L’UNIONE EUROPEA FINANZIA LO STUDIO CONCETTUALE DELLA NUOVA INFRASTRUTTURA ASTRONOMICA DA TERRA WIDE FIELD SPECTROSCOPIC TELESCOPE – WST
È stato firmato lo scorso 4 novembre il contratto per il finanziamento dello studio concettuale di un nuovo telescopio, il Wide Field Spectroscopic Telescope (in breve WST), che potrebbe diventare operativo in Cile dopo il 2040. Il consorzio internazionale che ha ottenuto il finanziamento, proporrà WST come progetto candidato a diventare la prossima infrastruttura osservativa dello European Southern Observatory (ESO) dopo il completamento dello Extremely Large Telescope (ELT), attualmente in costruzione nelle Ande Cilene.
Link: https://www.wstelescope.com/
Rendering del progetto WST. Crediti: G.Gausachs/WST
L’innovativo progetto WST per realizzare un telescopio interamente dedicato a survey – campagne osservative estese – spettroscopiche di tutti i tipi di oggetti celesti, dalle galassie più lontane, agli asteroidi e comete del nostro Sistema Solare, è stato selezionato nell’ambito del Programma Quadro Horizon Europe dell’Unione Europea con un bando competitivo destinato alle infrastrutture di ricerca. Il consorzio internazionale alla guida del progetto WST ha ottenuto tre milioni di euro da utilizzare nei prossimi tre anni – durante il triennio 2025-2027 – per completare uno studio concettuale dettagliato del nuovo telescopio.
Il consorzio internazionale vede la partecipazione di diciannove istituti di ricerca in Europa e in Australia, con un team scientifico composto da oltre seicento membri provenienti da trentadue Paesi di tutti e cinque i continenti. Alla guida del consorzio Roland Bacon del Centro Nazionale della Ricerca Scientifica (Centre National de la Recherche Scientifique – CNRS, Francia) e Sofia Randich dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), supportati da un Project Office e da uno Steering Commitee del quale fanno parte rappresentanti di tutti gli istituti coinvolti. L’Italia partecipa, oltre che con l’INAF, anche con l’Università di Bologna. Nutrito è il coinvolgimento di ricercatori e ricercatrici del nostro Paese in ruoli chiave e di responsabilità in WST, sia sugli aspetti scientifici che tecnologici.
WST promette di rispondere a una necessità individuata dalla comunità scientifica internazionale: un telescopio della classe dei 10 metri, con ampio campo visivo, dedicato in modo esclusivo all’acquisizione di spettri delle sorgenti celesti. La necessità di avere a disposizione questo tipo di struttura osservativa compare esplicitamente in molti piani scientifici strategici internazionali che individuano i punti chiave della ricerca astrofisica della prossima decade, tra cui lo European Astronet Roadmap 2023.
Infatti, nonostante siano in fase di costruzione telescopi da terra con specchi principali di 30-40 metri, non esiste un telescopio fra quelli esistenti, in via di sviluppo, o proposti che presenti le stesse caratteristiche di WST e che lo rende un unicum: l’attuale disegno prevede infatti uno specchio principale del diametro di 12 metri, il funzionamento simultaneo di uno spettrografo multi-oggetto (MOS) in grado di osservare su un ampio campo visivo (tre gradi quadrati, quanto la superficie apparente di 12 lune piene) e altissime capacità di “multiplex” (20.000 fibre), insieme a uno spettrografo a campo integrale panoramico (IFS) che copre una superficie apparente di cielo di 9 minuti d’arco quadrati.
“Queste specifiche sono molto ambiziose e collocano il progetto WST al di sopra delle infrastrutture osservative da terra esistenti e in fase di programmazione. In soli cinque anni di attività, il MOS permetterebbe di ottenere spettri di 250 milioni di galassie e 25 milioni di stelle a bassa risoluzione spettrale e più 2 milioni di stelle ad alta risoluzione, mentre l’IFS fornirebbe 4 miliardi di spettri, grazie ai quali i ricercatori potranno ottenere una caratterizzazione completa delle sorgenti. Per mettere questi numeri in contesto, sarebbero necessari 43 anni per ottenere gli stessi 4 miliardi di spettri utilizzando la IFS disponibile sul telescopio VLT dell’ESO oppure 375 anni dello strumento 4MOST che sta per diventare operativo, per osservare i 250 milioni di galassie, raggiungendo la stessa ‘profondità’ ”, dice Roland Bacon.
“Il Wide Field Spectroscopic Telescope produrrà scienza di punta e trasformativa, e permetterà di affrontare temi e domande scientifiche rilevanti riguardanti la cosmologia; la formazione, l’evoluzione, arricchimento chimico delle galassie (inclusa la Via Lattea); l’origine di stelle e pianeti; l’astrofisica che studia eventi transienti o variabili nel tempo; l’astrofisica-multimessaggera”, aggiunge Sofia Randich.
Il Wide Field Spectroscopic Telescope (WST) verrà utilizzato per affrontare molte questioni aperte nell’astrofisica moderna: dalla formazione delle strutture su larga scala nell’universo primordiale, all’interazione delle galassie nella rete cosmica, dalla formazione della nostra stessa Galassia, fino all’evoluzione delle stelle e alla formazione di pianeti intorno a esse. Crediti: WST/V.Springel, Max-Planck-Institut für Astrophysik/ESO
Lo studio concettuale finanziato grazie ai fondi del programma Horizon Europe affronterà tutti gli aspetti rilevanti necessari per avere un quadro completo: il disegno del telescopio e degli strumenti che verranno installati a bordo, l’individuazione del sito in Cile dove collocare il telescopio stesso, l’ulteriore definizione dei casi scientifici, la predisposizione di un “survey plan” insieme allo sviluppo di un modello operativo per il telescopio, schemi e idee innovative per l’analisi dei dati acquisiti, con lo scopo di massimizzare il ritorno scientifico.
Lo studio concettuale presterà particolare attenzione alla sostenibilità ambientale. L’impatto ambientale sarà infatti uno dei criteri che guiderà le scelte tecnologiche e si svilupperanno soluzioni che permetteranno di mitigare le principali fonti di emissione di anidride carbonica. L’impatto ambientale previsto sia in fase di costruzione, che in fase di operatività di WST sarà documentato in dettaglio alla fine dello studio.
Nel futuro prossimo, l’ESO aprirà una call for ideas per valutare i progetti più innovativi e promettenti dal punto di vista scientifico su cui investire dopo la realizzazione di Elt, la cui prima luce è prevista nel 2028. Se approvato, il WST diventerebbe la prossima grande infrastruttura dell’ESO, con il potenziale per affrontare questioni astrofisiche dal carattere rivoluzionario dal 2040 in poi.
