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AREE PROTETTE SOTTO PRESSIONE: IL CAMBIAMENTO CLIMATICO SPINGE GLI UCCELLI PIÙ IN ALTO, MA LA CONSERVAZIONE NON TIENE IL PASSO

Uno studio condotto dai ricercatori di UniTo nelle Alpi Cozie e Graie rivela che le specie adattate al freddo stanno scomparendo anche dove la natura è tutelata

Le montagne sono hotspot di biodiversità a livello globale, ma sono anche tra gli ambienti più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Nelle Alpi europee, il riscaldamento globale e le trasformazioni del paesaggio stanno rapidamente modificando la vegetazione, con effetti diretti sulle comunità di uccelli, in particolare su quelle di alta quota. Le aree protette rappresentano strumenti fondamentali per salvaguardare queste specie adattate al freddo, ma quanto sono realmente efficaci in un mondo che si riscalda?

A questa domanda hanno cercato di rispondere il dott. Riccardo Alba e il prof. Dan Chamberlain del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino nello studio Elevational shifts in bird communities reveal the limits of Alpine protected areas under climate change, recentemente pubblicato sulla rivista Biological Conservation. Coprendo un periodo temporale di 13 anni di dati raccolti lungo un ampio gradiente altitudinale nelle Alpi Cozie e Graie, i ricercatori hanno utilizzato il Community Temperature Index (CTI) – un indicatore della tolleranza termica delle comunità – per valutare l’evoluzione delle comunità ornitiche all’interno e all’esterno delle aree protette.

I risultati mostrano un dato sorprendente: mentre al di fuori delle aree protette il CTI è rimasto stabile, all’interno delle stesse è aumentato rapidamente, riflettendo un incremento delle temperature medie annuali di oltre 1,19 °C nel periodo di tempo coperto. Questo indica che qualcosa sta avvenendo all’interno delle aree protette alpine, dove le comunità ornitiche stanno diventando sempre più simili a quelle presenti in zone non tutelate, probabilmente a causa del declino delle specie di alta quota ma anche per la colonizzazione di specie più comuni dalle quote più basse, come ad esempio la capinera e lo scricciolo.

Le variazioni più marcate si osservano in prossimità del limite del bosco, una fascia sensibile dove la vegetazione arbustiva e forestale sta avanzando verso le alte quote a causa dell’abbandono delle attività pastorali e del cambiamento climatico. Gli autori individuano proprio il cambiamento della copertura vegetale come principale motore di trasformazione delle comunità, sottolineando come la semplice esistenza di aree protette dai confini stabili potrebbe non bastare più a garantire la sopravvivenza degli uccelli più specializzati alle quote estreme.

Per contrastare questi effetti, lo studio suggerisce misure gestionali adattive come il pascolo mirato e la conservazione della connettività altitudinale, oltre a un monitoraggio continuo delle comunità ornitiche negli anni a venire. Solo espandendo la protezione formale e integrando azioni concrete sul campo sarà possibile mantenere habitat eterogenei e resilienti, in grado di ospitare anche in futuro le specie simbolo delle Alpi evitando la loro scomparsa.

Parco naturale dei Laghi di Avigliana. Foto di Elio Pallard, CC BY-SA 4.0
Aree protette sotto pressione: il cambiamento climatico spinge gli uccelli più in alto, ma la conservazione non tiene il passo. Parco naturale dei Laghi di Avigliana. Foto di Elio Pallard, CC BY-SA 4.0

Riferimenti bibliografici:

Riccardo Alba, Dan Chamberlain, Elevational shifts in bird communities reveal the limits of Alpine protected areas under climate change, Biological Conservation Volume 309 2025, 111267, ISSN 0006-3207, DOI: https://doi.org/10.1016/j.biocon.2025.111267

 

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Un futuro incerto per la biodiversità del bacino del Congo

La prima review dedicata agli impatti dei cambiamenti climatici in una delle foreste pluviali più grandi al mondo ha evidenziato le possibili conseguenze negative sulla biodiversità: dall’estinzione delle specie alla diminuzione delle dimensioni degli organismi. I risultati del lavoro, coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie della Sapienza, sono pubblicati sulla rivista Biological Conservation.

Il bacino del Congo, la seconda foresta pluviale continua più grande al mondo, è un centro chiave della biodiversità del pianeta e svolge un ruolo significativo nella mitigazione dei cambiamenti climatici.

Quest’area si trova ad affrontare minacce multiformi, tra cui il cambiamento di destinazione d’uso del territorio, lo sfruttamento delle risorse naturali e i mutamenti climatici.

Un team di ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza ha indagato e valutato criticamente lo stato attuale delle conoscenze relative agli impatti dei cambiamenti climatici sulla biodiversità del bacino del Congo, a tutti i suoi livelli organizzativi, utilizzando una metodologia di revisione sistematica della letteratura.

I risultati del lavoro, pubblicato sulla rivista Biological Conservation, hanno evidenziato una traiettoria futura incerta per la biodiversità dell’area, considerando il suo stato poco studiato, l’entità delle incognite e le risposte negative trovate in letteratura.

