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QUEGLI SCONTRI E FUSIONI ALL’ALBA DELL’UNIVERSO CHE HANNO AIUTATO LE GALASSIE A CRESCERE

Un team internazionale di astronomi, coordinato da Michael Romano, dottorando presso l’Università degli Studi di Padova e associato all’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha scoperto che circa il 40% delle galassie nell’Universo primordiale si trova in sistemi in fase di fusione. Viene così confermato lo scenario secondo cui, nelle prime fasi della loro evoluzione, le galassie hanno accresciuto in modo significativo la loro massa fondendosi tra loro.

scontri galassie universo
Quegli scontri e fusioni all’alba dell’universo che hanno aiutato le galassie a crescere. Due galassie a spirale; un simile fato è quello che si ipotizza per la nostra Via Lattea, che gli scienziati ritengono avrà una simile interazione con la vicina galassia di Andromeda

Tra gli eventi più spettacolari che si possono osservare nell’Universo locale ci sono sicuramente gli “scontri tra galassie” (galactic mergers, in gergo tecnico): questi avvengono quando due o più galassie si avvicinano a tal punto da iniziare a spiraleggiare l’una sull’altra a causa della gravità, fino a fondersi in un’unica galassia più grande. Se le due galassie hanno più o meno lo stesso numero di stelle (quindi la stessa massa stellare), la galassia risultante avrà circa il doppio della massa di quelle individuali: questo infatti è il meccanismo più veloce con cui le galassie possono crescere. Tuttavia, solo l’1% delle galassie nell’Universo locale sono osservate nell’atto di fondersi: al giorno d’oggi le galassie crescono prevalentemente perché accrescono gas freddo trasformandolo in stelle (il cosiddetto meccanismo di “formazione stellare”).

Nonostante sia noto già da tempo che gli eventi di mergers fossero più frequenti nel passato, la loro identificazione nell’Universo lontano è resa più complicata dalla presenza delle polveri interstellari, che impediscono alla luce prodotta da stelle giovani di raggiungere i classici telescopi ottici, e dalla difficoltà di questi telescopi di rilevare il moto delle galassie stesse.

Michael Romano

In un articolo appena pubblicato sulla rivista «Astronomy&Astrophysics» che vede come primo autore Michael Romano, dottorando presso l’Università di Padova e associato all’Istituto Nazionale di Astrofisica, il team ALPINE (ALMA Large Program to INvestigate C+ at Early times) riporta la scoperta di dozzine di galactic mergers nell’Universo primordiale grazie alle potenti antenne dell’interferometro ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), in Cile. Il radiotelescopio ALMA è infatti in grado di osservare la luce oscurata dalla polvere individuando galassie che altrimenti risulterebbero essere completamente invisibili, e di svelarne la struttura tridimensionale.

Il programma ALPINE, coordinato tra gli altri da Paolo Cassata, professore dell’Università degli Studi di Padova, ha studiato nel dettaglio un campione di un centinaio di galassie risalenti a quando l’Universo aveva “solo” un miliardo di anni. Grazie ad ALMA, è stato possibile rilevare la luce proveniente da queste galassie lontane ed emessa da un particolare ione del Carbonio, detto C+. Gli atomi di Carbonio infatti, vengono “ionizzati” dalla luce ultravioletta prodotta da stelle appena nate all’interno di nubi di polvere, emettendo luce ad una ben determinata frequenza. Tale “radiazione”, al contrario di quella ultravioletta, è in grado di viaggiare indisturbata attraverso la coltre di polvere che la circonda, fino a raggiungere le antenne di ALMA. La presenza di atomi di C+ fornisce quindi informazioni sul tasso di formazione stellare all’interno delle galassie e sulla loro morfologia.

Paolo Cassata

«Grazie al progetto ALPINE, siamo riusciti a osservare la struttura tridimensionale di queste galassie primordiali a diverse frequenze, identificando anche le componenti più polverose grazie all’emissione del C+, celate in precedenza persino agli occhi dei più potenti telescopi ottici, come l’Hubble Space Telescope – afferma Michael Romano -. Abbiamo scoperto che, 12 miliardi di anni fa, i mergers erano circa 40 volte più frequenti di oggi, fornendo un contributo significativo alla crescita in massa delle galassie nell’Universo lontano.

«Questa analisi ha permesso di stimare quante volte una galassia simile alla Via Lattea si sia scontrata con altre galassie vicine durante la sua evoluzione fino ad oggi – aggiunge Paolo Cassata -. Troviamo che, tipicamente, tali galassie possono subire fino a una decina di merging in circa 13 miliardi di anni, contribuendo alla formazione delle strutture che osserviamo attualmente nel nostro “vicinato cosmico».

«Con ALPINE abbiamo stimato per la prima volta la frazione di coppie di galassie nell’Universo primordiale che si stanno fondendo, o che sono in rotta di collisione, tramite misurazioni del C+. Questo ci ha permesso di confrontare il processo di crescita delle galassie dovuto a tali fusioni, con quello guidato dalla formazione stellare. I risultati del nostro lavoro evidenziano che la conversione di gas in stelle è il meccanismo primario che permette alle galassie di aumentare la propria massa, sebbene il contributo dovuto ai merging acquisti una sempre maggiore importanza con l’avvicinarsi agli albori dell’Universo, dove diventa almeno maggiore del 10% o, in alcuni casi, addirittura paragonabile al processo di formazione stellare – conclude Michael Romano -. In futuro, saremo sicuramente in grado approfondire il problema della crescita ed evoluzione delle galassie primordiali grazie ad ulteriori osservazioni ad alta risoluzione con ALMA e all’imminente lancio del James Webb Space Telescope».

 

Testo e foto dagli Uffici Stampa Università di Padova e Istituto Nazionale di Astrofisica sullo studio relativo a scontri e fusioni tra galassie all’alba dell’universo.

Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra

In un nuovo studio (https://www.nature.com/articles/s41561-021-00797-y), pubblicato sulla rivista Nature Geoscience (https://www.nature.com/ngeo/), un team di ricercatori italiani guidato da Alessandro Aiuppa (Università di Palermo) e che vede fra i co-autori Federico Casetta (Università di Ferrara), Massimo Coltorti (Università di Ferrara), Vincenzo Stagno (Sapienza Università di Roma) e Giancarlo Tamburello (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Sezione di Bologna), ha sviluppato un nuovo approccio per ricostruire la quantità di Carbonio immagazzinato nel mantello superiore della terra, dalla cui fusione sono segregati i magmi.

Il Carbonio, il quarto elemento più abbondante in termini di massa nell’universo, è un elemento chiave per la vita. Il suo ricircolo, da e verso l’interno della Terra, regola i livelli di CO2 nell’atmosfera, giocando quindi un ruolo fondamentale nel rendere il nostro pianeta abitabile. Il Carbonio è un elemento unico, perché può essere immagazzinato nelle profondità della Terra in varie forme: all’interno di fluidi, come componente di fasi minerali, oppure disciolto nei magmi. Si ritiene, inoltre, che il Carbonio giochi un ruolo chiave nella geodinamica terrestre, in quanto questo elemento è in grado di controllare i processi di fusione che avvengono mantello superiore. Vista la sua tendenza ad essere incorporato nei magmi prodotti per fusione delle rocce peridotitiche nel mantello superiore, il Carbonio è facilmente trasportato verso la superficie terrestre, ove viene poi rilasciato come CO2 nelle emissioni gassose di vulcani attivi o quiescenti. I magmi ed i gas derivati dal mantello sono, pertanto, i mezzi di trasporto più efficaci per portare il Carbonio verso l’idrosfera e l’atmosfera, dove gioca un ruolo primario nel controllo dei cambiamenti climatici su scala geologica.

Ma quanto Carbonio è immagazzinato all’interno della Terra?

Questa domanda ha ispirato ricerche in diversi ambiti delle geoscienze, che si sono avvalse di molteplici approcci empirici, quali lo studio dei gas emessi in aree vulcaniche, del contenuto in CO2 nelle lave eruttate lungo le dorsali medio-oceaniche e/o nelle inclusioni di magma all’interno dei cristalli, delle inclusioni fluide in xenoliti di mantello portati in superficie dai magmi, e le misure sperimentali sviluppate con lo scopo di comprendere la massima quantità di CO2 che può essere disciolta nei magmi a pressioni e temperature tipiche dell’interno della Terra. Sfortunatamente, questi approcci hanno portato spesso a conclusioni contrastanti, al punto che le stime sul contenuto di Carbonio del mantello (così come dell’intera Terra) divergono di più di un ordine di grandezza. Le “melt inclusions”, o inclusioni di magma, cioè piccole goccioline di fuso silicatico intrappolate nei cristalli al momento della loro formazione nei magmi, possono essere sorgenti di informazione uniche per quantificare il contenuto di Carbonio del mantello da cui i magmi stessi sono segregati. Tuttavia, il massivo rilascio di gas (degassamento), tra cui CO2, a cui i magmi sono soggetti durante la loro risalita verso la superficie (prima della loro messa in posto ed eruzione) ha rappresentato un fattore limitante nella comprensione delle variazioni di concentrazione di Carbonio nel mantello.

Nel loro studio, Aiuppa e co-autori hanno revisionato e catalogato i dati relativi al contenuto in CO2 (e zolfo) nei gas vulcanici emessi da 12 vulcani di hot-spot e di rifting continentale, i cui magmi sono generati da sorgenti mantelliche più profonde rispetto a quelle del mantello impoverito da cui derivano i magmi delle dorsali medio-oceaniche.

Gas magmatici ricchi in CO2 rilasciati dal degassamento del lago di lava a condotto aperto presso il vulcano Nyiragongo, Repubblica Democratica del Congo (foto di Sergio Calabrese, Università di Palermo)

I risultati ottenuti hanno permesso di comprendere che il mantello superiore (50-250 km di profondità) che alimenta il vulcanismo in aree di rifting continentale e di hot-spot contiene in media 350 parti per milione (ppm) di Carbonio (intervallo compreso tra 100 e 700 ppm di C). Questo ampio range conferma la visione di un mantello superiore fortemente eterogeneo, la cui composizione è stata variabilmente modificata, in tempi geologici, dall’infiltrazione di fusi carbonatici-silicatici generati in profondità. Le nuove stime ottenute da Aiuppa e co-autori indicano che il mantello superiore ha una capacità totale di Carbonio di circa ~1.2·1023 g. È possibile che la Terra, nelle sue porzioni interne, sia in grado di contenere ancora più Carbonio, come suggerito dai diamanti provenienti da profondità sub-litosferiche (fino a 700 km), i quali mostrano evidenze dell’esistenza di minerali e fusi che contengono significative quantità di C.

In aggiunta, il team di ricercatori ha stimato che il contenuto di Carbonio aumenta con la profondità di fusione parziale nel mantello. Questa scoperta permette di validare i dati sperimentali, che suggeriscono come il Carbonio giochi un ruolo nel determinare percentuale e profondità di fusione parziale nelle sorgenti di mantello che alimentano i vulcani in aree di rift continentali e di hot-spot. I risultati ottenuti, indicando che le porzioni di mantello ricche in Carbonio fondono più in profondità rispetto a porzioni povere in Carbonio, confermano il ruolo di primaria importanza giocato da questo elemento nel guidare i cicli geodinamici.

Aumento della concentrazione di Carbonio con la profondità di fusione nel mantello superiore terrestre. I magmi prodotti in contesti di Isole Oceaniche e di Rift Continentale sono alimentati da sorgenti di mantello più ricche in Carbonio rispetto alle porzioni di “Depleted MORB Mantle (DMM)”, cioè di mantello impoverito da cui sono prodotti i “Mid-Ocean Ridge Basalts (MORB)”, ovvero basalti di dorsale medio-oceanica

L’esistenza di un mantello ricco in Carbonio, evidenziata da Aiuppa e co-autori, ha profonde implicazioni rispetto alle modalità di immagazzinamento del Carbonio primordiale nel mantello, e per il suo riciclo nel tempo e nello spazio. I risultati ottenuti con questo studio sono anche importanti per comprendere le possibili variazioni nel ciclo geologico del Carbonio causate da eventi vulcanici di grande magnitudo, quali la messa in posto delle “Large Igneous Provinces (LIP)”, o grandi province ignee. Se i magmi prodotti dai “plume”, o pennacchi, di mantello sono ricchi in Carbonio, come suggerito da questo studio, allora il rilascio di Carbonio dalle grandi province ignee nel Fanerozoico può aver contribuito a causare le estinzioni di massa, le cui tracce sono preservate nei record sedimentari in tutto il mondo.

carbonio genesi magmi mantello
Sezione schematica dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano (passando attraverso il cratone Africano), che mostra le variazioni nelle concentrazioni di Carbonio ricostruite nelle sorgenti di mantello da cui sono prodotti i magmi delle Isole Oceaniche e dei Rift Continentali

Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra

CITAZIONE

Alessandro Aiuppa, Federico Casetta, Massimo Coltorti, Vincenzo Stagno and Giancarlo Tamburello (2021), Carbon concentration increases with depth of melting in Earth’s upper mantle, Nature Geoscience, https://doi.org/10.1038/s41561-021-00797-y

La ricerca è stata finanziata dal Deep Carbon Observatory (https://deepcarbon.net/) e dal Miur, Progetto PRIN2017 Connect4Carbon (https://prin2017.wixsite.com/connectforcarbon)

Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra. Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma, Università di Palermo, Università di Ferrara, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.