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GALASSIE ALL’ALBA DEL COSMO CATTURATE DA JWST

Una delle prime osservazioni realizzate con il telescopio spaziale James Webb lo scorso giugno ritrae due galassie tra le più antiche mai osservate, che popolavano l’universo quando aveva solo 350 e 450 milioni di anni, rispettivamente. Lo conferma lo studio di un team internazionale, guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e pubblicato su The Astrophysical Journal Letters.

Appena pochi giorni dall’inizio delle operazioni scientifiche, il James Webb Space Telescope (JWST) è stato in grado di rivelare la luce proveniente da due galassie tra le primissime dell’universo primordiale, tra 350 e 450 milioni di anni dopo il Big Bang. Sono i risultati dell’analisi di osservazioni del lontanissimo ammasso di galassie Abell 2744 e di due regioni del cielo ad esso adiacenti, realizzate dal potente telescopio spaziale tra il 28 e il 29 giugno 2022 nell’ambito del progetto GLASS-JWST Early Release Science Program.

“Questo lavoro mostra innanzitutto la capacità di JWST di selezionare sorgenti nell’epoca della cosiddetta ‘alba cosmica’. Non meno importante il fatto di avere trovato, tra le altre, due sorgenti brillanti in un’area relativamente piccola”, afferma Marco Castellano, ricercatore INAF a Roma e primo autore dell’articolo che descrive la ricerca di queste due lontanissime galassie, pubblicato recentemente su The Astrophysical Journal Letters. “Sulla base di tutte le previsioni, pensavamo che avremmo dovuto sondare un volume di spazio molto più grande per trovare tali galassie. I risultati invece sembrano indicare che il numero di galassie brillanti sia molto maggiore di quanto ci si aspettasse, forse per effetto di una maggiore efficienza di formazione stellare”.

Il gruppo di ricerca guidato da Castellano è stato tra i primi a usare i dati di JWST, pubblicando un preprint sulla piattaforma open-access arXiv a luglio, solo 5 giorni dopo che i dati erano stati resi disponibili.

“C’era molta curiosità nel vedere finalmente cosa JWST poteva dirci sull’alba cosmica, oltre naturalmente al desiderio e all’ambizione di essere i primi a mostrare alla comunità scientifica i risultati ottenuti dalla nostra survey GLASS”, aggiunge il ricercatore.

“Non è stato facile analizzare dei dati così nuovi in breve tempo: la collaborazione ha lavorato 7 giorni su 7 e in pratica 24 ore su 24 anche grazie al fatto di avere una partecipazione che copre tutti i fusi orari”.

Alla collaborazione internazionale, che vede numerosi ricercatori e ricercatrici dell’INAF coinvolti sin dalla presentazione della proposta osservativa, hanno partecipato anche colleghi dello Space Science Data Center dell’Agenzia Spaziale Italiana e delle università di Ferrara e Statale di Milano.

galassie cosmo JWST
Due delle galassie più lontane mai osservate, catturate dal telescopio spaziale JWST nelle regioni esterne del gigantesco ammasso di galassie Abell 2744. Le galassie, evidenziate da due piccoli quadrati indicati con i numeri 1 e 2, e in maggior dettaglio nei due riquadri centrali, non fanno parte dell’ammasso, ma si trovano a molti miliardi di anni luce al di là di esso. Oggi osserviamo queste galassie come apparivano rispettivamente 450 (nel riquadro 1, a sinistra nell’immagine) e 350 milioni di anni (nel riquadro 2, a destra) dopo il big bang.
Crediti: Analisi scientifica: NASA, ESA, CSA, Tommaso Treu (UCLA); elaborazione delle immagini: Zolt G. Levay (STScI)

La distanza delle due galassie in questione dovrà essere confermata con maggior precisione mediante osservazioni spettroscopiche, ma si tratta già dei candidati più robusti selezionati ad oggi con dati JWST. A confermare l’affidabilità dei risultati è proprio l’accordo con quanto riscontrato anche in altri studi, tra cui il lavoro guidato da Rohan Naidu dell’Harvard Center for Astrophysics, negli Stati Uniti, che analizza gli stessi dati del progetto GLASS, apparso lo stesso giorno su arXiv e attualmente in corso di pubblicazione, anch’esso su The Astrophysical Journal Letters.

