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LA VIOLENTISSIMA TEMPESTA COSMICA NEL CUORE DEL QUASAR PDS 456, PRODOTTA DA UN BUCO NERO SUPERMASSICCIO

Roma, 14 maggio 2025 – Immaginate una tempesta colossale che si scatena appena al di fuori di un buco nero supermassiccio: è proprio ciò che ha rivelato Resolve, il nuovo spettrometro ad altissima risoluzione nei raggi X a bordo del satellite XRISM, nel contesto di una missione spaziale guidata dall’agenzia spaziale JAXA (Giappone), con la partecipazione di NASA (Stati Uniti) ed ESA (Europa).

Grazie ai dati ad altissima precisione di XRISM, è stato possibile – per la prima volta – identificare cinque componenti distinte di questo vento nel cuore del quasar PDS 456, ognuna espulsa dal buco nero centrale a velocità relativistiche, comprese tra il 20% e il 30% della velocità della luce.  Per fare un confronto, basti pensare che le tempeste più violente sulla Terra – come un uragano di categoria 5 – raggiungono al massimo 300 km/h. Questa “tempesta cosmica” è milioni di volte più veloce.

Lo studio nato da questa collaborazione internazionale (JAXA, NASA, ESA) nell’ambito della missione XRISM, a cui partecipano anche ricercatrici e ricercatori dell’Università di Roma Tor Vergata e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), è pubblicato oggi sulla rivista internazionale Nature, con un articolo dal titolo “Structured ionized winds shooting out from a quasar at relativistic speeds”, che evidenzia la scoperta di cinque distinti flussi di plasma che fuoriescono dal disco di accrescimento del buco nero centrale a velocità estreme, pari al 20–30% di quella della luce.

“Il nostro gruppo ha giocato un ruolo chiave nell’interpretazione di questi dati, grazie a tecniche spettroscopiche avanzate nei raggi X e a modelli teorici innovativi per la fisica dei venti prodotti dai buchi neri.  Questi risultati aprono una nuova finestra sullo studio dell’universo estremo, e gettano le basi per comprendere meglio come i buchi neri influenzano l’evoluzione delle galassie”.  Commenta così Francesco Tombesi, professore associato di Astrofisica presso il dipartimento di Fisica dell’università di Roma Tor Vergata e associato INAF. In qualità di XRISM Guest Scientist selezionato dall’ESA (uno dei soli due in Italia insieme a James Reeves, associato INAF), Tombesi ha partecipato alla pianificazione e all’analisi dell’osservazione del quasar PDS 456, il più luminoso dell’universo locale, utilizzando il nuovo spettrometro ad alta risoluzione Resolve.

“Roma Tor Vergata ha avuto un ruolo di primo piano – prosegue Tombesi – anche grazie al contributo di due giovani ricercatori cresciuti all’interno del nostro Ateneo: Pierpaolo Condò, dottorando al secondo anno del PhD in Astronomy, Astrophysics and Space Science (AASS), e Alfredo Luminari, ricercatore post-doc presso INAF ed ex dottorando AASS”.

Un’energia così enorme e una struttura così complessa rivoluzionano la nostra comprensione dell’ambiente estremo intorno ai buchi neri supermassicci e mettono in seria discussione i modelli attuali di feedback tra buco nero e galassia. “Le teorie finora accettate – conclude Tombesi – non riescono a spiegare una simile combinazione di forza e frammentazione: è chiaro che serviranno nuovi modelli per descrivere questi mostri cosmici”.

“PDS456 è un laboratorio prezioso per studiare nell’universo locale i potentissimi venti prodotti dai buchi neri supermassivi. Questa  nuova osservazione ci ha permesso di misurare la geometria e distribuzione in velocità del vento con un livello di dettagli impensabile prima dell’avvento di XRISM”, aggiunge Valentina Braito, ricercatrice INAF a Milano.

Un ruolo vincente all’interno della campagna osservativa di PDS456 lo ha avuto ancora una volta l’osservatorio spaziale Neil Gehrels Swift, satellite NASA con una importante partecipazione dell’INAF con l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). È stato infatti grazie a un programma osservativo Swift – ottenuto da Valentina Braito – che il team è riuscito a costruire i modelli specifici per PDS456 utilizzati nell’analisi dei dati XRISM.

 

Riferimenti bibliografici:

XRISM collaboration, Structured ionized winds shooting out from a quasar at relativistic speeds, Nature (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-025-08968-2

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

SCOPERTO IL GETTO OSCILLANTE DI M87

Un gruppo di ricercatori guidati dallo Zhejiang Laboratory (Cina), a cui partecipa anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Università di Bologna, ha recentemente scoperto che la vicina radiogalassia Messier 87 (M87), situata a 55 milioni di anni luce dalla Terra, presenta un getto oscillante. Questo getto ha origine da un buco nero 6,5 miliardi di volte più massiccio del Sole: esattamente quello la cui immagine è stata ottenuta nel 2019 con l’Event Horizon Telescope (EHT). Dai dati raccolti negli ultimi 23 anni con la tecnica Very Long Baseline Interferometry (VLBI), gli esperti hanno osservato che il getto oscilla con un’ampiezza di circa 10 gradi (il fenomeno è conosciuto con il nome di precessione). Come si legge nell’articolo pubblicato oggi su Nature, gli esperti hanno svelato un ciclo ricorrente di 11 anni nel movimento di precessione della base del getto, come previsto dalla teoria della relatività generale di Einstein nel caso di un buco nero rotante attorno al suo asse. Questo lavoro ha quindi collegato con successo la dinamica del getto con il buco nero supermassiccio centrale, offrendo la prova dell’esistenza della rotazione del buco nero di M87.

Rappresentazione schematica del modello del disco di accrescimento inclinato. Si presume che l’asse di rotazione del buco nero sia allineato verticalmente. La direzione del getto è quasi perpendicolare al disco. Il disallineamento tra l’asse di rotazione del buco nero e l’asse di rotazione del disco innescherà la precessione del disco e del getto. Crediti: Yuzhu Cui et al. 2023, Intouchable Lab@Openverse e Zhejiang Lab
Scoperto il getto oscillante di M87: rappresentazione schematica del modello del disco di accrescimento inclinato. Si presume che l’asse di rotazione del buco nero sia allineato verticalmente. La direzione del getto è quasi perpendicolare al disco. Il disallineamento tra l’asse di rotazione del buco nero e l’asse di rotazione del disco innescherà la precessione del disco e del getto. Crediti: Yuzhu Cui et al. 2023, Intouchable Lab@Openverse e Zhejiang Lab

I buchi neri supermassicci al centro delle galassie attive sono gli oggetti celesti più potenti dell’universo, in quanto in grado di accumulare enormi quantità di materiali a causa della straordinaria forza gravitazionale e allo stesso tempo alimentare getti che si allontanano a velocità vicina a quella della luce. Il meccanismo di trasferimento di energia tra i buchi neri supermassicci, il disco tramite il quale la materia cade sul buco nero e i getti relativistici rimane però un enigma ancora irrisolto. Una teoria prevalente suggerisce che l’energia può essere estratta da un buco nero in rotazione, che grazie alla energia gravitazionale ottenuta dalla materia in caduta su di esso è in grado di espellere getti di plasma a velocità vicine a quella della luce. Tuttavia, la rotazione dei buchi neri supermassicci non è ancora stata provata con certezza.