I ricercatori si sono concentrati principalmente sul cambiamento climatico in quanto minaccia emergente ma poco studiata, potenzialmente in grado di assumere un ruolo primario nel determinare la perdita di biodiversità nella regione: dall’aumento della vulnerabilità delle specie all’estinzione, allo spostamento dell’areale delle specie, fino alla diminuzione delle dimensioni degli organismi.

“Questa sintesi  ci ha permesso di identificare i cluster di conoscenza più importanti nella letteratura scientifica esistente e di delineare un’agenda di ricerca futura– spiega Milena Beekmann della Sapienza, primo nome del lavoro che costituisce una parte della sua tesi di dottorato – A nostra conoscenza, questa è la prima review che si concentra sugli impatti dei cambiamenti climatici nel bacino del Congo”.

“Tuttavia – commenta Carlo Rondinini, tra gli autori dello studio e docente della Sapienza – permangono alti livelli di incertezza, legati ad allarmanti lacune nelle conoscenze, a processi ecologici non documentati e a una mancanza di informazioni”.

il fiume Epulu nella Riserva Faunistica Okapi, Repubblica Democratica del Congo
il fiume Epulu nella Riserva Faunistica Okapi, Repubblica Democratica del Congo. Foto di J. Doremus, United States Agency for International Development – USAID [1], in pubblico dominio

Riferimenti bibliografici: 

Uncertain future for Congo Basin biodiversity: A systematic review of climate change impacts – Milena Beekmann, Sandrine Gallois, Carlo Rondinini – Biological Conservation 2024, DOI: https://doi.org/10.1016/j.biocon.2024.110730

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

TUTELA DELLA BIODIVERSITÀ: QUANDO PIANTE E HABITAT FANNO LA DIFFERENZA

La conservazione della biodiversità può essere più efficace se orientata verso la tutela dell’intero habitat piuttosto che delle singole specie. Questo perché sono meno condizionati da preferenze soggettive legate a diversi fattori, tra i quali i bias di preferenza soggettiva

 

Quali sono i fattori che determinano le modalità di finanziamento nella tutela delle specie vegetali protette e dei loro habitat? Con lo studio “Dimension and impact of biases in funding for species and habitat conservation”, pubblicato sulla rivista Biological Conservation, i ricercatori del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino, in collaborazione con il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) sede di Verbania-Pallanza, l’Università di Helsinki, l’Università di Minho e il Dipartimento per la Ricerca e il Monitoraggio del Parco Nazionale Svizzero, hanno cercato di rispondere a questa domanda sfruttando i dati disponibili per i progetti LIFE, il principale programma di finanziamento per la conservazione della natura messo in atto dall’Unione Europea.

Tra il 1992, anno di fondazione del progetto LIFE, e il 2020, le specie animali hanno ricevuto un finanziamento in euro triplo (oltre 2 miliardi di euro) rispetto alle piante (690 milioni). Ma anche tra le piante sono evidenti diverse delle disparità. Alcune specie, come le orchidee, ricevono moltissimi fondi (circa un milione di euro a specie) e attenzioni, mentre le specie con una distribuzione più “nordica” o con areali più grandi, sono più finanziate. Anche il fattore estetico, ad esempio il colore dei fiori è importante: le specie con fiori blu/viola sono più finanziate; al contempo, il rischio di estinzione non è correlato allo sforzo finanziario.

Orchidee floreali colorate biodiversità habitat

È stato osservato invece come la conservazione degli habitat, nonostante non sia ben allineata con lo stato di conservazione degli ambienti, sia meno influenzata da bias di tipo estetico, confermando che orientare i programmi di conservazione della biodiversità verso gli habitat, piuttosto che verso le singole specie, consentirebbe di aumentare l’efficacia di questi programmi, soprattutto quando si interviene in aree geografiche estremamente frammentate ed antropizzate.

“La biodiversità – dichiara Martino Adamo, ricercatore del DBIOS Unito – è tra le più grandi ed imprescindibili risorse sul pianeta Terra. La consapevolezza dell’importanza di questo patrimonio globale si sta lentamente facendo strada nelle coscienze collettive. Per arrivare a questo risultato nel campo animale, le parti interessate hanno ampiamente utilizzato strategie molto vicine al marketing, cercando di fare leva sulla naturale propensione dell’uomo ad immedesimarsi nel soggetto da tutelare e ad antropomorfizzare la natura. Un fenomeno chiamato, ironicamente, «effetto cucciolo di foca»”.

Per le piante, invece, è ben noto il fenomeno opposto, quando si parla di cecità nei loro confronti (“plant blindness”). La maggior parte degli osservatori, infatti, percepisce la vegetazione che li circonda come un semplice elemento paesaggistico e non come un complesso mondo di interrelazioni tra individui, specie e comunità. Recentemente è stato evidenziato che nell’Unione Europea oltre il 75% dei fondi destinati ad interventi di tutela della natura sono andati a finanziare la tutela di mammiferi e uccelli.