“Queste osservazioni sono rivoluzionarie: si è aperto un nuovo capitolo dell’astronomia” commenta Paola Santini, ricercatrice INAF a Roma e coautrice del nuovo articolo. “Già dopo i primissimi giorni dall’inizio della raccolta dati, JWST ha mostrato di essere in grado di svelare sorgenti astrofisiche in epoche ancora inesplorate”.

A differenza degli strumenti usati in precedenza – dal telescopio spaziale Hubble ai più grandi osservatori disponibili a terra – JWST ha una sensibilità e risoluzione nell’infrarosso che permettono di cercare oggetti così distanti.

“Stiamo esplorando un’epoca a poche centinaia di anni dal Big Bang che in parte era sconosciuta e in parte a malapena esplorata, con molte incertezze al limite delle possibilità dei telescopi precedenti”, ricorda Castellano.

Come e quando si sono formate le prime galassie e la primissima generazione di stelle – la cosiddetta popolazione III – è una delle grandi domande ancora aperte dell’astrofisica.

“Queste galassie sono molto diverse dalla Via Lattea o altre grandi galassie che vediamo oggi intorno a noi”, spiega Tommaso Treu, professore all’Università della California a Los Angeles e principal investigator del progetto GLASS-JWST. “La domanda era: quando vedi le stelle più rosse e più vecchie con Webb, vedi che in realtà la galassia è molto più grande di quello che sembrava dalle osservazioni nell’ultravioletto?”

Le nuove osservazioni di JWST sembrano indicare che le galassie nell’universo primordiale fossero molto più luminose, anche se più compatte del previsto. Se ciò fosse vero, potrebbe rendere più facile per il potente osservatorio trovare un numero ancor maggiore di queste galassie precoci nelle sue prossime osservazioni del cielo profondo.

“La sorgente più lontana è effettivamente molto compatta”, sottolinea Adriano Fontana, responsabile della divisione nazionale abilitante dell’astronomia ottica ed infrarossa dell’INAF e coautore dello studio. “I colori di questa galassia sembrano indicare che la sua popolazione stellare sia particolarmente priva di elementi pesanti, e potrebbe contenere anche alcune stelle di popolazione III. La conferma verrà dai dati spettroscopici di JWST”.

Osservare le galassie più distanti, come quelle rivelate in queste osservazioni di JWST, è un passo fondamentale per iniziare a capire come si sono formate le primissime sorgenti luminose nella storia del cosmo e comprendere le prime fasi della lunghissima evoluzione che ha portato l’universo a essere così come lo vediamo oggi, con la nostra galassia, il Sole, la Terra e noi umani che la abitiamo. Occorreranno ulteriori sforzi sia osservativi, per confermare e caratterizzare il risultato, che teorici, per comprenderne la fisica sottostante.


 

Per ulteriori informazioni: L’articolo “Early results from GLASS-JWST. III: Galaxy candidates at z~9-15” di Marco Castellano, Adriano Fontana, Tommaso Treu, Paola Santini, Emiliano Merlin, Nicha Leethochawalit, Michele Trenti, Uros Mestric, Eros Vanzella, Andrea Bonchi, Davide Belfiori, Mario Nonino, Diego Paris, Gianluca Polenta, Guido Roberts-Borsani, Kristan Boyett, Marusa Bradac, Antonello Calabro, Karl Glazebrook, Claudio Grillo, Sara Mascia, Charlotte Mason, Amata Mercurio, Takahiro Morishita, Themiya Nanayakkara, Laura Pentericci, Piero Rosati, Benedetta Vulcani, Xin Wang, Lilan Yang, è stato pubblicato online su The Astrophysical Journal Letters.

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) sulle due galassie all’alba del cosmo osservate con JWST.

COSÌ ERANO LE NUBI NELL’UNIVERSO PRIMORDIALE

Lo straordinario potenziale di informazioni contenute negli ammassi globulari ci fornisce l’immagine dell’Universo neonato

NGC6362

Oltre tredici miliardi di anni fa, cioè al tempo della grande esplosione (Big Bang) in cui si sarebbe generato l’Universo, le immense nubi di gas che permeavano l’Universo primordiale fecero accendere le prime stelle dando origine a primitivi agglomerati stellari. In quell’epoca nacquero concentrazioni sferiche composte da centinaia di migliaia di stelle, dette ammassi globulari (globular clusters), che sono sopravvissute fino ai giorni nostri.

Sebbene l’origine dei globular clusters sia ancora ignota, è ormai assodato che le stelle appartenenti agli ammassi globulari siano nate appena poche centinaia di milioni di anni dopo il Big BangComprendere la composizione chimica delle nubi primordiali è certamente uno degli obiettivi più ambiziosi e complessi dell’astrofisica moderna. La difficoltà nasce principalmente dal fatto che gli ammassi globulari che osserviamo oggi hanno perduto una parte considerevole della materia gassosa che li aveva generati. Inoltre le poche tracce di gas primordiale tuttora sopravvissute al loro interno sono state contaminate dal materiale espulso da decine di migliaia di stelle durante la loro evoluzione perdendo irrimediabilmente la memoria della loro composizione iniziale.

Il Team di Maria Vittoria Legnardi

Un gruppo di astronome e astronomi di Italia, Australia e Stati Uniti ha svelato l’oscura composizione chimica delle nubi primordiali da cui si sono formati i globulari. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista «Monthly Notices of the Royal Astronomical Society» nell’articolo dal titolo con il titolo Constraining the original composition of the gas forming first-generation stars in globular clusters e portano la firma di Maria Vittoria Legnardi, una giovane dottoranda del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova che a soli 24 anni ha rivestito il ruolo di leader del team internazionale.

Maria Vittoria Legnardi ammassi globulari
Maria Vittoria Legnardi

«Nella nostra ricerca abbiamo rilevato delle variazioni nel contenuto di metalli che caratterizza le stelle di prima generazione. Poiché la composizione chimica di queste stelle riflette direttamente la chimica delle nubi da cui si sono formate, questo implica che anche le nubi fossero chimicamente disomogenee, contrariamente a quello che ci si aspettasse. Grazie alle straordinarie immagini ottenute dal telescopio spaziale Hubble – spiega Maria Vittoria Legnardi – abbiamo ricostruito le cosiddette mappe cromosomiche di circa il 25% degli ammassi globulari conosciuti. Si tratta di mappe in cui i colori delle stelle vengono combinati tra loro in modo tale creare dei super-colori indicativi del contenuto di alcuni elementi chimici. In sintesi, le mappe cromosomiche sono costituite da combinazioni di colori estremamente sensibili alla composizione chimica delle stelle negli ammassi globulari. Sulle ascisse è indicato il contenuto di elio delle stelle mentre sulle ordinate si può leggere il contenuto di azoto. In questo modo è possibile separare facilmente le stelle di prima generazione, l’oggetto principale di questo studio, da quelle di seconda generazione che presentano invece una composizione chimica riscontrata esclusivamente negli ammassi globulari. Sebbene sia pressoché impossibile ottenere informazioni dirette sulla composizione chimica delle nubi primordiali studiando il gas residuo tuttora presente negli ammassi, in questa ricerca abbiamo sviluppato una tecnica innovativa per poter far luce sugli ambienti di formazione degli ammassi basata sulle stelle di prima generazione. Queste stelle – sottolinea Legnardi –  si sono formate direttamente dal gas primordiale e dunque conservano memoria della composizione chimica delle nubi primordiali da cui si sono formati gli ammassi globulari agli albori dell’Universo. Le immagini di Hubble sono state fondamentali poiché hanno una risoluzione migliore e sono molto nitide. Grazie ad esse abbiamo potuto studiare in dettaglio le regioni centrali degli ammassi, dove la densità di stelle è estremamente elevata. Inoltre – rileva Maria Vittoria Legnardi – il telescopio Hubble permette di ottenere immagini attraverso diversi filtri che isolano la luce delle stelle dall’ultravioletto al vicino infrarosso passando per l’ottico. Combinando in modo opportuno le informazioni provenienti da diverse regioni dello spettro elettromagnetico è possibile sviluppare dei super-colori – ad esempio quelli delle mappe cromosomiche – che sono estremamente sensibili alla composizione chimica delle stelle negli ammassi».

«Questa tecnica innovativa – dice Lucia Armillotta, ricercatrice dell’Università di Princeton – ci ha permesso di isolare non solo le stelle che sono nate per prime e che conservano quindi la composizione originale della nube madre, ma anche le stelle delle generazioni successive. Le mappe cromosomiche rivelano che le nubi erano per lo più costituite della stessa materia originatasi con il Big Bang, ma contenevano già tracce di altre specie chimiche come il carbonio, l’azoto, l’ossigeno e altri elementi su cui si basa la vita stessa».

«Uno dei risultati più sorprendenti – aggiunge Giacomo Cordoni, un altro autore della ricerca e afferente al Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova – è che, contrariamente a quello che ci si aspettava, le nubi che hanno originato le prime stelle non erano chimicamente omogenee. Il loro contenuto di metalli, infatti, varia da una regione all’altra dell’ammasso e queste fluttuazioni implicano che le nubi originarie occupavano vaste regioni dell’Universo primordiale ed erano poco dense. Al contrario, il gas da cui si sono formate le stelle più giovani, nate centinaia di milioni di anni dopo le stelle di prima generazione, si è scoperto essere più omogeneo. Questo significa che le seconde generazioni di stelle si formarono in regioni in cui la densità del gas raggiungeva valori estremi».

«L’unicità di queste nubi spiegherebbe anche le strane proprietà di queste stelle, caratterizzate da abbondanze chimiche che non si osservano in nessun altro luogo della Galassia. Le stelle di seconda generazione presentano un contenuto di elio, sodio e azoto maggiore rispetto alle stelle che si trovano nella Galassia. Al contrario, presentano un contenuto ridotto di carbonio e ossigeno. Stelle con una simile composizione chimica sono state osservate esclusivamente all’interno degli ammassi globulari. È affascinante prendere atto – conclude la team leader Maria Vittoria Legnardi – dello straordinario potenziale di informazioni contenute negli ammassi globulari, questi dati sono stati capaci di tracciare un’immagine dell’Universo neonato. I colori delle stelle che osserviamo oggi al loro interno, infatti, ci permettono di intuire quali fossero i principali ingredienti che componevano le nubi primordiali che permeavano l’Universo poche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang».

Titolo e link alla ricerca: “Constraining the original composition of the gas forming first-generation stars in globular clusters” – «Monthly Notices of the Royal Astronomical Society» 2022

Autori: M. V. Legnardi*, A. P. Milone, L. Armillotta, A. F. Marino, G. Cordoni, A. Renzini,E. Vesperini, F. D’Antona, M. McKenzie, D. Yong, E. Dondoglio, E. P. Lagioia,M. Carlos, M. Tailo, S. Jang, and A. Mohandasan.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova

Un gruppo di ricerca internazionale rileva il precursore di un buco nero supermassiccio nei dati di archivio del telescopio Hubble

Una collaborazione internazionale, che ha visto la partecipazione di astrofisici della Sapienza e dell’Istituto nazionale di astrofisica – Inaf, ha scoperto un oggetto distante circa 13 miliardi di anni luce dalla Terra, estremamente compatto e arrossato dalla polvere stellare. La rilevazione, effettuata grazie all’utilizzo del telescopio spaziale Hubble, farà luce sul mistero della crescita dei buchi neri supermassicci nell’universo primordiale. I risultati del lavoro sono stati pubblicati su Nature.

il precursore di un buco nero supermassiccio
Il precursore di un buco nero supermassiccio nei dati di archivio di Hubble. Figura 1: GNz7q, un oggetto scoperto a circa 13,1 miliardi di anni luce dalla Terra che mostra segni di un buco nero in rapida crescita all’interno di una galassia in forte formazione stellare e ricca di polvere interstellare (starburst polverosa), colorato nell’immagine combinando i dati di tre osservazioni a colori del telescopio spaziale Hubble. Trovato nella regione GOODS-North[1], una delle regioni del cielo più studiate fino ad oggi, GNz7q è l’oggetto rosso al centro dell’immagine ingrandita (Credito: ESA/Hubble/Fujimoto et al.)

La scoperta di buchi neri supermassicci nell’universo primordiale, con masse fino a diverse centinaia di milioni di volte quella del sole, ha sollevato il problema di capire come oggetti di questa taglia siano stati in grado di formarsi e crescere nel breve periodo di tempo successivo alla nascita dell’Universo (meno di un miliardo di anni). Teoricamente, un buco nero inizia dapprima ad aumentare la sua massa accrescendo gas e polvere nel nucleo di una galassia ricca di polvere e caratterizzata da elevati tassi di formazione stellare (una cosiddetta galassia starburst polverosa). L’energia generata nel processo spazza via i materiali circostanti, trasformando il sistema in un quasar, una sorgente astrofisica molto luminosa e compatta.

Fino a oggi sono state scoperte galassie starburst polverose e quasar luminosi post-transizione ad appena 700-800 milioni di anni dopo il Big Bang, ma non è mai stato trovato un “giovane” quasar nella fase di transizione, la cui scoperta deterrebbe la chiave per la comprensione dei meccanismi di formazione dei buchi neri supermassicci nell’Universo primordiale.

Un gruppo di ricerca internazionale, coordinato dall’astronomo Seiji Fujimoto dell’Università di Copenaghen, con la partecipazione, fra gli altri, di ricercatori del Dipartimento di Fisica della Sapienza e dell’Istituto nazionale di astrofisica – Inaf, ha rianalizzato una grande quantità di dati d’archivio estratti dal telescopio spaziale Hubble e ha scoperto un oggetto, denominato poi GNz7q, che è proprio l’anello mancante tra le galassie starburst e i quasar luminosi nell’universo primordiale. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Nature.

Le osservazioni spettroscopiche con i radiotelescopi hanno mostrato che il giovane quasar è nato solo 750 milioni di anni dopo il Big Bang. Tali osservazioni, sono state poi confrontate con i modelli teorici. Questa importante fase del lavoro è stata svolta da Rosa Valiante dell’Inaf e Raffaella Schneider della Sapienza e ha mostrato come le caratteristiche dello spettro elettromagnetico di questo oggetto, dai raggi X alle onde radio, non si discostano dalle previsioni delle simulazioni teoriche.

“Questo suggerisce che GNz7q sia il primo esempio di buco nero in rapida crescita nel centro di una galassia starburst polverosa – commentano Schneider e Valiante. “Pensiamo che GNz7q sia un precursore dei buchi neri supermassicci trovati nell’universo primordiale”.

La scoperta di GNz7q non solo rappresenta un elemento importante per comprendere l’origine dei buchi neri supermassicci, ma anche un motivo di sorpresa per i ricercatori: la rilevazione infatti è stata fatta in una delle regioni più osservate nel cielo notturno – denominata GOODS, Great Observatories Origins Deep Survey, oggetto d’indagine astronomica dei telescopi più potenti mai costruiti (ovvero quelli operativi nello spazio come Hubble, Herschel e XMM-Newton dell’ESA, il telescopio Spitzer della NASA e l’Osservatorio a raggi X Chandra, oltre a potenti telescopi terrestri, compreso il telescopio Subaru) – suggerendo quindi che sorgenti di questo tipo possano essere più frequenti di quanto si pensasse in precedenza.

Il gruppo di ricerca si propone di condurre una ricerca sistematica di sorgenti simili utilizzando campagne osservative ad alta risoluzione e di sfruttare gli strumenti spettroscopici del telescopio spaziale James Webb della NASA/ESA/CSA, una volta che sarà in regolare funzionamento, per studiare oggetti come GNz7q con una ricchezza di dettagli senza precedenti.

il precursore di un buco nero supermassiccio
Il precursore di un buco nero supermassiccio nei dati di archivio di Hubble. Figura 2: un’impressione artistica di un giovane buco nero in crescita che emerge dal centro di una galassia starburst polverosa, mentre i materiali densi circostanti di gas e polvere vengono spazzati via dalla potente energia generata quando il buco nero evolve rapidamente accrescendo la materia circostante. (Credito: ESA/Hubble)

Riferimenti:

A dusty compact object bridging galaxies and quasars at cosmic dawn – S. Fujimoto, G. B. Brammer, D. Watson, G. E. Magdis, V. Kokorev, T. R. Greve, S. Toft, F. Walter, R. Valiante, M. Ginolfi, R. Schneider, F. Valentino, L. Colina, M. Vestergaard, R. Marques-Chaves, J. P. U. Fynbo, M. Krips, C. L. Steinhardt, I. Cortzen, F. Rizzo & P. A. Oesch – Nature https://doi.org/10.1038/s41586-022-04454-1 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Scoperte due nuove galassie formatesi all’alba dell’universo nascoste dietro la polvere interstellare

Lo svela un team di ricerca internazionale, che in Italia coinvolge cosmologi della Scuola Normale Superiore di Pisa e della Sapienza Università di Roma, che spiegano: «L’attuale censimento della formazione e della crescita delle galassie dopo il Big Bang è ancora incompleto».

due nuove galassie polvere interstellare REBELS
Elaborazione grafica della galassia REBELS-12-2

L’universo primordiale è probabilmente molto più ricco di quanto sembri. La polvere interstellare potrebbe celare intere popolazioni di galassie finora sconosciute. È di queste settimane la scoperta ad opera di un team di ricerca internazionale, che in Italia vede coinvolte la Scuola Normale Superiore di Pisa e la Sapienza di Roma, di due galassie antichissime, risalenti a circa un miliardo di anni dopo il Big Bang, quando l’Universo aveva raggiunto poco meno dell’8% della sua età.

Utilizzando i dati di ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), un potentissimo radiointerferometro situato a 5000 metri d’altitudine nel deserto di Atacama in Cile, il dottor Yoshinobu Fudamoto, della Waseda University in Giappone, ha notato una forte presenza di polvere e carbonio ionizzato da zone dello spazio che precedentemente si ritenevano vuote. Fudamoto e i colleghi della collaborazione REBELS (in Italia, Andrea Ferrara e Andrea Pallottini della Scuola Normale Superiore, Raffaella Schneider e Luca Graziani della Sapienza Università di Roma, associati all’Istituto Nazionale di Astrofisica, INAF) hanno approfondito le ricerche di questi misteriosi segnali, che provenivano da relativamente vicino – decine di migliaia di anni luce – agli oggetti astronomici che originariamente stavano studiando.

Fig1: rappresentazione schematica dei risultati di questa ricerca. In un’immagine ripresa dal telescopio spaziale Hubble (a sinistra) una regione di spazio sembra completamente vuota. Invece, ALMA ha ora rivelato una galassia precedentemente sconosciuta poiché era sepolta in profondità in nuvole di gas e polvere. A destra è mostrata una elaborazione grafica della galassia. Credito: ALMA (ESO/NAOJ/NRAO), NASA/ESA Hubble Space Telescope

Nel loro ultimo articolo pubblicato oggi su Nature la sorprendente rivelazione: le emissioni inspiegabili appartengono a due galassie precedentemente sconosciute, non visibili nelle lunghezze d’onda dell’ultravioletto in quanto completamente oscurate dalla polvere cosmica.

Fig2: galassie lontane riprese con ALMA, il telescopio spaziale Hubble e il telescopio VISTA dello European Southern Observatory (ESO). I colori verde e arancione rappresentano le radiazioni degli atomi di carbonio ionizzato e delle particelle di polvere, rispettivamente, osservate con ALMA, e il blu rappresenta le radiazioni del vicino infrarosso osservate con i telescopi VISTA e Hubble. Per REBELS-12 e REBELS-29 si è rilevata sia la radiazione nel vicino infrarosso che la radiazione da atomi di carbonio e polvere ionizzati. D’altra parte, REBELS-12-2 e REBELS-29-2 non sono stati rilevati nel vicino infrarosso, il che suggerisce che queste galassie siano profondamente sepolte nella polvere. Credito: ALMA (ESO/NAOJ/NRAO), NASA/ESA Hubble Space Telescope, ESO, Fudamoto et al.

Denominate REBELS-12-2 e REBELS-29-2, le due galassie si sono formate più di 13 miliardi di anni fa e presentano caratteristiche simili a quelle delle galassie della stessa epoca, se si esclude la massiccia oscurazione dovuta alla polvere che esse stesse hanno prodotto, un effetto che tipicamente si osserva solo per oggetti astronomici molto più evoluti. Lo studio rivela come la presenza di questi due oggetti potrebbe essere solo la punta dell’iceberg dell’esistenza di una popolazione di galassie precedentemente sconosciuta agli astronomi.

“La scoperta ci suggerisce che l’attuale censimento della formazione delle prime galassie è molto probabilmente incompleto e richiederà indagini più profonde – spiega Andrea Ferrara -. Le nuove strumentazioni, come il telescopio spaziale James Webb Space Telescope (JWST) che presto sarà lanciato in orbita e che interagirà fortemente con ALMA, ritengo che porteranno a significativi progressi in questo campo nei prossimi anni”.

“La scoperta di galassie così oscurate in un’epoca in cui l’Universo è ancora relativamente giovane apre degli interessanti interrogativi sui meccanismi di formazione della polvere interstellare – spiega Raffaella Schneider -. I modelli teorici e le simulazioni numeriche che stiamo sviluppando ci consentiranno di interpretare questi risultati sorprendenti, preparandoci alle straordinarie osservazioni del JWST”.

due nuove galassie polvere interstellare REBELS
Elaborazione grafica della galassia REBELS-29-2

Il programma REBELS (Reionization-Era Bright Emission Line Survey), ha l’obiettivo di osservare l’origine dell’Universo, miliardi di anni fa, quando giovani galassie avevano appena iniziato a formare le stelle e produrre la polvere cosmica. Studiare questo mondo primordiale è una delle ultime frontiere dell’astronomia, essenziale per la costruzione accurata e coerente di modelli di astrofisica e per la comprensione di come evolve l’Universo.

Riferimenti:

Normal, dust-obscured galaxies in the epoch of reionization – Y. Fudamoto, P. A. Oesch, S. Schouws, M. Stefanon, R. Smit, R. J. Bouwens, R. A. A. Bowler, R. Endsley, V. Gonzalez, H. Inami, I. Labbe, D. Stark, M. Aravena, L. Barrufet, E. da Cunha, P. Dayal, A. Ferrara, L. Graziani, J. Hodge, A. Hutter, Y. Li, I. De Looze, T. Nanayakkara, A. Pallottini, D. Riechers, R. Schneider, G. Ucci, P. van der Werf & C. White – Nature 2021. https://doi.org/10.1038/s41586-021-03846-z

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Milkomeda: la “supergalassia” che verrà 

Un nuovo studio internazionale, coordinato da un team del Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma, ha realizzato sofisticate simulazioni numeriche per prevedere i tempi cosmici nei quali la nostra Galassia si scontrerà con Andromeda fino a fondersi in un’unica “supergalassia”. I risultati del lavoro, che gettano nuova luce sul destino del nostro sistema stellare, sono stati pubblicati sulla rivista Astronomy and Astrophysics

La nostra galassia appartiene a un ammasso di galassie detto Gruppo Locale, composto da circa settanta sistemi stellari per la maggior parte di relativamente piccole dimensioni. Il centro di massa del Gruppo Locale si trova in un punto compreso fra la Via Lattea e la Galassia di Andromeda, che sono infatti, insieme alla galassia M 33, le sue componenti principali.

Le moderne osservazioni astronomiche suggeriscono l’esistenza all’interno sia della Via Lattea, che di Andromeda, di buchi neri supermassicci, con una massa superiore milioni di volte a quella del nostro Sole che a sua volta pesa circa un milione di volte la Terra. Non solo, la posizione e la velocità relativa delle due galassie lasciano ipotizzare una collisione futura tra i due sistemi che apre numerosi interrogativi sui loro destini e su quelli dei rispettivi buchi neri.

Oggi, un nuovo studio coordinato dal Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma, in collaborazione con l’Universitá di Heidelberg (Germania) e la Northwestern University (USA), fornisce le risposte a queste domande e individua i tempi cosmici in cui avverranno gli scontri fra le due galassie e i loro buchi neri.

Il lavoro, pubblicato sulla rivista Astronomy and Astrophysics, suggerisce che fra circa 10 miliardi di anni la Via Lattea e Andromeda si fonderanno in un’unica “supergalassia”, che potrebbe prendere il nome di Milkomeda.

I ricercatori sono giunti a tali risultati mediante sofisticate simulazioni numeriche, le quali sono state realizzate con un sistema di calcolo di alte prestazioni a disposizione del gruppo di astrofisica teorica (ASTRO) del Dipartimento di Fisica della Sapienza.

“In un tempo senz’altro lungo rispetto ai tempi umani, ma non enorme rispetto a quelli cosmici, le due galassie collideranno e si fonderanno in un’unica supergalassia, Milkomeda – spiega Roberto Capuzzo Dolcetta della Sapienza. “La prima collisione tra le galassie avverrà tra 4 miliardi di anni e la fusione tra circa 10 miliardi anni, tempo curiosamente simile a quella che è la stima dell’età dell’Universo, ovvero dal Big Bang a oggi”.

I dati ottenuti hanno permesso inoltre ai ricercatori di predire che, in seguito alla collisione galattica e alla fusione, i rispettivi buchi neri supermassicci delle due galassie si troveranno ad orbitare uno vicino all’altro.

“Ciò implica – aggiunge Roberto Capuzzo Dolcetta – che in un tempo mille volte più breve di quello necessario alla collisione delle galassie “madri”, i buchi neri si scontreranno a loro volta dando origine a una esplosione di onde gravitazionali di potenza inimmaginabile, miliardi di volte maggiore di quelle recentemente individuate dai grandi osservatori gravitazionali interferometrici della collaborazione internazionale LIGO-VIRGO negli Stati Uniti e in Italia”.

Il centro della Via Lattea in questa immagine composita da Hubble Space Telescope, Spitzer Space Telescope e Chandra X-ray Observatory. Foto NASA/JPL-Caltech/ESA/CXC/STScI in pubblico dominio

Riferimenti:

Future merger of the Milky Way with the Andromeda galaxy and the fate of their supermassive black holes, Riccardo Schiavi, Roberto Capuzzo-Dolcetta, Manuel Arca-Sedda, and Mario Spera – Astronomy and Astrophysics DOI /10.1051/0004-6361/202038674

 

Testo e video dalla Sapienza Università di Roma.