Marcello Giroletti, ricercatore presso l’INAF di Bologna e tra gli autori dell’articolo, spiega:

“Questa scoperta è molto importante, perché prova che il buco nero supermassccio al centro di M87 è in rotazione su sé stesso con grandissima velocità. Questa possibilità era stata ipotizzata proprio sulla base delle immagini ottenute con EHT ma ora ne abbiamo una dimostrazione inequivocabile”

Infatti quale forza nell’universo può alterare la direzione di un getto così potente? La risposta potrebbe nascondersi nel comportamento del disco di accrescimento, la struttura a forma di disco nella quale il materiale spiraleggia gradualmente verso l’interno finché non viene fatalmente attratto dal buco nero. E se il buco nero è in rotazione su sé stesso, ne segue un impatto significativo sullo spazio-tempo circostante, causando il trascinamento degli oggetti vicini, ovvero il “frame-dragging” previsto dalla Relatività Generale di Einstein.

 Pannello superiore: struttura del getto M87 a 43 GHz osservata nel periodo 2013-2018. Le frecce bianche indicano l'angolo di posizione del getto in ciascuna sottotrama. Pannello inferiore: risultati basati sull'immagine impilata annualmente dal 2000 al 2022. I punti verde e blu sono ottenuti da osservazioni rispettivamente a 22 GHz e 43 GHz. La linea rossa rappresenta la soluzione migliore secondo il modello di precessione. Crediti: Yuzhu Cui et al. 2023
Pannello superiore: struttura del getto M87 a 43 GHz osservata nel periodo 2013-2018. Le frecce bianche indicano l’angolo di posizione del getto in ciascuna sottotrama. Pannello inferiore: risultati basati sull’immagine impilata annualmente dal 2000 al 2022. I punti verde e blu sono ottenuti da osservazioni rispettivamente a 22 GHz e 43 GHz. La linea rossa rappresenta la soluzione migliore secondo il modello di precessione. Crediti: Yuzhu Cui et al. 2023

Gabriele Giovannini, professore dell’Università di Bologna e tra gli autori dell’articolo, aggiunge:

“La galassia M87 (Virgo A) non cessa di stupirci. Dopo averci regalato la prima immagine del suo supermassiccio buco nero centrale, ora ci rivela che il potente getto emesso grazie alla trasformazione di massa in energia non è stabile ma fa registrare una regolare oscillazione. Questo risultato mostra un non perfetto allineamento tra la rotazione del buco nero centrale ed il disco di materia che lo circonda ed in caduta su di esso. L’oscillazione del getto influenza notevolmente la materia e lo spazio tempo circostante in accordo con le leggi relativistiche”.

Dall’analisi dei dati si evince che l’asse di rotazione del disco di accrescimento si disallinea con l’asse di rotazione del buco nero, portando alla precessione del getto. Il rilevamento di questa precessione rappresenta un supporto convincente per concludere inequivocabilmente che il buco nero supermassiccio all’interno di M87 stia ruotando, aprendo nuove dimensioni nella nostra comprensione della natura dei buchi neri supermassicci.

“La precessione – dice Giroletti – è la variazione della direzione del getto emesso dal buco nero al centro di M87.  Per l’esattezza è una variazione regolare e ciclica per cui l’asse del getto nel corso degli anni descrive un cono attorno ad un asse immaginario. Guardando questa precessione proiettata nel piano del cielo noi vediamo il getto oscillare in modo regolare”.

Questo lavoro ha utilizzato un totale di 170 epoche di osservazioni ottenute dalla rete East Asian VLBI Network (EAVN), dal Very Long Baseline Array (VLBA), dal KVN e VERA (KaVA), e dalla rete East Asia to Italy Nearly Global VLBI (EATING). In totale, più di 20 telescopi in tutto il mondo hanno contribuito a questo studio, tra cui anche il Sardinia Radio Telescope (SRT) e la Stazione Radioastronomica di Medicina dell’INAF.

“Questo importante risultato nasce grazie a un’ampia collaborazione che ha coinvolto 79 ricercatori di 17 diversi osservatori, università ed enti ricerca sparsi in 10 Paesi”, dice ancora Giovannini. “”Di cruciale importanza, in particolare, è stata la sinergia tra studiosi italiani e dell’Asia Orientale (Cina, Giappone, Corea). La collaborazione è in continuo sviluppo, infatti nelle antenne italiane utilizzate per le osservazioni sono infatti stati installati alcuni ricevitori coreani che permetteranno di migliorare la collaborazione nelle osservazioni ad alta frequenza (alta energia) ed elevata risoluzione angolare”.

Giroletti aggiunge: “INAF ha fornito un contributo fondamentale tramite la partecipazione dei propri radiotelescopi che si trovano a grandissima distanza (circa 10 mila km) da quelli dell’Asia Orientale che costituivano il nucleo della rete osservativa.  Poiché i dettagli delle immagini dipendono dall’estensione della rete, l’aggiunta delle antenne INAF ha migliorato di quasi 10 volte il dettaglio delle immagini. Questo ha facilitato grandemente la rivelazione delle oscillazioni del getto. Inoltre INAF ha contribuito anche con la partecipazione del proprio personale di ricerca per l’interpretazione dei risultati”.

E conclude: “La collaborazione fra Italia ed estremo oriente sta crescendo anno dopo anno sia in ambito scientifico che tecnologico e questo risultato ci dà grande fiducia per i lavori che stiamo portando avanti nei due continenti”.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Precessing jet nozzle connecting to a spinning black hole in M87”, di Yuzhu Cui et al., è stato pubblicato sulla rivista Nature.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

MESSIER 87: FINALMENTE OSSERVATO IL COLLEGAMENTO TRA LA MATERIA CHE CIRCONDA IL BUCO NERO E LA BASE DEL GETTO RELATIVISTICO 

Un team internazionale di scienziati, a cui partecipano anche i ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha utilizzato nuove osservazioni a lunghezze d’onda millimetriche per “fotografare” per la prima volta la struttura ad anello che rivela la materia che cade nel buco nero centrale, insieme al potente getto relativistico, nella prominente radiogalassia Messier 87 (M87). Le immagini mostrano l’origine del getto e il flusso di accrescimento vicino al buco nero supermassiccio centrale. Le nuove osservazioni sono state ottenute con il Global Millimeter VLBI Array (GMVA), integrato dall’Atacama Large Millimeter/submillimetre Array (ALMA) e dal Greenland Telescope (GLT). L’aggiunta di questi due osservatori ha notevolmente migliorato le capacità di imaging del GMVA. I risultati sono pubblicati sulla rivista scientifica Nature.