 

Testo e immagine dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

Ibridazione lupo-cane in Europa: un rischio per la biodiversità

 

Un nuovo studio internazionale richiama l’attenzione dei paesi europei sul rischio di perdita dell’identità genetica delle popolazioni di lupo per effetto dell’ibridazione con il cane e promuove l’adozione di misure adeguate per la corretta gestione del fenomeno. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Biological Conservation

ibridazione lupo cane
Photo credits: L. Boitani – “Gli ibridi tra lupo e cane sono il prodotto dell’ibridazione antropogenica, un fenomeno che interessa anche altre specie animali e vegetali e causa rilevante della perdita di biodiversità”

Il cane è un animale domestico associato all’uomo ma in condizioni ecologiche degradate può accoppiarsi con il lupo e produrre ibridi fertili. Questo fenomeno, se diffuso e con frequenza elevata, potrebbe portare alla perdita dell’identità genetica delle popolazioni di lupo, rischiando di condizionare l’ecologia, l’aspetto esteriore e il comportamento della specie, nonché i valori socioculturali e di conservazione a essa associati.

Grazie agli sforzi di conservazione che si sono susseguiti negli ultimi decenni, come la protezione legale e la tutela degli habitat naturali, il lupo ha spontaneamente ricolonizzato molte aree in Europa da cui era scomparso all’inizio del secolo scorso. Tale espansione però sta portando il lupo a stabilirsi in aree rurali in cui le probabilità d’interazione con i cani sono più elevate. Allo stesso tempo, il bracconaggio e il controllo numerico delle popolazioni di lupo, nei paesi dove consentito, possono portare alla dissoluzione sociale dei branchi, aumentando la probabilità di accoppiamenti misti.

La ricerca, guidata da Valeria Salvatori dell’Istituto di Ecologia applicata di Roma e supervisionata da Paolo Ciucci del Dipartimento di Biologia e biotecnologie della Sapienza, ha coinvolto anche diversi esperti internazionali che hanno documentato, nei paesi di propria competenza, l’eventuale presenza di ibridi e le risposte gestionali attuate. Lo studio, pubblicato sulla rivista Biological Conservation, ha evidenziato che ibridi tra lupo e cane sono presenti in tutte le popolazioni lupine d’Europa e che molti paesi, compresa l’Italia, non stanno intervenendo per monitorare né contrastare il fenomeno, come invece prescritto da trattati legalmente vincolanti a livello internazionale, come la Direttiva Habitats e la Convenzione di Berna.

Nella maggior parte dei paesi presi in esame, gli ibridi rappresentano ancora una piccola porzione della popolazione di lupo e ciò rende possibile programmare e realizzare interventi efficaci di prevenzione e controllo. Ciò che la ricerca ha però messo in luce è la mancanza di protocolli o standard operativi di riferimento a livello internazionale, che sono invece necessari per indirizzare gli interventi.

Dallo studio sono emersi ulteriori aspetti che destano preoccupazione negli esperti. In primo luogo, la mancanza di un monitoraggio sistematico dell’ibridazione in molti paesi europei, Italia inclusa, rende difficile la rilevazione dei casi e gli eventuali interventi per evitarne la diffusione su ampia scala.

In secondo luogo, la mancanza di tecniche di analisi confrontabili tra laboratori per identificare geneticamente gli ibridi fa sì che, ad oggi, lo stesso individuo potrebbe essere riconosciuto come ibrido o come lupo a seconda del laboratorio in cui vengono svolte le analisi sui campioni biologici. Questa eterogeneità non facilita un’adeguata analisi e mitigazione del fenomeno, sia a livello nazionale che comunitario.

“Gli ibridi tra lupo e cane – spiega Paolo Ciucci – sono fertili e a loro volta possono reincrociarsi con i lupi, diffondendo, con il progredire delle generazioni di reincrocio, varianti genetiche tipiche del cane all’interno del genoma lupino. Questo pone la questione di come stabilire una soglia oltre la quale gli ibridi non sono più da considerare come tali. In questi termini, non esiste ad oggi una definizione di ibrido che sia stata accettata a livello internazionale ed è questa la cosa più urgente da cui partire per poter dare risposte concrete sul fronte gestionale”.

In conclusione, gli autori della ricerca suggeriscono di includere nei trattati internazionali indicazioni più chiare sulla gestione degli ibridi e dei cani vaganti, evidenziando che gli ibridi tra lupo e cane vanno comunque protetti per legge e la loro gestione affidata alle sole autorità competenti: il fine è di evitare che avvengano casi di bracconaggio sul lupo, camuffati da interventi gestionali sulla base dell’incerta identificazione di individui ritenuti ibridi.

Riferimenti:

 

European agreements for nature conservation need to explicitly address wolf-dog hybridization – Valeria Salvatori, Valerio Donfrancesco, Arie Trouwborst, Luigi Boitani, John D.C.Linnell, Francisco Alvares, Mikael Åkesson, Vaidas Balysh, Juan Carlos Blanco, Silviu Chiriac, Dusko Cirovic, Claudio Groff, Murielle Guinot Ghestem, Djuro Huber, Ilpo Kojola, Josip Kusak, Miroslav Kutal, Yorgos Iliopulos…Paolo Ciucci – Biological Conservation (2020) https://doi.org/10.1016/j.biocon.2020.108525

 

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma