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Sviluppato il più grande database di genomi microbici da alimenti, curatedFoodMetagenomicData: servirà per migliorarne qualità, sicurezza e sostenibilità; lo studio europeo del progetto MASTER è stato realizzato anche con il Dipartimento di Agraria della Federico II. Pubblicato ieri sulla rivista Cell.

Uno studio guidato anche dal Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II ha sviluppato un database fondamentale per la caratterizzazione degli alimenti da dati metagenomici, aprendo nuovi scenari per migliorare la qualità, la sicurezza e la sostenibilità degli alimenti.

Il database più vasto di metagenomi da alimenti è stato sviluppato dal progetto MASTER, finanziato dall’Unione Europa. Il relativo articolo scientifico intitolato “Unexplored microbial diversity from 2,500 food metagenomes and links with the human microbiome” è stato pubblicato il 29 agosto 2024 sulla rivista Cell.

Sviluppato il più grande database di genomi microbici da alimenti, curatedFoodMetagenomicData

La risorsa curatedFoodMetagenomicData (cFMD) rappresenta un database fondamentale per lo studio dei metagenomi (il termine che definisce il materiale genomico proveniente da tutti i microrganismi presenti in un ambiente) derivati dagli alimenti. Uno strumento che permetterà di affrontare sfide globali come lo spreco alimentare e la resistenza antimicrobica, aumentando al contempo la sicurezza alimentare attraverso lo studio dei microrganismi che caratterizzano un ambiente.

Il professore Danilo Ercolini, Direttore del Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II dichiara: “La disponibilità di un database così vasto, comprendente metagenomi e genomi da alimenti, rappresenterà una risorsa molto importante per studiare la presenza e il ruolo dei microrganismi negli alimenti e nei processi di lavorazione degli alimenti, con l’obiettivo finale di migliorarne la qualità, la sicurezza e la sostenibilità.” Il prof. Edoardo Pasolli dello stesso Dipartimento aggiunge: “cFMD sarà la base per lo sviluppo di database metagenomici da alimenti ancora più completi, che potranno essere integrati con particolari tipologie di alimenti o aree geografiche ancora poco rappresentante.”

Il coordinatore del progetto MASTER, il professore Paul Cotter (Teagasc, Irlanda) afferma: “cFMD è un grande database di dati metagenomici alimentari, rappresentativo di 15 categorie di alimenti provenienti da 50 paesi. cFMD contiene dati relativi a 3,600 specie microbiche diverse, di cui 290 sono specie nuove. È disponibile gratuitamente per poter essere utilizzato per studi sul microbioma e per applicazioni nell’industria alimentare. Ad esempio, per studiare la componente microbica lungo l’intera catena alimentare, studiare la diffusione di geni di resistenza agli antibiotici, rilevare microrganismi indesiderati e investigare la possibile trasmissione di microrganismi all’uomo. La disponibilità di cFMD rappresenta un importante sviluppo verso un futuro in cui il sequenziamento metagenomico potrebbe sostituire la microbiologia classica come strumento più accurato e rapido per il tracciamento dei microrganismi lungo la catena alimentare.”

Il professore Nicola Segata dell’Università di Trento aggiunge: “Questa risorsa è fondamentale anche per comprendere come il microbioma alimentare potrebbe influenzare la salute umana, poiché alcuni dei microrganismi che introduciamo con la dieta potrebbero diventare membri stabili del nostro microbioma. Abbiamo scoperto che le specie microbiche associate agli alimenti compongono circa il 3% del microbioma intestinale nella popolazione adulta, suggerendo che alcuni dei nostri microrganismi intestinali potrebbero essere acquisiti direttamente dal cibo, o che storicamente, le popolazioni umane abbiano ottenuto questi microbi dagli alimenti e poi questi microbi si siano adattati per diventare parte del microbioma umano. Gli alimenti sono quindi cruciali per la nostra salute anche per i microrganismi che forniscono al nostro microbioma.”

I microrganismi presenti negli alimenti possono avere sia un impatto positivo sulla produzione alimentare, come nel caso della produzione di formaggi e bevande alcoliche, sia un impatto negativo, come nel caso del deterioramento o delle malattie di origine alimentare. Fino a poco tempo fa, l’analisi di questi microrganismi si basava principalmente su approcci tradizionali. L’applicazione di metodi basati sul sequenziamento del DNA ha il potenziale di trasformare le analisi alimentari, consentendo analisi rapide e simultanee di tutti i microrganismi in parallelo, inclusi quelli difficili da coltivare.

Il database rappresenta un grande risultato per la ricerca sul microbioma negli alimenti. È stato reso possibile grazie al sequenziamento di circa 2000 campioni raccolti in aziende alimentari in tutta Europa, che aggiunti a collezioni globali esistenti ha portato l’analisi complessiva a 2500. La risorsa, ad accesso libero, faciliterà lo studio dei microrganismi alimentari a livello globale su larga scala, sia in ambito accademico che industriale.

 

Il Progetto MASTER

MASTER, acronimo di “Microbiome Applications for Sustainable food systems through Technologies and EnteRprise”, è un progetto finanziato dall’Unione Europea nell’ambito di Horizon 2020. Iniziato a gennaio 2019, ha visto il coinvolgimento di 29 partner con l’obiettivo di caratterizzare i microbiomi in diversi ambienti alimentari e non alimentari utilizzando tecnologie di sequenziamento innovative. Lo studio è stato guidato da team dell’Università di Napoli Federico II e dell’Università di Trento (Italia), in collaborazione con Teagasc (Irlanda), Consiglio Superiore di Ricerca Scientifica e Università di León (Spagna), MATIS (Islanda) e FFoQSI (Austria), in aggiunta a molti altri partner.

 

Riferimenti bibliografici:

Carlino et al., “Unexplored microbial diversity from 2,500 food metagenomes and links with the human microbiome”, Cell, DOI: 10.1016/j.cell.2024.07.039

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Rettorato Università degli Studi di Napoli Federico II.

Open-ST: un nuovo metodo per creare mappe accurate dei tessuti in 3D

Uno studio internazionale condotto da ricercatori della Sapienza in collaborazione con l’Istituto MDC di Berlino, l’Università degli Studi di Milano, finanziato dal MUR su fondi PNRR attraverso il Centro Nazionale per la terapia genica e farmaci RNA,  ha sviluppato “Open-ST”, un nuovo metodo per generare una mappa tridimensionale delle cellule di un tessuto e per identificare le interazioni molecolari. I risultati dello studio, pubblicato sulla rivista Cell, miglioreranno la comprensione della fisiologia dei tessuti e apporteranno nuove informazioni a supporto della medicina di precisione.

Riuscire a produrre una mappa dei tessuti potendo distinguere le singole cellule nelle tre dimensioni spaziali è un obiettivo di molte ricerche cliniche negli ambiti della patologia e della fisiologia. Per raggiungerlo occorre perfezionare i sistemi di analisi e mappatura dei campioni biologici e dei loro costituenti in modo da renderli sempre più precisi a livello di risoluzione, efficienti ed economici.

È questo lo scopo del nuovo sistema “Open Spatial Transcriptomics (Open-ST)”, sviluppato da una collaborazione scientifica tra ricercatori della Sapienza, dall’Institute for Medical Systems Biology di Berlino e dell’Università degli Studi di Milano – Istituto Fondazione Oncologia Molecolare, grazie anche a un finanziamento del Ministero dell’Università e della Ricerca nell’ambito del Centro Nazionale “Sviluppo di terapia genica e farmaci con tecnologia a RNA” su fondi dell’Unione Europea Next Generation EU – Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).

Questo nuovo approccio permette l’analisi tridimensionale dei trascritti, cioè delle molecole di RNA che trasmettono all’interno della cellula delle informazioni contenute nei geni.

Fino a pochi anni fa non era possibile compiere analisi molecolari dettagliate poiché le tecniche utilizzate permettevano di ottenere solo valori medi riferiti a un gran numero di molecole. A partire dall’ultimo decennio invece è stato possibile studiare gli aspetti di ciascuna cellula e dunque il loro contributo molecolare specifico all’interno di un campione utilizzando strumenti di “single-cell omics”. Queste analisi hanno enormemente aumentato le informazioni ottenibili ma, tuttavia, non permettono di definire la localizzazione spaziale di ciascuna cellula nell’ambito di un tessuto.

Per tale ragione ulteriori tecnologie sono state più recentemente messe a punto per poter considerare anche la disposizione spaziale delle cellule. Tali tecnologie di analisi dei trascritti caratterizzano molecole trascritte da ciascun gene preservandone la localizzazione, ma hanno dei limiti dovuti ai costi elevati e alla limitata risoluzione per quanto riguarda la sensibilità nel definire le molecole in ogni singola cellula.

In questo contesto è stato messo a punto il nuovo sistema Open-ST che permette lo studio tridimensionale dei componenti cellulari attraverso una precisa sequenza di passaggi sperimentali, tra cui l’analisi dei marcatori molecolari, la divisione della cellula in subunità da analizzare separatamente e infine l’editing e la visualizzazione digitale dei dati attraverso un software sviluppato appositamente.

Per mostrare la bontà e l’efficienza del loro metodo gli scienziati hanno testato il sistema su vari tipi di tessuti. In particolare, sono stati correttamente analizzati tessuti provenienti sia da un carcinoma umano, caratterizzato da un’alta variabilità del codice genetico, sia da un tumore linfatico, per il quale è stato possibile applicare l’approccio Open-ST all’individuazione dei biomarcatori, utili per la caratterizzazione del tessuto tumorale stesso.

“Lo studio – precisa Elisabetta Ferretti del Dipartimento di Medicina Sperimentale – nasce dalla collaborazione con Giuseppe Macino , emerito della Sapienza e presidente della Fondazione Forge di Udine, con Nikolaus Rajewsky, Direttore Laboratorio di Systems Biology of Gene Regulatory Elements del Berlin Institute for Medical Systems Biology del Max Delbrück Center (MDC-BIMSB) e con Massimiliano Pagani dell’Università degli Studi di Milano e Direttore del Laboratorio di Oncologia Molecolare e Immunologia presso IFOM”.

“I trascritti di RNA – commenta Elena Splendiani dell’Università Sapienza di Roma e primo autore dello studio – sono molecole fondamentali per la trasmissione delle informazioni contenute in ciascun gene. Misurare la loro quantità con la nuova tecnologia Open-ST permette non solo di definirli in modo accurato ma anche di conoscere la loro distribuzione nello spazio 3D fino a livello intracellulare in ogni singola cellula permettendo di ricavare nuove informazioni su posizionamento e comunicazione tra cellule. Nello specifico nel lavoro oltre alla messa a punto della nuova tecnologia sono stati analizzati i primi campioni sia di tessuto sano sia tumorali”

“L’alta definizione della tecnica su un campione di tumore ha evidenziato che in un solo tumore ci sono 10 tipi diversi di cellule tumorali, definendo dettagli della eterogeneità dei tumori mai descritti in precedenza” ha aggiunto Giuseppe Macino.

“Questi risultati – concludono Elisabetta Ferretti e Giuseppe Macino – gettano le basi per la conoscenza di nuove molecole di RNA, utili per lo sviluppo della terapia genica e la definizione di biomarcatori per la diagnosi e gestione del paziente nell’ambito della medicina di precisione”.

 

Riferimenti bibliografici:

Open-ST: High-resolution spatial transcriptomics in 3D – M. Schott, D. Leon-Perignan, E. Splendiani et al.

Cell–DOI: https://doi.org/10.1016/j.cell.2024.05.055

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Foto di Konstantin Kolosov

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

IL GENOMA “IMMENSO” DEL KRILL (EUPHASIA SUPERBA) – Sequenziato il genoma del krill antartico: è 15 volte quello umano ed è il più grande di tutto il mondo animale mai sequenziato fino ad ora. Su «Cell» lo studio internazionale firmato anche da un team di ricercatori dell’Università di Padova che aiuta a comprendere meglio gli effetti del riscaldamento globale.

Il krill antartico (Euphausia superba) è l’organismo animale più abbondante sul pianeta, con una biomassa totale compresa tra i 300 e i 500 milioni di tonnellate. Questo piccolo gamberetto riveste un ruolo vitale per l’ecosistema antartico poiché rappresenta il principale collegamento tra i produttori primari che compongono il fitoplancton e i livelli più alti della catena alimentare come uccelli marini, foche, pinguini e balene. Grazie alla sua enorme biomassa, il krill incide in modo significativo su fondamentali processi biogeochimici globali quali i cicli del carbonio e il riciclo del ferro: studiarne la biologia e comprenderne le potenzialità di adattamento a un ambiente in continua evoluzione a causa degli effetti del riscaldamento globale risulta, quindi, fondamentale. Fino ad ora, l’impossibilità di ricostruire la sequenza del genoma di krill – ben 15 volte più grande di quello umano – ha rappresentato un ostacolo tecnico insormontabile per l’approfondimento degli aspetti fisiologici, molecolari e genetici del krill.

Nella ricerca dal titolo The enormous repetitive Antarctic krill genome reveals environmental adaptations and population insights, pubblicata su «Cell» e firmata da Changwei Shao del Yellow Sea Fisheries Research Institute di Qingdao in collaborazione con un team di ricercatori del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova – composto da Cristiano De Pittà, Gabriele Sales e Alberto Biscontin (ora all’Università di Udine) –, grazie alle più innovative tecnologie di sequenziamento e ai più aggiornati metodi di analisi è stato possibile ricostruire per la prima volta l’intero genoma di krill che risulta essere il più grande di tutto il mondo animale mai sequenziato fino ad ora.

Le sue enormi dimensioni sembrano essere il risultato della duplicazione e spostamento di numerosi segmenti di DNA – gli elementi trasponibili – in posizioni diverse del genoma, e non di duplicazioni dell’intero genoma, come osservato in altre specie. In particolare, sono stati identificati due eventi recenti di accumulo degli elementi trasponibili, collegati entrambi a cambiamenti climatici, che potrebbero essere responsabili delle attuali grandi dimensioni del genoma.

«Il krill si estende dal circolo polare antartico fino alle coste meridionali dell’America latina e dell’Australia: questi ambienti sono caratterizzati da condizioni ambientali molto diverse, soprattutto in termini di temperatura, fotoperiodo e disponibilità di cibo. Questa elevata distribuzione geografica è dovuta alle grandi capacità adattative che il krill ha sviluppato per vivere in un ecosistema, quello antartico, soggetto a variazioni estreme nel corso dell’anno; si pensi ad esempio al ciclo stagionale della banchisa o alla notte polare» spiega Cristiano De Pittà, co-autore dello studio dell’Università di Padova.

Cristiano De Pittà
Cristiano De Pittà

«In tal senso, un ruolo fondamentale è svolto dall’orologio circadiano che controlla a livello molecolare l’espressione ritmica giornaliera e stagionale di numerosi geni – continua Alberto Biscontin, co-autore dello studio e ricercatore dell’Università di Padova al momento della ricerca –. Il sequenziamento del genoma ha permesso di identificare 625 geni la cui espressione risulta essere sotto il controllo diretto dell’orologio endogeno e potrebbero, quindi, rappresentare il fulcro del processo di adattamento fisiologico e comportamentale di questo organismo alle estreme variazioni stagionali a cui è sottoposto».

Alberto Biscontin
Alberto Biscontin

La presenza della corrente circumpolare antartica (ACC), inoltre, è responsabile di altissimi livelli di connettività tra le diverse aree geografiche. Per anni la popolazione di krill antartico è stata ritenuta geneticamente omogenea: il sequenziamento del genoma ha portato all’identificazione di milioni di nuovi marcatori genetici (Single Nucleotide Polymorphisms) che hanno permesso, per la prima volta, di eseguire una completa analisi della struttura della popolazione di krill antartico mettendo in luce le tracce genetiche di quattro diverse popolazioni ancestrali ancora presenti in krill provenienti da altrettante regioni geografiche.

«Il genoma di Euphausia superba, oltre ad essere una sfida tecnologica vinta, riapre il dibattito sul significato biologico dei grandi genomi e rappresenta una preziosissima risorsa che fornirà nuovi e importanti elementi per una comprensione sempre maggiore della biologia e del ruolo ecologico di questa specie» conclude Gabriele Sales, anche lui co-autore dello studio dell’ateneo patavino.

Gabriele Sales
Gabriele Sales

Link alla ricerca: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0092867423001071

Titolo: The enormous repetitive Antarctic krill genome reveals environmental adaptations and population insights – «Cell» – 2023

Autori: Changwei Shao, Shuai Sun, Kaiqiang Liu, Jiahao Wang, Shuo Li, Qun Liu, Bruce E. Deagle, Inge Seim, Alberto Biscontin, Qian Wang, Xin Liu, So Kawaguchi, Yalin Liu, Simon Jarman, Yue Wang, Hong-Yan Wang, Guodong Huang, Jiang Hu, Bo Feng, Cristiano De Pittà, Shanshan Liu, Rui Wang, Kailong Ma, Yiping Ying, Gabriele Sales, Tao Sun, Xinliang Wang, Yaolei Zhang, Yunxia Zhao, Shanshan Pan, Xiancai Hao, Yang Wang, Jiakun Xu, Bowen Yue, Yanxu Sun, He Zhang, Mengyang Xu, Yuyan Liu, Xiaodong Jia, Jiancheng Zhu, Shufang Liu, Jue Ruan, Guojie Zhang, Huanming Yang, Xun Xu, Jun Wang, Xianyong Zhao, Bettina Meyer, Guangyi Fan

Krill antartico genoma

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova.

ECCO DOV’È L’IDROGENO PER LA “SVOLTA GREEN”: RIVOLUZIONARIA TECNICA PER OTTENERE UNO SGUARDO DIRETTO SUI PROCESSI CATALITICI A LIVELLO ATOMICO 

Team di ricercatori padovani sviluppa una rivoluzionaria tecnica che individua dove si genera, ne valuta l’efficienza e individua i meccanismi molecolari che portano alla formazione dell’idrogeno: uno strumento utilissimo per il PNNR sulle energie alternative.

 

Il gruppo di “Surface Science and Catalysis” del Dipartimento di Scienze Chimiche dell’Università di Padova ha sviluppato una nuova tecnica basata sul microscopio a effetto tunnel per visualizzare con precisione atomica diversi processi elettro-catalitici. I ricercatori padovani hanno applicato questo potente strumento di analisi a elettro-catalizzatori per la produzione di idrogeno riuscendo a mappare, con risoluzione mai raggiunta prima, i siti capaci di produrre idrogeno, a valutarne la loro efficienza e a determinare il tipo di meccanismo molecolare che porta alla formazione dell’idrogeno.

La ricerca dal titolo Atom-by-atom identification of catalytic active sites in operando conditions by quantitative noise detection coordinata da Stefano Agnoli del Dipartimento di Scienze Chimiche dell’Università di Padova è stata pubblicata sulla rivista «Joule», una sister journal di Cell, focalizzata nel campo delle energie alternative.  Nell’articolo vengono illustrati i principi teorici di questa tecnica innovativa e la loro applicazione a diversi materiali dimostrando come sia possibile visualizzare in tempo reale la formazione di idrogeno addirittura su un singolo atomo.

«La tecnica sviluppata dal nostro gruppo parte da un’intuizione del Premio Nobel Gerd Binnig, il primo a ipotizzare che il disturbo che normalmente si riverbera su alcune misure non sia una semplice imperfezione strumentale, ma che racchiuda in sé importanti informazioni connesse a reazioni chimiche. Partendo da questo concetto abbiamo sviluppato una tecnica capace di estrarre queste informazioni nascoste e ottenere uno sguardo diretto sui processi catalitici a livello atomico – dice Stefano Agnoli del Dipartimento di Scienze Chimiche dell’Università di Padova –. La nuova tecnica sviluppata a Padova è un potentissimo strumento per lo sviluppo di nuovi materiali per la catalisi, indispensabili a rendere il processo elettrochimico economico ed efficiente, e che sono essenziali per la produzione sostenibile di idrogeno a partire dall’acqua attraverso un processo elettrochimico a basso costo. L’idrogeno, sulla scena energetica, si sta candidando come vettore della transizione verso un futuro a zero emissioni di carbonio: tale tecnica potrà essere messa a servizio del nuovo piano PNNR nell’ambito delle tematiche per le energie alternative. Al momento il passaggio da combustibili fossili a energie rinnovabili è limitato dalla capacità di produrre e convertire in elettricità il cosiddetto idrogeno verde. Questo studio – conclude Agnoli – offre la possibilità di osservare con una risoluzione spaziale, fino ad oggi mai vista, questi processi consentendo non solo di identificare i materiali più efficaci, ma anche sviluppare le conoscenze necessarie per farne nascere di nuovi».