Rappresentazione artistica che mostra uno zoom sul flusso di accrescimento e sul getto che emerge dalla regione del buco nero in Messier 87. Crediti: Sophia Dagnello, NRAO/AUI/NSF

Gabriele Giovannini e Marcello Giroletti, dell’INAF di Bologna e tra gli autori dello studio, raccontano:

“Il buco nero al centro della galassia M87 è ben noto essendo il primo di cui è stata ottenuta una immagine (dal team dell’Event Horizon Telescope EHT). Noi lo abbiamo osservato con alta sensibilità ad una lunghezza d’onda leggermente più grande (3,5 mm) e quindi più adatta a rivelare le strutture più estese della sorgente. Le immagini hanno infatti mostrato che la struttura ad anello intorno al buco nero è più estesa di quanto si credeva e che questo anello è collegato al getto relativistico visto in M87. Per la prima volta vediamo quindi il collegamento tra la materia che circonda il buco nero e la base del getto relativistico”.

Immagine GMVA+ALMA della regione centrale del buco nero in Messier 87 ottenuta il 14-15 aprile 2018 a una lunghezza d’onda di 3,5 mm. L’immagine grande raffigura il getto e l’anello centrale ricostruiti con il metodo CLEAN standard. L’inserto mostra un ingrandimento della regione interna ottenuta con il metodo SMILI a super risoluzione, rivelando la forma ad anello con un diametro di 64 microarcosecondi

Rusen Lu, dell’Osservatorio astronomico di Shanghai e leader del Max Planck Institute di Bonn partner group presso l’Accademia cinese delle scienze, primo autore di questa scoperta, commenta:

“In precedenza, avevamo visto sia il buco nero che il getto in immagini separate. Ora  è come se avessimo scattato una foto panoramica del buco nero insieme al suo getto a una nuova lunghezza d’onda”.

Si pensa che il materiale circostante cada nel buco nero in un processo noto come accrescimento, da cui ha origine il getto ma nessuno aveva mai visto direttamente l’origine del getto.

Mappa dei radiotelescopi utilizzati per l’immagine di Messier 87 a 3,5 millimetri nella campagna 2018 Global Millimeter VLBI Array (GMVA). Crediti: Helge Rottmann, MPIfR

La partecipazione di ALMA e GLT alle osservazioni del GMVA e il conseguente aumento della risoluzione e della sensibilità di questa rete intercontinentale di telescopi ha reso possibile per la prima volta l’immagine della struttura ad anello in M87 alla lunghezza d’onda di 3,5 mm. Il diametro dell’anello misurato dal GMVA è di 64 microsecondi d’arco, corrispondenti alle dimensioni di un piccolo anello luminoso (13 cm) visto da un astronauta sulla Luna che guarda la Terra. Questo diametro è del 50% più grande di quanto osservato dall’Event Horizon Telescope alla lunghezza d’onda di 1,3 mm, in accordo con le previsioni per l’emissione del plasma relativistico in questa regione.

L’emissione da questa regione di M87 è prodotta dall’interazione tra elettroni altamente energetici e campi magnetici, un fenomeno chiamato radiazione di sincrotrone. Le nuove osservazioni, a una lunghezza d’onda di 3,5 millimetri, rivelano maggiori dettagli sulla presenza e l’energia di questi elettroni. Ci dicono anche qualcosa sulle proprietà del buco nero, in particolare che non è molto “affamato”. Cosa vuol dire? Consuma materia a bassa velocità, convertendo solo una piccola frazione di essa in radiazioni.

I buchi neri sono la miglior macchina che conosciamo in grado di trasformare materia (la materia dell’anello) in energia (il getto relativistico espulso). Gli studi per saperne di più su Messier 87 non finiscono qui: ulteriori osservazioni e una flotta di potenti telescopi continueranno a svelarne i segreti. I radiotelescopi INAF (Medicina, Noto, Sardinia Radio Telescope) una volta completato il loro potenziamento attualmente in corso, saranno in grado di collaborare a queste osservazioni a 3,5 mm aumentandone ulteriormente la qualità.

Immagine GMVA+ALMA della regione centrale del buco nero in Messier 87 ottenuta il 14-15 aprile 2018 a una lunghezza d’onda di 3,5 mm. L’immagine grande raffigura il getto e l’anello centrale ricostruiti con il metodo CLEAN standard. L’inserto mostra un ingrandimento della regione interna ottenuta con il metodo SMILI a super risoluzione, rivelando la forma ad anello con un diametro di 64 microarcosecondi

 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “A ring-like accretion structure in M87 connecting its black hole and jet”, di Ru-Sen Lu et al. pubblicato su Nature.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

LO STRANO CASO DEL BLAZAR BL LACERTAE, CON IL GETTO SINUOSO

A circa un miliardo di anni luce da noi il blazar BL Lacertae, con il suo buco nero supermassiccio al centro di una enorme galassia, sta ingurgitando una sterminata quantità di materia, che in parte viene espulsa a velocità prossime a quella della luce sotto forma di due getti, uno dei quali punta quasi esattamente verso di noi. Studiando questo mostro cosmico, Il Whole Earth Blazar Telescope (WEBT), una collaborazione di astronomi di tutto il mondo di cui fanno attivamente parte ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, ha scoperto che la radiazione del suo getto orientato verso la Terra mostra delle forti oscillazioni cicliche di luminosità, che aumenta e diminuisce nell’arco di alcune ore. Secondo il team, questo comportamento assolutamente particolare è dovuto al fatto che il getto non sia esattamente rettilineo, ma si sia formata una piega (kink) prodotta da instabilità createsi nel getto ad una distanza di circa 16 anni luce dal buco nero che ha deviato ritmicamente il potentissimo flusso di radiazione verso di noi e ha prodotto così l’oscillazione di luminosità rilevata. Al lavoro, pubblicato sulla rivista Nature e guidato da Svetlana Jorstad dell’Università di Boston, hanno partecipato anche ricercatori di Università italiane e astrofili presso alcuni osservatori non professionali nel nostro Paese.

Rappresentazione artistica del getto prodotto dal blazar BL Lacertae. Crediti: Iris Nieh
Rappresentazione artistica del getto prodotto dal blazar BL Lacertae. Crediti: Iris Nieh

Il blazar è un particolare nucleo galattico attivo (AGN) alimentato da materiale che cade in un buco nero supermassiccio situato al centro di una galassia. Circa il 10% degli AGN presenta una coppia di getti che vengono proiettati nello spazio interstellare a velocità prossime a quella della luce. Si parla di blazar quando uno dei getti punta quasi direttamente verso la Terra, il che lo fa apparire molto più luminoso a causa di un effetto di focalizzazione relativistica. I getti producono radiazione che va dalle onde radio, al visibile, fino ai raggi X e gamma, la cui intensità varia rapidamente nel tempo. Queste variazioni sono di solito casuali, senza uno schema riconoscibile.

Il progetto WEBT, avviato 25 anni fa e coordinato da Claudia Maria Raiteri e Massimo Villata dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha l’obiettivo di monitorare la variabilità della luce visibile, ma anche quella nelle bande radio e del vicino infrarosso, nei blazar osservati nei raggi gamma dai satelliti AGILE dell’Agenzia Spaziale Italiana e Fermi della NASA. “Le nostre osservazioni hanno portato alla scoperta di cicli di variazione della luminosità visibile, di quella nei raggi gamma, e nel grado di polarizzazione del blazar BL Lacertae (BL Lac in breve) su tempi scala di circa 13 ore. Questo durante un periodo di forte emissione registrata a varie lunghezze d’onda nella seconda metà del 2020” dice Claudia Raiteri, dell’INAF di Torino. BL Lac è alimentato da un buco nero con una massa di circa 170 milioni di volte quella del Sole ed è situato a circa 1 miliardo di anni luce dalla Terra. I cicli di variazioni di luminosità sono definiti “oscillazioni quasi-periodiche” o QPO. Le QPO si osservano più spesso in altri sistemi composti da coppie di buchi neri con masse comprese tra 10 e 50 volte quella del Sole che emettono raggi X.

Nel caso delle osservazioni della luminosità di BL Lacertae, il team ha proposto che nel getto si formi una piega che torce il campo magnetico del getto stesso, determinando così l’oscillazione della luminosità. Inoltre, un’altra caratteristica della radiazione osservata, ovvero la sua polarizzazione, cambia con un andamento nel tempo simile a quello della luminosità. La luce polarizzata proviene dal getto e la polarizzazione può variare solo se il campo magnetico cambia la sua configurazione nella regione che produce la luce. Il campo magnetico nel getto deve essere in torsione per provocare le oscillazioni. Le osservazioni di BL Lac mostrano anche una forte correlazione tra la luce visibile e le variazioni di raggi gamma senza alcun ritardo, il che colloca l’origine dei raggi gamma nella regione in cui cambia la luce visibile.

Se il campo magnetico di un getto ha una struttura a spirale, il getto e il campo possono diventare instabili e torcersi, creando una piega. Quando le particelle nel getto scorrono attraverso la piega, la quantità di radiazione emessa aumenta e diminuisce ritmicamente, producendo le QPO. Tuttavia, per migliorare ulteriormente l’accordo tra le osservazioni e la teoria, i ricercatori hanno inserito il contributo legato a processi di turbolenza nel codice che descrive il comportamento dinamico del getto di BL Lac, ottenendo ottimi risultati anche nel riprodurre l’andamento della polarizzazione rilevata. A sostegno di questo scenario, le immagini della radiazione del getto nelle onde radio di alta frequenza, ottenute dal team con i dati del Very Long Baseline Array (VLBA), mettono in evidenza una nuova macchia luminosa che risulta spostata rispetto all’asse del getto, con una direzione di polarizzazione che risulta favorevole allo sviluppo di una piega nel getto stesso.

“L’obiettivo del WEBT è individuare i meccanismi fisici che causano la variabilità dei blazar attraverso l’organizzazione di intense campagne osservative multifrequenza e la relativa analisi ed interpretazione dei dati. I risultati ottenuti su BL Lac sono stati possibili grazie all’eccezionale continuità temporale delle osservazioni che il WEBT riesce ad ottenere, dovuta alla collaborazione di decine di astronomi e astrofili che osservano a diverse longitudini, dandosi quindi il cambio nel compito osservativo durante le 24 ore di rotazione terrestre” dice Massimo Villata dell’INAF di Torino, Presidente del WEBT dal 2000.

Scoperto nel 1929 nella costellazione della Lucertola (in latino Lacerta) e classificato inizialmente come stella variabile, BL Lac è il “capostipite” di una classe di AGN dalle caratteristiche simili: gli oggetti di tipo BL Lacertae.

 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Rapid quasi-periodic oscillations in the relativistic jet of BL Lacertae” di Svetlana Jorstad et al. è stato pubblicato oggi sulla rivista Nature.

Nel team internazionale di 86 ricercatori, per il contributo italiano hanno partecipato Claudia Maria Raiteri, Massimo Villata e Maria Isabel Carnerero Martin (INAF Torino), Antonio Frasca (INAF Catania), Giacomo Bonnoli (INAF Milano, Università di Siena, Instituto de Astrofisica de Andalucia), Daniele Carosati (INAF TNG, EPT Observatories), Alessandro Marchini (Università di Siena), Fabio Mortari e Davide Gabellini (Osservatorio Hypatia, Rimini), Pietro Aceti (Osservatorio Astronomico città di Seveso, Politecnico di Milano), Claudio Arena (Gruppo Astrofili Catanesi), Massimo Banfi (Osservatorio Astronomico città di Seveso), Fabio Salvaggio e Giuseppe Marino (Gruppo Astrofili Catanesi, Wild Boar Remote Observatory, Firenze), Riccardo Papini (Wild Boar Remote Observatory, Firenze), Simone Leonini (Osservatorio di Montarrenti, Siena).

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

Gaia l’investigatrice, così stana le coppie di buchi neri supermassicci

Un team di astrofisici guidato da Filippo Mannucci dell’Istituto nazionale di astrofisica ha ideato un nuovo metodo per individuare rapidamente e sull’intero cielo coppie di buchi neri supermassicci destinati a fondersi insieme alle rispettive galassie. La tecnica si avvale dei dati raccolti dal telescopio spaziale Gaia dell’ESA ed è stata confermata da osservazioni con Hubble, LBT e altri grandi telescopi da terra. I risultati sono descritti in un articolo pubblicato oggi su Nature Astronomy.

È una verità universalmente riconosciuta che un buco nero in possesso di una buona massa debba necessariamente cercare un compagno. Lo abbiamo appurato, da qualche anno, per buchi neri relativamente piccoli – decine di masse solari – grazie alla rivelazione delle onde gravitazionali che generano quando si fondono. E lo stesso sembra valere anche per quelli supermassicci – centinaia di milioni, se non miliardi, di masse solari – che albergano nel cuore delle galassie. Quando due galassie si scontrano, e lo fanno spesso, si uniscono e i due buchi neri supermassicci iniziano a spiraleggiare l’uno attorno all’altro, in quella danza gravitazionale che prima o poi li condurrà inevitabilmente a fondersi.

Di coppie di questo genere – in grado di produrre due nuclei galattici attivi (AGN, dall’inglese active galactic nucleus) all’interno dell’unica galassia risultante dalla fusione – l’universo dev’essere pieno: è quanto prevedono i modelli cosmologici basati sul cosiddetto merging gerarchico. Ma è una previsione ancora in attesa di verifica osservativa, a causa dell’enorme difficoltà che individuare queste coppie comporta. Ora però, grazie all’intuizione di un team d’astrofisici guidato da Filippo Mannucci dell’Istituto nazionale di astrofisica (INAF), è stato messo a punto un metodo originale che consente di ottenere campioni estesi e affidabili di “candidati AGN doppi” – vale a dire, appunto, possibili coppie di buchi neri supermassicci. La nuova tecnica, descritta in un articolo pubblicato oggi su Nature Astronomy, sfrutta i dati raccolti da uno strumento progettato per tutt’altro scopo: il satellite Gaia dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), nato per compilare la mappa multidimensionale più precisa e completa della Via Lattea. E si avvale, per la verifica dei risultati, delle capacità straordinarie di eseguire osservazioni ad alta risoluzione consentite, dallo spazio, dal telescopio Hubble, e da terra – grazie al sistema di ottiche adattive che annulla le distorsioni introdotte dalla turbolenza atmosferica – dal Large Binocular Telescope (LBT).

immagini ad alta risoluzione, ottenute dal Large Binocular Telescope (LBT) grazie al sistema di ottiche adattive SOUL realizzato dall’INAF, di cinque coppie di buchi neri supermassicci selezionate nell’archivio di Gaia tramite la tecnica dei picchi multipli. Crediti: F. Mannucci et al., Nature Astronomy, 2022

«Abbiamo scavato nello sconfinato archivio del telescopio spaziale Gaia dell’ESA e utilizzato per la prima volta una proprietà misurata ma mai usata. Questo parametro», spiega Filippo Mannucci, dirigente di ricerca all’INAF di Arcetri,

«si è rivelato utilissimo per il nostro problema, aprendo un campo tutto nuovo. È stato emozionante vedere come i telescopi specializzati per ottenere immagini di alta risoluzione – il telescopio spaziale Hubble e, ancora meglio, LBT, grazie al sistema di ottiche adattive SOUL realizzato dall’INAF – abbiano confermato il nuovo metodo: un ottimo esempio di uso sincronizzato di vari telescopi, spaziali e da terra. Dopo la scrittura dell’articolo abbiamo ottenuto altre conferme e iniziato un grande studio statistico usando anche i telescopi del Keck, alle Hawaii, e il Very Large Telescope dell’ESO, in Cile. E stiamo usando altri telescopi da terra, come TNG, NTT e Asiago, per allargare il campione».

«Il nuovo parametro pubblicato nell’ultima release del catalogo Gaia», aggiunge Elena Pancino dell’INAF di Arcetri, coautrice dello studio, riferendosi alla “proprietà misurata ma mai usata” citata da Mannucci, «indica la presenza di picchi multipli nei profili di luce unidimensionali prodotti dal satellite ESA, e si sta rivelando utile soprattutto alla comunità stellare galattica per identificare binarie visuali o fisiche, per cui abbiamo pensato di testarlo sugli AGN».

Volendo fare un’analogia, pensiamo a una fotocellula piazzata all’ingresso di un’attrazione – un museo, uno stadio, un supermercato – per contare le persone che entrano: una persona, un picco di segnale. Se entro un intervallo di tempo molto breve – un secondo, per esempio – vengono prodotti due picchi, significa che sono entrate due persone a distanza molto ravvicinata. Forse una coppia? È possibile. Per capirlo, occorre anzitutto stabilire sotto a quale soglia di distanza fra due picchi possa aver senso ipotizzare che si tratti di una coppia.

Fuor di metafora: quanto devono essere vicini fra loro, due buchi neri, per poter essere considerati una coppia?

«Sono una coppia quando fanno parte della stessa galassia, ma questo non riusciamo a determinarlo direttamente. Assumiamo quindi una distanza massima di circa 20mila anni luce», dice un altro dei coautori dello studio, Alessandro Marconi dell’Università di Firenze. «È una distanza inferiore a quella fra il Sole e il centro della Via Lattea, che ad un redshift superiore a 0.5 corrisponde a meno di 1 secondo d’arco».

Assumendo tale soglia, le coppie di buchi neri supermassicci attualmente note sono soltanto quattro. Ma con il metodo del gruppo di astronomi fiorentini questo numero potrebbe esplodere, arrivando potenzialmente a molte centinaia. Questo grazie al fatto che Gaia, pur realizzato per studi stellari, è l’unico strumento che abbia osservato l’intero cielo in alta risoluzione, ed è dunque anche l’unico in grado di trovare ­– evidenziandole con i suoi picchi multipli – queste coppie molto vicine, e molto rare, di buchi neri supermassicci.

«Certo, una volta individuate, queste potenziali coppie vanno poi confermate una a una, ed è un processo lento», sottolinea Mannucci, «che richiede il ricorso a misure di spettroscopia. Per ora siamo riusciti a confermarne due, ma già abbiamo ottenuto dall’ESO la possibilità di usare lo strumento MUSE del Very Large Telescope per osservarne altre trenta nel prossimo semestre».

Allo studio pubblicato oggi su Nature Astronomy, intitolato “Unveiling the population of dual- and lensed- AGNs at sub-arcsec separations with Gaia”, hanno preso parte numerosi astrofisici dell’INAF di Arcetri (oltre ai già citati Filippo Mannucci ed Elena Pancino, Francesco Belfiore, Giovanni Cresci, Antonino Marasco, Emanuele Nardini, Enrico Pinna), dell’Università di Firenze (oltre ad Alessandro Marconi, Elisabetta Lusso e Giulia Tozzi), dell’INAF di Brera (Paola Severgnini, Paolo Saracco) e di alcuni istituti esteri (Claudia Cicone dell’Università di Oslo, Anna Ciurlo di Ucla e Sherry Yeh del W. M. Keck Observatory).

rappresentazione artistica di una coppia di buchi neri supermassicci durante una fusione galattica. Crediti: ESA

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

Un gruppo di ricerca internazionale rileva il precursore di un buco nero supermassiccio nei dati di archivio del telescopio Hubble

Una collaborazione internazionale, che ha visto la partecipazione di astrofisici della Sapienza e dell’Istituto nazionale di astrofisica – Inaf, ha scoperto un oggetto distante circa 13 miliardi di anni luce dalla Terra, estremamente compatto e arrossato dalla polvere stellare. La rilevazione, effettuata grazie all’utilizzo del telescopio spaziale Hubble, farà luce sul mistero della crescita dei buchi neri supermassicci nell’universo primordiale. I risultati del lavoro sono stati pubblicati su Nature.

il precursore di un buco nero supermassiccio
Il precursore di un buco nero supermassiccio nei dati di archivio di Hubble. Figura 1: GNz7q, un oggetto scoperto a circa 13,1 miliardi di anni luce dalla Terra che mostra segni di un buco nero in rapida crescita all’interno di una galassia in forte formazione stellare e ricca di polvere interstellare (starburst polverosa), colorato nell’immagine combinando i dati di tre osservazioni a colori del telescopio spaziale Hubble. Trovato nella regione GOODS-North[1], una delle regioni del cielo più studiate fino ad oggi, GNz7q è l’oggetto rosso al centro dell’immagine ingrandita (Credito: ESA/Hubble/Fujimoto et al.)

La scoperta di buchi neri supermassicci nell’universo primordiale, con masse fino a diverse centinaia di milioni di volte quella del sole, ha sollevato il problema di capire come oggetti di questa taglia siano stati in grado di formarsi e crescere nel breve periodo di tempo successivo alla nascita dell’Universo (meno di un miliardo di anni). Teoricamente, un buco nero inizia dapprima ad aumentare la sua massa accrescendo gas e polvere nel nucleo di una galassia ricca di polvere e caratterizzata da elevati tassi di formazione stellare (una cosiddetta galassia starburst polverosa). L’energia generata nel processo spazza via i materiali circostanti, trasformando il sistema in un quasar, una sorgente astrofisica molto luminosa e compatta.

Fino a oggi sono state scoperte galassie starburst polverose e quasar luminosi post-transizione ad appena 700-800 milioni di anni dopo il Big Bang, ma non è mai stato trovato un “giovane” quasar nella fase di transizione, la cui scoperta deterrebbe la chiave per la comprensione dei meccanismi di formazione dei buchi neri supermassicci nell’Universo primordiale.

Un gruppo di ricerca internazionale, coordinato dall’astronomo Seiji Fujimoto dell’Università di Copenaghen, con la partecipazione, fra gli altri, di ricercatori del Dipartimento di Fisica della Sapienza e dell’Istituto nazionale di astrofisica – Inaf, ha rianalizzato una grande quantità di dati d’archivio estratti dal telescopio spaziale Hubble e ha scoperto un oggetto, denominato poi GNz7q, che è proprio l’anello mancante tra le galassie starburst e i quasar luminosi nell’universo primordiale. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Nature.

Le osservazioni spettroscopiche con i radiotelescopi hanno mostrato che il giovane quasar è nato solo 750 milioni di anni dopo il Big Bang. Tali osservazioni, sono state poi confrontate con i modelli teorici. Questa importante fase del lavoro è stata svolta da Rosa Valiante dell’Inaf e Raffaella Schneider della Sapienza e ha mostrato come le caratteristiche dello spettro elettromagnetico di questo oggetto, dai raggi X alle onde radio, non si discostano dalle previsioni delle simulazioni teoriche.

“Questo suggerisce che GNz7q sia il primo esempio di buco nero in rapida crescita nel centro di una galassia starburst polverosa – commentano Schneider e Valiante. “Pensiamo che GNz7q sia un precursore dei buchi neri supermassicci trovati nell’universo primordiale”.

La scoperta di GNz7q non solo rappresenta un elemento importante per comprendere l’origine dei buchi neri supermassicci, ma anche un motivo di sorpresa per i ricercatori: la rilevazione infatti è stata fatta in una delle regioni più osservate nel cielo notturno – denominata GOODS, Great Observatories Origins Deep Survey, oggetto d’indagine astronomica dei telescopi più potenti mai costruiti (ovvero quelli operativi nello spazio come Hubble, Herschel e XMM-Newton dell’ESA, il telescopio Spitzer della NASA e l’Osservatorio a raggi X Chandra, oltre a potenti telescopi terrestri, compreso il telescopio Subaru) – suggerendo quindi che sorgenti di questo tipo possano essere più frequenti di quanto si pensasse in precedenza.

Il gruppo di ricerca si propone di condurre una ricerca sistematica di sorgenti simili utilizzando campagne osservative ad alta risoluzione e di sfruttare gli strumenti spettroscopici del telescopio spaziale James Webb della NASA/ESA/CSA, una volta che sarà in regolare funzionamento, per studiare oggetti come GNz7q con una ricchezza di dettagli senza precedenti.

il precursore di un buco nero supermassiccio
Il precursore di un buco nero supermassiccio nei dati di archivio di Hubble. Figura 2: un’impressione artistica di un giovane buco nero in crescita che emerge dal centro di una galassia starburst polverosa, mentre i materiali densi circostanti di gas e polvere vengono spazzati via dalla potente energia generata quando il buco nero evolve rapidamente accrescendo la materia circostante. (Credito: ESA/Hubble)

Riferimenti:

A dusty compact object bridging galaxies and quasars at cosmic dawn – S. Fujimoto, G. B. Brammer, D. Watson, G. E. Magdis, V. Kokorev, T. R. Greve, S. Toft, F. Walter, R. Valiante, M. Ginolfi, R. Schneider, F. Valentino, L. Colina, M. Vestergaard, R. Marques-Chaves, J. P. U. Fynbo, M. Krips, C. L. Steinhardt, I. Cortzen, F. Rizzo & P. A. Oesch – Nature https://doi.org/10.1038/s41586-022-04454-1 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Una rete di pulsar per “ascoltare” il brusio cosmico di fondo delle onde gravitazionali

Pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society uno studio internazionale che ha visto coinvolti i ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca e di INAF-Cagliari

pulsar delle Vele stelle a neutroni onde gravitazionali bassissima frequenza
Una rete di pulsar per “ascoltare” il brusio cosmico di fondo delle onde gravitazionali. Nella foto, la Pulsar delle Vele. Foto NASA/CXC/PSU/G.Pavlov et al., in pubblico dominio
Milano, 12 gennaio 2021 – I ricercatori del progetto International Pulsar Timing Array (IPTA), avvalendosi dei lavori e delle competenze di diverse collaborazioni di astrofisici di tutto il mondo – inclusi membri dell’Università di Milano-Bicocca e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) – hanno recentemente completato l’analisi del più completo archivio oggi disponibile di dati sui tempi di arrivo degli impulsi di 65 pulsar, ciò che resta di stelle di grande massa esplose come supernove. Questa accurata indagine sperimentale rafforza le indicazioni teoriche che suggerirebbero la presenza di un vero e proprio “brusio” cosmico, prodotto da onde gravitazionali di frequenze ultra basse (da miliardesimi a milionesimi di Hertz) emesse da una moltitudine di coppie di buchi neri super-massicci.

Le pulsar studiate dal team sono dette “al millisecondo” perché ruotano attorno al proprio asse centinaia di volte al secondo, emettendo stretti fasci di onde radio che ci appaiono come impulsi a causa del loro moto di rotazione. I tempi di arrivo di questi impulsi sono stati poi combinati in un unico insieme di dati, unendo le osservazioni indipendenti di tre collaborazioni internazionali: l’European Pulsar Timing Array (EPTA, a cui appartengono i ricercatori dell’INAF e dell’Università di Milano-Bicocca coinvolti nel progetto), il North American Nanohertz Observatory for Gravitational Waves (NANOGrav), e il Parkes Pulsar Timing Array in Australia (PPTA). Queste tre collaborazioni sono anche le fondatrici dell’IPTA.

L’indagine del team di IPTA su questi dati combinati ha messo in luce la presenza di un segnale a bassissima frequenza. «È un segnale molto emozionante! Anche se non abbiamo ancora prove definitive, potrebbe essere il primo passo verso la rivelazione del fondo cosmico di onde gravitazionali», dice Siyuan Chen, membro delle collaborazioni EPTA e NANOGrav, e il coordinatore per IPTA della pubblicazione dell’indagine in un articolo sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society (“The International Pulsar Timing Array second data release: Search for an isotropic Gravitational Wave Background” – DOI: 10.1093/mnras/stab3418).

Boris Goncharov del PPTA è comunque ancora cauto sulle possibili interpretazioni di tali segnali: «Stiamo anche esaminando a cos’altro potrebbe essere associato questo segnale. Per esempio, potrebbe magari derivare da un rumore presente nei dati delle singole pulsar che potrebbe essere stato modellato in modo improprio nelle nostre analisi».

Spiega Delphine Perrodin, dell’INAF di Cagliari, coautrice del lavoro: «Questo risultato conferma e rafforza notevolemente il graduale emergere di segnali simili che sono stati trovati negli ultimi anni nei singoli insiemi di dati, indipendentemente dalle varie collaborazioni partecipanti a IPTA. In particolare, nel quadro dell’esperimento EPTA, siamo abituati da oltre due decenni a combinare i dati provenienti da cinque diversi radiotelescopi europei, fra cui il Sardinia Radio Telescope (SRT, localizzato in Sardegna), e spesso ad osservare simultaneamente la stessa pulsar. Questa esperienza è stata molto utile nella creazione dell’attuale versione dei dati. Inoltre, all’interno di EPTA è stata sviluppata buona parte della metodologia utilizzata per capire le caratteristiche del possibile segnale nel corso dei molti anni di monitoraggio».

Sulla possibile origine del segnale lavora un altro coautore della pubblicazione, Alberto Sesana, che studia queste tematiche col suo team presso l’Università di Milano Bicocca: «Le caratteristiche di questo segnale comune tra le pulsar sono in ottimo accordo con quelle attese per il fondo cosmico di onde gravitazionali, frutto della sovrapposizione di molteplici segnali di onde gravitazionali emessi da una popolazione di buchi neri binari super-massicci. Si tratta di coppie di buchi neri di grande massa che orbitano spiraleggiando l’uno intorno all’altro, con ciò liberando grandi quantità di energia sotto forma di onde gravitazionali».

La sovrapposizione di tutte queste onde, di frequenze leggermente diverse fra loro e provenienti da tutte le direzioni del cosmo, può essere immaginato come un brusio indistinto (in quel caso prodotto da onde sonore) che potremmo ascoltare all’interno di una sala affollata.

Il prossimo passo per il team di IPTA sarà la misura della cosiddetta “correlazione spaziale” tra le pulsar. Spiega Andrea Possenti, dell’INAF di Cagliari, e coautore del lavoro: «La correlazione del segnale tra le coppie di pulsar è la chiave per chiarire la fonte del segnale. Perché si tratti del fondo di onde gravitazionali, ogni coppia di pulsar deve comportarsi in un modo molto specifico, a seconda della loro separazione angolare nel cielo. Al momento non si può concludere nulla al proposito: abbiamo infatti bisogno di un segnale più forte per misurare questa correlazione».

Gli fa eco Bhal Chandra Joshi, membro dell’InPTA (il consorzio sperimentale con base in India, da poco entrato a sua volta nel IPTA): «Il primo indizio è un segnale come quello ora veduto nei dati dell’IPTA. Poi, con più dati, speriamo che il segnale inizierà a mostrare le attese correlazioni spaziali: a quel punto sapremo che si tratta davvero del fondo cosmico di onde gravitazionali».

Il lavoro già ferve all’interno di IPTA per aggiungere nuove osservazioni, sempre più precise, alla combinazione di dati esistenti.  Conclude Delphine Perrodin: «Questo è un vero lavoro di squadra internazionale, all’interno del quale il contributo italiano, fra INAF e Università di Milano Bicocca, diviene sempre più importante, con le osservazioni presso SRT, la combinazione con i dati degli altri radio telescopi, la loro analisi ed interpretazione astrofisica. Non si può che essere ottimisti circa le capacità di arrivare presto ad una scoperta che sarebbe epocale».

Testo dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca sulla rete di pulsar per “ascoltare” il brusio cosmico di fondo delle onde gravitazionali.
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Con l’European Pulsar Timing Array un altro passo verso l’osservazione di onde gravitazionali a bassissima frequenza
Pubblicato su MNRAS lo studio che ha visto in prima linea i ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca
EPTA onde gravitazionali a bassissima frequenza
Con l’European Pulsar Timing Array un altro passo verso l’osservazione di onde gravitazionali a bassissima frequenza. Il logo dell’EPTA di Robert Ferdman, Sotirios Sanidas, CC BY-SA 3.0

 

Milano, 27 ottobre 2021 – L’European Pulsar Timing Array (EPTA) è una collaborazione scientifica che riunisce team di astronomi afferenti ai più grandi radiotelescopi Europei, e coordina gruppi di ricercatori specializzati nell’analisi dei dati e nella modellizzazione dei segnali di onde gravitazionali. Fra questi è presente il gruppo di astrofisica del Dipartimento di Fisica “Giuseppe Occhialini” dell’Università di Milano-Bicocca. L’EPTA ha recentemente pubblicato sulla storica rivista scientifica Monthly Notices of the Royal Astronomical Society un’analisi dettagliata (“Common-red-signal analysis with 24-yr high-precision timing of theEuropean Pulsar Timing Array: Inferences in the stochasticgravitational-wave background search“; DOI: 10.1093/mnras/stab2833) di un segnale compatibile con il tanto ricercato fondo di onde gravitazionali proveniente da una popolazione cosmica di binarie di buchi neri supermassicci.
Sebbene non sia ancora possibile confermare l’origine gravitazionale del segnale, questo rappresenta un altro passo significativo nello sforzo di rivelare per la prima volta onde gravitazionali a bassissima frequenza, con frequenze dell’ordine di un miliardesimo di Hertz. Il segnale candidato è emerso da un’analisi dettagliata senza precedenti condotta utilizzando due metodologie indipendenti. Inoltre, il segnale presenta forti somiglianze con quello riscontrato da analisi di altri team.
Le pulsar sono stelle di neutroni molto compatte che emettono fasci di onde radio collimati  in direzione dei poli magnetici, in generale non allineati con l’asse di rotazione della stella creando un “effetto faro”. Se i fasci attraversano la nostra linea di vista, da terra osserviamo un impulso periodico molto preciso: un orologio che batte un tic ad ogni rotazione della pulsar. Un pulsar timing array (PTA) è un insieme di pulsar rotanti molto stabili, utilizzate come un enorme rivelatore galattico di onde gravitazionali. PTA, sensibile a onde gravitazionali con frequenze del miliardesimo di Hertz, è quindi un osservatorio complementare agli attuali rivelatori a terra LIGO/Virgo/Kagra, sensibili a frequenze comprese fra 10 Hz ad 1000 Hertz. Mentre questi ultimi rivelano le repentine collisioni di buchi neri di massa stellare e stelle di neutroni, un PTA può osservare onde emesse da sistemi binari di buchi neri supermassicci che spiraleggiano l’uno intorno all’altro al centro delle galassie. Il sovrapporsi di moltissimi di questi segnali, provenienti da una popolazione cosmica di binarie massicce, crea un cosiddetto “fondo stocastico” di onde gravitazionali.
«Possiamo misurare piccole fluttuazioni nei tempi di arrivo del segnale radio delle pulsar sulla Terra, causate dalla deformazione dello spazio-tempo dovuta al passaggio di un’onda gravitazionale. In pratica queste deformazioni si manifestano come una perturbazione a bassissima frequenza dei tempi di arrivo degli impulsi osservati, perturbazione comune a tutte le pulsar di un PTA», spiega il dottor Golam Shaifullah, ricercatore presso il Dipartimento di Fisica “Giuseppe Occhialini”, co-autore principale dello studio.
Tuttavia, l’ampiezza di questa perturbazione è incredibilmente piccola (stimata nell’ordine delle decine di miliardesimi di secondo) e può essere confusa o mascherata da tantissimi altri effetti fisici che possono creare piccole instabilità nel periodo di rotazione delle pulsar, elementi della rete PTA. Per convalidare i risultati sono stati quindi utilizzati più codici indipendenti con diverse tecniche statistiche per mitigare fonti alternative di rumore e identificare il segnale gravitazionale.
È importante sottolineare che nell’analisi sono state utilizzate due procedure “end-to-end” indipendenti per la verifica incrociata dei risultati. Inoltre, sono stati utilizzati tre metodi indipendenti per tenere conto dei possibili errori sistematici dovuti all’incertezza sulla conoscenza delle masse e posizioni dei corpi celesti nel sistema solare: incertezza che può indurre falsi positivi nella rivelazione del segnale stocastico di onde gravitazionali.
Le analisi svolte da EPTA con entrambe le procedure hanno riscontrato la presenza di un chiaro segnale candidato per un fondo stocastico gravitazionale, e le sue proprietà spettrali (ovvero come l’ampiezza della perturbazione osservata varia con la frequenza) rimangono all’interno delle aspettative teoriche per questo tipo di segnale.
Il dottor Nicolas Caballero, ricercatore presso il Kavli Institute for Astronomy and Astrophysics di Pechino e co-autore principale, spiega: «L’EPTA ha trovato per la prima volta indicazioni di questo segnale nei dati precedentemente pubblicati nel 2015, ma poiché i risultati avevano maggiori incertezze statistiche, sono stati discussi rigorosamente solo come limiti superiori. I nostri nuovi dati ora confermano chiaramente la presenza di questo segnale, rendendolo un candidato per un fondo stocastico di onde gravitazionali».
La Relatività Generale di Einstein prevede una relazione molto specifica tra le deformazioni spazio-temporali sperimentate dai segnali radio provenienti da pulsar situate in diverse direzioni nel cielo. Gli scienziati la chiamano correlazione spaziale del segnale o curva di Hellings e Downs. Il suo rilevamento identificherà in modo univoco l’eventuale origine gravitazionale del segnale osservato.
«Al momento – nota il dottor Siyuan Chen, ricercatore all’LPC2E, CNRS di Orléans in Francia, co-autore principale dello studio – le incertezze statistiche nelle nostre misurazioni non ci consentono ancora di identificare la presenza della correlazione spaziale prevista per il segnale dovuto ad onde gravitazionali. Per ulteriori conferme dobbiamo includere i dati di più pulsar nell’analisi, tuttavia i risultati attuali sono molto incoraggianti».
L’EPTA è un membro fondatore dell’International Pulsar Timing Array (IPTA). Poiché anche le analisi dei dati indipendenti eseguite dagli altri partner IPTA (cioè gli esperimenti NANOGrav e PPTA) hanno indicato segnali comuni simili, è diventato fondamentale applicare più algoritmi di analisi per aumentare la confidenza in un possibile rilevamento futuro di questo fondo stocastico. I membri dell’IPTA stanno lavorando insieme, traendo conclusioni dal confronto delle analisi dei diversi dati per prepararsi al meglio per i prossimi passi.
Alberto Sesana, professore associato di Milano-Bicocca e membro dell’EPTA, conclude: «Il rilevamento di un fondo di onde gravitazionali proveniente da una popolazione di sistemi binari di buchi neri supermassicci o da altre sorgenti di origine cosmica fornirà informazioni uniche sui modelli cosmologici di evoluzione dell’Universo, imponendo forti vincoli al processo di aggregazione delle galassie come le vediamo oggi. Pertanto, stiamo intensificando i nostri sforzi aggiungendo i dati di nuove pulsar e rafforzando i controlli incrociati delle nostre analisi. Non c’è spazio per gli errori».
Testo dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca, circa lo studio pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, altro passo verso l’osservazione di onde gravitazionali a bassissima frequenza.

Alle origini del buco nero supermassiccio della Via Lattea

Uno studio coordinato dal Dipartimento di Fisica della Sapienza fornisce nuove informazioni sulla formazione del buco nero che si trova al centro dalla nostra Galassia. Lo studio suggerisce che il buco nero super massiccio sia il residuo di un insieme di buchi neri più leggeri che, orbitando, hanno perso energia fino a fondersi. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

centro della Galassia buco nero supermassiccio Via Lattea costellazione del Sagittario
Costellazione del Sagittario. Foto di Kevin Wigell, CC BY-SA 3.0

Sagittarius A* (Sgr A*) è una intensa sorgente di onde radio molto compatta, situata al centro della Via Lattea, e nello specifico, nella costellazione del Sagittario.

Sgr A* è anche il punto della nostra Galassia in cui si trova un oggetto estremamente compatto – 4 milioni di volte più massiccio del Sole – un componente caratteristico dei centri di molte galassie ellittiche e spirali.

L’identificazione di questo “mostro celeste” ha fatto vincere il premio Nobel 2020 per la fisica agli scienziati R. Genzel e A. Ghez, che hanno effettuato misurazioni dei movimenti delle stelle nella regione centrale della Galassia così precise da contribuire a dimostrare l’esistenza di questo oggetto, molto probabilmente assimilabile a un buco nero supermassiccio.

L’esistenza di buchi neri, così come la presenza di oggetti supermassicci e compatti in altre galassie oltre la nostra, sembra essere quindi indubbia. Ma mentre l’origine dei cosiddetti buchi neri stellari ha una spiegazione fisica ormai assodata (sono il residuo di stelle massicce ormai spente) quella dei buchi neri supermassicci rimane ancora incerta.

Un nuovo studio coordinato da Roberto Capuzzo Dolcetta del Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma in collaborazione con la École Normale Supérieure di Parigi, dimostra come la formazione del buco nero supermassiccio al centro della nostra Galassia possa derivare dalla rapidissima aggregazione, che avviene tramite collisioni successive, di un “pacchetto” di buchi neri più leggeri, trasportati al centro della Galassia dagli ammassi stellari che li ospitavano, e che hanno orbitato perdendo progressivamente energia, fino a fondersi.

I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, sono stati ottenuti attraverso simulazioni numeriche sofisticate e di alta precisione, condotte anche su computers del Centro di Ricerca Amaldi della Sapienza.

Riferimenti:

Dynamics of a superdense cluster of black Holes and the formation of the Galactic supermassive black hole – P. Chassonnery, R. Capuzzo Dolcetta – Monthly Notices of the Royal Astronomical Society https://doi.org/10.1093/mnras/stab1016

Testo, foto e video dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma sulle origini del buco nero supermassiccio della Via Lattea.