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF
Un cloud quantistico sicuro: da oggi è possibile proteggere la privacy di gruppi di utenti che effettuano calcoli contemporaneamente su server distanti
Un gruppo di ricerca internazionale ha ideato e dimostrato che è possibile effettuare calcoli da remoto su processori quantistici mantenendo intatta la privacy di tutti gli utenti coinvolti. I risultati dell’esperimento, condotto presso il Quantum Lab dell’Università Sapienza di Roma, sono stati pubblicati sulla rivista Nature Communications e costituiscono un passo in avanti fondamentale verso la realizzazione di reti quantistiche sicure.
Un numero crescente di aziende e laboratori in tutto il mondo sta mettendo a disposizione degli utenti diverse tipologie di prototipi di processori quantistici. Infatti, con le tecnologie attuali, i costi di acquisto e manutenzione di questi dispositivi sono inaccessibili per utenti comuni. Invece, tramite un approccio di cloud computing, chiunque può “mettersi in fila” per prenotare l’utilizzo di un piccolo processore e poter fare il proprio esperimento di calcolo quantistico. Il problema di mantenere la privacy di questi utenti costituisce di conseguenza un’importante sfida da affrontare.
Nonostante fosse già noto come mantenere la privacy di un singolo utente connesso a un server remoto, rimaneva comunque aperto il problema di proteggere la privacy di un gruppo di utenti che collaborino allo stesso calcolo. Questo potrebbe essere il caso, ad esempio, di un gruppo di banche che puntano ad elaborare in modo congiunto i dati dei propri clienti per sviluppare un modello finanziario comune, ma senza che né le altre banche partecipanti, né i gestori del processore remoto possano carpire alcuna informazione sui dati dei loro clienti.
In un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Nature Communications, è stato dimostrato un protocollo di crittografia adattabile a piattaforme di crescente complessità e grandezza, che permette a più utenti di portare avanti un calcolo in comune mantenendo intatta la sicurezza dei loro dati e proteggendo tutti i dettagli del calcolo.
Questo è stato il risultato di una collaborazione scientifica nel campo di protocolli di computazione e crittografia quantistica tra la Sapienza Università di Roma, l’università La Sorbona di Parigi, il Centro Nazionale della Ricerca Scientifica (CNRS) francese e l’impresa VeriQloud.
Le piattaforme basate su stati di luce quantistica sono tra le principali candidate per la realizzazione di reti quantistiche densamente interconnesse, che possano mettere in comunicazione più utenti, sia tra di loro che con server dotati di potenza di calcolo. Infatti, le sue proprietà fisiche la rendono un sistema molto promettente per la trasmissione di informazioni su lunga distanza, come hanno dimostrato alcuni esperimenti di comunicazione quantistica tra stazioni terrestri e satelliti in orbita.
L’esperimento guidato da Fabio Sciarrino e condotto presso il Quantum Lab del Dipartimento di Fisica della Sapienza ha dimostrato, per la prima volta, un protocollo in cui due utenti elaborano un calcolo quantistico su un server distante, pur assicurando la totale sicurezza dei dati relativi al calcolo. La piattaforma sperimentale sfrutta fibre ottiche per collegare i clienti tra loro e con il server, dimostrando la sicurezza e l’efficacia del protocollo anche nel caso in cui i partecipanti al protocollo si trovino a distanza.
Il protocollo e la sua sicurezza sono stati ideati e dimostrati da gruppi di ricerca diretti da Elham Kashefi e Marc Kaplan ed affiliati rispettivamente all’Università La Sorbona di Parigi e all’azienda VeriQloud.
“Il nostro lavoro – commenta Beatrice Polacchi, dottoranda del team Quantum Lab – è la prima dimostrazione sperimentale di un protocollo sicuro di delegazione di calcolo quantistico che coinvolge più di un cliente, e costituisce pertanto un mattoncino per la costruzione di reti quantistiche più grandi e sicure.”
Un altro importante risultato di questa collaborazione è la possibilità di continuare su questa strada per dimostrare protocolli di computazione sempre più sicuri e investigare reti quantistiche di crescente dimensione e connettività.
“I nostri risultati – conclude Fabio Sciarrino, responsabile del Quantum Lab – motivano la ricerca volta ad identificare nuovi protocolli sicuri calcolo quantistico delegato e nuove architetture modulari per le reti quantistiche. Ci aspettiamo che questo lavoro fornirà uno stimolo significativo alla ricerca sulla futura realizzazione di un cloud quantistico”.
Questa linea di ricerca è supportata dal programma europeo per la ricerca e l’innovazione “European Union’s Horizon 2020” attraverso il progetto FET “PHOQUSING”: www.phoqusing.eu.
Riferimenti bibliografici:
Multi-client distributed blind quantum computation with the Qline architecture – Beatrice Polacchi, Dominik Leichtle, Leonardo Limongi, Gonzalo Carvacho, Giorgio Milani, Nicolò Spagnolo, Marc Kaplan, Fabio Sciarrino & Elham Kashefi – Nature Communications 14, 7743 (2023). https://doi.org/10.1038/s41467-023-43617-0
A Milano-Bicocca e Politecnico un ERC Synergy Grant per il progetto NEMESIS sui metodi numerici di nuova generazione per le sfide della sostenibilità
Il progetto di ricerca internazionale NEMESIS è stato finanziato per quasi 8 milioni di Euro dal programma Europeo per 6 anni. Coinvolti anche l’Università di Montpellier e il Centre National de la Recherche Scientifique
Milano, 26 ottobre 2023 – Sviluppare metodi numerici di nuova generazione per le sfide tecnologiche del XXI secolo, principalmente sul fronte della sostenibilità. È l’obiettivo su cui si fonda NEMESIS (NEw GEneration MEthods for Numerical SImulationS), progetto di ricerca internazionale, che coinvolge l’Università di Milano-Bicocca e il Politecnico di Milano, al quale è stato assegnato oggi dal Consiglio europeo della ricerca (ERC) uno dei 37 Synergy Grant. Le proposte arrivate sono state in tutto 395. Gli ERC Synergy Grant finanziano ricerche condotte su tematiche ambiziose e complesse tali da richiedere la creazione di un intero gruppo, da due a quattro ricercatori che agiscono in forte sinergia.
Il team di ricercatori formato da Lourenco Beirao da Veiga, professore di Analisi Numerica all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Paola F. Antonietti, professoressa di Analisi Numerica e Responsabile del Laboratorio di Modellistica e Calcolo Scientifico MOX del Dipartimento di Matematica del Politecnico di Milano, Daniele A. Di Pietro, professore di Analisi numerica all’Università di Montpellier e Jérôme Droniou, direttore di Ricerca al CNRS – Centre National de la Recherche Scientifique, ha ricevuto 7,8 milioni di euro per una durata di 6 anni.
Il progetto NEMESIS si colloca nell’ambito della matematica applicata e computazionale e si propone di sviluppare una nuova generazione di metodi numerici, partendo dai fondamenti teorici fino alla loro implementazione computazionale. Affronta inoltre la sfida di validare il loro utilizzo in applicazioni rilevanti in tema di sostenibilità come la geofisica (ad esempio nella mitigazione degli effetti delle attività antropiche nel sottosuolo e nei problemi di transizione energetica) e i processi manifatturieri avanzati.
Nello specifico, un metodo numerico sarà in grado di simulare i rischi sismici e per l’ambiente legati alle operazioni di stoccaggio – passato e futuro – della CO2 nel sottosuolo, indicando possibili movimenti tellurici o infiltrazioni di sostanze inquinanti di un dato territorio sottoposto a questo processo. Un’altra applicazione, sul versante della Industria 4.0, potrà riguardare i sistemi di estrazione dell’alluminio tramite fusione (smelting). I modelli matematici saranno in grado di simulare fasi di produzione del metallo dalla bauxite a basso impatto ambientale.
Questa metodologia, rispetto alle precedenti avrà una migliore capacità di approssimazione dei dati e del dominio geometrico, permetterà l’integrazione diretta di leggi fisiche specifiche nell’ambito numerico, consentendo di rispecchiare la reale struttura del problema fisico in esame, e sarà più efficiente nell’elaborazione computazionale.
«Il finanziamento del progetto NEMESIS – spiega Guido Angelo Cavaletti, Prorettore alla Ricerca dell’Università di Milano-Bicocca – che permetterà un importante miglioramento nella gestione delle complesse sfide che ci attendono nel campo della sostenibilità, rappresenta una ulteriore dimostrazione di come solo un lavoro di squadra che coinvolga ricercatori con diverse competenze, anche appartenenti a Enti diversi, possa affrontare tematiche così rilevanti, Questo approccio collaborativo e multidisciplinare che caratterizza da sempre l’Università di Milano-Bicocca è stato ancora una volta vincente».
«Il progetto NEMESISè il secondo Synergy Grant vinto dal Politecnico di Milano – afferma Alberto Guadagnini, Vicerettore alla Ricerca del Politecnico di Milano – e affronta tematiche affascinanti e di importanza critica nell’ambito dello sviluppo sostenibile. È un risultato unico, che consolida la capacità dell’Ateneo di condurre ricerca dieccellenza e di avanguardia in importanti contesti scientifici internazionali».
Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca
A NOVE MESI I BAMBINI IMPARANO LA GRAMMATICA DALLA PROSODIA, CIO LA MELODIA DEL PARLATO
Pubblicato su Science Advances lo studio congiunto dei ricercatori delle Università di Padova e Barcellona che rivela come i bambini siano in grado di iniziare a imparare la grammatica della lingua molto prima di quanto si pensasse finora, già a nove mesi, e lo fanno prestando attenzione alla prosodia, cioè la melodia del linguaggio.
Il linguaggio umano ha un’incredibile forza espressiva. Ciò è dovuto alla nostra abilità di pronunciare frasi lunghe e complesse in cui le parole che sono correlate insieme possono essere talvolta molto distanti tra loro. Ad esempio comprendiamo benissimo che nella frase “Lei dorme bene”, “Lei” è il soggetto di “dorme”, ma è altrettanto vero che capiamo lo stesso legame nella frase “Lei, che non beve caffè, dorme bene” in cui le parole “Lei” e “dorme” sono separate da altre.
Gli adulti sono esperti con la lingua perciò non ci sorprende affatto che possano facilmente capire e produrre frasi come queste. Ma come funziona per i bambini molto piccoli, quelli che stanno appena imparando la lingua? Come fa il loro cervello a trovare le regolarità tra parole che sono separate da altre in una frase? Dato che ci sono infinite possibili parole che potrebbero star bene insieme, sembra un compito davvero arduo quello di tenere traccia di tutte le possibilità.
Fino ad ora i ricercatori pensavano che i bambini fossero in grado di imparare le relazioni tra parole distanti soltanto dopo il primo anno di età, cioè dopo aver iniziato a parlare. Un recente studio dal titolo “Prosodic cues enhance infants’ sensitivity to nonadjacent regularities”, pubblicato sulla rivista «Science Advances», dimostra invece che i bambini sono in grado di imparare queste relazioni già a nove mesi.
La ricerca, condotta da Ruth de Diego Balaguer e Ferran Pons dell’Istituto di Neuroscienze dell’Università di Barcellona, in collaborazione con Anna Martinez-Alvarez e Judit Gervain, dell’Università di Padova e del CNRS di Parigi, mostra come il cervello sia già sensibile a queste regolarità all’età di 9 mesi. La pubblicazione suggerisce che i bambini siano in grado di risolvere questo compito principalmente ascoltando molto attentamente la prosodia, cioè la melodia del linguaggio. Attraverso le osservazioni del loro comportamento e monitorando le risposte cerebrali i ricercatori hanno notato che quando le parole, tra loro dipendenti, venivano pronunciate con una tonalità più alta – marcate cioè con l’intonazione – i bambini riuscivano a capire meglio le dipendenze tra le parole distanti.
«Lo studio suggerisce – dice Judit Gervain del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova – che i bambini siano in grado di iniziare a imparare la grammatica della lingua molto prima di quanto si pensasse finora, e che lo fanno prestando attenzione alla sonorità del linguaggio.
Judit Gervain
Gli autori hanno esaminato la sensibilità di bambini di 9 mesi alle dipendenze non adiacenti, quindi alle dipendenze come quella tra il soggetto “I bambini” e il verbo “giocano” in una frase come “I bambini della vicina di mia nonna giocano nel giardino”, dove il soggetto e il verbo sono separati da altre parole. Invece di usare una vera lingua, i ricercatori hanno creato una lingua inventata, composta di sequenze trisillabiche secondo la struttura AXB, in cui le sillabe A e B predicevano l’uno l’altro, mentre X variava ogni volta, per esempio “petabu” oppure “pegobu”. Non solo, hanno modulato la stessa lingua inventata in due varianti: la prima in cui le sillabe contenenti le dipendenze avevano una modulazione più acuta (intonata), l’altra in cui l’intonazione era identica in tutte le sillabe (monotona).
Per misurare le risposte in modo non invasivo, i ricercatori hanno impiegato la spettroscopia nel vicino infrarosso (near-infrared spectroscopy – NIRS). Questa tecnica analizza il modo in cui la luce infrarossa viene riflessa, che dipende dai cambiamenti nel consumo di ossigeno nel flusso sanguigno, per rilevare quali aree cerebrali rispondono alle diverse condizioni sperimentali.
Quando ai bambini veniva presentato un linguaggio monotono, cioè senza alcuna modulazione dell’intonazione, il loro cervello dimostrava un livello ridotto di apprendimento della dipendenza non adiacente. Quando invece la stessa frase veniva proposta nella lingua intonata, in particolare con una tonalità più alta che evidenziava le sillabe A e B collegate tra loro, le risposte neurali indicavano che i bambini erano in grado di imparare le dipendenze.
Questa selettività di recepimento delle dipendenze, attraverso la melodia, permette ai bambini piccoli di imparare la lingua in modo efficiente già prima del loro primo compleanno e che già, in tenerissima età, sono dotati di potenti meccanismi di apprendimento.
Questo studio indica che se una rudimentale sensibilità alle regolarità non-adiacenti potrebbe essere presente già a 9 mesi, un apprendimento robusto e affidabile può essere raggiunto a questa età solo quando sono presenti informazioni melodiche che aiutano il cervello dei bambini a rilevare le parole che costituiscono una dipendenza non-adiacente.
Questi risultati gettano luce sulla comprensione del ruolo della prosodia nell’acquisizione del linguaggio e forniscono evidenza dell’impatto cruciale che hanno i cambiamenti anche sottili di intonazione nel processamento di informazioni statistiche nei bambini molto piccoli.
A nove mesi i bambini imparano la grammatica dalla prosodia. Foto di Lisa Runnels
Autori: Anna Martinez-Alvarez, Judit Gervain, Elena Koulaguina, Ferran Pons, Ruth de Diego-Balaguer
Testo e immagini (ove non indicato diversamente) dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova sullo studio congiunto che dimostra come a nove mesi i bambini imparino la grammatica dalla prosodia.
GHIACCIAI MINACCIATI DAL CLIMA: SCIENZIATI A 4100 METRI PER SALVARE LA ‘MEMORIA’ DEL GRAND COMBIN
Ghiacciai minacciati dal clima: foto di archivio dalla ricognizione sul Grand Combin del 2018. Credit: Riccardo Selvatico per Cnr e Università Ca’ Foscari Venezia
ICE MEMORY: STOP ALLA MISSIONE SUL GRAN COMBIN
GHIACCIAIO DIFFICILE, SCIENZIATI RIENTRATI
VENEZIA, 21 Settembre 2020 – Dopo tre tentativi interrotti a una ventina di metri di profondità, il team italo-svizzero di scienziati del programma Ice Memory ha dovuto lasciare questa mattina il campo sul massiccio del Grand Combin. I ricercatori hanno operato per una settimana a 4.100 metri di quota sul ghiacciaio Corbassiere. Giorni di temperature elevate, con massime sempre sopra lo zero, hanno reso più difficile del previsto l’estrazione dei campioni di ghiaccio.
Il team sul ghiacciaio era composto da 6 glaciologi e paleoclimatologi dell’Istituto di Scienze Polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp), dell’Università Ca’ Foscari Venezia e del centro di ricerca svizzero Paul Scherrer Institut (Psi). Con loro una guida alpina e a valle, nel borgo aostano di Ollomont, un ricercatore a supporto.
In due punti gli scienziati hanno incontrato una transizione inaspettata, probabilmente delle ‘lenti’ di ghiaccio molto resistenti, che hanno bloccato e anche danneggiato il carotatore. Determinati a portare a termine la missione, grazie al supporto a valle, erano riusciti a far trasportare riparare in una notte la strumentazione nel laboratorio del costruttore, nei pressi di Berna.
Nel fine settimana il terzo tentativo, spostato a una decina di metri dai precedenti, si è arrestato ancora una volta attorno ai 20 metri, determinando lo ‘stop’ alle operazioni, suggerito anche dalle previsioni di instabilità meteo che avrebbero reso difficile per i prossimi giorni un rientro a valle in sicurezza.
Rinviato a una futura missione, dunque, l’obiettivo di prelevare tre carote di ghiaccio, veri e propri archivi della storia climatica della regione alpina da analizzare e conservare per le prossime generazioni di scienziati.
“L’acqua ha complicato le operazioni. Non ci aspettavamo di trovare il ghiacciaio in queste condizioni – afferma Carlo Barbante, direttore dell’Istituto di Science polari del Cnr e docente all’Università Ca’ Foscari Venezia – dovremo cambiare metodo di perforazione, sperando di non essere arrivati troppo tardi e di riuscire per la prima volta ad estrarre una carota di ghiaccio completa dal Grand Combin, in un’area in cui la calotta raggiunge i 70 metri di profondità”.
Negli ultimi 170 anni il ghiacciaio Corbassiere ha perso circa un terzo della sua area, con un arretramento della lingua glaciale di circa 3,5 chilometri.
Parte dei campioni che gli scienziati volevano prelevare era destinato alla ‘biblioteca dei ghiacci’ che il programma internazionale Ice Memory creerà in Antartide. Ice Memory è una corsa contro il tempo per portare al sicuro questi archivi, mettendoli a disposizione delle future generazioni di scienziati.
Comprendere il clima e l’ambiente del passato permette di anticipare i cambiamenti futuri. I ghiacciai montani conservano la memoria del clima e dell’ambiente dell’area in cui si trovano, ma si stanno ritirando inesorabilmente a causa del riscaldamento globale, ponendo questo inestimabile patrimonio scientifico in pericolo.
Quella sul Grand Combin è stata la prima di una serie di spedizioni finanziate dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (con il Fondo Integrativo Speciale per la Ricerca, Fisr) che proseguirà con i ghiacciai italiani del Monte Rosa, Marmolada, Montasio e Calderone.
Per gli aggiornamenti provenienti dai ricercatori sul campo: Facebook e Twitter.
Il team: Margit Schwikowski (team leader, Psi), Theo Jenk (Psi), Thomas Singer (Psi), Jacopo Gabrieli (Cnr/Ca’ Foscari), Fabrizio de Blasi (Cnr/Ca’ Foscari), Rachele Lodi (Cnr/Ca’ Foscari), Paolo Conz (guida alpina). Al campo base i ricercatori di Cnr e Ca’ Foscari: Federico Dallo (Cnr/Ca’ Foscari).