Stefano Agnoli idrogeno processi catalitici
Stefano Agnoli

Link alla ricerca https://doi.org/10.1016/j.joule.2022.02.010

Titolo: Atom-by-atom identification of catalytic active sites in operando conditions by quantitative noise detection – «Joule» – 2022

Autori: Marco Lunardon1, Tomasz Kosmala,1,2 Christian Durante,1 Stefano Agnoli*1 and Gaetano Granozzi1

1 Dipartimento di Scienze Chimiche and INSTM Research Unit, Università degli Studi di Padova,

2 Institute of Experimental Physics, University of Wrocław, pl. M. Borna 9, 50-204 Wrocław, Poland

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova sulla rivoluzionaria tecnica che lancia uno sguardo sui processi catalitici dell’idrogeno.

Infodemia e pandemia, fenomeni a confronto 
Un team di esperti di Data Science ed epidemiologi computazionali, coordinati da Walter Quattrociocchi, dell’Università Sapienza di Roma, ha pubblicato sulla rivista Cell uno studio volto a individuare differenze e interconnessioni tra il fenomeno pandemico e quello infodemico.

infodemia pandemia social distance
Infodemia e pandemia, fenomeni a confronto. Foto di congerdesign

In che modo affrontare la massiccia diffusione di informazione sulla pandemia in atto? E come misurare il loro effetto sulla gestione del fenomeno pandemico? Queste sono le principali domande a cui tenta di rispondere, in un nuovo studio pubblicato sulla rivista Cell, un team di esperti composto da epidemiologi computazionali, rappresentanti dell’OMS e dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) americani, cinesi e africani, coordinati da Walter Quattrociocchi del Dipartimento di Informatica della Sapienza di Roma. I ricercatori hanno cercato di porre in relazione i due fenomeni, quello pandemico e quello infodemico, portando alla luce le differenze essenziali ma anche le forti interconnessioni tra i due e la possibilità che si influenzino vicendevolmente.

Uno dei primi punti che lo studio sottolinea è la differenza che sussiste tra i due fenomeni: il processo di diffusione del virus, al contrario delle informazioni, non gode della caratteristica dell’opzionalità. È infatti impossibile decidere di accettare, o non accettare, la presenza del virus mentre ogni utente ha la possibilità di accogliere un’informazione piuttosto che un’altra, rigettando quelle che non sono di suo gradimento.

Proprio i diversi bias comportamentali, ovvero pregiudizi sviluppati sulla base dell’interpretazione delle informazioni in possesso, sono stati l’altro elemento cardine all’interno dello studio. Conoscere le dinamiche che mettiamo in atto quando processiamo informazioni è, infatti, fondamentale per una comunicazione efficace che consenta anche una gestione migliore della pandemia. Il primo comportamento preso in esame è il confirmation bias, ovvero la tendenza a cercare informazioni che confermino le nostre convinzioni e, allo stesso tempo, ignorare quelle che possano in qualche modo contrastarle. Questo tipo di atteggiamento si ripropone, a livello comunitario, anche in un secondo tipo di bias, l’echo chamber: termine con cui si intende la creazione di comunità omofile, gruppi di individui che si associano a partire dalla condivisione di una comune narrativa (verità), che trova così modo di rinforzarsi reciprocamente.

Entrambi i pregiudizi sono caratterizzati quindi dalla polarizzazione, ovvero dalla tendenza spesso determinata dall’atteggiamento dei media nel veicolare le informazioni legate alla pandemia. Occorrerebbe quindi partire da qui per cercare di far fronte al fenomeno infodemico, che, come posto in evidenza dallo studio, ha effetti diretti sulla gestione della pandemia.

“Non bisogna sottovalutare l’impiego e le potenzialità offerte dalla Data Science – commenta Walter Quattorciocchi. “Questa, applicata ai contesti sociali, potrebbe essere utilizzata per cogliere meglio, ed eventualmente anche prevedere, l’evoluzione dell’opinione pubblica e gli effetti della stessa tanto sulla società quanto sulle politiche per la gestione della pandemia”.

 

Riferimenti:

Infodemics: A new challenge for public health – Sylvie C. Briand, Matteo Cinelli. Tim Nguyen, Akhona Tshangela, Lei Zhou, Walter Quattrociocchi – Cell 2021 DOI:https://doi.org/10.1016/j.cell.2021.10.031

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma