Infezioni da RSV nei bambini: costi economici significativi anche fuori dall’ospedale
L’Università di Pisa partner della ricerca: 3400 bambini coinvolti in cinque paesi europei
Uno studio europeo pubblicato sulla rivista Eurosurveillance dimostra che le infezioni da virus respiratorio sinciziale (RSV) nei bambini sotto i 5 anni generano un impatto economico rilevante anche quando non richiedono il ricovero. L’Università di Pisa è tra i protagonisti della ricerca.
La ricerca, condotta in cinque Paesi europei (Italia, Belgio, Regno Unito, Paesi Bassi e Spagna), ha evidenziato che le visite ripetute dal medico di base e l’assenteismo dal lavoro dei genitori rappresentano i principali costi sociali delle infezioni da RSV gestite dall’assistenza primaria.
“Si tratta di dati fondamentali per supportare decisioni su nuove strategie di immunizzazione contro l’RSV nei bambini. Finora ci si era concentrati quasi esclusivamente sui costi del ricovero ospedaliero. Questo studio mostra invece che anche le forme gestite a casa e dal pediatra comportano un impatto economico non trascurabile”,
spiega la professoressa Caterina Rizzo, docente di Igiene e medicina preventiva presso il Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’Università di Pisa, tra le autrici dello studio.
Lo studio ha coinvolto oltre 3.400 bambini con infezioni respiratorie acute, di cui circa un terzo è risultato positivo all’RSV. I dati, raccolti tra il 2020 e il 2023, mostrano differenze significative nei costi tra i Paesi: le spese sanitarie per singolo caso variano da 97 euro nei Paesi Bassi a 300 euro in Spagna, mentre l’assenteismo da lavoro dei genitori comporta costi medi che vanno da 454 euro nel Regno Unito fino a 994 euro in Belgio.
In Italia, la partecipazione dell’Università di Pisa ha incluso la raccolta dei dati attraverso i pediatri di libera scelta in quattro regioni (Puglia, Lazio, Toscana, Liguria e Lombardia), il coordinamento locale dello studio, la supervisione scientifica e l’analisi dei risultati in collaborazione con gli altri partner europei.
“La pubblicazione arriva in un momento cruciale, con l’introduzione recente di nuovi strumenti di immunizzazione contro l’RSV, come anticorpi monoclonali e vaccinazione materna – conclude Rizzo – La disponibilità di dati affidabili sull’impatto economico della patologia a 360 gradi è essenziale per valutarne la sostenibilità e l’impatto sulle famiglie e sui sistemi sanitari”.
Le infezioni da virus respiratorio sinciziale (RSV) nei bambini sotto i 5 anni portano costi economici significativi anche fuori dall’ospedale. In foto, Caterina Rizzo
Riferimenti bibliografici:
Sankatsing Valérie DV, Hak Sarah F, Wildenbeest Joanne G, Venekamp Roderick P, Pistello Mauro, Rizzo Caterina, Alfayate-Miguélez Santiago, Van Brusselen Daan, Carballal-Mariño Marta, Hoang Uy, Kramer Rolf, de Lusignan Simon, Martyn Oliver, Raes Marc, Meijer Adam, on behalf of the RSV ComNet Network, van Summeren Jojanneke. Economic impact of RSV infections in young children attending primary care: a prospective cohort study in five European countries, 2021 to 2023, Euro Surveill., 2025;30(20):pii=2400797, DOI: https://doi.org/10.2807/1560-7917.ES.2025.30.20.2400797
Banche dei semi: una nuova metodologia indica quali specie conservare per salvare le piante dall’estinzione (e ridurre i costi)
La ricerca dell’Università di Pisa pubblicata sulla rivista New Phytologist
Circa due specie di piante su cinque nel mondo potrebbero sparire. Per questo motivo, è importante capire quali specie sono più a rischio e trovare i modi efficaci per conservarle.
È questa la sfida raccolta da un gruppo di ricercatori coordinato dal professore Angelino Carta del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa. Il risultato è stata una nuova metodologia basata sulla rilevanza evolutiva delle specie grazie alla quale sarà possibile integrare le collezioni attualmente conservate nelle banche dei semi. Lo studio pubblicato sulla rivista New Phytologist promette inoltre anche dei risparmi in termini economici. Al progetto hanno partecipato ricercatori della Stazione Biologica Doñana (Spagna), degli Orti Botanici di Ginevra (Svizzera), Meise (Belgio) e Kew (Regno Unito).
L’analisi ha riguardato un imponente set di dati provenienti da 109 banche dei semi comprendente oltre 22.000 specie relative a tutta la flora d’Europa. È così emerso che le banche custodiscono una ricca varietà di piante, ma ancora non coprono completamente tutta la diversità evolutiva possibile. In pratica, alcuni “rami” dell’albero genealogico delle piante europee non sono rappresentati nelle collezioni. Le specie attualmente non conservate, ma il cui campionamento e stoccaggio in banca sarebbe fondamentale, sono sopratutto quelle che rappresentano ununicum evolutivo perché mostrano delle strategie riproduttive singolari o sono confinate ad aree geografiche limitate.
“Si tratta di un metodo che può essere personalizzato per adattarlo a diversi obiettivi di conservazione, fino all’esaurimento del budget disponibile – sottolinea Carta – La nostra ricerca rappresenta quindi un passo fondamentale per future azioni di conservazione, i risultati possono servire come base di discussione per promuovere nuove politiche, incluso la salvaguardia delle specie in via di estinzione, la resilienza dei sistemi agroalimentari e l’identificazione delle specie più adatte al restauro degli habitat in uno scenario di cambiamenti climatici”.
