News
Ad
Ad
Ad
Tag

Canada

Browsing

Proteine da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa rivoluzionano gli studi evoluzionistici

Una ricerca internazionale pubblicata su Nature ha recuperato sequenze proteiche da un fossile di rinoceronte segnando una svolta nella ricostruzione dell’evoluzione delle specie estinte

Uno studio innovativo che sarà pubblicato in “Nature” annuncia il recupero di sequenze proteiche da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa, spingendo indietro di milioni di anni i confini della ricerca sulle proteine antiche. Questo risultato senza precedenti apre una nuova frontiera per la paleoproteomica, promettendo di svelare segreti dell’evoluzione risalenti a tempi remoti, ben oltre la portata del DNA antico.

Un nuovo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista “Nature” il 9 luglio 2025, descrive l’estrazione e il sequenziamento di antiche proteine dello smalto da un dente di rinoceronte fossilizzato risalente a 21-24 milioni di anni fa, risalente al Miocene inferiore.

Questa straordinaria impresa, ottenuta a partire da un fossile rinvenuto nell’Alto Artico canadese, estende di ben dieci volte la scala temporale delle sequenze proteiche recuperabili e informative sull’evoluzione rispetto al più antico DNA conosciuto.

Questa ricerca segna un momento cruciale per la paleoproteomica, lo studio delle proteine antiche. Sebbene proteine antiche siano state trovate in fossili del Miocene medio-superiore (circa gli ultimi 10 milioni di anni), l’ottenimento di sequenze sufficientemente dettagliate per ricostruzioni robuste delle relazioni evolutive era precedentemente limitato a campioni non più vecchi di 4 milioni di anni. Questo nuovo studio amplia significativamente tale finestra temporale, dimostrando lo straordinario potenziale delle proteine di persistere su vaste scale temporali geologiche nelle giuste condizioni.

Lo studio, coordinato dal Globe Institute dell’Università di Copenaghen, ha ricostruito sequenze proteiche dallo smalto dentale di un rinoceronte vissuto nell’attuale Artico canadese durante il Miocene inferiore. Grazie alla stabilità dello smalto e alle condizioni ambientali estreme del cratere di Haughton — freddo costante e permafrost — le proteine sono risultate sorprendentemente ben conservate. Queste sequenze proteiche antiche hanno permesso di collocare con precisione evolutiva il rinoceronte all’interno del suo albero genealogico, e suggeriscono che la divergenza tra le sottofamiglie Elasmotheriinae e Rhinocerotinae sia avvenuta durante l’Oligocene (34–22 milioni di anni fa), più recentemente di quanto ipotizzato in precedenza.

Il progetto è stato guidato dal Dott. Ryan Sinclair Paterson e diretto dal Prof. Enrico Cappellini dell’Università di Copenaghen. All’interno di questo progetto, l’apporto del Dott. Gabriele Scorrano (Università di Tor Vergata), del Prof. Raffaele Sardella (Dipartimento di Scienze della Terra, Sapienza Università di Roma) e del Dott. Luca Bellucci (Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze) è stato fondamentale: hanno fornito e analizzato un esemplare di dente di rinoceronte di circa 400.000 anni fa, proveniente dal sito archeo-paleontologico di Fontana Ranuccio (Lazio, provincia di Frosinone).

La ricerca vede coinvolte anche due ricercatrici dell’Università di Torino: Meaghan Mackie, dottoranda del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi di UniTo e dell’University College Dublin, e la sua supervisor, la Prof.ssa Beatrice Demarchi, docente ordinaria presso l’Ateneo torinese ed esperta di biomolecole antiche.

 

In questo sito, insieme a una ricca fauna, sono stati rinvenuti alcuni tra i più antichi reperti del genere Homo in Italia. Il reperto ha funzionato da riferimento intermedio tra i campioni più recenti (esemplari medievali) e quello molto più antico analizzato in questo studio, offrendo un confronto diretto sulla conservazione proteica nel tempo.

Il contributo del team dell’Università di Torino è stato cruciale per la validazione dei dati e l’interpretazione dei processi di diagenesi proteica. “Abbiamo calcolato – spiega la Prof.ssa Beatrice Demarchi – che la bassa temperatura ha reso l’età termica del campione equivalente a quella di un reperto dieci volte più giovane in un luogo con temperatura media di 10°C, il che significa che le proteine erano significativamente meno danneggiate rispetto a quelle che si trovano in luoghi della stessa età geologica ma con clima più caldo”.

“È stato sorprendente”, commenta Meaghan Mackie. Il primo campione che ho analizzato pensavo non contenesse nulla, perché troppo antico! Sono rimasta a fissare lo schermo del computer per un minuto”. Questo risultato apre nuove prospettive per la ricerca evolutiva e la paleoproteomica perché permette di ricostruire la storia evolutiva di specie estinte da milioni di anni, ben oltre i limiti del DNA e, in prospettiva, potrebbe riaccendere le speranze per lo studio della biologia di specie dell’era Mesozoica. Indagini future su fossili della Formazione di Haughton e di altri contesti simili potrebbero far emergere ulteriori tracce di questa straordinaria conservazione biomolecolare.

“Si profila una nuova fase per la biologia evolutiva – aggiunge la Prof.ssa Demarchi – in cui le proteine antiche diventano preziosi testimoni della storia più remota della vita sulla Terra. Per l’Università di Torino, questo risultato conferma il ruolo di primo piano nell’ambito della paleobiologia molecolare internazionale”.

