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Un paradosso conservazionistico: le specie aliene invasive possono essere a rischio nei loro areali d’origine 

Le specie non autoctone rappresentano una minaccia per la biodiversità, ma 36 di esse sono a loro volta in pericolo di estinzione nelle aree da cui provengono. A rivelarlo uno studio condotto dalla Sapienza e dall’Università di Vienna, pubblicato sulla rivista Conservation Letters.

Le specie aliene invasive sono tra le principali cause della perdita globale di biodiversità, contribuendo al 60% delle estinzioni di specie registrate negli ultimi decenni. In Europa centrale, tra i mammiferi non autoctoni si annoverano il ratto norvegese, il muflone e il visone americano. Uno studio condotto da biologi della Sapienza di Roma e dell’Università di Vienna ha rivelato che alcune di queste specie introdotte dall’uomo sono minacciate di estinzione nei loro areali d’origine. I risultati dello studio sono stati pubblicati nell’ultimo numero della rivista scientifica Conservation Letters.

La crescente globalizzazione ha facilitato la diffusione di numerose specie animali e vegetali in regioni del mondo a cui non appartenevano originariamente. Le specie invasive possono mettere in pericolo quelle autoctone attraverso la competizione per le risorse o la trasmissione di nuove malattie. Tuttavia, alcune di queste specie invasive risultano essere a rischio di estinzione nei loro areali nativi. Questo fenomeno solleva un interessante paradosso per la conservazione: è giusto proteggere queste specie nei loro areali d’origine, nonostante il danno che possono arrecare altrove? Finora non era chiaro quante specie di mammiferi minacciati fossero coinvolte in questo paradosso. Il recente studio ha quantificato il fenomeno, facendo un passo avanti nella comprensione di questa complessa problematica.

Le specie aliene invasive sono tra le principali cause della perdita globale di biodiversità, contribuendo al 60% delle estinzioni di specie registrate negli ultimi decenni. In Europa centrale, tra i mammiferi non autoctoni si annoverano il ratto norvegese, il muflone e il visone americano. Attualmente, l’uomo ha introdotto 230 specie di mammiferi non autoctoni in nuove aree del mondo, dove si sono stabilite in modo permanente.

“Ci siamo chiesti quante di queste specie siano a rischio anche nei loro areali d’origine -, spiega Lisa Tedeschi, autrice principale dello studio, affiliata alla Sapienza di Roma e all’Università di Vienna – Abbiamo scoperto che 36 di queste specie sono minacciate nei loro areali originari, rientrando così nel cosiddetto paradosso della conservazione. Questo numero ci ha sorpreso molto – sottolinea Tedeschi – Inizialmente pensavamo che le specie aliene e invasive fossero comuni anche nei loro areali nativi”.

Un esempio emblematico di mammifero minacciato nel suo areale originario è il cinopiteco (o macaco crestato), la cui popolazione a Sulawesi, in Indonesia, è crollata dell’85% dal 1978. Tuttavia, la specie si è diffusa su altre isole indonesiane, dove si trovano popolazioni non autoctone stabili. Un caso simile è quello del coniglio selvatico, in pericolo di estinzione in Europa, ma con popolazioni introdotte molto numerose in altre parti del mondo, come l’Australia, che superano di gran lunga quelle europee.

La maggior parte delle specie minacciate nel loro areale originario si trova nelle regioni tropicali dell’Asia, dove la distruzione massiccia delle foreste pluviali e la caccia intensiva rappresentano le principali cause del declino.

“La regione del Sud-est asiatico rappresenta l’hotspot globale di rischio di estinzione per i mammiferi – spiega Carlo Rondinini della Sapienza, coordinatore del gruppo di ricerca – le tendenze degli ultimi decenni e le proiezioni per il futuro fanno ritenere che conservare i mammiferi a rischio in questa regione sarà molto complesso. Per questo, le popolazioni aliene di specie minacciate nel loro areale nativo potrebbero in alcuni casi rappresentare una carta in più per evitarne l’estinzione”.

Attualmente, nella valutazione del rischio di estinzione globale non vengono considerate le popolazioni di specie che vivono al di fuori del loro areale nativo. Questo studio, però, ha dimostrato che includere le popolazioni non autoctone potrebbe migliorare la classificazione di rischio per alcune specie.

“Per il 22% delle specie analizzate, il rischio di estinzione globale si ridurrebbe se si tenessero in considerazione anche le popolazioni non autoctone”,

spiega Franz Essl, dell’Università di Vienna e co-coordinatore dello studio. Secondo i ricercatori, questi risultati evidenziano quanto le popolazioni non autoctone possano essere cruciali per la sopravvivenza di specie minacciate, specialmente quando gli habitat d’origine sono fortemente compromessi.

Tuttavia, l’inclusione delle popolazioni non autoctone nella valutazione del rischio presenta anche delle criticità. Ad esempio, potrebbe diminuire l’attenzione verso la protezione delle popolazioni minacciate nel loro areale nativo. Inoltre, le popolazioni non autoctone possono danneggiare altre specie locali, contribuendo a nuovi squilibri ecosistemici.

“La priorità deve rimanere la protezione delle specie nei loro habitat d’origine”, sottolinea Essl. “Tuttavia, è probabile che in futuro vedremo sempre più specie a rischio di estinzione nei loro areali nativi, ma con migliori possibilità di sopravvivenza in nuovi areali. Questo pone la conservazione della biodiversità davanti al complesso compito di bilanciare rischi e opportunità”. Infine, Essl conclude: “Questa dinamica riflette il profondo impatto della globalizzazione sulla distribuzione delle specie”.

 

Riferimenti bibliografici:

Tedeschi L., Lenzner B., Schertler A., Biancolini D., Essl F., Rondinini C. – “Threatened mammals with alien populations: distribution, causes, and conservation” – Conservation Letters (2024) – DOI:  https://doi.org/10.1111/conl.13069

Visone americano (Neogale vison). Foto di Hugo.arg, CC BY-SA 3.0
Un paradosso conservazionistico: le specie aliene invasive possono essere a rischio nei loro areali d’origine. Un visone americano (Neogale vison) in Lituania. Foto di Hugo.arg, CC BY-SA 3.0

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

A Milano-Bicocca un ERC Consolidator Grant da 2 milioni di euro al Progetto MATRICs, per studiare come le emissioni vulcaniche di CO2 abbiano influenzato l’evoluzione del clima

Con il finanziamento europeo vinto dal professore del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra Pietro Sternai, il progetto di ricerca MATRICs ricostruirà gli effetti delle emissioni vulcaniche di CO2 sul clima nel passato geologico della Terra per migliorare la comprensione delle conseguenze delle emissioni antropiche sul clima presente e futuro

Milano, 3 dicembre 2024 – Studiare come le emissioni di CO2 dai vulcani abbiano influenzato il clima nel passato geologico per migliorare le previsioni dei cambiamenti climatici futuri dovuti alle emissioni antropiche di anidride carbonica. È l’obiettivo del progetto di ricerca “MATRICs” (“Magmatic Triggering of Cenozoic Climate Changes”, tradotto: “Innesco magmatico dei cambiamenti climatici del Cenozoico), coordinato da Pietro Sternai, professore di Geofisica al dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università di Milano-Bicocca, che è stato appena premiato dall’Unione Europea con un ERC da 2 milioni di euro, della durata di 5 anni, nella categoria Consolidator Grant.

Gli ERC Consolidator Grant vengono assegnati dall’European Research Council a quei ricercatori che vantano una decina di anni di esperienza di riconosciuto valore alle spalle e che siano promotori di un progetto di ricerca ritenuto eccellente e particolarmente innovativo. Pietro Sternai coinvolgerà un’equipe di 3 dottorandi e 4 assegnisti di ricerca.

Il progetto “MATRICs” prende spunto da una constatazione.

«Conosciamo l’evoluzione del clima durante l’Era Cenozoica, da 60 milioni circa di anni fa fino a oggi, ma non sappiamo con certezza quali siano stati i motori dei suoi cambiamenti»,

afferma Pietro Sternai. Il primo obiettivo è fare luce sui possibili effetti di uno di questi: lo spegnimento di un arco vulcanico che si estendeva a sud del continente asiatico ma che scomparve dopo la collisione con il continente indiano per effetto della tettonica delle placche.

«La collisione tra India e Asia, tutt’ora in corso e iniziata tra 60 e 50 milioni di anni fa – prosegue il professore di Milano-Bicocca – oltre a portare alla formazione dell’Himalaya e del Tibet con grandi effetti a lungo termine sul clima globale provocò anche lo spegnimento di un arco magmatico che si estendeva per oltre 5mila chilometri, paragonabile a quello che c’è oggi nelle Ande. La domanda del progetto è: cosa succede al clima se cessano le emissioni di CO2 di un arco vulcanico di quel tipo? Il clima si raffredda? Si riscalda? Vogliamo capire come questo processo di variazione del magmatismo possa avere influenzato l’evoluzione del clima su scala globale, durante il Cenozoico inferiore».

Progetto MATRICs  Pietro Sternai nel suo ufficio con in mano un campione di Riolite proveniente dalle rocce magmatiche di Linzizong, nel Linzhou b​asin, in Tibet 
Pietro Sternai nel suo ufficio con in mano un campione di Riolite proveniente dalle rocce magmatiche di Linzizong, nel Linzhou b​asin, in Tibet

L’attività di ricerca prevede analisi petrografiche e geochimiche di campioni di roccia provenienti da tre zone situate lungo il margine collisionale e oggi oggetto di studio geologico: in Iran, nel Ladakh (India nord-occidentale) e in Tibet. «Andremo a campionare le rocce magmatiche – spiega Sternai – e misureremo il loro contenuto di CO2. Campioneremo anche rocce sedimentarie per rilevarne i valori di mercurio e tellurio, che possono dare informazioni indirette sull’attività magmatica in quelle tre zone. I valori misurati verranno interpretati con modelli numerici, integrandoli alla scala di tutto l’arco magmatico, per stimare l’effetto che potrebbe avere avuto sul clima e sul ciclo del carbonio la variazione di emissioni di CO2 dovuta alla cessazione dell’attività vulcanica».

Obiettivo finale: una volta validato il modello, comprendere cosa il passato possa rivelarci sul futuro. «Definita una correlazione tra le emissioni di CO2 vulcanica e le variazioni climatiche sul lungo periodo, l’ipotesi è quella di confrontare i valori ottenuti con le emissioni di anidride carboniche antropiche e i cambiamenti climatici attuali e in divenire. La conoscenza che produrremo sul ciclo geologico del carbonio ci consentirà di valutare meglio i fattori trainanti della variabilità climatica naturale e, per confronto, le conseguenze climatiche delle attuali emissioni antropiche.», conclude il geologo.

Dal 2014 l’Università di Milano-Bicocca ha ricevuto finanziamenti per 19 progetti ERC: 8 Consolidator Grant, compreso quello di “MATRICs”, 2 Advanced Grant, 5 Starting Grant, 2 Proof of Concept e 2 Synergy Grant.

«Lo studio e la comprensione dei meccanismi alla base dei cambiamenti climatici – afferma Guido Cavaletti, prorettore alla Ricerca dell’Università di Milano-Bicocca – rivestono una rilevanza che appare sempre più significativa e spingono ad applicare metodologie sempre più sofisticate. L’approccio proposto da questo progetto è sicuramente molto innovativo, pienamente in linea con lo spirito di una università come Milano-Bicocca».

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca

“LE PIANTE UTILIZZATE DALL’UOMO NON SONO SUFFICIENTEMENTE PROTETTE A LIVELLO GLOBALE”

L’allarme in una ricerca condotta dal UN Environment Programme World Conservation Monitoring Centre (UNEP-WCMC) e dai Royal Botanic Gardens, Kew, in collaborazione con l’Università di Torino e altri partner accademici.

In una ricerca pubblicata oggi, venerdì 19 gennaio, sulla rivista Science, gli scienziati del World Conservation Monitoring Centre del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente e dei Royal Botanic Gardens, Kew, in collaborazione con l’Università di Torino e altri partner accademici, hanno quantificato per la prima volta la distribuzione globale delle piante utilizzate dall’uomo. L’analisi ha rivelato che le maggiori concentrazioni di piante si trovano ai tropici, “hotspot bioculturali” che dovrebbero essere aree prioritarie per la conservazione ma, ad oggi, sono in gran parte non protette. 

Le piante rendono possibile la vita e hanno permesso all’umanità di svilupparsi e prosperare. Oltre a nutrire gli esseri umani e il bestiame, a fornire medicinali vitali, carburante e materiali per l’abbigliamento e le infrastrutture, la diversità delle piante può fornire soluzioni ai problemi globali attuali e futuri, come la fame, le malattie e i cambiamenti climatici. Il team ha analizzato la distribuzione di 35.687 specie di piante con usi documentati da parte dell’uomo, che coprono 10 categorie, tra cui cibo umano e foraggio per animali, materiali, combustibili e medicinali.

L’analisi ha utilizzato oltre 11 milioni di osservazioni di specie vegetali registrate da botanici di tutto il mondo e algoritmi di apprendimento automatico all’avanguardia per prevedere la distribuzione geografica delle specie vegetali utilizzate e la loro rarità.

La ricerca ha identificato l’America centrale, le Ande tropicali, il Golfo di Guinea, l’Africa meridionale, l’Himalaya, il Sud-Est asiatico e la Nuova Guinea come centri eccezionali di specie vegetali rare e con alta diversità di piante utilizzate dall’uomo.

Nonostante la rete globale di aree protette copra il 16% delle terre emerse e delle acque interne della Terra, i modelli mostrano che c’è una maggiore probabilità che le piante utilizzate dall’uomo – in particolare le specie rare – si trovino al di fuori delle aree protette. Ciò è particolarmente evidente in aree ecologiche delle Americhe, dell’Africa meridionale, del Sud-est asiatico e dell’Australia.

La ricerca ha anche rilevato che un numero sproporzionato di specie vegetali utilizzate è presente in molti territori indigeni dell’America centrale, del Corno d’Africa, dell’Asia meridionale e sudorientale.

Le aree indigene che contengono una diversità vegetale eccezionalmente elevata dovrebbero essere considerate prioritarie, sia per la conservazione della natura che per la protezione delle conoscenze tradizionali. Sebbene i governi di tutto il mondo si siano impegnati a proteggere il 30% della Terra entro il 2030, rimangono ancora degli interrogativi su come le nuove aree protette possano garantire la conservazione a lungo termine della diversità vegetale e dei suoi contributi alle persone.

I risultati evidenziano la necessità di trovare modi per proteggere la biodiversità preservando al contempo la sussistenza, il benessere e le conoscenze tradizionali delle persone. La pianificazione della conservazione deve considerare meglio la diversità vegetale e il suo contributo alle popolazioni nella futura pianificazione della conservazione basata sulle aree, soprattutto nell’ambito dell’ambizioso obiettivo 3 del Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework della COP 15 di aumentare le aree protette e conservate per coprire il 30% della terra, delle acque interne e degli oceani del mondo entro il 2030.

“Il risultato di questo lavoro collaborativo – dichiara Tiziana Ulian, docente del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino e senior research leader del Royal Botanic Gardens, Kew – è un passo importante per comprendere meglio l’enorme diversità delle piante utilizzate dall’uomo, la loro importanza culturale e la distribuzione in tutto il mondo. Proteggendo le aree con un’elevata diversità delle piante possiamo non solo contribuire ad affrontare la crisi globale che affligge la biodiversità, ma anche aiutare a sostenere la transizione verso un futuro sostenibile per l’umanità sul pianeta. Questa alta diversità vegetale può aiutarci a sviluppare Nature-based solutions (NBS) per affrontare sfide globali, come il cambiamento climatico, la sicurezza alimentare. la salute umana e la gestione del rischio di calamità ambientali”.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

La iena gigante che non ha resistito ai cambiamenti climatici 
Pachycrocuta brevirostris, la iena gigante dal muso corto diffusa nel Vecchio Mondo durante il Pleistocene, si è estinta in Europa circa 800 mila anni fa a seguito di cambiamenti climatici e ambientali e non a causa della competizione con altre specie che si diffusero nello stesso periodo. A svelarlo un nuovo studio del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza, pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews.

Un super-predatore un tempo popolava Europa, Asia e Africa, la iena gigante dal muso corto Pachycrocuta brevirostris. Con un peso probabilmente superiore ai 100 chilogrammi, fu la iena più grande mai esistita. Diffusasi in Europa circa due milioni di anni fa, fu uno dei predatori più temibili che si trovarono ad affrontare le prime popolazioni di ominini avventuratesi fuori dall’Africa; sebbene il ruolo diretto delle iene come concorrenti ecologici degli ominini del Pleistocene venga spesso enfatizzato, esse erano comunque una componente unica della fauna incontrata da queste popolazioni.

Pachycrocuta brevirostris iena gigante dal muso corto
Pachycrocuta brevirostris, la iena gigante dal muso corto che non ha resistito ai cambiamenti climatici e ambientali

Le iene sono comunemente note per la loro abilità di rompere le ossa e cibarsi del loro contenuto, e Pachycrocuta brevirostris si era ben adattata a questa abitudine alimentare. La iena gigante era anche in grado di accumulare ossa, come oggi testimoniano alcuni siti che rappresentano un vero tesoro per i paleontologi. Durante il Pleistocene, gli ominini erano l’unico altro gruppo capace di sfruttare le ossa come risorsa alimentare, con l’ausilio di strumenti litici per romperle. Per questo motivo, la possibile competizione di queste popolazioni con la iena gigante suscita un grande interesse tra i ricercatori. Eppure, il motivo per cui la specie si estinse e la tempistica di questo evento in Europa rimanevano ancora avvolti nell’incertezza.

Un nuovo studio, condotto da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra di Sapienza e pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews, ha riconsiderato i fossili di Pachycrocuta brevirostris e di altre iene che si diffusero in Europa nel Pleistocene, rivelando che la iena gigante dal muso corto scomparve dall’Europa circa 800 mila anni fa, probabilmente a seguito di cambiamenti climatici e ambientali e non a causa della competizione con altre specie che si diffusero nello stesso periodo.

Pachycrocuta brevirostris, Crocuta crocuta e Hyaena prisca

Studi precedenti avevano infatti ipotizzato che la competizione generata dall’arrivo di Crocuta crocuta, l’attuale iena macchiata, potesse aver giocato un ruolo nell’estinzione di Pachycrocuta brevirostris. Tale ipotesi sarebbe supportata dalla coesistenza delle due specie in alcune località dove la iena gigante sopravvisse più a lungo. Tuttavia, i risultati di questa nuova ricerca vanno nella direzione opposta, escludendo l’ipotesi della compresenza e della competizione diretta tra queste iene.

“La scomparsa della iena gigante dall’Europa circa 800 mila anni fa – commenta Alessio Iannucci di Sapienza, primo nome dello studio – è pressappoco coincidente con l’arrivo della iena macchiata, Crocuta crocuta, e di un’altra specie meno nota, la “Hyaena” prisca. Tuttavia, queste specie furono in grado di diffondersi in Europa solo dopo il declino della iena gigante e non contribuirono alla sua estinzione”.

La iena gigante dunque, un tempo diffusa in tutto il continente, non fu in grado di far fronte ai cambiamenti climatici e ambientali che avvennero durante la transizione tra Pleistocene Inferiore e Pleistocene Medio, la cosiddetta “Early–Middle Pleistocene Transition”. Si tratta di un periodo che vide acuirsi l’intensità delle fluttuazioni tra intervalli glaciali e interglaciali, dando poi inizio all’era glaciale. L’avvicendamento tra Pachycrocuta brevirostris e le altre iene fu uno degli eventi più caratteristici del rinnovamento faunistico avvenuto in quel momento: diversi carnivori specializzati, come le tigri dai denti a sciabola, andarono in declino o si estinsero, mentre si diffusero specie nuove e più adattabili. Tra queste si ricordano le linee evolutive dei moderni cervi, cinghiali, daini e lupi, così come popolazioni umane in grado di produrre strumenti litici bifacciali (come cunei, o asce da pugno).

“Le specie meglio adattate a particolari ambienti o a strategie alimentari, come Pachycrocuta brevirostris, sono quelle più a rischio, ma anche quelle che si sono evolute facendo fronte alle fluttuazioni climatiche dell’ultimo milione di anni potrebbero non essere in grado di adattarsi ai rapidi cambiamenti causati dall’attività umana – conclude Raffaele Sardella di Sapienza. “Studiare la risposta degli ecosistemi del passato è cruciale per interpretare criticamente i cambiamenti climatici che osserviamo attualmente”.

 

Riferimenti:

The extinction of the giant hyena Pachycrocuta brevirostris and a reappraisal of the Epivillafranchian and Galerian Hyaenidae in Europe: faunal turnover during the Early-Middle Pleistocene Transition – Alessio Iannucci, Beniamino Mecozzi, Raffaele Sardella, Dawid Adam Iurino – Quaternary Science Reviews 2021, 272:107240. https://doi.org/10.1016/j.quascirev.2021.107240

 

Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

La Sapienza in prima fila nella caccia alle zanzare “invernali”

I ricercatori chiedono l’aiuto dei cittadini per tracciare l’invasione di specie di zanzare invasive provenienti dall’Asia

Lotta alle zanzare: approda in Italia MosquitoAlert, l’app che permette ai cittadini di contribuire con un click 

Trent’anni fa la zanzara tigre asiatica (Aedes albopictus) ha cominciato la sua invasione del mondo arrivando a stabilirsi in tutti i continenti. Ma la storia non è finita lì! Negli ultimi anni si sono moltiplicate le segnalazioni in Europa di altre specie di zanzare invasive di origine asiatica, in particolare quella coreana (Aedes koreicus) e quella giapponese (Aedes japonicus), ancora più adatte della zanzara tigre a vivere in climi e stagioni fredde. Tutte specie molto aggressive, soprattutto a causa della loro attività di puntura durante le ore diurne, ma anche pericolose, perché capaci, se pungono una persona infetta da un virus tropicale come il dengue o il chikungunya, di trasmetterlo dopo pochi giorni ad una persona sana, attraverso una successiva puntura.

Proprio in questi giorni è arrivata la notizia che la zanzara coreana, prima segnalata in Italia solo in Veneto e Friuli Venezia Giulia, nel 2020 era presente anche in Lombardia nelle province di Bergamo e Brescia. È ancora presente in queste regioni? Potrebbe essere presente anche altrove? E come conoscere l’espansione della sua cugina giapponese? La ricerca di queste specie attraverso catture di esemplari adulti, di larve o di uova grazie a specifiche trappole entomologiche può dare una riposta a queste domande, ma non dappertutto in Italia vengono effettuati monitoraggi su vasta scala e l’arrivo di nuove specie invasive, inclusa la più pericolosa di tutte (l’Aedes aegypti), potrebbe passare inosservata.

Per questo motivo i ricercatori del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive dell’Università Sapienza – in collaborazione con colleghi dell’Istituto Superiore di Sanità, dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, del MUSE di Trento e dell’Ateneo di Bologna – hanno pensato di chiedere il contributo dei cittadini, sviluppando un progetto di scienza partecipata, la cosiddetta “citizen science”. Come partecipare al progetto? È molto semplice: basta scaricare sul proprio telefono cellulare l’app gratuita MosquitoAlert e inviare tramite l’app segnalazioni fotografiche di zanzare o semplicemente segnalazioni di punture. Un team di esperti entomologi identificheranno la specie grazie alle fotografie inviate, informeranno tramite l’app stessa “i cittadini scienziati” della specie segnalata, e utilizzeranno i dati per generare mappe di distribuzione e di stagionalità delle zanzare più comuni, che potranno essere consultate sia dai cittadini, sia da chi si occupa di interventi di controllo anti-zanzara. Attraverso le segnalazioni ottenute sarà anche possibile identificare l’eventuale presenza di nuove specie invasive in nuove aree geografiche, come successo la scorsa estate in Spagna, dove grazie a MosquitoAlert, è stata identificata per la prima volta la presenza della zanzara giapponese. Ricevere segnalazioni in questi mesi autunnali e invernali, sarà particolarmente importante per tracciare la zanzara coreana, che riesce a sopravvivere bene anche a basse temperature.

MosquitoAlert La Sapienza zanzare invernali
La Sapienza in prima fila nella caccia alle zanzare “invernali”

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

IL DELTA DEL MEKONG SPROFONDA e rischia di finire sotto il livello del mare entro il 2100

Pubblicata sulla rivista scientifica statunitense «PNAS» la ricerca Strategic basin and delta planning increases the resilience of the Mekong Delta under future uncertainty che evidenzia il rischio per il delta del Mekong di finire sotto il livello del mare entro il 2100

delta del Mekong sprofonda livello del mare
Il delta del Mekong

Il delta del Mekong, nel sud del Vietnam, è popolato da circa 21 milioni di persone e costituisce una risorsa di importanza globale: il fiume Mekong, infatti, è il settimo al mondo per lunghezza, il dodicesimo per portata e il corso d’acqua più lungo dell’Indocina con circa 4.880 km, uno dei maggiori dell’Asia.

Un team internazionale di ricercatori, tra cui Simone Bizzi del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, ha osservato che a causa dell’innalzamento del livello dei mari, della subsidenza incentivata da un utilizzo non sostenibile delle acque sotterranee e del ridotto apporto di sedimenti fluviali al delta dovuto alla costruzione di numerose dighe per lo sviluppo di energia idroelettrica, una percentuale variabile dal 23% fino al 90% del delta del Mekong rischia di finire sotto il livello del mare entro il 2100.

delta del Mekong sprofonda livello del mare
Il delta del Mekong

Questa grande incertezza è dovuta alla complessità di comprendere il funzionamento del sistema nella sua totalità: infatti, i processi del bacino fluviale a monte interagiscono con processi del delta e costieri.

Lo studio integra modelli matematici di diversi componenti del sistema – trasporto solido fluviale, subsidenza, scenari climatici e innalzamento del livello del mare – e dimostra come, a causa del forte impatto antropico, la sopravvivenza stessa del delta sia a rischio.

Gli autori della ricerca, tra i quali i vincitori del premio Aspen Institute Italia 2021 per la collaborazione e la ricerca scientifica tra Italia e Stati Uniti per un precedente studio sempre sullo stesso tema, mettono in evidenza come la gestione dei problemi nel bacino fluviale e nel delta debba essere integrata poiché i processi sono strettamente interconnessi.

Sebbene l’impatto maggiore derivi dalla grande incertezza riguardo gli scenari futuri di prelievo di acque sotterranee, i relativi fenomeni di subsidenza e gli scenari climatici, le simulazioni effettuate dimostrano la grande importanza di una pianificazione strategica per l’installazione di nuove centrali idroelettriche lungo il corso del Mekong al fine di aumentare il trasporto di sedimenti verso il delta e compensare i processi di subsidenza e innalzamento del livello del mare.

Simone Bizzi

«Visto quanto l’attuale impatto antropico modifica la dinamica terrestre, per il futuro è diventato prioritario riuscire a comprendere l’effetto delle nostre politiche di gestione territoriale nella loro complessità geomorfologica, idrologica ed ecologica» – spiega il prof. Simone Bizzi – «Le attuali politiche gestionali, soprattutto in paesi emergenti e densamente abitati come il delta del Mekong, stanno trasformando le caratteristiche degli habitat in cui viviamo mettendo a rischio la nostra stessa permanenza in questi habitat. Comprendere come e dove si possa agire per invertire questa tendenza è una priorità a cui la ricerca può e deve dare una risposta. Questo lavoro ha guardato al caso studio del delta del Mekong con questo spirito e mostra la complessità delle sfide che abbiamo davanti».

Una comprensione del sistema Mekong nella sua globalità, che includa una stima delle incertezze, permetterebbe di generare informazioni quantitative sulle conseguenze delle politiche gestionali adottate: queste getterebbero le basi per trovare compromessi fra vari stati e più interessi e politiche gestionali più sostenibili che salvaguardino l’esistenza del “sistema delta”.

Titolo: Strategic basin and delta planning increases the resilience of the Mekong Delta under future uncertainty – «PNAS» – 2021 Autori: R. J. P. Schmitt, M. Giuliani, S. Bizzi, G. M. Kondolf, G. C. Daily, Andrea Castelletti. Link all’articolo: https://www.pnas.org/content/118/36/e2026127118

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Padova.