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PATAGONIA, LA VITA AI CONFINI DEL MONDO

Uno dei luoghi più remoti e selvaggi della Terra

raccontato da Pedro Pascal

SU SKY NATURE DA SABATO 17 DICEMBRE ALLE 21.15

IN STREAMING SU NOW E DISPONIBILE ANCHE ON DEMAND

Selvaggia e isolata, incontaminata e inesplorata, la Patagonia è un luogo diverso da tutti gli altri. Estendendosi per più di mille miglia attraverso il Cile e l’Argentina, bagnata da due oceani, si snoda dall’Atlantico al Pacifico tra montagne e distese di ghiaccio, deserti e foreste incontaminate. Una vastissima diversità di habitat dove prospera una fauna selvatica che va dai puma ai pinguini, dai condor alle orche assassine. È qui che un pluripremiato team di registi di documentari si è fermato con l’intento di catturare, oltre alla sconfinata bellezza di questa terra, la vita delle persone e degli animali che vi abitano.

Patagonia, la vita ai confini del mondo è la docu-serie in esclusiva su Sky Nature da sabato 17 dicembre alle 21.15, in streaming solo su NOW e disponibile on demand, che in sei straordinari episodi mette in mostra diversi e spettacolari paesaggi, in un viaggio che racconta le storie avvincenti della fauna selvatica e delle persone che si sono dovute adattare a questi luoghi per viverci.

Un anno di riprese continue con la voce dell’attore cileno Pedro Pascal (The Mandalorian, Game of Thrones) e con l’aiuto di esperti locali oltre che di tecnologie all’avanguardia, per mettere in mostra non solo gli animali, i paesaggi e gli stili di vita della regione, ma per evidenzia anche le minacce che incombono su questi luoghi selvaggi. La Patagonia. Bellissima. Drammatica. Fragile.

Patagonia la vita ai confini del mondo
Patagonia, la vita ai confini del mondo, la docu-serie in esclusiva Sky Nature, in streaming su NOW e disponibile on demand; un anno di riprese con l’attore cileno Pedro Pascal

Testo, video e foto dall’Ufficio Stampa Sky.

INAUGURATO QUBIC: UN MODO NUOVO DI STUDIARE L’UNIVERSO PRIMORDIALE

 
Oggi, mercoledì 23 novembre, viene ufficialmente inaugurato in Argentina il telescopio QUBIC (Q-U Bolometric Interferometer for Cosmology), uno strumento innovativo che osserverà il fondo cosmico a microonde, l’eco residua del Big Bang, da un sito desertico di alta quota (5000 m) sulle Ande argentine, vicino alla località San Antonio de Los Cobres.
Alla cerimonia, che prevede una visita al telescopio, partecipano i rappresentanti degli Istituti finanziatori del progetto e del team scientifico internazionale.

Il progetto vede l’Italia protagonista grazie ai contributi scientifici e tecnologici forniti dall’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) e dalle Università degli Studi di Milano, Università di Milano-Bicocca, Università di Roma “Tor Vergata” e Sapienza Università di Roma.

QUBIC si concentrerà sulla misura del segnale causato dall’interazione delle onde gravitazionali primordiali con la radiazione elettromagnetica che permea l’universo.
Dopo il suo sviluppo e l’integrazione avvenuta presso i laboratori europei delle Università e degli enti di ricerca coinvolti nella collaborazione, QUBIC è arrivato in Argentina, nella città di Salta, nel luglio 2021, dove è stato calibrato e testato in laboratorio.
Inaugurato QUBIC
I risultati di queste attività sono riportati in otto articoli apparsi sul “Journal of Cosmology and Astroparticle Physics” ad aprile di quest’anno e hanno confermato il corretto funzionamento dello strumento e dell’interferometria bolometrica, ossia la tecnica di nuova concezione su cui si baseranno le osservazioni di QUBIC, che combina l’elevatissima sensibilità dei rivelatori bolometrici raffreddati quasi allo zero assoluto (-273 °C) con la precisione degli strumenti interferometrici.
L’obiettivo di osservare i debolissimi effetti di polarizzazione nelle microonde originatesi nelle primissime fasi dell’espansione dell’universo dopo il Big Bang, ovvero la direzione in cui il campo elettricomagnetico a esse associato oscilla mentre si propaga, ha reso necessario sviluppare e realizzare uno strumento complesso e unico nel suo genere. Oggi QUBIC rappresenta infatti una risorsa unica nel panorama mondiale delle misure sull’universo primordiale.

“Non c’è altro modo di investigare sperimentalmente con esperimenti a terra quei fenomeni che si pensa siano avvenuti durante la cosiddetta ‘inflazione cosmica’, quando l’energia in gioco era spaventosamente grande. QUBIC è quindi importante sia per la cosmologia sia per la fisica fondamentale”, spiega Silvia Masi, docente presso Sapienza Università di Roma e ricercatrice INFN, che coordina la partecipazione italiana all’esperimento.

“QUBIC – aggiunge Oliviero Cremonesi, presidente della Commissione Scientifica Nazionale per le ricerche di Fisica Astroparticelare dell’INFN – mira a misurare la polarizzazione del fondo cosmico a microonde con una possibilità unica di individuare i segni lasciati dalle onde gravitazionali liberate nei primi istanti di vita dell’universo”.
L’efficacia di QUBIC e del metodo di misura impiegato per studiare l’universo primordiale sono state verificate dalla collaborazione nel corso del lungo periodo compreso tra i primi test condotti in laboratorio, a Parigi, e l’arrivo dello strumento in Argentina, nel laboratorio di Salta, dove sono state effettuate le prime osservazioni del cielo. L’installazione dell’esperimento a San Antonio de Los Cobres, avvenuta durante il mese di ottobre, sancisce quindi un successo che giunge al termine un periodo di lunga preparazione e che consentirà, grazie alla straordinaria trasparenza e stabilità dell’atmosfera del sito di osservazione, di iniziare misure ultrasensibili.
“Il team responsabile dell’installazione di QUBIC, al quale ha partecipato anche Francesco Cavaliere, responsabile dell’officina della Statale di Milano, ha svolto un lavoro eccellente in pochissimo tempo, in condizioni particolarmente impegnative a causa dell’altitudine e del forte vento in quota. Le prime misure dimostreranno ‘sul campo’ l’efficacia dell’interferometria bolometrica osservando sorgenti astronomiche. Approssimativamente fra un anno, lo strumento verrà inoltre reso ancora più competitivo, aumentando il numero di antenne e rivelatori, in modo da poter eseguire le misure di interesse cosmologico entro tre anni”, illustra Aniello Mennella, docente all’Università Statale di Milano e ricercatore INFN.
“La misura di un segnale così debole – specifica Mario Zannoni, docente all’Università di Milano-Bicocca e ricercatore INFN – verrà ritenuta esente da errori sistematici solo se si avranno risultati consistenti provenienti da strumenti molto diversi. Proprio per questo motivo QUBIC, unico interferometro bolometrico, rappresenta una risorsa insostituibile nello studio dei primi attimi di vita dell’universo”.
“Grazie alle capacità multispettrali e di autocalibrazione, QUBIC produrrà dati del tutto originali e complementari a quelli degli altri esperimenti, offrendo ai ricercatori innumerevoli possibilità di controllo incrociato e quindi una robustezza senza pari dei risultati”, conclude Giancarlo De Gasperis, ricercatore presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Roma “Tor Vergata” e INFN.
QUBIC è il risultato della collaborazione di 130 ricercatori, ingegneri e tecnici in Francia, Italia, Argentina, Irlanda e Regno Unito. Lo strumento è stato integrato a Parigi presso i laboratori APC nel 2018 e calibrato durante il 2019-2021.
Il contributo italiano è stato fondamentale per lo sviluppo dello strumento, e continuerà ad esserlo nelle fasi successive dell’esperimento. Lo strumento è ospitato in un criostato, realizzato nei laboratori della Sapienza e della Sezione di Roma dell’INFN, capace di raffreddare vicino allo zero assoluto non solo i rivelatori, ma anche tutto il sistema ottico dell’interferometro. Lo stesso gruppo ha realizzato anche il sistema crio-meccanico che permette di misurare lo stato di polarizzazione della radiazione. Italiane sono anche altre componenti criogeniche, che lavorano a una temperatura inferiore a -270 °C, come le avanzatissime antenne corrugate che raccolgono la radiazione dal cielo, realizzate nei laboratori dell’Università e della Sezione INFN di Milano Statale, mentre le ottiche che la focalizzano sui rivelatori e il sistema di otturatori che permette di variare la configurazione dell’interferometro e di autocalibrarlo sono realizzate dall’Università e dalla Sezione INFN di Milano Bicocca.
“L’inizio della presa dati di QUBIC è un segno tangibile dell’interesse dell’INFN per le ricerche sulla radiazione cosmica di fondo ed è stato reso possibile anche grazie a un significativo contributo dell’INFN”, conclude Marco Pallavicini, membro della Giunta Esecutiva dell’INFN.
Inaugurato QUBIC
Inaugurato QUBIC: un modo nuovo di studiare l’universo primordiale
RIFERIMENTI
● Pagina web di QUBIC: http://qubic.in2p3.fr/wordpress/
● Numero speciale di JCAP (Journal of Cosmology and Astroparticle Physics):
https://iopscience.iop.org/journal/1475-7516/page/Special%20Issues
Articoli correlati:
https://scientificult.it/2022/04/21/qubic-un-modo-nuovo-di-studiare-luniverso-primordiale/
Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