Benessere socioeconomico e tutela dell’ambiente: nessun Paese al mondo li garantisce entrambi
Un nuovo studio dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Ecological Indicators conferma che nessuna nazione rientra nella “ciambella”, la teoria che definisce lo “spazio sicuro e giusto” per l’umanità
C’è uno “spazio sicuro e giusto” per l’umanità che si definisce a partire da indicatori ambientali e socioeconomici, è la teoria economica della cosiddetta “ciambella” lanciata da Kate Raworth, studiosa delle Università di Oxford e di Cambridge. Nessun paese al mondo oggi ci starebbe dentro. Da qui è partita la scommessa di due ricercatori, Tommaso Luzzati dell’Università di Pisa e Gianluca Gucciardi dell’Università degli studi di Milano-Bicocca: cosa succederebbe se si adottassero criteri meno rigidi rispetto a quelli impiegati dagli studi esistenti? Il risultato, come mostra un articolo pubblicato sulla rivistaEcological Indicators, è che, purtroppo, non cambierebbe niente. Nessun paese si salverebbe ancora.
Lo studio di Gucciardi e Luzzati ha analizzato la performance di 81 nazioni stilando anche diverse graduatorie. Come linea generale è emerso che i paesi ricchi sforano i limiti ambientali planetari, mentre quelli poveri non riescono a garantire i livelli minimi di benessere.
“Come è normale che sia, specie per le classifiche, le cose non sono mai bianche o nere, ciò premesso – dice Luzzati – abbiamo trovato che 26 paesi rispettano i parametri socioeconomici. Ai primi posti, come immaginabile, ci sono i paesi scandinavi, ma anche Belgio e Svizzera. L‘Italia raggiunge la “sufficienza” e si colloca al 19mo posto, superando fra le più grandi nazioni europee solo Portogallo, Spagna e Ungheria”.
“Per quanto riguarda gli indicatori ambientali – continua Luzzatti – rispettano i parametri 31 paesi del sud globale, tra cui Malawi, Bangladesh, Tajikistan, Nigeria e Mozambico. Infine, non stanno nella ciambella ma si avvicinano ad essa diversi paesi del Centro e Sud America, quali Messico, Costa Rica, Panama, Ecuador, Colombia, Perù e Cile, in Europa Croazia e Bulgaria e in Asia Cina e Thailandia”.
In totale, lo studio ha preso in considerazione 6 indicatori ambientali (emissioni di CO2, fosforo, azoto, uso del suolo, impronta ecologica e impronta materiale, ovvero il peso complessivo di tutti i materiali estratti dall’ambiente per sostenere la crescita economica) e 11 indicatori socioeconomici (soddisfazione nella vita, aspettativa di vita sana, alimentazione, servizi igienico-sanitari, reddito, accesso all’energia, istruzione, sostegno sociale, qualità della democrazia, uguaglianza, occupazione).
“Abbiamo affrontato la questione costruendo due serie separate di indicatori compositi per le dimensioni sociale e ambientale – conclude Luzzati – ma anche con criteri meno rigorosi, nessun paese attualmente si salverebbe, il che indica ancora un divario sostanziale da colmare sia nelle politiche sociali che ambientali”.
Tommaso Luzzati è professore Economia politica al Dipartimento di Economia e Management e fa parte del REMARC Responsible Management Research Center dell’Ateneo pisano.
Benessere socioeconomico e tutela dell’ambiente: nessun Paese al mondo li garantisce entrambi; lo studio pubblicato su Ecological Indicators. In foto, il professor Tommaso Luzzati
Milano-Bicocca, avviato il progetto NATO per prevenire conflitti sociali in Asia centrale grazie allo studio dei rischi naturali
Un team di ricerca internazionale, coordinato da Alessandro Tibaldi, geologo di Milano-Bicocca, ha avuto mandato dalla NATO per un progetto triennale con l’obiettivo di evitare conflitti sociali grazie agli studi di rischi naturali, in particolare terremoti e frane.
Milano, 1 dicembre 2022 – Su mandato della NATO, l’Università di Milano-Bicocca guiderà per i prossimi tre anni un programma di ricerca nell’ambito “Science for Peace” intitolato “Prevention of Geo-threats to Azerbaijan’s Energy Independence”. Il progetto è coordinato da Alessandro Tibaldi, geologo del Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra di Milano-Bicocca, e un team di scienziati provenienti da Italia, Belgio, Repubblica Ceca, Svizzera, Ucraina, Georgia e Azerbaijan.
La ricerca ha il duplice scopo di migliorare la collaborazione scientifica tra alcuni stati dell’ex-Unione Sovietica e l’Occidente e di prevenire possibili situazioni di conflitto sociale in Asia centrale attraverso studi di prevenzione dei rischi naturali focalizzati su obiettivi strategici.
Durante la prima missione del progetto, terminata a ottobre, i ricercatori hanno iniziato a studiare i rischi geologici – soprattutto terremoti e frane – che minacciano la principale centrale idroelettrica dell’Azerbaijan e il più grande bacino artificiale della regione caucasica (Shamkir-Mingachevir).
Questo impianto si trova a soli 55 km dal confine di guerra con il Nagorno Karabakh, regione contesa tra Armenia e Azerbaijan. Eventuali problemi all’impianto idroelettrico dovuti a cause naturali si ripercuoterebbero sull’intero sistema produttivo e infrastrutturale dell’Azerbaijan e sul suo apparato militare.
I ricercatori hanno riscontrato evidenze nell’area di un’importante struttura geologica in grado di provocare in futuro terremoti. Questa struttura prende il nome di faglia di Kura e si tratta di una superficie di rottura nelle rocce che è in grado di muoversi sotto l’effetto delle enormi pressioni dovute alla tettonica a placche, e cioè ai movimenti delle varie placche tettoniche in cui è suddivisa la crosta terrestre. È infatti scientificamente dimostrata una correlazione proporzionale tra la lunghezza in pianta delle faglie attive e la magnitudo dei terremoti che possono generare.
Questi primi risultati dimostrano che la lunghezza della faglia di Kura è dell’ordine di 115 km, per cui si tratta di una struttura di alta rilevanza in grado di produrre terremoti che possono generare danni. Da sottolineare che nei pressi dell’area di studio si è verificato nel 1668 un forte terremoto di Intensità pari al decimo grado della Scala Mercalli che ha causato più di 80.000 morti. Inoltre, la traccia della faglia di Kura percorre in parte l’interno proprio degli invasi artificiali dell’impianto idroelettrico. Infine, le analisi preliminari sulla franosità hanno messo in luce la presenza di decine di frane quiescenti, le quali andranno studiate per capire se si potrebbero riattivare in caso di un forte evento sismico.
Questo progetto rappresenta, in particolare, il primo studio moderno sull’analisi della pericolosità combinata di sismicità e frane condotto sul più grande impianto di produzione di energia idroelettrica dell’Azerbaijan.
Importante conseguenza concreta della ricerca, riscontrata già dalla prima missione, è stata la possibilità di stringere legami di cooperazione scientifica tra Ucraina, Georgia e Azerbaijan, e incrementare la collaborazione con i paesi della NATO coinvolti nel progetto, superando i numerosi ostacoli diplomatici e burocratici. Da un punto di vista scientifico, l’aver individuato una faglia principale potenzialmente sismogenetica pone le basi per la necessità di ulteriori approfondimenti al fine di valutare la pericolosità sismica dell’area, e il ruolo dei terremoti nel possibile innesco delle numerose frane presenti.
«Questi aspetti verranno meglio quantificati con analisi di laboratorio nei prossimi mesi. – prosegue Alessandro Tibaldi, docente di geologia strutturale e coordinatore del progetto – A queste seguirà una nuova missione in Azerbaijan che verrà svolta a maggio 2023, in cui gli scienziati del progetto incontreranno rappresentanti dei Ministeri e delle Istituzioni della nazione caucasica, completata da un periodo di ricerche sul campo per definire meglio i rischi geologici nelle aree circostanti l’impianto idroelettrico.»
Testo dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca
da destra: Veronica Ferrucci, Fatemeh Asadzadeh e Massimo Zollo
Il carcinoma mammario triplo negativo (TNBC) rappresenta il 20% dei tumori al seno ed è anche il sottotipo più aggressivo, a causa delle sue caratteristiche clinico-patologiche, tra cui la giovane età all’esordio e la maggiore propensione a sviluppare metastasi. Le pazienti con il triplo negativo metastatico hanno prognosi peggiore rispetto a quelli diagnosticati con altri sottotipi di cancro alla mammella metastatico: oggi non ci sono bersagli molecolari riconosciuti per la terapia.
Lo studio sviluppato nei laboratori del centro di ricerca di Napoli CEINGE-Biotecnologie avanzate in collaborazione con il Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche (Università di Napoli Federico II) e l’Unità di Patologia dell’Istituto Nazionale dei Tumori IRCS Fondazione Pascale ha dimostrato che la proteina Prune-1 è iper-espressa in circa il 50% dei pazienti con carcinoma mammario triplo negativo ed è correlata alla progressione del tumore, alle metastasi a distanza (polmonari) ed anche alla presenza di macrofagi M2 (presenti nel microambiente tumorale del TNBC e correlati ad un rischio più elevato di sviluppare metastasi).
I ricercatori hanno anche identificato nel modello murino una piccola molecola non tossica, che è in grado di inibire la conversione dei macrofagi verso il fenotipo M2 e di ridurre il processo metastatico al polmone.
Un traguardo importante, raggiunto da un team guidato da Massimo Zollo, genetista, professore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e Principal Investigator del CEINGE, del quale fanno parte, tra gli altri, due giovani ricercatrici della Federico II e del CEINGE Veronica Ferrucci e Fatemeh Asadzadeh (dottoranda SEMM).
La prima fase della ricerca ha riguardato lo studio di un modello murino geneticamente modificato di TNBC metastatico, caratterizzato dall’iper-espressione dei geni PRUNE1 e WNT1 nella ghiandola mammaria. «Il modello murino da noi studiato – spiega Veronica Ferrucci – genera non solo tumore primario di tipo triplo negativo, ma anche metastasi polmonari. Il modello murino ci ha consentito di identificare la presenza di macrofagi di tipo M2 sia nel microambiente del tumore primario che nel microambiente metastatico polmonare».
«Attraverso l’utilizzo di database di carcinoma mammario invasivo – aggiunge Fatemeh Asadzadeh –., abbiamo avuto la conferma che quando questi geni sono iper-espressi, si verificano prognosi peggiori. Il processo scoperto nel modello murino può essere lo stesso anche nella donna».
«Per noi un’ulteriore “prova” è stata l’aver riscontrato la presenza di alcune varianti genetiche identificate nel modello murino in campioni di carcinoma mammario TNBC umano presente in banche dati ma di funzione sconosciuta ora rese note grazie agli studi ottenuti nel modello murino», chiarisce Massimo Zollo.
Il gruppo di ricerca
La molecola e il kit per la diagnosi precoce
I ricercatori del CEINGE hanno valutato l’efficacia contro la progressione del carcinoma mammario triplo negativo di una piccola molecola, che ha la capacità di bloccare in vivo il processo metastatico. Per questa molecola sono state già eseguite le verifiche di tossicità nel modello murino. «Tale molecola è in grado di inibire la conversione dei macrofagi verso il fenotipo M2 e di ridurre il processo metastatico al polmone – spiega Zollo –. Ora è studio lo sviluppo di una seconda molecola più sensibile alla quale dovrà fare seguito la sperimentazione nel topo e poi sull’essere umano. È stato inoltre sviluppato un kit che è in grado di identificare all’esordio quali TNBC hanno maggiore probabilità di sviluppare metastasi con sede polmonare e/o in siti distanti. Questo kit utilizza gli studi genomici qui presentati e può aiutare l’oncologo nel determinare una terapia eventualmente più aggressiva sin dall’esordio. Occorreranno circa 1-2 anni di validazione, affinché sarà possibile dimostrare la sua efficacia nella diagnosi clinica».