Vista del Cratere di Haughton sull'isola di Devon, Nunavut (Canada). Le condizioni aride e fredde del "deserto polare" hanno contribuito a preservare l'antico fossile di rinoceronte qui rinvenuto, comprese tracce di proteine originali risalenti a oltre 20 milioni di anni fa. Il terreno modellato in primo piano indica la presenza di permafrost. Crediti per la foto: Martin Lipman
Vista del Cratere di Haughton sull’isola di Devon, Nunavut (Canada). Le condizioni aride e fredde del “deserto polare” hanno contribuito a preservare l’antico fossile di rinoceronte qui rinvenuto, comprese tracce di proteine originali risalenti a oltre 20 milioni di anni fa. Il terreno modellato in primo piano indica la presenza di permafrost. Crediti per la foto: Martin Lipman

Riferimenti bibliografici:

Paterson, R. S., Mackie, M., Capobianco, A., Heckeberg, N. S., Fraser, D., Demarchi, B., Munir, F., Patramanis, I., Ramos-Madrigal, J., Liu, S., Ramsøe, A. D., Dickinson, M. R., Baldreki, C., Gilbert, M., Sardella, R., Bellucci, L., Scorrano, G., Leonardi, M., Manica, A., Racimo, F., Willerslev, E., Penkman, K. E. H., Olsen, J. V., MacPhee, R. D. E., Rybczynski, N., Höhna, S., Cappellini, E., Phylogenetically informative proteins from an Early Miocene rhinocerotid. Nature (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-025-09231-4

 

Testi dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dalla Sezione Comunicazione Digitale e Media Relations, Area Comunicazione dell’Università di Torino

“The Wild Ones”, svelate le prime immagini della nuova serie di documentari d’avventura in arrivo l’11 luglio 2025 su Apple TV+

The Wild Ones, la serie di documentari

Apple TV+ ha svelato oggi le prime immagini della nuova serie di documentari d’avventura “The Wild Ones”, in arrivo l’11 luglio 2025. Annunciata inizialmente con il titolo provvisorio “Endangered Planet”, la serie in sei parti segue un trio d’élite di esperti di fauna selvatica che si imbarca in spedizioni ad alto rischio in tutto il mondo per rintracciare e proteggere le specie più a rischio del pianeta.

Con la partecipazione dell’ex Commando dei Royal Marines e capo spedizione Aldo Kane, dell’esperto di fauna selvatica e fototrappole Declan Burley e del narratore ecologico e cineasta naturalista Vianet Djenguet, “The Wild Ones” fonde avventura ad alto rischio con scienza e conservazione d’avanguardia. Il trio si reca in sei paesi – Malesia, Mongolia, Armenia, Indonesia, Canada e Gabon – per catturare immagini rare di specie elusive e in via di estinzione, tra cui la tigre malese, l’orso del Gobi, il leopardo del Caucaso, il rinoceronte di Giava, la balena franca nordatlantica e il gorilla di pianura occidentale.

Grazie all’utilizzo di oltre 350 telecamere remote personalizzate, droni termici, sensori subacquei indossabili e tecnologie di imaging basate sull’intelligenza artificiale, il team sta rivoluzionando il documentario naturalistico, catturando comportamenti animali intimi mai visti prima e sostenendo missioni attive di conservazione sul campo. Le scoperte del team hanno già contribuito all’identificazione di un nuovo esemplare di rinoceronte, alla protezione di una nuova cucciolata di tigre e al rafforzamento delle iniziative contro il bracconaggio.

In collaborazione con esperti locali, il trio utilizza tecnologie di ripresa innovative per svelare i segreti di queste creature rare, tra cui: le prime immagini in assoluto della tigre selvatica più minacciata al mondo, filmata nella Riserva Reale delle Tigri in Malesia; riprese notturne termiche dello sfuggente orso del Gobi, nel cuore del deserto mongolo; un incontro ravvicinato con un gorilla di pianura silverback nei boschi del Gabon; un salvataggio in tempo reale di una balena nell’Atlantico settentrionale. La serie mette in luce le minacce che queste specie affrontano e come ciascuna sia strettamente connessa all’ecosistema in cui vive, sensibilizzando e sostenendo le iniziative scientifiche e gli sforzi di conservazione a lungo termine per salvarle.

The Wild Ones, la serie di documentari

“The Wild Ones” è prodotto da Offspring Films, il team che ha realizzato “Il pianeta notturno a colori” e “Earthsounds: i suoni del pianeta” di Apple TV+, ed ha come produttori esecutivi Alex Williamson e Isla Robertson.

Apple TV+ offre serie drammatiche e commedie avvincenti e di qualità, lungometraggi, documentari innovativi e intrattenimento per bambini e famiglie, ed è disponibile per la visione su tutti i tuoi schermi preferiti. Dopo il suo lancio il 1° novembre 2019, Apple TV+ è diventato il primo servizio di streaming completamente originale a essere lanciato in tutto il mondo, ha presentato in anteprima più successi originali e ha ricevuto riconoscimenti più velocemente di qualsiasi altro servizio di streaming. Ad oggi, i film, i documentari e le serie originali Apple sono stati premiati con 563 vittorie e 2.596 nomination ai premi, tra cui la commedia pluripremiata agli Emmy “Ted Lasso” e lo storico Oscar® come Miglior film a “CODA“.

 

Testi, video e immagini dall’Ufficio Stampa PuntoeVirgola MediaFarm. Aggiornato il 5 giugno 2025.

Polarizzazione politica e interazioni sui social: esistono schemi comuni a livello internazionale
La ricerca pubblicata su Nature Communications, che ha coinvolto il Dipartimento di Informatica della Sapienza, mette in luce le dinamiche comuni della polarizzazione politica online su scala globale. Grazie all’analisi delle interazioni tra gli utenti su piattaforme online in ben nove Paesi, i ricercatori hanno rilevato l’esistenza di pattern ripetuti in diversi contesti nazionali.

La polarizzazione politica sui social network è un fenomeno internazionale. Al di là delle specificità dei singoli contesti nazionali – che differiscono per cultura, storia, sistema politico – il dibattito politico online si articola seguendo pattern comuni a livello globale. Lo studio, pubblicato su Nature Communications e condotto da un team internazionale di ricercatori, tra cui Walter Quattrociocchi, direttore del Centro per la Data Science e la complessità per la società della Sapienza, mira a individuare le dinamiche comunicative che vanno oltre i confini politici dei singoli Stati.

Grazie ad una analisi effettuata nel 2022 sulle interazioni che avvenivano su una specifica piattaforma in nove Paesi anche molto diversi tra loro (Canada, Francia, Germania, Italia, Polonia, Spagna, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti), il gruppo di ricercatori, composto da scienziati sociali e informatici, ha individuato molteplici elementi ricorrenti.

La polarizzazione politica – presente anche nel mondo offline – appare particolarmente visibile nel mondo dei social network, soprattutto per la struttura intrinseca delle piattaforme online. In tutti i Paesi analizzati, le reti di interazione politica sui social sono risultate strutturalmente polarizzate lungo linee ideologiche (ad esempio destra/sinistra).

“Su quella che era la piattaforma Twitter, l’ostilità tra gruppi politici contrapposti è manifesta – spiega Walter Quattrociocchi. Questo, a livello comunicativo, si traduce in interazioni più tossiche rispetto a quelle osservabili tra i membri appartenenti allo stesso gruppo politico. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le interazioni tossiche coinvolgono meno gli utenti. Per questi contenuti, il numero di like infatti appare minore rispetto a quello delle interazioni meno tossiche”

La ricerca mette in evidenza come la polarizzazione politica non sia un fenomeno limitato a una singola nazione, ma presenti caratteristiche simili tra diverse culture e contesti nazionali.

“Comprendere questi pattern comuni – commenta Quattrociocchi – è essenziale per poter pensare a soluzioni efficaci in grado di ridurre l’ostilità politica e promuovere un dialogo più costruttivo”.

Riferimenti bibliografici:

Patterns of partisan toxicity and engagement reveal the common structure of online political communication across countries – Falkenberg, M., Zollo, F., Quattrociocchi, W. et al. Nature Communications (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-024-53868-0

 

politica interazioni social media network
Polarizzazione politica e interazioni sui social: esistono schemi comuni a livello internazionale, lo studio su Nature Communications. Foto di Mudassar Iqbal

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Il geotermico è la rinnovabile più efficace per diminuire le emissioni di CO2 (seguono idroelettrico e solare)

Lo studio dell’Università di Pisa su 27 paesi OCSE dal 1965 al 2020 pubblicato sul Journal of Cleaner Production

Impianto ad energia geotermica di Nesjavellir in Islanda, che fornisce acqua calda all'area di Reykjavík
Impianto ad energia geotermica di Nesjavellir in Islanda, che fornisce acqua calda all’area di Reykjavík. Foto di Gretar Ívarsson, modificata da Fir0002, in pubblico dominio

Per diminuire le emissioni di CO2 nell’atmosfera, il geotermico è la fonte di energia rinnovabile più efficace, seguito da idroelettrico e solare. La notizia arriva da uno studio su 27 paesi OCSE dal 1965 al 2020 pubblicato sul Journal of Cleaner Production.

La ricerca ha analizzato l’impatto di alcune fonti di energia rinnovabile per la produzione di energia elettrica: geotermico, solare, eolico, biofuel, idroelettrico. Dai risultati è emerso che ognuna di esse contribuisce a ridurre le emissioni di CO2 e dunque è utile agli obiettivi della transizione ecologica. Fra tutte, le migliori sono il geotermico, l’idroelettrico, e il solare, in ordine decrescente di importanza. A livello quantitativo, 10 terawattora di energia elettrica prodotti da geotermico, idroelettrico, e solare, consentono infatti di ridurre le emissioni di CO2 pro capite rispettivamente di 1.17, 0.87, e 0.77 tonnellate.

I 27 paesi OCSE esaminati dal 1965 al 2020 sono stati scelti come campione perché contribuiscono notevolmente al rilascio di emissioni di CO2 nell’atmosfera e rappresentano circa un terzo del totale delle emissioni globali di CO2. Nello specifico si tratta di Australia, Austria, Canada, Cile, Cipro, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Irlanda, Israele, Italia, Giappone, Messico, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia, Portogallo, Corea del Sud, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti.

Per ricavare i dati, la ricerca ha analizzato molteplici fonti, le principali sono: Food and Agriculture Organization (FAO), International Energy Agency (IEA), OECD, Our World in Data (OWID), e World Bank.

“È noto che circa due terzi degli italiani si dichiara appassionato del tema della sostenibilità e ritiene importante l’uso delle rinnovabili per avere città più sostenibili  – dice Gaetano Perone, ricercatore del dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa e autore dell’articolo – la mia analisi spiega in modo dettagliato l’impatto di ciascuna energia rinnovabile sulle emissioni di CO2, considerando anche altri aspetti legati ai costi di implementazione e costruzione delle centrali e delle opportunità date dalle caratteristiche geografiche e climatiche dei paesi considerati”.

Riferimenti bibliografici:

Gaetano Perone, The relationship between renewable energy production and CO2 emissions in 27 OECD countries: A panel cointegration and Granger non-causality approach, Journal of Cleaner Production,
Volume 434, 2024, 139655, ISSN 0959-6526, DOI: https://doi.org/10.1016/j.jclepro.2023.139655

Testo dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

CAMBIAMENTI CLIMATICI ED EVOLUZIONE DEI FIUMI ARTICI UNA “SORPRESA” DAL DISGELO DEL PERMAFROST 

Dalla ricerca pubblicata su «Nature Climate Change» emerge che una temperatura più alta modifica la vegetazione e l’infiltrazione d’acqua nelle pianure fluviali artiche, portando ad un rallentamento dell’erosione dei fiumi.

Il riscaldamento globale sta cambiando i paesaggi artici a causa del disgelo del permafrost, lo strato di terreno perennemente ghiacciato che ha ricoperto la tundra artica per millenni. Il disgelo del permafrost causa frane e smottamenti e, in casi estremi, può persino portare al prosciugamento di interi laghi. L’aspetto più allarmante però è il potenziale rilascio in atmosfera di enormi quantità di gas serra – tra cui metano, anidride carbonica e protossido di azoto – rimaste intrappolate nel permafrost per secoli. Si stima infatti che nel permafrost siano congelati 1400 miliardi di tonnellate di carbonio – una quantità quattro volte superiore a quella emessa dall’uomo dalla rivoluzione industriale ad oggi – e quasi il doppio di quella attualmente contenuta nell’atmosfera.

Emissioni significative di gas serra nelle regioni artiche sono generate dall’azione dei fiumi che, spostandosi lateralmente con velocità che possono arrivare a decine di metri all’anno, erodono terreni ricchi di permafrost. Infatti, l’acqua che scorre lungo un fiume tende a erodere sedimenti lungo le sponde concave e ri-depositarli lungo le sponde convesse, determinando così una migrazione laterale del fiume nel corso degli anni. L’indebolimento delle sponde dei fiumi a causa del disgelo del permafrost, nonché l’aumento dei flussi di acqua e sedimenti dovuti al degrado della criosfera, potrebbe favorire l’erosione delle sponde, aumentando la mobilità laterale dei fiumi e modificando ulteriormente le emissioni in atmosfera.

Ma l’aumento delle temperature e dell’umidità atmosferica che favoriscono lo scioglimento del permafrost hanno solo effetti negativi sul paesaggio artico? Per rispondere a questa domanda, un team di ricerca internazionale ha monitorato l’evoluzione dei grandi fiumi dell’Alaska e del Canada e svelato come, a seguito del forte riscaldamento della regione, i fiumi non si muovano come gli scienziati si aspettavano.

Lo studio, dal titolo “Large sinuous rivers are slowing down in a warming Arctic” e pubblicato su «Nature Climate Change», ha analizzato l’evoluzione dei 10 maggiori fiumi artici in Alaska (Stati Uniti), nello Yukon e nei Territori del Nord-Ovest (Canada) durante gli ultimi 50 anni. La ricerca, coordinata da Alessandro Ielpi dell’Università della British Columbia e frutto della collaborazione tra il Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, l’Università della British Columbia (Canada), l’Università di Stanford (USA) e l’Università Laval (Canada), rivela che una temperatura più alta modifica anche la vegetazione e i flussi d’acqua superficiali nelle pianure fluviali artiche: ciò rallenterebbe l’erosione dei fiumi e potrebbe influenzare il rilascio di gas serra causato dal disgelo del permafrost.

«Abbiamo testato l’ipotesi, ampiamente accettata dalla comunità scientifica, che il riscaldamento atmosferico e il conseguente disgelo del permafrost indeboliscano le sponde e provochino un aumento dei tassi di migrazione laterale dei fiumi artici. Per fare ciò – dice Alvise Finotello, ricercatore del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova e autore della pubblicazione – abbiamo utilizzato sequenze di immagini satellitari ad alta risoluzione che coprono un periodo temporale di circa mezzo secolo. In totale, abbiamo analizzato più di mille chilometri di sponde distribuiti lungo 10 corsi d’acqua, tutti caratterizzati da larghezze comprese tra 100 e 1000 metri, così da poter essere facilmente identificabili anche nelle immagini satellitari più datate e risalenti agli anni Settanta. Lo studio è stato possibile grazie alle metodologie di analisi da remoto che il nostro gruppo di ricerca ha sviluppato nel corso degli anni, e che possono essere applicate a sistemi fluviali in diversi contesti climatici, dalle foreste tropicali ai deserti, fino appunto agli ambienti artici. Contrariamente a quanto ci aspettavamo di osservare, i nostri risultati mostrano una sorprendente riduzione dei tassi di migrazione laterale di dei fiumi nell’ordine del 20% negli ultimi 50 anni, una stima che potrebbe addirittura essere conservativa date le metodologie di analisi che abbiamo utilizzato».

Alvise Finotello
Alvise Finotello

«Tale rallentamento è con ogni probabilità dovuto ad una serie di effetti indiretti legati al riscaldamento atmosferico e al conseguente scioglimento del permafrost. Temperature più alte favoriscono lo sviluppo della vegetazione grazie a stagioni di crescita più calde e lunghe, un processo noto come inverdimento artico. Inoltre – spiega Alessandro Ielpi dell’Università della British Columbia e già visiting scientist al Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova nel 2019 – lo scioglimento del permafrost permette alle radici delle specie arbustive di penetrare più in profondità nel terreno rispetto a quanto accadeva nel passato. Radici più profonde aumentano la resistenza delle sponde e la capacità di ritenzione idrica delle piane alluvionali, riducendo così i tassi di erosione e la velocità di migrazione laterale dei fiumi».

Alessandro Ielpi
Cambiamenti climatici ed evoluzione dei fiumi artici, una “sorpresa” dal disgelo del permafrost. In foto, Alessandro Ielpi

Poiché una ridotta mobilità dei fiumi ha un impatto diretto sui flussi di gas serra rilasciati dall’erosione di terreni ricchi di permafrost, i risultati dello studio avranno importanti ramificazioni per quanto riguarda i bilanci delle emissioni globali e i cambiamenti climatici futuri ad essi connessi.

Link alla ricerca: https://doi.org/10.1038/s41558-023-01620-9

Titolo: “Large sinuous rivers are slowing downin a warming Arctic” – «Nature Climate Change» – 2023

Autori: Alessandro Ielpi, Mathieu G.A. Lapôtre, Alvise Finotello, Pascale Roy-Léveillée

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova.

Sky Nature
PRESENTA

PREDATORS – Sfida per la sopravvivenza

 SU SKY NATURE DA VENERDÌ 13 GENNAIO ALLE 21.15

IN STREAMING SU NOW E DISPONIBILE ANCHE ON DEMAND

 

Predators Sfida per la sopravvivenza
La locandina della docu-serie Predators – Sfida per la sopravvivenza

Arriva su Sky un’ambiziosa docu-serie targata Sky Original che racconta la storia di cinque predatori provenienti da tutto il pianeta che affrontano l’ultima prova di sopravvivenza in un mondo in rapida evoluzione. L’ambiente intorno a loro cambia, e cambia anche il modo in cui influisce sulle loro vite e sui territori selvaggi in cui regnano. PREDATORS, in esclusiva su Sky Nature da venerdì 13 gennaio alle 21.15 e in streaming solo su NOW, disponibile on demand, propone un nuovo approccio innovativo di narrazione con l’aiuto di tecnologie di ultima generazione, fornendo una visione coinvolgente e spesso emotiva del mondo dei predatori, senza mai disturbare gli animali.

Le vite di ciascuno di questi superpredatori viene seguita passo passo per capire come possano sopravvivere in un mondo più imprevedibile che mai.

Ghepardi, leoni, orsi polari, puma e cani selvatici, si scontrano con altri predatori e tra loro per mantenere il loro dominio. In un paesaggio in continuo mutamento, sono alle prese con molteplici responsabilità. Sono cacciatori, genitori premurosi e incredibili sopravvissuti che devono adattarsi velocemente nel tentativo di sopravvivere. Devono superare nuove sfide e cogliere nuove opportunità a ogni passo. La posta in gioco non è mia stata così alta.

Gallery

SINOSSI DEGLI EPISODI

Venerdì 13 gennaio, EP.1 I GHEPARDI – Nelle pianure meridionali del Serengeti africano, una famigerata coppia di ghepardi, Luka e Kovu, dovrà sfruttare il proprio cameratismo per sopravvivere mentre gli avversari si avvicinano minacciando il loro sostentamento. La loro sfida è assicurarsi una nuova casa mentre incombono la siccità e le sue conseguenze.

Venerdì 20 gennaio, EP.2 GLI ORSI POLARI – Nell’estremo nord del Canada subartico, gli orsi polari della Baia di Hudson fanno i conti con l’impatto del riscaldamento dei mari e cercano nuove opportunità mentre combattono la fame in uno degli ambienti più estremi della terra.

Venerdì 27 gennaio, EP.3 I LEONI – Nel delta dell’Okavango una famiglia di leonesse si affida alle esemplari abilità di caccia della loro sorella Nikki, mentre per mantenere il controllo sul loro territorio si scontrano con un astuto branco rivale. Ad aumentare la pressione l’incombere dell’inondazione annuale che restringe il loro campo d’azione.

Venerdì 3 febbraio, EP.4 I PUMA – In Sud America, all’ombra delle spettacolari cime montuose della Patagonia, un leggendario esemplare femmina di puma cerca di allevare i suoi cuccioli in un mondo sempre più competitivo. Mentre insegna loro le abilità di cui hanno bisogno per sopravvivere, i cuccioli dovranno capire chi è amico e chi nemico mentre si spostano in un territorio vasto e accidentato.

 Venerdì 10 febbraio, EP.5 I LICAONI – Sulle rive del fiume Zambezi, in Africa, un giovane cucciolo di licaone fa i conti con la vita nel branco e con l’aumento dei predatori. È l’anno più pericoloso della sua vita. Costantemente sotto pressione, dovrà imparare in fretta poiché la sua famiglia rischia di dover abbandonare la propria casa.

Testo, video e foto dall’Ufficio Stampa Sky

Cardiopatia ischemica: il ruolo degli ormoni sessuali
Uno studio italiano, a cui partecipano i ricercatori della Sapienza, ha valutato l’impatto dei livelli di testosterone e di estradiolo sull’attivazione delle piastrine del sangue, processo direttamente collegato al rischio di eventi coronarici acuti. I risultati del lavoro, condotto su un campione di oltre 400 pazienti di entrambi i sessi, sono stati pubblicati sulla rivista Journal of Endocrinological Investigation.

arterie coronariche cardiopatia ischemica ormoni sessuali
Arterie coronariche. Immagine di BruceBlaus, CC BY 3.0

La prevenzione della cardiopatia ischemica, patologia a carico delle arterie coronariche che portano sangue al cuore, ha fatto passi da gigante negli ultimi decenni, permettendo una notevole riduzione dei tassi di eventi acuti, che vanno dall’infarto alla morte. Tuttavia, l’incidenza mondiale di cardiopatia ischemica è ancora molto elevata.

La malattia colpisce entrambi i sessi, ma spesso con una fisiopatologia, sintomatologia e risposta alle terapie molto diversa: per tale ragione gli attributi biologici sono stati rivendicati come i principali fattori di queste differenze, canalizzando l’attenzione sul possibile ruolo degli ormoni sessuali.

Lo studio italiano EVA (Endocrine Vascular Disease Approach) coordinato da un team di ricercatori della Sapienza e condotto su 434 soggetti con cardiopatia ischemica, ospedalizzati e sottoposti a coronarografia e/o a intervento di angioplastica, ha valutato l’impatto degli ormoni sessuali maschili (testosterone) e femminili (estradiolo) sulla fisiopatologia e sulla gravità della patologia coronarica e in particolare sull’attivazione delle piastrine del sangue, direttamente associate al rischio di eventi coronarici acuti.

Lo studio, iniziato nel 2015 con un finanziamento del Ministero dell’Università e ricerca – MUR nell’ambito dei progetti per i giovani ricercatori (SIR), vinto da Valeria Raparelli del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza e ora afferente all’Università di Ferrara, ha coinvolto oltre all’Ateneo romano altre università italiane (Ferrara e Milano), inglesi (Liverpool) e canadesi (Alberta e McGill).

I risultati dello studio EVA, pubblicati sulla rivista Journal of Endocrinological Investigation, hanno messo in evidenza come un basso rapporto tra testosterone ed estradiolo si associ in entrambi i sessi a un aumentato rischio di mortalità nei due anni successivi la valutazione. Inoltre è stato visto come da tale relazione dipenda una maggiore attività delle piastrine.

Alla luce del ruolo chiave dell’attivazione piastrinica sul rischio di eventi acuti coronarici, la correlazione con il rapporto tra testosterone ed estradiolo apre nuovi orizzonti di ricerca: questi risultati suggeriscono l’utilità di valutare gli ormoni sessuali in entrambi i sessi per la pianificazione di nuove strategie terapeutiche che tengano anche conto dell’equilibrio ormonale di ciascun individuo affetto da cardiopatia ischemica.

 

Riferimenti:

Testosterone-to-estradiol ratio and platelet thromboxane release in ischemic heart disease: the EVA project – V. Raparelli, C. Nocella, M. Proietti, G. F. Romiti, B. Corica, S. Bartimoccia, L. Stefanini, A. Lenzi, N. Viceconte, G. Tanzilli, V. Cammisotto, L. Pilote, R. Cangemi, S. Basili, R. Carnevale, EVA Collaborators.

J Endocrinol Invest. 2022  doi: 10.1007/s40618-022-01771-0

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

MECCANISMI NEUROBIOLOGICI DELL’LSD

Il possibile utilizzo di sostanze psichedeliche usate a fini terapeutici in micro-dosi, ossia minime quantità che non inducono allucinazioni, sta ritornando al centro del dibattito scientifico nella letteratura internazionale.

Lo studio pubblicato sulla rivista «Neuropsychopharmacology» con il titolo “Repeated lysergic acid diethylamide (LSD) reverses stress-induced anxiety-like behavior, cortical synaptogenesis deficits and serotonergic neurotransmission decline” – coordinato da Gabriella Gobbi del Dipartimento di Psichiatria della McGill University di Montreal, a cui ha partecipato Stefano Comai del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova e che ha come primo autore Danilo De Gregorio dell’Università Vita Salute San Raffaele di Milano – rivela i meccanismi neurobiologici, precedentemente inspiegati, attraverso i quali l’LSD (dietilamide dell’acido lisergico) potrebbe alleviare i disturbi d’ansia.

È risaputo che le condizioni di stress cronico siano un fattore di rischio importante per lo sviluppo di patologie quali ansia e depressione. Il team di ricerca internazionale ha determinato gli effetti di una somministrazione di basse dosi di LSD, per un periodo di sette giorni, su un gruppo di animali soggetti a condizioni di stress cronico. Due i principali risultati: da un lato le micro-dosi ripetute di LSD porterebbero a una riduzione dei comportamenti ansiosi causati dallo stress, dall’altro la riduzione dei sintomi dell’ansia segue percorsi neurobiologici simili agli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, cioè quelli di alcune classi di antidepressivi e ansiolitici comunemente prescritti nella pratica clinica.

Meccanismi neurobiologici e LSD

La serotonina è un neurotrasmettitore che svolge un ruolo essenziale nello stato di benessere e l’uso di LSD aumenta la neurotrasmissione serotoninergica. Lo studio pubblicato dimostra che periodi prolungati di stress provocano una diminuzione dell’attività dei neuroni della serotonina. Con meccanismo analogo agli antidepressivi SSRI comunemente in commercio (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina), i ricercatori hanno scoperto che l’LSD desensibilizza i recettori della serotonina che regolano l’attività stessa dei neuroni serotoninergici. Il risultato finale di questa desensibilizzazione in seguito a trattamento prolungato con LSD a basse dosi è che questi neuroni serotoninergici rilasciano più serotonina.

Inoltre si è scoperto che LSD promuove la formazione di nuove spine dendritiche, ossia i “rami” dei neuroni che sono responsabili della trasmissione del segnale elettrico al corpo delle cellule nervose: il trattamento con LSD porta a una ricostruzione di quei rami che erano stati “smantellati” a causa dello stress.

La ricerca pubblicata si ricollega a uno studio condotto nel 2016 dallo stesso team in cui si dimostrava che basse dosi di LSD influenzavano solo la trasmissione serotoninergica, mentre dosi più elevate condizionavano l’attività della dopamina, un altro neurotrasmettitore, causando gli effetti psicotici.

Uso dell’LSD e contesti clinici molto rigorosi

Nell’assistenza e nella cura delle malattie psichiatriche è essenziale sviluppare nuove alternative terapeutiche in quanto le attuali purtroppo funzionano in modo ottimale solo in una percentuale dei pazienti: LSD, psilocibina, ayahuasca e MDMA sono tra i farmaci in fase di sviluppo per il trattamento di vari disturbi psichiatrici come ansia, depressione, disturbo da stress post-traumatico e dipendenza, nonché alcune malattie neurodegenerative. In alcuni paesi come il Canada è stato recentemente autorizzato l’uso di droghe psichedeliche in un contesto clinico molto rigoroso perché le sostanze psichedeliche possono causare psicosi ed effetti neurotossici.

Meccanismi neurobiologici LSD
Stefano Comai

«L’utilizzo di queste sostanze deve essere fatto in un contesto rigidamente regolamentato, per evitare il rischio di incorrere in importanti effetti collaterali, potenzialmente molto dannosi per la salute dell’individuo. Non esiste cioè un fai-da-te della cura attraverso sostanze psicotrope o droghe illegali – dice Stefano Comai del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova –. Dobbiamo ricordare i possibili rischi psicologici quali suscettibilità a episodi psicotici o maniacali, traumi associati a esperienze difficili e reazioni di rimbalzo di depressione o ansia. Inoltre, vanno sottolineate due cose: la dose è un fattore fondamentale e che la purezza di queste sostanze comprate attraverso i canali di spaccio è molto variabile».

Non meno importante è infine il fatto che non si conosca ancora nel dettaglio né quali siano gli effetti di queste sostanze quando sono somministrate ripetutamente o per lunghi periodi di tempo, né come queste sostanze agiscano a livello cerebrale.

«Il nostro lavoro ci ha permesso di compiere un passo avanti in questa direzione, ma ulteriori studi sono ancora necessari sia a livello preclinico sia a livello clinico. Negli ultimi quattro anni sono decine i trial clinici che sono iniziati per valutare l’efficacia degli psichedelici, principalmente psilocibina e MDMA, ma anche LSD, per il trattamento di diversi disturbi psichiatrici. Allo stesso modo, sono centinaia gli studi a livello preclinico. La speranza – conclude Stefano Comai – è di capire se e come poter utilizzare queste sostanze da un punto di vista terapeutico, riducendo il rischio di eventi avversi e dannosi. Queste ricerche, in ogni caso, potrebbero comunque aiutarci a meglio capire i meccanismi, ad oggi ancora per molti aspetti ignoti, alla base di disturbi quali depressione e ansia. La loro comprensione è di fondamentale importanza per poter studiare e sviluppare nuovi farmaci che possano avere da un lato la stessa efficacia terapeutica degli psichedelici e, dall’altro, un profilo di sicurezza migliore».

Link alla ricerca: https://www.nature.com/articles/s41386-022-01301-9

Titolo: “Repeated lysergic acid diethylamide (LSD) reverses stress-induced anxiety-like behavior, cortical synaptogenesis deficits and serotonergic neurotransmission decline” – «Neuropsychopharmacology» (2022)

Autori: Danilo De Gregorio, Antonio Inserra, Justine P. Enns, Athanasios Markopoulos, Michael Pileggi, Youssef El Rahimy, Martha Lopez-Canul, Stefano Comai & Gabriella Gobbi

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova

Lesioni del legamento crociato anteriore, un algoritmo aiuta a decidere il trattamento terapeutico migliore nei pazienti più giovani

 

I risultati dello studio saranno presentati nel corso del terzo congresso del Transalpine Center of Pediatric Sports Medicine and Surgery in programma a Monza.

legamento crociato anteriore algoritmo trattamento ginocchio
Ginocchio destro. Immagine vettoriale di Mysid, derivata da [1], in pubblico dominio
 

Milano, 30 novembre 2021 – Un algoritmo aiuta gli specialisti ad individuare il trattamento migliore delle rotture del legamento crociato anteriore nei pazienti più giovani. Negli ultimi venti anni l’incidenza di queste lesioni è aumentata notevolmente nei bambini e nei ragazzini per via di un incremento della pratica sportiva. Nonostante i casi si ripropongano sempre più di frequente, non esiste un percorso terapeutico univoco. L’individuazione del trattamento ottimale tra le tante opzioni possibili è strettamente correlata a circostanze legate al paziente e al tipo di lesione. L’algoritmo messo a punto non esclude l’esperienza clinica, ma la valorizza dal momento che proprio su essa è basato.
I ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca, dell’Ospedale San Gerardo di Monza, della Grenoble Alpes University e del Transalpine Center of Pediatric Sports Medicine and Surgery – in collaborazione con i colleghi di Tolosa (Francia), Rochester (USA) e Thunder Bay (Canada) – hanno effettuato una revisione di tutta la letteratura scientifica in materia e della casistica dei rispettivi centri. Un lavoro che ha portato alla elaborazione di un algoritmo di selezione del trattamento basato su tre condizioni: lo sviluppo scheletrico; la posizione, il tipo e la qualità della lesione; le aspettative di paziente e genitori riguardo le attività future. I risultati dello studio sono confluiti in un articolo (“Management of anterior cruciate ligament tears in Tanner stage 1 and 2 children: a narrative review and treatment algorithm guided by ACL tear location” – DOI: 10.23736/S0022-4707.21.12783-5) pubblicato su “The Journal of Sports Medicine and Physical Fitness”.

 

L’algoritmo elaborato dai ricercatori e i progressi nel trattamento delle rotture del legamento crociato anteriore nei pazienti giovanissimi saranno il tema del terzo congresso del Transalpine Center of Pediatric Sports Medicine and Surgery, in programma il 3 dicembre prossimo presso il centro congressi dell’Ospedale San Gerardo di Monza. Nelle quattro sessioni in cui si articola la giornata, gli specialisti affronteranno anche tematiche legate alla prevenzione e ai percorsi riabilitativi. Il Transalpine Center of Pediatric Sports Medicine and Surgery nasce dalla collaborazione tra l’Università di Milano-Bicocca e la Grenoble Alpes University con l’obiettivo di creare una sinergia per la presa in carico dei giovani sportivi, sopperendo in questo modo alla mancanza di un centro di riferimento altamente specializzato.

 

Nelle rotture del legamento crociato anteriore la decisione sul migliore trattamento terapeutico per lo specifico caso può essere presa, a volte, soltanto in sede di intervento operatorio. Proprio per questo un momento importante è il rapporto che gli specialisti instaurano con i genitori del paziente, affinché questi ultimi siano messi nelle condizioni di poter prestare il consenso informato per la tipologia di intervento che verrà scelta.

 

«Nei soggetti scheletricamente immaturi, che presentano un alto potenziale rigenerativo, per alcune lesioni del crociato è possibile un trattamento di tipo riparativo e non ricostruttivo» spiega Marco Turati, ricercatore del Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università di Milano-Bicocca, dirigente medico del reparto di Ortopedia dell’Ospedale San Gerardo di Monza e presidente del congresso del Transalpine Center of Pediatric Sports Medicine and Surgery.
Poi aggiunge: «Questo tipo di trattamento permette la preservazione del tessuto legamentoso nativo. In altri casi è invece raccomandata la ricostruzione del crociato poiché è stato evidenziato che rimandare il trattamento a quando il soggetto presenterà caratteristiche di maturità scheletrica lo espone ad un alto rischio di lesioni associate. L’algoritmo che abbiamo presentato evidenzia, infine, come il trattamento ottimale non comporti solamente scelte chirurgiche specifiche sul singolo paziente, ma anche adattati percorsi riabilitativi che permettano un recupero funzionale il più adeguato possibile».
Testo dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca

IL DOLORE DA BRUCIATURA PERSISTE PIÙ A LUNGO DI QUELLO DA PUNTURA? LA CHIAVE È NEL MIDOLLO SPINALE

Lo studio pubblicato su Nature Communications potrà avere importanti effetti nella terapia del dolore

Un team composto da ricercatori italiani e canadesi ha scoperto un meccanismo nel midollo spinale che dimostra come il dolore di tipo termico tende a perdurare e amplificarsi di più rispetto al dolore di tipo meccanico. Questa diverso comportamento dipende da un trasportatore del cloro, il KCC2, che condiziona la capacità dei neuroni centrali di inibire i diversi tipi di stimoli dolorifici. La scoperta è contenuta nell’articolo “Differential chloride homeostasis in the spinal dorsal horn locally shapes synaptic metaplasticity and modality-specific sensitization”, pubblicato venerdì 7 agosto sulla rivista Nature Communications.

Foto di SamWilliamsPhoto

Lo studio nasce da una collaborazione ormai decennale tra il Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Torino e il laboratorio del Prof. Yves De Koninck del Centro di Ricerca CERVO, presso l’Université Laval (Québec). Primo autore dell’articolo è Francesco Ferrini, docente del Dipartimento di Scienze Veterinarie di UniTo.

Sebbene siano entrambi stimoli dolorosi, una bruciatura lascia una sensazione di dolore più persistente rispetto a un pizzico o una puntura. Il dolore di tipo termico e quello meccanico rappresentano due modalità differenti e sono trasmesse al corno dorsale del midollo spinale attraverso delle vie specializzate. I neuroni spinali, a loro volta, trasmettono l’informazione al cervello dopo averla rielaborata e filtrata.

La capacità del midollo spinale di controllare gli stimoli dolorifici in arrivo dalla periferia è estremamente importante per evitare che stimoli non rilevanti siano erroneamente trasmessi al cervello come segnali dolorifici. Tale modulazione è in gran parte dovuta al rilascio di trasmettitori inibitori (GABA o glicina), che inibiscono la comunicazione tra neuroni mediante l’ingresso di cloro. L’efficacia di questi trasmettitori inibitori è determinata dal KCC2, un trasportatore che mantiene basso il livello di cloro nei neuroni. Se il trasportatore funziona bene, i trasmettitori inibitori sono più efficaci nel limitare il passaggio di informazioni dolorifiche.

Grazie a questo studio si è scoperto che, in condizioni normali, i livelli di espressione del trasportatore di cloro, KCC2, sono più bassi nelle aree del midollo spinale che elaborano stimoli termici, mentre sono più alti in quelle che ricevono gli stimoli meccanici. Ne consegue che i trasmettitori inibitori sono molto meno efficaci nel controllare uno stimolo termico (ad es. una bruciatura), rispetto a uno stimolo meccanico (ad es. un pizzicotto). Ricevendo un’inibizione più debole, gli stimoli termici tendono ad amplificarsi e a sommarsi maggiormente, divenendo più rapidamente intollerabili.

“Il nostro studio – dichiara il Prof. Francesco Ferrini – oltre a perfezionare le conoscenze sui meccanismi che regolano la trasmissione di segnali dolorifici nel sistema nervoso, può avere importanti conseguenze nella terapia del dolore. È noto, infatti, che farmaci che agiscono potenziando il GABA, come le benzodiazepine, sono spesso poco efficaci come analgesici. Il nostro studio suggerisce che l’efficacia di tali trattamenti dovrebbe essere riconsiderata sulla base della specifica modalità dolorifica coinvolta. Tali considerazioni possono essere estese anche alle manifestazioni di dolore cronico, come il dolore neuropatico, dove l’espressione della proteina KCC2 è fortemente ridotta. Uno dei sintomi più prominenti del dolore neuropatico è l’ipersensibilità agli stimoli meccanici, anche banali, come il contatto con i propri vestiti. Si può supporre che in condizioni patologiche la riduzione dell’inibizione, dovuta all’abbassamento del KCC2, abbia effetti molto più drammatici proprio in quelle aree del midollo spinale dove l’inibizione è normalmente più efficace. Pertanto, il controllo dell’inibizione spinale sugli stimoli meccanici, molto presente e robusto in condizioni normali, potrebbe essere del tutto annullato in condizioni patologiche, con la conseguenza che stimoli meccanici innocui possono essere erroneamente interpretati come stimoli dolorosi”.

Testo dall’Università degli Studi di Torino