluppato una tecnica che ha permesso la coltura di grossi lembi di cuore danneggiato di zebrafish al di fuori dell’organismo. Si è così potuto osservare, in tempo reale, come il movimento del calcio all’interno delle cellule del muscolo cardiaco e dopo la divisione delle cellule cambi nel tempo.

«Il trasporto del calcio nelle cellule di nuova divisione all’inizio è apparso molto simile a quello delle cellule muscolari cardiache embrionali, ma nel tempo queste cellule hanno assunto un trasporto del calcio di tipo maturo – continua Nguyen –. Abbiamo scoperto che la “diade” cardiaca, una struttura che facilita il movimento del calcio all’interno delle cellule muscolari cardiache, e nello specifico uno dei suoi componenti, LRRC10, ha un ruolo cruciale nel decidere se la cellula del muscolo cardiaco si dividerà o proseguirà verso la maturazione. Cellule muscolari cardiache che mancano di LRRC10 continuano a dividersi e rimangono immature».

Stabilita l’importanza di LRRC10 nell’arrestare la divisione e avviare la maturazione nelle cellule muscolari cardiache di zebrafish, i ricercatori hanno vagliato se le caratteristiche del pesce potessero essere trasferite nei mammiferi con l’induzione dell’espressione di LRRC10 in cellule del cuore di topo e uomo.

In collaborazione con il gruppo di Milena Bellin – Dipartimento di Biologia, Istituto Veneto di Medicina Molecolare e Leiden University Medical Center  si sono studiati i cardiomiociti umani generati da cellule staminali pluripontenti umane coltivate in laboratorio: le osservazioni sperimentali hanno provato che LRRC10 è importante anche nella maturazione di cellule cardiache umane. Gli esperimenti sono stati condotti al Leiden University Medical Center da Giulia Campostrini, ricercatrice guidata da Milena Bellin e Christine Mummery.

«Questo lavoro si è basato su nostri precedenti studi sulla maturazione dei cardiomiociti: è stato emozionante vedere che il ruolo di LRRC10 sia conservato fra uomo e zebrafish. Sorprendentemente – osserva Milena Bellin – la presenza di LRRC10 ha cambiato le dinamiche del calcio, ha ridotto la divisione cellulare e aumentato il grado di maturazione di queste cellule in modo simile a quanto osservato nel cuore di zebrafish».

«È stato emozionante – chiosa Nguyen – vedere che ciò che abbiamo imparato da zebrafish può essere trasferito all’uomo e ciò apre nuove possibilità per l’uso di LRRC10 nel contesto di nuove terapie per i pazienti».

I risultati dello studio pubblicato mostrano che LRRC10 ha la capacità di guidare la maturazione delle cellule muscolari cardiache attraverso il controllo della loro gestione del calcio. Ciò potrebbe aiutare gli scienziati che tentano di risolvere la mancanza di capacità rigenerativa del cuore di mammifero attraverso il trapianto, all’interno di cuori danneggiati, di cellule muscolari cardiache coltivate in laboratorio. Benché tale potenziale terapia risulti promettente, i risultati hanno mostrato che queste cellule coltivate in laboratorio sono ancora immature e non sono capaci di comunicare adeguatamente con il resto del cuore, portando così a contrazioni anormali chiamate aritmie.

«Anche se servono studi più approfonditi per definire con precisione che grado di maturazione possano assumere queste cellule muscolari cardiache coltivate in laboratorio quando trattate con LRRC10, è possibile che l’aumento nel grado di maturazione vada a migliorare l’integrazione in seguito a trapianto – sottolinea Jeroen Bakkers dell’Hubrecht Institute e ultimo autore dello studio –. I modelli attuali di malattie cardiovascolari sono spesso basati su cellule muscolari cardiache coltivate in laboratorio. Il 90% dei candidati farmaci più promettenti individuati, sempre in laboratorio, non riescono a raggiungere la fase clinica e l’immaturità di queste cellule potrebbe essere uno dei fattori che contribuiscono a questi scarsi tassi di successo. I nostri risultati indicano che LRRC10 potrebbe anche migliorare la predittività di questi modelli».

LRRC10, dunque, potrebbe dare un importante contributo alla generazione di cellule muscolari cardiache coltivate in vitro che rappresentino con maggior precisione le tipiche cellule cardiache adulte, aumentando così le probabilità di sviluppare nuovi trattamenti efficaci con successo contro le malattie cardiovascolari.

Link alla ricerca: http://www.science.org/doi/10.1126/science.abo6718

Titolo: “Interplay between calcium and sarcomeres directs cardiomyocyte maturation during regeneration” – «Science» 2023

Autori: Phong D. Nguyen, Iris Gooijers, Giulia Campostrini, Arie O. Verkerk, Hessel Honkoop, Mara Bouwman, Dennis E. M. de Bakker, Tim Koopmans, Aryan Vink, Gerda E. M. Lamers, Avraham Shakked, Jonas Mars, Aat A. Mulder, Sonja Chocron, Kerstin Bartscherer, Eldad Tzahor, Christine L. Mummery, Teun P. de Boer, Milena Bellin, Jeroen Bakkers

Lo studio è il risultato di una collaborazione tra l’Hubrecht Institute, Leiden University Medical Center, Amsterdam Medical Center, Utrecht Medical Center e il Weizmann Institute. Lo studio è stato finanziato da Dutch Heart Foundation, Dutch CardioVascular Alliance and Stichting Hartekind, ReNEW, e the European Research Council (CoG Mini-HEART).

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova sulla rigenerazione delle cellule del cuore nel pesce zebra.

Charme: la molecola di lncRNA che controlla lo sviluppo del cuore
Charme è un lncRNA che controlla lo sviluppo cardiaco attraverso circuiti molecolari che si instaurano nel muscolo grazie alla sua interazione con la proteina Matrin3 

La molecola di RNA è in grado di costruire specifiche reti di interazione per un controllo temporale e spaziale dei processi di formazione del cuore.

È quanto dimostrato da un nuovo studio coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza e pubblicato sulla rivista eLife.

Charme: la molecola di lncRNA che controlla lo sviluppo del cuore 
Crediti per l’immagine: Taliani et al.

Per affrontare la complessità dei processi biologici, le cellule sfruttano molteplici sistemi di regolazione, spesso basati sull’attività di molecole di RNA, come nel caso dei lunghi RNA non codificanti (long non coding RNA, lncRNA) che non producono proteine. Queste molecole sono in grado di costruire specifiche reti di interazione per un controllo temporale e spaziale dei processi biologici.

È il caso di Charme, un lncRNA che controlla lo sviluppo cardiaco attraverso circuiti molecolari che si instaurano nel muscolo grazie alla sua interazione con la proteina Matrin3. Matrin3 è coinvolta in diverse miopatie e in malattie neurodegenerative, come la Sclerosi laterale amiotrofica (SLA).

Un nuovo studio italiano pubblicato sulla rivista internazionale eLife e coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza in collaborazione con l’Istituto italiano di tecnologia e l’European Molecular Biology Laboratory ha rivelato il ruolo chiave di Charme nell’accensione di geni necessari alla maturazione delle cellule del cuore. La presenza di Charme già durante le fasi embrionali dello sviluppo cardiaco, si è rivelata fondamentale per guidare Matrin3 sui giusti contesti genomici, promuovendo la funzionalità e lo sviluppo cardiaco.

“Tra i piani futuri del laboratorio – spiega Monica Ballarino della Sapienza – c’è l’ulteriore caratterizzazione funzionale di Charme che è abbondantemente espresso nel muscolo umano. Questo permetterà una migliore comprensione della fisiologia e dello sviluppo del cuore ed il disegno di nuove strategie diagnostiche e terapeutiche per le patologie cardiache.”

Riferimenti:

The long noncoding RNA Charme supervises cardiomyocyte maturation by controlling cell differentiation programs in the developing heart – Valeria Taliani, Giulia Buonaiuto, Fabio Desideri, Adriano Setti, Tiziana Santini, Silvia Galfrè, Leonardo Schirone, Davide Mariani, Giacomo Frati, Valentina Valenti, Sebastiano Sciarretta, Emerald Perlas, Carmine Nicoletti, Antonio Musarò, Monica Ballarino – eLife 2023 https://doi.org/10.7554/eLife.81360

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

SARS-COV-2 E PATOLOGIE CARDIOVASCOLARI

Team di ricercatori dell’Università di Padova chiarisce non solo che l’angiotensina II aumenta ACE2, il recettore cellulare del virus SARS-CoV-2, ma promuove anche l’infezione delle cellule bronchiali

Un lavoro scientifico pubblicato su «International Journal of Molecular Sciences» dal titolo “Angiotensin II Promotes SARS‐CoV‐2 Infection via Upregulation of ACE2 in Human Bronchial Cells” dal gruppo di ricerca multidisciplinare dell’Università di Padova coordinato dal Prof. Gian Paolo Rossi del Dipartimento di Medicina ha chiarito perché l’infezione da virus SARS-CoV-2 determini una prognosi peggiore nei pazienti con patologie cardiovascolaricome l’ipertensione arteriosa e lo scompenso cardiaco. Tali pazienti presentano un’attivazione di uno dei più importanti sistemi che regolano la pressione arteriosa, il sistema renina-angiotensina.

Attraverso una serie di esperimenti su cellule bronchiali umane, utilizzando sia il virus SARS-CoV-2 che una serie di pseudovirus, i ricercatori sono riusciti a dimostrare, per la prima volta, non solo che l’angiotensina II aumenta ACE2, il recettore cellulare del virus SARS-CoV-2, ma promuove anche l’infezione delle cellule bronchiali.  Secondo i ricercatori ciò avviene attraverso il recettore AT1 dell’angiotensina II, e l’attivazione della proteasi TMPRSS2, il bersaglio dell’antivirale giapponese nafamostat, attualmente in sperimentazione presso l’Azienda Ospedale-Università di Padova.

Questo studio fornisce un contributo fondamentale alla comprensione del meccanismo attraverso il quale i farmaci bloccanti del sistema renina-angiotensina – ACE inibitori e sartani – contrastando gli effetti dell’angiotensina II abbiano un effetto protettivo nei riguardi dell’infezione e quindi non debbano essere sospesi nei pazienti che s’ammalano di Covid-19.

«Merito del gruppo interdisciplinare di ricerca non è stato solo quello di chiarire questi aspetti dell’infezione da Covid-19, che sono assai importanti per la scelta della terapia – afferma Gian Paolo Rossi nel commentare lo studio – ma anche quello di valorizzare vari giovani ricercatori come Ilaria Caputo, Brasilina Caroccia, Ilaria Frasson, Elena Poggio, Tito Calì e Stefania Zamberlan che con approcci diversi e complementari hanno lavorato sotto la guida dei Professori: Sara Ritcher, Marisa Brini, Teresa Seccia e Margherita Morpurgo, appartenenti a diversi Dipartimenti dell’Ateneo patavino».

SARS-COV-2 E PATOLOGIE CARDIOVASCOLARI
Gian Paolo Rossi

Lo studio è frutto del progetto di ricerca risultato vincitore di un bando competitivo nazionale promosso dalla Banca Intesa San Paolo di Torino.

 

Link alla ricerca: https://doi.org/10.3390/ijms23095125

Titolo: Angiotensin II Promotes SARS‐CoV‐2 Infection via Upregulation of ACE2 in Human Bronchial Cells – «International Journal of Molecular Sciences» – 2022

Autori: Ilaria Caputo, Brasilina Caroccia, Ilaria Frasson, Elena Poggio, Stefania Zamberlan, Margherita Morpurgo, Teresa M. Seccia, Tito Calì, Marisa Brini, Sara N. Richter e Gian Paolo Rossi

 

Testi e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova

CUORE METTE NUOVI LIMITI ALL’INSOLITO COMPORTAMENTO DEI NEUTRINI

CUORE neutrini Nature INFN

Le ricercatrici e i ricercatori dell’esperimento CUORE (Cryogenic Underground Observatory for Rare Events) situato ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) hanno pubblicato oggi, 6 aprile, su Nature i nuovi risultati sulla natura del neutrino, che dimostrano inoltre l’eccezionalità della tecnologia sviluppata, in grado di mantenere un rivelatore di oltre 700 kg a temperature vicine allo zero assoluto, per più di tre anni.

CUORE, che opera nel silenzio cosmico delle sale sperimentali sotterranee dei Laboratori del Gran Sasso, protetto da 1.400 metri di roccia, è tra gli esperimenti più sensibili al mondo per lo studio di un processo nucleare, chiamato doppio decadimento beta senza emissione di neutrini, possibile solo se neutrino e antineutrino sono la stessa particella. Questo decadimento, se osservato, chiarirebbe per la prima volta il mistero della natura di Majorana del neutrino. I risultati di CUORE si basano su una quantità di dati, raccolta negli ultimi tre anni, dieci volte più grande di qualsiasi altra ricerca con tecnica sperimentale simile. Nonostante la sua fenomenale sensibilità, l’esperimento non ha ancora osservato prove di eventi di questo tipo. Da questo risultato è possibile stabilire che un atomo di tellurio impiega più di 22 milioni di miliardi di miliardi di anni per decadere. I nuovi limiti di CUORE sul comportamento dei neutrini sono cruciali nella ricerca di una possibile nuova scoperta della fisica delle particelle, che sarebbe rivoluzionaria perché aiuterebbe a comprendere le nostre stesse origini.

L’obiettivo è capire come ha avuto origine la materia”, spiega Carlo Bucci, ricercatore dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso e responsabile internazionale dell’esperimento CUORE.

“Stiamo cercando un processo che violi una simmetria fondamentale della natura”, aggiunge Roger Huang, giovane ricercatore del Lawrence Berkeley National Laboratory del Department of Energy degli Stati Uniti e uno degli autori del nuovo studio. “L’asimmetria tra materia e antimateria nell’universo è ancora un rebus”, dice Huang. “Se i neutrini sono le loro stesse antiparticelle, questo potrebbe aiutare a risolverlo”.

CUORE neutrini Nature INFN

“Il doppio decadimento beta senza emissione di neutrini, se sarà misurato, sarà il processo più raro mai osservato in natura, con un tempo di decadimento di oltre un milione di miliardi di volte superiore all’età dell’universo”, afferma Danielle Speller, professoressa alla Johns Hopkins University e componente del Physics Board di CUORE.

CUORE è un vero trionfo scientifico e tecnologico, non solo per i suoi nuovi risultati, ma anche per aver dimostrato con successo il funzionamento del suo criostato in condizioni veramente estreme, alla temperatura di 10 millesimi di grado sopra lo zero assoluto (10 milliKelvin). La temperatura nel rivelatore CUORE viene attentamente monitorata con sensori in grado di rilevare una variazione di appena un decimillesimo di grado Celsius. Il doppio decadimento beta senza emissione di neutrini ha una firma energetica specifica e aumenterebbe la temperatura di un singolo cristallo di una quantità ben definita e riconoscibile.

“È il più grande refrigeratore del suo genere al mondo”, sottolinea Paolo Gorla, ricercatore dei Laboratori del Gran Sasso e Technical Coordinator di CUORE. “Capace di mantenere la temperatura di 10 milliKelvin ininterrottamente per circa tre anni”. Una tale tecnologia ha applicazioni ben oltre la fisica delle particelle fondamentali. In particolare, può trovare impiego nella realizzazione dei computer quantistici, dove una delle principali difficoltà dal punto di vista tecnologico è mantenerli sufficientemente freddi e schermati dalle radiazioni ambientali.

Lo straordinario funzionamento del criostato di CUORE è il coronamento di una lunga sfida tecnologica iniziata a metà degli anni ‘80 dal gruppo di Ettore Fiorini a Milano, che ha visto l’evoluzione dei rivelatori criogenici, da cristalli di pochi grammi agli oltre 700 kg degli attuali”, aggiunge Oliviero Cremonesi, Presidente della Commissione Scientifica Nazionale per la fisica astroparticellare dell’INFN.

“La sensibilità del rivelatore è davvero fenomenale,” afferma Laura Marini, ricercatrice presso il Gran Sasso Science Institute e Run Coordinator di CUORE, “al punto che osserviamo segnali generati da vibrazioni microscopiche della crosta terrestre.” “Abbiamo visto effetti dovuti a terremoti in Cile e Nuova Zelanda”, continua Marini “misuriamo costantemente il segnale delle onde che si infrangono sulla riva del mare Adriatico, a 60 chilometri di distanza, che diventa più forte in inverno, quando c’è tempesta”.

CUORE sta facendo da apripista per la prossima generazione di esperimenti: il suo successore, CUPID (CUORE Upgrade with Particle Identification), è già in avanzata fase di sviluppo e sarà oltre dieci volte più sensibile di CUORE. Nel frattempo, CUORE non ha ancora finito.

“Saremo operativi fino al 2024 – aggiunge Bucci – e sono impaziente di vedere che cosa troveremo”.

CUORE è gestito da una collaborazione di ricerca internazionale, guidata dall’INFN in Italia e dal Berkeley National Laboratory negli Stati Uniti.

CUORE neutrini Nature INFN

APPROFONDIMENTI

Particelle particolari

I neutrini sono ovunque: ci sono quasi mille miliardi di neutrini che passano attraverso l’unghia di un tuo dito mentre leggi questa frase. Non sentono l’effetto delle due forze più intense dell’universo, l’elettromagnetismo e la forza nucleare forte, e questo consente loro di passare attraverso la materia, quindi anche attraverso tutta la Terra, senza interagire. Nonostante il numero enorme, la loro natura così elusiva li rende molto difficili da studiare, sono un vero grattacapo per i fisici. L’esistenza di queste particelle è stata postulata per la prima volta oltre 90 anni fa, ma fino alla fine degli anni ’90 non si sapeva nemmeno se i neutrini avessero una massa, ora sappiamo di sì ma è davvero molto piccola.

Una delle tante domande ancore aperte sui neutrini è se siano le loro stesse antiparticelle. Tutte le altre particelle hanno delle corrispondenti antiparticelle, la loro controparte di antimateria: agli elettroni corrispondono gli antielettroni (positroni), ai quark gli antiquark, ai neutroni e ai protoni (che sono i costituenti dei nuclei atomici) gli antineutroni e gli antiprotoni. A differenza di tutte le altre particelle, è possibile che i neutrini siano le loro stesse antiparticelle. Un tale scenario è stato teorizzato per la prima volta dal fisico Ettore Majorana nel 1937 e le particelle che mostrano questa proprietà sono conosciute come fermioni di Majorana.

Se i neutrini fossero davvero fermioni di Majorana potremmo forse rispondere a una domanda che è alla base della nostra stessa esistenza: perché c’è così tanta più materia che antimateria nell’universo?

Un dispositivo raro per decadimenti rari

Determinare se i neutrini siano le loro stesse antiparticelle è difficile, proprio perché essi non interagiscono molto spesso. Il miglior strumento dei fisici per cercare i neutrini di Majorana è un ipotetico tipo di decadimento naturale radioattivo chiamato decadimento doppio beta senza neutrini. Il decadimento beta è una forma abbastanza comune di decadimento in alcuni atomi, che trasforma un neutrone di un nucleo atomico in un protone, mutando l’elemento chimico dell’atomo ed emettendo un elettrone e un antineutrino come conseguenza del processo. Il doppio decadimento beta è più raro: invece di un solo neutrone, due di essi si trasformano in due protoni allo stesso tempo, emettendo due elettroni e due antineutrini. Ma se il neutrino è un fermione di Majorana, allora teoricamente un singolo neutrino “virtuale”, che funge da antiparticella di sé stesso, potrebbe prendere il posto di entrambi gli antineutrini e solo i due elettroni sarebbero emessi dal nucleo atomico, da qui il nome del processo. Il decadimento doppio beta senza neutrini è stato teorizzato per decenni, ma non è mai stato osservato.

L’esperimento CUORE è impegnato a rivelare negli atomi di tellurio un decadimento doppio beta senza neutrini. L’esperimento utilizza quasi mille cristalli di ossido di tellurio purissimo, del peso complessivo di oltre 700 kg. Questa grande quantità di tellurio è necessaria perché, in media, ci vuole più di un miliardo di volte l’età dell’Universo perché un singolo atomo instabile di tellurio subisca un normale doppio decadimento beta. Ma ci sono milioni di miliardi di miliardi di atomi di tellurio in ciascuno dei cristalli utilizzati da CUORE, il che significa che il doppio decadimento beta standard (con emissione di due neutrini) avviene abbastanza regolarmente nel rivelatore, circa alcune volte al giorno in ciascun cristallo. Il doppio decadimento beta senza neutrini, ammesso che si verifichi, è estremamente più raro, e quindi la Collaborazione di CUORE deve impegnarsi per rimuovere quante più fonti di interferenza possibile che potrebbero nascondere l’evento cercato. Per schermare il rivelatore dai raggi cosmici, l’intero sistema si trova nelle sale sperimentali sotterranee dei Laboratori del Gran Sasso, dove i 1400 metri di roccia sovrastanti proteggono gli esperimenti dai raggi cosmici che piovono incessantemente sulla Terra. Una ulteriore schermatura è fornita da diverse tonnellate di piombo. Il piombo appena prodotto è leggermente radioattivo a causa della contaminazione naturale da uranio e altri elementi. Questo livello di radioattività è assolutamente trascurabile per qualsiasi tipo di utilizzo del piombo, eccetto per un rivelatore così sensibile come CUORE. Poiché la radioattività diminuisce nel tempo, il piombo utilizzato per circondare i rivelatori di CUORE è principalmente piombo recuperato da un’antica nave romana affondata quasi 2000 anni fa al largo delle coste della Sardegna.

CUORE è finanziato negli Stati Uniti dal Department of Energy (DoE) e dalla National Science Foundation (NSF) e in Italia dall’INFN, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. La Collaborazione CUORE include in Italia i Laboratori Nazionali del Gran Sasso, i Laboratori Nazionali di Frascati e i Laboratori Nazionali di Legnaro dell’INFN e le Sezioni INFN e Università di Bologna, Università di Genova, Università di Milano Bicocca, Sapienza Università di Roma e il Gran Sasso Science Institute; negli Stati Uniti: California Polytechnic State University, San Luis Obispo; Lawrence Berkeley National Laboratory; Johns Hopkins University; Lawrence Livermore National Laboratory; Massachusetts Institute of Technology; University of California, Berkeley; University of California, Los Angeles; University of South Carolina; Virginia Polytechnic Institute and State University; Yale University; in Francia: Saclay Nuclear Research Center (CEA) e Irène Joliot-Curie Laboratory (CNRS/IN2P3, Paris Saclay University); in Cina: Fudan University e Shanghai Jiao Tong University.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa INFN Istituto Nazionale di Fisica Nucleare