Lo studio su iSCIENCE (gruppo CELL PRESS)*
La ricerca è stata pubblicata sulla rivista scientifica internazionale iSCIENCE (gruppo CELL PRESS) ed è stata finanziata dall’Unione Europea Progetto “PRIME-XS” e Tumic FP7, dall’AIRC Associazione per la Ricerca Sul Cancro, PON SATIN e dalla Fondazione Celeghin.
Tra le istituzioni coinvolte (oltre al CEINGE) il Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche DMMBM della “Federico II”, l’Unità di Patologia dell’Istituto Nazionale dei Tumori IRCS Fondazione Pascale, il centro di biotecnologie mediche VIB-UGent (Belgio), il Dipartimento di Sanità pubblica e il DAI Medicina di Laboratorio e Trasfusionale AOU Federico II e la Scuola Europea di Medicina Molecolare (SEMM).
Lo studio è stato coordinato dal prof. Massimo Zollo (Università di Napoli Federico II e CEINGE) in collaborazione con il prof. Kris Gevaert (Responsabile del Centro di Proteomica di Biotecnologie Mediche VIB-UGent, Belgio), la prof. Natascia Marino (Associate Professor, Indiana University, Indianapolis, USA) il prof. Maurizio Di Bonito (Unità di Patologia dell’Istituto Nazionale dei Tumori IRCS Fondazione Pascale), il prof. Giovanni Paolella (Università di Napoli Federico II e CEINGE) ed il prof. Francesco D’Andrea (Dipartimento di Sanità pubblica AOU Federico II).
*Prune-1 drives polarization of tumor-associated macrophages (TAMs) within the lungmetastatic niche in triple-negative breast cancer
Veronica Ferrucci, Fatemeh Asadzadeh, Francesca Collina, Roberto Siciliano, Angelo Boccia, Laura Marrone, Daniela Spano, Marianeve Carotenuto, Maria Cristina Chiarolla, Daniela De Martino, Gennaro De Vita, Alessandra Macrì, Luisa Dassi, Jonathan Vandenbussche, Natascia Marino, Monica Cantile, Giovanni Paolella, Francesco D’Andrea, Maurizio di Bonito, Kris Gevaert and Massimo Zollo
Foto e testo dall’Ufficio Stampa Università di Napoli Federico II
RUOLO CENTRALE PER LA GLUTAMMINA NELLA RIGENERAZIONE DEL MUSCOLO E NELL’INIBIZIONE DELLE METASTASI TUMORALI
Due recenti ricerche internazionali guidatedal Prof. Massimiliano Mazzone,docente straordinario al Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute di UniTo e afferente al VIB-KU Leuven Center for Cancer Biology,rivelano l’importanza della glutammina nella risposta infiammatoria in seguito a tumore o a danno degenerativo tissutale.
Tessuto muscolare murino rigenerante
Sono due i lavori pubblicati su prestigiose riviste scientifiche internazionali, Nature il 28 ottobre e EMBO Molecular Medicine il 28 agosto, guidati dal Prof. Mazzone che con il suo team di ricerca ha dimostrato come il metabolismo della glutammina con la sua capacità di influire sulla rigenerazione delle fibre muscolari e sull’inibizione delle metastasi tumorali apre nuove prospettive per la cura dell’invecchiamento muscolare
In particolare Mazzone e il suo team, nel lavoro pubblicato su Nature (“Macrophage-derived glutamine boosts satellite cells and muscle regeneration”), dimostrano un dialogo metabolico tra un tipo di cellule infiammatorie, chiamate macrofagi, e cellule staminali muscolari, chiamate satelliti, che, se potenziato con un inibitore dell’enzima GLUD1, favorisce il rilascio di glutammina. In questo modo l’aminoacido migliora la rigenerazione muscolare stimolando la proliferazione e il differenziamento delle cellule staminali, e quindi aumentando le prestazioni fisiche in modelli sperimentali di degenerazione muscolare come traumi, ischemia ed invecchiamento.
I ricercatori hanno osservato che, in seguito a danni muscolari degenerativi, tra i quali l’invecchiamento, i normali livelli di glutammina nel muscolo diminuiscono in conseguenza della morte del tessuto muscolare. La ri-stabilizzazione dei livelli originali di glutammina stimola la rigenerazione delle fibre muscolari.
La glutammina assume quindi il ruolo di molecola sensore, garante dell’integrità tissutale, per cui i suoi livelli all’interno del tessuto muscolare controllano un programma rigenerativo. Inoltre, lo studio suggerisce l’enzima GLUD1 come bersaglio terapeutico per promuovere la rigenerazione muscolare dopo lesioni acute come traumi o ischemie, oppure in condizioni degenerative croniche come appunto l’invecchiamento.
Lo studio, oltre al suo potenziale traslazionale, fornisce spunti chiave in diversi ambiti medico-scientifici tra cui il metabolismo del sistema immunitario, la biologia delle cellule staminali, e la fisiologia del muscolo.
Gli studi sulla glutammina hanno portato Mazzone e i suoi a fornire un importante contributo anche per la ricerca sul cancro. Il lavoro pubblicato sulla rivista EMBO Molecular Medicine (“Glufosinate constrains synchronous and metachronous metastasis by promoting anti‐tumor macrophages) analizza la glutammina sintetasi (GS), cioè l’enzima che genera glutammina dal glutammato, come il crocevia che controlla il rilascio di mediatori infiammatori. L’inibizione farmacologica della GS nei macrofagi blocca le metastasi aumentando l’immunità anti-tumorali.
Su questa base è stato valutato il potenziale farmacologico di derivati del glufosinato, comunemente usato come erbicida, nel ruolo di inibitori specifici della glutammina sintetasi nella lotta alle metastasi. I ricercatori hanno scoperto che il glufosinato ricabla i macrofagi sia nel tumore primario che nella sede metastatica, contrastando l’immunosoppressione e la formazione di nuovi vasi tumorali. Questo effetto è stato osservato in modelli sperimentali murini in condizioni di malattia primaria e metastatica o dopo rimozione del tumore primaria nel trattamento di ricaduta metastatica. Il trattamento con glufosinato è stato ben tollerato, senza tossicità epatica o cerebrale, né difetti ematopoietici.
Questi risultati, in conclusione, identificano il bersagliamento farmacologico della glutammina sintetasi come prospettiva utile per ricablare le funzioni dei macrofagi. Un potenziale straordinario per il trattamento delle metastasi tumorali.
Cellule staminali proliferanti
“Questi due studi offrono conoscenza biologica sia nel campo della rigenerazione tissutale che della progressione tumorale” spiega il Prof. Mazzone“ma identificano già in questa fase due molecole sulle quali lavorare per creare nuovi farmaci. Le ricerche sono il frutto di un lavoro intenso condotto in Italia, tra le Università di Torino, ed in particolare il Centro per le Biotecnologie Molocolari (MBC) e l’Università di Bari, e in Belgio, all’Università di Lovanio e al VIB. Questo lavoro non si sarebbe potuto realizzare senza il contributo essenziale del Dottor Berardi, la Dottoressa Min Shang, il Dottor Menga, ricercatori in Belgio e a Torino, e la Professoressa Castegna, docente presso l’Università di Bari”.
La Professoressa Fiorella Altruda, direttrice del Centro per le Biotecnologie Molecolari aggiunge con orgoglio: “Siamo contenti di avere riportato un anno e mezzo fa il Professor Mazzone alla sede che lo ha formato 15 anni fa. In poco tempo dalla sua nomina a Professore Ordinario Straordinario, Massimiliano si è ben collocato all’interno del Centro, sviluppando nuove linee di ricerca ed iniziando moltissime collaborazioni con altri gruppi di ricerca nel Centro ma anche a livello nazionale ed internazionale”.
Massimiliano Mazzone
Il Professor Mazzone si è laureato con il massimo dei voti in Bioteconologie Mediche nel 2002 e ha conseguito il Dottorato di Ricerca nel Febbraio del 2007 presso Istituto per la Ricerca e la Cura del Cancro, sempre all’Università di Torino. Trasferitosi per i suoi studi specialistici all’Università di Lovanio nell’Ottobre del 2006, dal 2009 Mazzone dirige il Laboratorio di Infiammazione ed Angiogenesi presso l’Istituto fiammingo per le Biotecnologie VIB e dal 2016 è Professore Ordinario presso l’Università Cattolica di Lovanio. Dal 2019 Mazzone è Professore Straordinario all’Università di Torino dove dirige un secondo gruppo di ricerca presso il Centro per le Biotecnologie Molecolari. Mazzone è autore di 126 lavori in riviste mediche prestigiose che hanno già ricevute, in totale, oltre 10000 citazioni. Il Professore ad oggi è stato invitato più di 150 volte a dare interventi scientifici in tutto il mondo, presiede ad importanti commissioni di valutazione della ricerca accademica ed industriale, ed ha organizzato lui stesso diverse conferenze di importanza mondiale. Ha ricevuto più di 15 premi di prestigio nazionale ed internazionale, tra cui 3 consecutivi riconoscimenti dal Consiglio Europeo della Ricerca. Il Professor Mazzone ha contribuito all’insegnamento in diversi corsi di laurea e di Dottorato, e fino ad oggi ha contribuito alla crescita scientifica di 50 tesisti in Medicina, Farmacia, Biologia e Biotecnologie, 16 ricercatori afferenti a diversi Dottorati di Ricerca, e 14 ricercatori post-Dottorato, tutti insieme provenienti da 20 diverse nazioni. Nel 2017 ha co-fondato una prima industria farmaceutica (Oncurious) e due anni dopo, una seconda industria chiamata Montis Biosciences, e detiene 15 brevetti. Negli ultimi 5 anni, Mazzone ha co-sviluppato due farmaci anti-tumorali che hanno visto la fase sperimentale clinica in collaborazione con due altre aziende farmaceutiche, ed ha maturato l’idea per un kit diagnostico per il cancro al colon. La ricerca del suo team si focalizza da sempre sull’infiammazione in particolare nel tumore ma anche in altre condizioni patologiche come rigenerazione ed infezioni, ponendo la carenza di ossigeno (meglio conosciuta come ipossia) e il metabolismo al centro delle sue scoperte. Recentemente, il focus della sua ricerca si è centralizzato sui meccanismi di resistenza all’immunoterapia dei tumori. Mazzone ha contribuito in maniera fondamentale in questi settori della biologia ed è riconosciuto come un leader mondiale emergente nei campi dell’infiammazione e della regolazione del microambiente tumorale.
Testo e immagini dall’Università degli Studi di Torino
Onde gravitazionali: le nuove sensazionali scoperte del team internazionale di ricercatori Virgo e LIGO
Il ruolo degli scienziati UNIPG
Helios Vocca e Roberto Rettori
Si è svolta oggi presso il Rettorato dell’Università degli Studi di Perugia la conferenza stampa di presentazione ai giornalisti umbri delle nuove, sensazionali scoperte scientifiche realizzate dai ricercatori dei progetti Virgo e LIGO.
Helios Vocca e Roberto Rettori
All’incontro con i giornalisti – realizzato in contemporanea con l’omologo evento internazionale che ha visto collegati i vari gruppi di ricerca in modalità streaming – erano presenti i professori Helios Vocca, Delegato del Rettore per il settore Ricerca, Valutazione e Fund-raising e Roberto Rettori, Delegato del Rettore per il settore Orientamento, Tutorato e Divulgazione scientifica, insieme a numerosi Delegati Rettorali e Direttori dei Dipartimenti dello Studium.
I ricercatori dei progetti Virgo e LIGO hanno annunciato l’osservazione della fusione di un sistema binario di massa straordinariamente grande: due buchi neri di 66 e 85 masse solari, hanno prodotto alla fine un buco nero di circa 142 masse solari. Il buco nero finale è il più massiccio rivelato finora per mezzo delle onde gravitazionali. Si trova in una regione di massa entro cui non è mai stato osservato prima un buco nero, né con onde gravitazionali né con osservazioni elettromagnetiche, e potrebbe servire a spiegare la formazione dei buchi neri supermassicci. Inoltre, il componente più pesante del sistema binario iniziale si trova in un intervallo di massa proibito dalla teoria dell’evoluzione stellare e rappresenta una sfida per la nostra comprensione degli stadi finali della vita delle stelle massicce.
Helios Vocca
“Il risultato di oggi è per noi fonte di enorme soddisfazione – dichiara il professore Helios Vocca, responsabile del gruppo Virgo Perugia – perché si tratta di una nuova scoperta realizzata grazie ad un detector che è frutto anche del lavoro realizzato dal gruppo Virgo Perugia in trent’anni di attività: un impegno, quello del team perugino, che è stato ampiamente riconosciuto a livello internazionale e che ci vede coinvolti nel management sia del progetto Virgo, sia del nuovo esperimento giapponese ‘Kagra’, guidato da Takaaki Kajita, premio Nobel per la Fisica nel 2015 e laureato honoris causa del nostro Ateneo. Del nostro gruppo, inoltre – aggiunge Vocca – fa parte anche il dottor Michele Punturo, della sezione INFN di Perugia, attualmente Principal Investigator dell’esperimento ‘Einstein Europe’, il futuro detector europeo per le onde gravitazionali.
Il team di Perugia possiede competenze uniche al mondo – spiega il professor Vocca – in particolare sulle sospensioni degli specchi degli interferometri. In virtù di questa altissima specializzazione, stiamo lavorando insieme ad altri colleghi di vari Paesi europei e giapponesi per creare un laboratorio internazionale proprio a Perugia o comunque in Umbria, al fine di sfruttare le ricadute tecnologiche dei rilevatori di onde gravitazionali in altri settori, quali ad esempio quello del rischio sismico, affinché le avanzatissime tecnologie utilizzate nello spazio servano al miglioramento della vita dei cittadini.
Il tutto, inoltre, – conclude il professor Helios Vocca – avrà un’importante valenza per i nostri studenti: stiamo infatti puntando a costruire, in questo ambito scientifico, un’offerta didattica innovativa interuniversitaria, ovvero corsi di laurea realizzati in partnership con altri Atenei del centro-Italia, per dar vita a una ‘scuola’ che sia davvero unica persino a livello internazionale”.
Roberto Rettori
“In questo periodo di emergenza, nel rispetto delle direttive ministeriali, l’Università degli Studi di Perugia non ha mai interrotto né l’attività didattica né quella di ricerca – ha sottolineato il professore Roberto Rettori -. L’esperimento Virgo, che per l’unità di Perugia è coordinato dal professor Helios Vocca del Dipartimento di Fisica e Geologia, ne è una chiara dimostrazione.
I risultati che i nostri eccellenti ricercatori ottengono in tutte le discipline, permettono al nostro Ateneo di crescere e sempre di più diventare un punto di riferimento in Italia e nel mondo, promuovendo quindi Perugia e il suo territorio. Attraverso le numerose iniziative di divulgazione della ricerca che stiamo organizzando in tutta la regione, l’Università degli Studi di Perugia esce dalle sue mura, arriva alla popolazione e diventa suo patrimonio da difendere e valorizzare. Ringrazio il Magnifico Rettore, Professore Maurizio Oliviero, per il supporto costante che offre a tali iniziative nonché tutti i colleghi per il loro lavoro. L’Ateneo di Perugia è soprattutto il luogo accogliente della conoscenza dove i giovani possono realizzare le loro passioni e costruire il loro futuro”.
La Sala Dessau all’Università di Perugia
Perugia, 2 settembre 2020
Virgo e LIGO svelano nuove e inattese popolazioni di buchi neri
Helios Vocca e Roberto Rettori
Virgo e LIGO hanno annunciato l’osservazione della fusione di un sistema binario di massa straordinariamente grande: due buchi neri di 66 e 85 masse solari, hanno prodotto alla fine un buco nero di circa 142 masse solari. Il buco nero finale è il più massiccio rivelato finora per mezzo delle onde gravitazionali. Si trova in una regione di massa entro cui non è mai stato osservato prima un buco nero, né con onde gravitazionali né con osservazioni elettromagnetiche, e potrebbe servire a spiegare la formazione dei buchi neri supermassicci. Inoltre, il componente più pesante del sistema binario iniziale si trova in un intervallo di massa proibito dalla teoria dell’evoluzione stellare e rappresenta una sfida per la nostra comprensione degli stadi finali della vita delle stelle massicce.
Gli scienziati delle collaborazioni internazionali che sviluppano e utilizzano i rivelatori Advanced Virgo presso lo European Gravitational Observatory (EGO) in Italia e i due Advanced LIGO negli Stati Uniti hanno annunciato l’osservazione di un buco nero di circa 142 masse solari, che è il risultato finale della fusione di due buchi neri di 66 e 85 masse solari. I componenti primari e il buco nero finale si trovano tutti in un intervallo di massa mai visto prima, né con onde gravitazionali né con osservazioni elettromagnetiche. Il buco nero finale è il più massiccio rivelato finora per mezzo di onde gravitazionali. L’evento di onda gravitazionale è stato osservato dai tre interferometri della rete globale il 21 maggio 2019. Il segnale (chiamato GW190521) è stato analizzato dagli scienziati, che stimano che la sorgente disti circa 17 miliardi di anni luce dalla Terra. Due articoli scientifici che riportano la scoperta e le sue implicazioni astrofisiche sono stati pubblicati oggi su Physical Review Letters e Astrophysical Journal Letters,
rispettivamente.
“Il segnale osservato il 21 maggio dello scorso anno è molto complesso e, dal momento che il sistema è così massiccio, lo abbiamo osservato per un tempo molto breve, circa 0.1 s”, dice Nelson Christensen, directeur de recherche CNRS presso ARTEMIS a Nizza in Francia e membro della Collaborazione Virgo. “Non assomiglia molto ad un sibilo che cresce rapidamente in frequenza, che è il tipo di segnale che osserviamo di solito: assomiglia piuttosto ad uno scoppio, e corrisponde alla massa più alta mai osservata da LIGO e Virgo.” Effettivamente, l’analisi del segnale – basata su una potente combinazione di modernissimi modelli fisici e di metodi di calcolo – ha rivelato una gran quantità di informazione su diversi stadi di questa fusione davvero unica.
Questa scoperta è senza precedenti non solo perché stabilisce il record di massa tra tutte le osservazioni fatte finora da Virgo e LIGO ma anche perché possiede altre caratteristiche speciali. Un aspetto cruciale, che ha attratto in particolare l’attenzione degli astrofisici, è che il residuo finale appartiene alla classe dei cosiddetti “buchi neri di massa intermedia” (da cento a centomila masse solari). L’interesse verso questa popolazione di buchi neri è collegato ad uno degli enigmi più affascinanti e intriganti per astrofisici e cosmologi: l’origine dei buchi neri supermassicci. Questi mostri giganteschi, milioni di volte più pesanti del Sole e spesso al centro delle galassie, potrebbero essere il risultato della fusione di buchi neri di massa intermedia.
Fino ad oggi, pochissimi esempi di questa categoria sono stati identificati unicamente per mezzo di osservazioni elettromagnetiche, e il residuo finale di GW190521 è la prima osservazione di questo genere per mezzo di onde gravitazionali. Ed è di interesse ancora maggiore, visto che si trova nella regione tra 100 e 1000 masse solari, che ha rappresentato per molti anni una specie di “deserto dei buchi neri”, a causa della scarsità di osservazioni in questo intervallo di massa.
I componenti e la dinamica della fusione del sistema binario che ha prodotto GW190521 offrono spunti astrofisici straordinari. In particolare, il componente più massiccio rappresenta una sfida per i modelli astrofisici che descrivono il collasso in buchi neri delle stelle più pesanti, quando queste arrivano alla fine della loro vita. Secondo questi modelli, stelle molto massicce vengono completamente distrutte dall’esplosione di supernova, a causa di un processo chiamato “instabilità di coppia”, e si lasciano dietro solo gas e polveri cosmiche. Perciò gli astrofisici non si aspetterebbero di osservare alcun buco nero nell’intervallo di massa tra 60 e 120 masse solari: esattamente dove si trova il componente più massiccio di GW190521. Quindi, questa osservazione apre nuove prospettive nello studio delle stelle massicce e dei meccanismi di supernova.
“Parecchi scenari predicono la formazione di buchi neri nel cosiddetto intervallo di massa di instabilità di coppia: potrebbero risultare dalla fusione di buchi neri più piccoli o dalla collisione multipla di stelle massicce o addirittura da processi più esotici”, dice Michela Mapelli, professore presso l’Università di Padova, e membro dell’INFN Padova e della Collaborazione Virgo. “Comunque, è possibile che si debba ripensare la nostra attuale comprensione degli stadi finali della vita di una stella e i conseguenti vincoli di massa sulla formazione dei buchi neri. In ogni caso, GW190521 è un importante contributo allo studio della formazione dei buchi neri.”
Infatti, l’osservazione di GW190521 da parte di Virgo e LIGO porta la nostra attenzione sull’esistenza di popolazioni di buchi neri che non sono mai stati osservati prima o sono inattesi, e in tal modo solleva nuove intriganti domande sui meccanismi con cui si sono formati. A dispetto del segnale insolitamente breve, che limita la nostra capacità di dedurre le proprietà astrofisiche della sorgente, le analisi più avanzate e i modelli attualmente disponibili suggeriscono che i buchi neri iniziali avessero alti valori di spin, o in altre parole che avessero un’elevata velocità di rotazione.
“Il segnale mostra segni di precessione, una rotazione del piano orbitale prodotta da spin elevati e con un’orientazione particolare”, nota Tito Dal Canton, ricercatore del CNRS presso IJCLab ad Orsay, Francia, e membro della Collaborazione Virgo, “L’effetto è debole e non possiamo esserne certi del tutto, ma se fosse vero darebbe forza all’ipotesi che i buchi neri progenitori siano nati e vissuti in un ambiente cosmico molto dinamico e affollato, come un ammasso stellare denso o il disco di accrescimento di un nucleo galattico attivo.”
Parecchi scenari diversi sono compatibili con questi risultati e anche l’ipotesi che i progenitori della fusione possano essere buchi neri primordiali non è stata scartata dagli scienziati. Effettivamente, noi stimiamo che la fusione abbia avuto luogo 7 miliardi di anni fa, un tempo vicino alle epoche più
antiche dell’Universo.
Rispetto alle precedenti osservazioni di onde gravitazionali, il segnale di GW190521 è molto breve e più difficile da analizzare. La complessa natura di questo segnale ci ha spinto a considerare anche altre sorgenti più esotiche, e queste possibilità sono descritte in un altro articolo che accompagna quello della scoperta. La fusione di un sistema binario di buchi neri resta però l’ipotesi più
probabile.
“Le osservazioni portate avanti da Virgo e LIGO illuminano l’universo oscuro e definiscono un nuovo panorama cosmico”, dice Giovanni Losurdo, che guida Virgo ed è dirigente di ricerca presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare in Italia, “E oggi, ancora una volta, annunciamo una scoperta senza precedenti. Continuiamo a migliorare i nostri strumenti per aumentare la loro performance e
per vedere sempre più a fondo nell’Universo.”
Informazioni aggiuntive sugli osservatori di onde gravitazionali:
La Collaborazione Virgo è composta attualmente da circa 580 membri provenienti da 109 istituzioni in 13 diversi paesi, che comprendono Belgio, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Olanda, Polonia, Portogallo, Spagna e Ungheria. Lo European Gravitational Observatory (EGO) che ospita il rivelatore Virgo si trova vicino a Pisa in Italia ed è finanziato dal Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) in Francia, dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) in Italia, e dal Nikhef in Olanda. Una lista dei gruppi della Collaborazione Virgo è disponibile al link http://public.virgo-gw.eu/the-virgo-collaboration/ . Ulteriori informazioni sono disponibili sul sito web di Virgo http://www.virgo-gw.eu
.LIGO è finanziato dalla National Science Foundation (NSF) e la sua operatività dipende da Caltech e MIT, che hanno concepito e guidato il progetto. Il sostegno finanziario per il progetto Advanced LIGO è venuto dall’NSF, con significativi impegni e contributi da parte tedesca (Max Planck Society), inglese (Science and Technology Facilities Council) e australiana (Australian Research Council-OzGrav). Circa 1300 scienziati di tutto il mondo partecipano all’impresa scientifica della Collaborazione LIGO, che include anche la Collaborazione GEO. Una lista di altri partners è disponibile al link https://my.ligo.org/census.php
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I RICERCATORI DI PERUGIA A CACCIA DELLE ONDE GRAVITAZIONALI
Un’esperienza ventennale nella descrizione teorica e nello sviluppo di tecnologie per osservare le onde gravitazionali che ha condotto anche a ricadute tecnologiche nel campo delle energie rinnovabili.
Helios Vocca e Roberto Rettori
Il gruppo di scienziati di Perugia che lavora all’esperimento Virgo per la rivelazione e lo studio di onde gravitazionali fa parte del Dipartimento di Fisica e Geologia dell’Università di Perugia e della Sezione di Perugia dell’INFN e da circa trent’anni si occupa de i rivelatori delle Onde Gravitazionali. Il gruppo si occupa per lo più di elabora re modelli teorici e tecniche sperimentali per studiare la dinamica dei sistemi fisici non lineari e in particolare p er lo studio del rumore. Si tratta cioè di conoscere le caratteristiche e saper limitare o utilizzare in modo efficiente tutte qu elle vibrazioni che popolano i fenomeni naturali, dalle vibrazioni delle molecole e degli atomi dovute alla temperatura alle vibrazioni macroscopiche che potrebbero disturbare la rivelazione dei segnali che arrivano dal cosmo e che l’esperimento Virgo rivela. Oltre a questo negli ultimi anni ha acquisito competenze di ottica quantistica, di data analisi e modelli stica della Relatività Generale per sistemi compatti.
Il gruppo di ricerca perugino attivo nell’esperimento Virgo è coordinato dal Prof. Helios Vocca (attualmente nel Management Team sia dell’esperimento europeo Virgo che dell’esperimento giapponese Kagra). Sono nel complesso 12, tra scienziati e tecnici, le persone del Dipartimento di Fisica e della Sezione di Perugia dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare che costituiscono il team coinvolto nell’osservazione e nell’analisi dei dati raccolti sulle onde gravitazionali; fra loro anche il Dott. Michele Punturo responsabile del gruppo di ricerca astroparticellare per la sezione INFN di Perugia e attualmente Principal Investigato dell’esperimento Einstein Telescope, futuro detector europeo per le Onde Gravitazionali.
Le abilità acquisite dal team perugino nello studio delle vibrazioni, da quelle microscopiche a quelle più grandi, ha consentito di apportare un contributo essenziale ai metodi utilizzati per istallare gli specchi e il complesso dei sistemi ottici, cuore dello strumento per l’osservazione delle onde gravitazionali: l’interferometro Virgo. Il rivelatore Virgo istallato a Cascina, nelle campagne poco fuori Pisa, è costituito da due lunghi tubi di tre chilometri l’uno, disposti perpendicolarmente tra loro a formare una elle. All’interno di questi tubi si fa il vuoto e viene fatto correre un raggio laser avanti e indietro attraverso un sistema di specchi. È proprio lo spostamento degli specchi al passaggio dell’onda gravitazionale che ne rileva la presenza. Di conseguenza è cruciale la realizzazione di queste parti dell’apparato. Attraverso una conoscenza accurata del rumore termico, ovvero delle vibrazioni degli atomi e delle molecole che costituisco i materiati di cui sono fatte le parti del rivelatore Virgo, il gruppo di Perugia ha fatto sì che il segnale delle onde gravitazionali non si confondesse con altri disturbi provenienti dall’ambiente. Il gruppo di Perugia si è occupato, sin dalla nascita del progetto Virgo, dello sviluppo del sistema per sospendere gli specchi all’interno delle torri dell’esperimento. Tale sistema è unico perché consente allo specchio di poter oscillare dissipando pochissima energia e quindi rendendolo estremamente sensibile alla rivelazione dei segnali gravitazionali. Il pendolo è costituito da sottilissimi fili prima di acciaio, ora di un particolare vetro: il quarzo fuso. Insieme ai fili è stato ideato e realizzato un sistema originale di ancoraggio degli specchi attraverso tecniche innovative d’incollaggio delle componenti del rivelatore sviluppate tra i laboratori di Perugia e quelli di Glasgow. Queste tecnologie sono alla base dell’aumento di sensibilità che caratterizza il cosiddetto Advanded Virgo.
Le abilità tecniche e le conoscenze teoriche acquisite in questi trent’anni dai fisici dell’Università di Perugia, coinvolti nel progetto Virgo, ha consentito al gruppo di entrare da protagonista anche nell’esperimento giapponese, Kagra (esperimento guidato da una vecchia conoscenza dell’Ateneo perugino, il Prof. Takaaki Kajita premio Nobel in Fisica nel 2015, al quale nel 2017 è stata riconosciuta la laurea Honoris Causa) trasferendo le proprie competenze alla collaborazione asiatica per la realizzazione delle sospensioni criogeniche in zaffiro delle ottiche del rivelatore.
Testi e foto dall’Ufficio Stampa Università di Perugia