VENEZIA – Un team italo-svizzero di scienziati è salito la mattina del 14 Settembre sul massiccio del Grand Combin, a 4.100 metri di quota, per estrarre dal ghiacciaio Corbassiere due campioni (carote di ghiaccio) da destinare alla ‘biblioteca dei ghiacci’ che il programma internazionale Ice Memory creerà in Antartide. Ice Memory è una corsa contro il tempo per portare al sicuro questi archivi, mettendoli a disposizione delle future generazioni di scienziati.
Comprendere il clima e l’ambiente del passato permette di anticipare i cambiamenti futuri. I ghiacciai montani conservano la memoria del clima e dell’ambiente dell’area in cui si trovano, ma si stanno ritirando inesorabilmente a causa del riscaldamento globale, ponendo questo inestimabile patrimonio scientifico in pericolo.
Negli ultimi 170 anni il ghiacciaio Corbassiere ha perso circa un terzo della sua area, con un arretramento della lingua glaciale di circa 3,5 chilometri.
Sul ghiacciaio del Grand Combin vivranno e opereranno per circa due settimane 6 glaciologi e paleoclimatologi dell’Istituto di Scienze Polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp), dell’Università Ca’ Foscari Veneziae del centro di ricerca svizzero Paul Scherrer Institut (Psi). Le buone condizioni meteo saranno fondamentali per la riuscita dell’impresa: sarà possibile evacuare solo in elicottero. Saranno supportati dai colleghi che seguiranno la missione dal campo base nel borgo aostano di Ollomont.
L’obiettivo è estrarre tre carote di ghiaccio profonde 80 metri e del diametro di 7,5 centimetri. Si tratterà dei primi campioni completi del ghiacciaio del Grand Combin. Due verranno conservate per il futuro nell’archivio creato appositamente nella stazione Concordia sul plateau antartico, l’altra sarà analizzata nei laboratori congiunti di Ca’ Foscari e Cnr a Venezia ed al Psi.
Ghiacciai minacciati dal clima: foto di archivio dalla ricognizione sul Grand Combin del 2018. Credit: Riccardo Selvatico per Cnr e Università Ca’ Foscari Venezia
Quella sul Grand Combin è la prima di una serie di spedizioni finanziate dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (con il Fondo Integrativo Speciale per la Ricerca, Fisr) che proseguirà con i ghiacciai italiani del Monte Rosa, Marmolada, Montasio e Calderone.
Per gli aggiornamenti provenienti dai ricercatori sul campo: Facebook e Twitter.
Parteciperanno alla spedizione: Margit Schwikowski (team leader, Psi), Theo Jenk (Psi), Thomas Singer (Psi), Jacopo Gabrieli (Cnr/Ca’ Foscari), Fabrizio de Blasi (Cnr/Ca’ Foscari), Rachele Lodi (Cnr/Ca’ Foscari), Paolo Conz (guida alpina). Al campo base i ricercatori di Cnr e Ca’ Foscari: Federico Dallo (Cnr/Ca’ Foscari).
La scienza delle “carote di ghiaccio”
Foto di archivio dalla ricognizione sul Grand Combin del 2018. Credit: Riccardo Selvatico per Cnr e Università Ca’ Foscari Venezia
Analizzando le bolle d’aria che la neve accumula strato dopo strato sul ghiacciaio nel corso dei secoli, gli scienziati sono oggi in grado di identificare le tracce dell’evoluzione delle temperature e delle concentrazioni di composti chimici. Si tratta di analisi impensabili pochi decenni fa. Per questo, la missione di Ice Memory ha lo scopo di assicurare campioni di qualità agli scienziati che, tra qualche decennio, avranno nuovi metodi e tecnologie a disposizione per analizzarli.
Foto di archivio dalla ricognizione sul Grand Combin del 2018. Credit: Riccardo Selvatico per Cnr e Università Ca’ Foscari Venezia
“Per comprendere meglio la risposta del clima della terra alle continue emissioni e quindi intraprendere concrete azioni di mitigazione ed adattamento, è essenziale guardare al passato – spiegano i ricercatori – È necessario, infatti, capire come il clima abbia reagito alla naturale ciclicità delle variazioni dei gas serra. Grazie alle carote di ghiaccio è possibile ricostruire questa ciclicità”.
L’esempio emblematico è quello della carota del progetto europeo EPICA estratta in Antartide e lunga oltre 3000 metri, che ha permesso di ricostruire la storia del clima della terra negli ultimi 740.000 anni riconoscendo i cicli glaciali e interglaciali che si sono susseguiti nel tempo. Particolari carote estratte dai ghiacci alpini, per esempio sul Monte Rosa e sull’Ortles, hanno permesso di ricostruire l’evoluzione del clima fino a oltre 5000 anni fa nonostante le inferiori profondità di perforazione (70 – 80 metri).
Foto di archivio dalla ricognizione sul Grand Combin del 2018. Credit: Riccardo Selvatico per Cnr e Università Ca’ Foscari Venezia
Ice Memory
Ice Memory è un programma internazionale che ha l’obiettivo di fornire, per le decadi e i secoli a venire, archivi e dati sulla storia del clima e dell’ambiente fondamentali sia per la scienza sia per ispirare le politiche per la sostenibilità e il benessere dell’umanità. Ice Memory ambisce a federare le comunità internazionali scientifica e istituzionale per creare in Antartide un archivio di carote di ghiaccio dai ghiacciai attualmente in pericolo di ridursi o scomparire. Gli scienziati sono convinti che questo ghiaccio contenga informazioni di valore tale da richiedere attività di ricerca anche su campioni di ghiacciai scomparsi.
Foto di archivio dalla ricognizione sul Grand Combin del 2018. Credit: Riccardo Selvatico per Cnr e Università Ca’ Foscari Venezia
Per Ice Memory, quella sul Grand Combin è la seconda missione sui ghiacciai alpini dopo quella del 2016 sul Monte Bianco. Altre spedizioni internazionali hanno permesso di mettere al sicuro gli archivi dei ghiacciai Illimani (Bolivia), Belukha e Elbrus (Russia).
Ice Memory è un programma congiunto tra Università Grenoble Alpes, Università Ca’ Foscari Venezia, Istituto nazionale francese per le ricerche sullo sviluppo sostenibile (Ird), Cnrs, Cnr, e con Istituto polare francese (Ipev) e Programma nazionale per le ricerche in Antartide (Pnra) per quanto riguarda le attività alla stazione Concordia in Antartide. Ice Memory ha il patrocinio delle commissioni italiana e francese dell’Unesco.
Ghiacciai minacciati dal clima: foto di archivio dalla ricognizione sul Grand Combin del 2018. Credit: Riccardo Selvatico per Cnr e Università Ca’ Foscari Venezia
Testo, immagini e video dall’Ufficio Comunicazione Università Ca’ Foscari Venezia sui ghiacciai minacciati dal clima e gli scienziati a 4100 metri per salvare la ‘memoria’ del Grand Combin.
Ghiacciai minacciati dal clima: foto di archivio dalla ricognizione sul Grand Combin del 2018. Credit: Riccardo Selvatico per Cnr e Università Ca’ Foscari Venezia
Onde gravitazionali: le nuove sensazionali scoperte del team internazionale di ricercatori Virgo e LIGO
Il ruolo degli scienziati UNIPG
Helios Vocca e Roberto Rettori
Si è svolta oggi presso il Rettorato dell’Università degli Studi di Perugia la conferenza stampa di presentazione ai giornalisti umbri delle nuove, sensazionali scoperte scientifiche realizzate dai ricercatori dei progetti Virgo e LIGO.
Helios Vocca e Roberto Rettori
All’incontro con i giornalisti – realizzato in contemporanea con l’omologo evento internazionale che ha visto collegati i vari gruppi di ricerca in modalità streaming – erano presenti i professori Helios Vocca, Delegato del Rettore per il settore Ricerca, Valutazione e Fund-raising e Roberto Rettori, Delegato del Rettore per il settore Orientamento, Tutorato e Divulgazione scientifica, insieme a numerosi Delegati Rettorali e Direttori dei Dipartimenti dello Studium.
I ricercatori dei progetti Virgo e LIGO hanno annunciato l’osservazione della fusione di un sistema binario di massa straordinariamente grande: due buchi neri di 66 e 85 masse solari, hanno prodotto alla fine un buco nero di circa 142 masse solari. Il buco nero finale è il più massiccio rivelato finora per mezzo delle onde gravitazionali. Si trova in una regione di massa entro cui non è mai stato osservato prima un buco nero, né con onde gravitazionali né con osservazioni elettromagnetiche, e potrebbe servire a spiegare la formazione dei buchi neri supermassicci. Inoltre, il componente più pesante del sistema binario iniziale si trova in un intervallo di massa proibito dalla teoria dell’evoluzione stellare e rappresenta una sfida per la nostra comprensione degli stadi finali della vita delle stelle massicce.
Helios Vocca
“Il risultato di oggi è per noi fonte di enorme soddisfazione – dichiara il professore Helios Vocca, responsabile del gruppo Virgo Perugia – perché si tratta di una nuova scoperta realizzata grazie ad un detector che è frutto anche del lavoro realizzato dal gruppo Virgo Perugia in trent’anni di attività: un impegno, quello del team perugino, che è stato ampiamente riconosciuto a livello internazionale e che ci vede coinvolti nel management sia del progetto Virgo, sia del nuovo esperimento giapponese ‘Kagra’, guidato da Takaaki Kajita, premio Nobel per la Fisica nel 2015 e laureato honoris causa del nostro Ateneo. Del nostro gruppo, inoltre – aggiunge Vocca – fa parte anche il dottor Michele Punturo, della sezione INFN di Perugia, attualmente Principal Investigator dell’esperimento ‘Einstein Europe’, il futuro detector europeo per le onde gravitazionali.
Il team di Perugia possiede competenze uniche al mondo – spiega il professor Vocca – in particolare sulle sospensioni degli specchi degli interferometri. In virtù di questa altissima specializzazione, stiamo lavorando insieme ad altri colleghi di vari Paesi europei e giapponesi per creare un laboratorio internazionale proprio a Perugia o comunque in Umbria, al fine di sfruttare le ricadute tecnologiche dei rilevatori di onde gravitazionali in altri settori, quali ad esempio quello del rischio sismico, affinché le avanzatissime tecnologie utilizzate nello spazio servano al miglioramento della vita dei cittadini.
Il tutto, inoltre, – conclude il professor Helios Vocca – avrà un’importante valenza per i nostri studenti: stiamo infatti puntando a costruire, in questo ambito scientifico, un’offerta didattica innovativa interuniversitaria, ovvero corsi di laurea realizzati in partnership con altri Atenei del centro-Italia, per dar vita a una ‘scuola’ che sia davvero unica persino a livello internazionale”.
Roberto Rettori
“In questo periodo di emergenza, nel rispetto delle direttive ministeriali, l’Università degli Studi di Perugia non ha mai interrotto né l’attività didattica né quella di ricerca – ha sottolineato il professore Roberto Rettori -. L’esperimento Virgo, che per l’unità di Perugia è coordinato dal professor Helios Vocca del Dipartimento di Fisica e Geologia, ne è una chiara dimostrazione.
I risultati che i nostri eccellenti ricercatori ottengono in tutte le discipline, permettono al nostro Ateneo di crescere e sempre di più diventare un punto di riferimento in Italia e nel mondo, promuovendo quindi Perugia e il suo territorio. Attraverso le numerose iniziative di divulgazione della ricerca che stiamo organizzando in tutta la regione, l’Università degli Studi di Perugia esce dalle sue mura, arriva alla popolazione e diventa suo patrimonio da difendere e valorizzare. Ringrazio il Magnifico Rettore, Professore Maurizio Oliviero, per il supporto costante che offre a tali iniziative nonché tutti i colleghi per il loro lavoro. L’Ateneo di Perugia è soprattutto il luogo accogliente della conoscenza dove i giovani possono realizzare le loro passioni e costruire il loro futuro”.
La Sala Dessau all’Università di Perugia
Perugia, 2 settembre 2020
Virgo e LIGO svelano nuove e inattese popolazioni di buchi neri
Helios Vocca e Roberto Rettori
Virgo e LIGO hanno annunciato l’osservazione della fusione di un sistema binario di massa straordinariamente grande: due buchi neri di 66 e 85 masse solari, hanno prodotto alla fine un buco nero di circa 142 masse solari. Il buco nero finale è il più massiccio rivelato finora per mezzo delle onde gravitazionali. Si trova in una regione di massa entro cui non è mai stato osservato prima un buco nero, né con onde gravitazionali né con osservazioni elettromagnetiche, e potrebbe servire a spiegare la formazione dei buchi neri supermassicci. Inoltre, il componente più pesante del sistema binario iniziale si trova in un intervallo di massa proibito dalla teoria dell’evoluzione stellare e rappresenta una sfida per la nostra comprensione degli stadi finali della vita delle stelle massicce.
Gli scienziati delle collaborazioni internazionali che sviluppano e utilizzano i rivelatori Advanced Virgo presso lo European Gravitational Observatory (EGO) in Italia e i due Advanced LIGO negli Stati Uniti hanno annunciato l’osservazione di un buco nero di circa 142 masse solari, che è il risultato finale della fusione di due buchi neri di 66 e 85 masse solari. I componenti primari e il buco nero finale si trovano tutti in un intervallo di massa mai visto prima, né con onde gravitazionali né con osservazioni elettromagnetiche. Il buco nero finale è il più massiccio rivelato finora per mezzo di onde gravitazionali. L’evento di onda gravitazionale è stato osservato dai tre interferometri della rete globale il 21 maggio 2019. Il segnale (chiamato GW190521) è stato analizzato dagli scienziati, che stimano che la sorgente disti circa 17 miliardi di anni luce dalla Terra. Due articoli scientifici che riportano la scoperta e le sue implicazioni astrofisiche sono stati pubblicati oggi su Physical Review Letters e Astrophysical Journal Letters,
rispettivamente.
“Il segnale osservato il 21 maggio dello scorso anno è molto complesso e, dal momento che il sistema è così massiccio, lo abbiamo osservato per un tempo molto breve, circa 0.1 s”, dice Nelson Christensen, directeur de recherche CNRS presso ARTEMIS a Nizza in Francia e membro della Collaborazione Virgo. “Non assomiglia molto ad un sibilo che cresce rapidamente in frequenza, che è il tipo di segnale che osserviamo di solito: assomiglia piuttosto ad uno scoppio, e corrisponde alla massa più alta mai osservata da LIGO e Virgo.” Effettivamente, l’analisi del segnale – basata su una potente combinazione di modernissimi modelli fisici e di metodi di calcolo – ha rivelato una gran quantità di informazione su diversi stadi di questa fusione davvero unica.
Questa scoperta è senza precedenti non solo perché stabilisce il record di massa tra tutte le osservazioni fatte finora da Virgo e LIGO ma anche perché possiede altre caratteristiche speciali. Un aspetto cruciale, che ha attratto in particolare l’attenzione degli astrofisici, è che il residuo finale appartiene alla classe dei cosiddetti “buchi neri di massa intermedia” (da cento a centomila masse solari). L’interesse verso questa popolazione di buchi neri è collegato ad uno degli enigmi più affascinanti e intriganti per astrofisici e cosmologi: l’origine dei buchi neri supermassicci. Questi mostri giganteschi, milioni di volte più pesanti del Sole e spesso al centro delle galassie, potrebbero essere il risultato della fusione di buchi neri di massa intermedia.
Fino ad oggi, pochissimi esempi di questa categoria sono stati identificati unicamente per mezzo di osservazioni elettromagnetiche, e il residuo finale di GW190521 è la prima osservazione di questo genere per mezzo di onde gravitazionali. Ed è di interesse ancora maggiore, visto che si trova nella regione tra 100 e 1000 masse solari, che ha rappresentato per molti anni una specie di “deserto dei buchi neri”, a causa della scarsità di osservazioni in questo intervallo di massa.
I componenti e la dinamica della fusione del sistema binario che ha prodotto GW190521 offrono spunti astrofisici straordinari. In particolare, il componente più massiccio rappresenta una sfida per i modelli astrofisici che descrivono il collasso in buchi neri delle stelle più pesanti, quando queste arrivano alla fine della loro vita. Secondo questi modelli, stelle molto massicce vengono completamente distrutte dall’esplosione di supernova, a causa di un processo chiamato “instabilità di coppia”, e si lasciano dietro solo gas e polveri cosmiche. Perciò gli astrofisici non si aspetterebbero di osservare alcun buco nero nell’intervallo di massa tra 60 e 120 masse solari: esattamente dove si trova il componente più massiccio di GW190521. Quindi, questa osservazione apre nuove prospettive nello studio delle stelle massicce e dei meccanismi di supernova.
“Parecchi scenari predicono la formazione di buchi neri nel cosiddetto intervallo di massa di instabilità di coppia: potrebbero risultare dalla fusione di buchi neri più piccoli o dalla collisione multipla di stelle massicce o addirittura da processi più esotici”, dice Michela Mapelli, professore presso l’Università di Padova, e membro dell’INFN Padova e della Collaborazione Virgo. “Comunque, è possibile che si debba ripensare la nostra attuale comprensione degli stadi finali della vita di una stella e i conseguenti vincoli di massa sulla formazione dei buchi neri. In ogni caso, GW190521 è un importante contributo allo studio della formazione dei buchi neri.”
Infatti, l’osservazione di GW190521 da parte di Virgo e LIGO porta la nostra attenzione sull’esistenza di popolazioni di buchi neri che non sono mai stati osservati prima o sono inattesi, e in tal modo solleva nuove intriganti domande sui meccanismi con cui si sono formati. A dispetto del segnale insolitamente breve, che limita la nostra capacità di dedurre le proprietà astrofisiche della sorgente, le analisi più avanzate e i modelli attualmente disponibili suggeriscono che i buchi neri iniziali avessero alti valori di spin, o in altre parole che avessero un’elevata velocità di rotazione.
“Il segnale mostra segni di precessione, una rotazione del piano orbitale prodotta da spin elevati e con un’orientazione particolare”, nota Tito Dal Canton, ricercatore del CNRS presso IJCLab ad Orsay, Francia, e membro della Collaborazione Virgo, “L’effetto è debole e non possiamo esserne certi del tutto, ma se fosse vero darebbe forza all’ipotesi che i buchi neri progenitori siano nati e vissuti in un ambiente cosmico molto dinamico e affollato, come un ammasso stellare denso o il disco di accrescimento di un nucleo galattico attivo.”
Parecchi scenari diversi sono compatibili con questi risultati e anche l’ipotesi che i progenitori della fusione possano essere buchi neri primordiali non è stata scartata dagli scienziati. Effettivamente, noi stimiamo che la fusione abbia avuto luogo 7 miliardi di anni fa, un tempo vicino alle epoche più
antiche dell’Universo.
Rispetto alle precedenti osservazioni di onde gravitazionali, il segnale di GW190521 è molto breve e più difficile da analizzare. La complessa natura di questo segnale ci ha spinto a considerare anche altre sorgenti più esotiche, e queste possibilità sono descritte in un altro articolo che accompagna quello della scoperta. La fusione di un sistema binario di buchi neri resta però l’ipotesi più
probabile.
“Le osservazioni portate avanti da Virgo e LIGO illuminano l’universo oscuro e definiscono un nuovo panorama cosmico”, dice Giovanni Losurdo, che guida Virgo ed è dirigente di ricerca presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare in Italia, “E oggi, ancora una volta, annunciamo una scoperta senza precedenti. Continuiamo a migliorare i nostri strumenti per aumentare la loro performance e
per vedere sempre più a fondo nell’Universo.”
Informazioni aggiuntive sugli osservatori di onde gravitazionali:
La Collaborazione Virgo è composta attualmente da circa 580 membri provenienti da 109 istituzioni in 13 diversi paesi, che comprendono Belgio, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Olanda, Polonia, Portogallo, Spagna e Ungheria. Lo European Gravitational Observatory (EGO) che ospita il rivelatore Virgo si trova vicino a Pisa in Italia ed è finanziato dal Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) in Francia, dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) in Italia, e dal Nikhef in Olanda. Una lista dei gruppi della Collaborazione Virgo è disponibile al link http://public.virgo-gw.eu/the-virgo-collaboration/ . Ulteriori informazioni sono disponibili sul sito web di Virgo http://www.virgo-gw.eu
.LIGO è finanziato dalla National Science Foundation (NSF) e la sua operatività dipende da Caltech e MIT, che hanno concepito e guidato il progetto. Il sostegno finanziario per il progetto Advanced LIGO è venuto dall’NSF, con significativi impegni e contributi da parte tedesca (Max Planck Society), inglese (Science and Technology Facilities Council) e australiana (Australian Research Council-OzGrav). Circa 1300 scienziati di tutto il mondo partecipano all’impresa scientifica della Collaborazione LIGO, che include anche la Collaborazione GEO. Una lista di altri partners è disponibile al link https://my.ligo.org/census.php
.
I RICERCATORI DI PERUGIA A CACCIA DELLE ONDE GRAVITAZIONALI
Un’esperienza ventennale nella descrizione teorica e nello sviluppo di tecnologie per osservare le onde gravitazionali che ha condotto anche a ricadute tecnologiche nel campo delle energie rinnovabili.
Helios Vocca e Roberto Rettori
Il gruppo di scienziati di Perugia che lavora all’esperimento Virgo per la rivelazione e lo studio di onde gravitazionali fa parte del Dipartimento di Fisica e Geologia dell’Università di Perugia e della Sezione di Perugia dell’INFN e da circa trent’anni si occupa de i rivelatori delle Onde Gravitazionali. Il gruppo si occupa per lo più di elabora re modelli teorici e tecniche sperimentali per studiare la dinamica dei sistemi fisici non lineari e in particolare p er lo studio del rumore. Si tratta cioè di conoscere le caratteristiche e saper limitare o utilizzare in modo efficiente tutte qu elle vibrazioni che popolano i fenomeni naturali, dalle vibrazioni delle molecole e degli atomi dovute alla temperatura alle vibrazioni macroscopiche che potrebbero disturbare la rivelazione dei segnali che arrivano dal cosmo e che l’esperimento Virgo rivela. Oltre a questo negli ultimi anni ha acquisito competenze di ottica quantistica, di data analisi e modelli stica della Relatività Generale per sistemi compatti.
Il gruppo di ricerca perugino attivo nell’esperimento Virgo è coordinato dal Prof. Helios Vocca (attualmente nel Management Team sia dell’esperimento europeo Virgo che dell’esperimento giapponese Kagra). Sono nel complesso 12, tra scienziati e tecnici, le persone del Dipartimento di Fisica e della Sezione di Perugia dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare che costituiscono il team coinvolto nell’osservazione e nell’analisi dei dati raccolti sulle onde gravitazionali; fra loro anche il Dott. Michele Punturo responsabile del gruppo di ricerca astroparticellare per la sezione INFN di Perugia e attualmente Principal Investigato dell’esperimento Einstein Telescope, futuro detector europeo per le Onde Gravitazionali.
Le abilità acquisite dal team perugino nello studio delle vibrazioni, da quelle microscopiche a quelle più grandi, ha consentito di apportare un contributo essenziale ai metodi utilizzati per istallare gli specchi e il complesso dei sistemi ottici, cuore dello strumento per l’osservazione delle onde gravitazionali: l’interferometro Virgo. Il rivelatore Virgo istallato a Cascina, nelle campagne poco fuori Pisa, è costituito da due lunghi tubi di tre chilometri l’uno, disposti perpendicolarmente tra loro a formare una elle. All’interno di questi tubi si fa il vuoto e viene fatto correre un raggio laser avanti e indietro attraverso un sistema di specchi. È proprio lo spostamento degli specchi al passaggio dell’onda gravitazionale che ne rileva la presenza. Di conseguenza è cruciale la realizzazione di queste parti dell’apparato. Attraverso una conoscenza accurata del rumore termico, ovvero delle vibrazioni degli atomi e delle molecole che costituisco i materiati di cui sono fatte le parti del rivelatore Virgo, il gruppo di Perugia ha fatto sì che il segnale delle onde gravitazionali non si confondesse con altri disturbi provenienti dall’ambiente. Il gruppo di Perugia si è occupato, sin dalla nascita del progetto Virgo, dello sviluppo del sistema per sospendere gli specchi all’interno delle torri dell’esperimento. Tale sistema è unico perché consente allo specchio di poter oscillare dissipando pochissima energia e quindi rendendolo estremamente sensibile alla rivelazione dei segnali gravitazionali. Il pendolo è costituito da sottilissimi fili prima di acciaio, ora di un particolare vetro: il quarzo fuso. Insieme ai fili è stato ideato e realizzato un sistema originale di ancoraggio degli specchi attraverso tecniche innovative d’incollaggio delle componenti del rivelatore sviluppate tra i laboratori di Perugia e quelli di Glasgow. Queste tecnologie sono alla base dell’aumento di sensibilità che caratterizza il cosiddetto Advanded Virgo.
Le abilità tecniche e le conoscenze teoriche acquisite in questi trent’anni dai fisici dell’Università di Perugia, coinvolti nel progetto Virgo, ha consentito al gruppo di entrare da protagonista anche nell’esperimento giapponese, Kagra (esperimento guidato da una vecchia conoscenza dell’Ateneo perugino, il Prof. Takaaki Kajita premio Nobel in Fisica nel 2015, al quale nel 2017 è stata riconosciuta la laurea Honoris Causa) trasferendo le proprie competenze alla collaborazione asiatica per la realizzazione delle sospensioni criogeniche in zaffiro delle ottiche del rivelatore.
Testi e foto dall’Ufficio Stampa Università di Perugia