QUBIC, un modo nuovo di studiare l’universo primordiale

Escono oggi, giovedì 21 aprile, su un numero speciale della rivista “Journal of Cosmology and Astroparticle Physics”, otto articoli a firma della collaborazione internazionale QUBIC (Q&U Bolometric Interferometer for Cosmology), che sta realizzando in Argentina un telescopio per lo studio dell’universo appena nato che si avvarrà di una tecnica innovativa.

QUBIC, infatti, osserverà e mapperà le proprietà del fondo cosmico a microonde, l’eco residua del Big Bang, concentrandosi sulla misura di particolari componenti dell’orientamento dell’oscillazione delle microonde della radiazione cosmica di fondo sul piano del cielo (polarizzazione), denominate modi-B, indicative delle possibili perturbazioni indotte dalle onde gravitazionali generate nei primi istanti di vita dell’universo.

Il progetto vede l’Italia protagonista grazie ai contributi scientifici e tecnologici forniti dall’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) e dalle Università di Milano Statale, Milano-Bicocca, Università di Roma “Tor Vergata” e Sapienza Università di Roma. QUBIC osserverà il cielo a partire dalla fine del 2022, da un sito desertico di alta quota (5000 m) in Argentina, vicino alla località San Antonio de Los Cobres.

QUBIC
Rotatore criogenico. Crediti: archivio fotografico QUBIC

Dopo il suo sviluppo e l’integrazione avvenuta presso i laboratori europei delle Università e degli enti di ricerca coinvolti nella collaborazione, QUBIC è arrivato in Argentina, nella città di Salta, nel luglio 2021, dove si sta procedendo alle fasi finali di calibrazione e di test in laboratorio. I risultati di queste attività, presentati negli otto articoli apparsi su ‘Journal of Cosmology and Astroparticle Physics, hanno confermato il corretto funzionamento dello strumento e dell’’interferometria bolometrica’, ossia la tecnica di nuova concezione su cui si baseranno le osservazioni di QUBIC, che combina l’elevatissima sensibilità dei rivelatori raffreddati quasi allo zero assoluto (-273 °C) e capaci di misurare l’energia della radiazione del fondo cosmico trasformandola in calore (bolometri), con la precisione degli strumenti interferometrici.

“QUBIC è uno strumento originale ed estremamente complesso: per questo era necessario pubblicare in anticipo tutti i dettagli del suo hardware e delle nuove metodologie di sfruttamento dei dati raccolti. Inoltre, con queste lunghe ed esaustive calibrazioni abbiamo dimostrato in laboratorio l’efficienza di QUBIC come interferometro bolometrico. È un passo essenziale per le successive misure di interesse per la cosmologia e la fisica fondamentale”, spiega Silvia Masi, docente presso Sapienza Università di Roma e ricercatrice INFN, che coordina la partecipazione italiana all’esperimento.

Grazie alla sua estrema sensibilità, che consentirà di distinguere i dettagli di ciascuno dei ‘pixel’ in cui sarà suddivisa la mappa celeste, QUBIC potrà discriminare i modi-B dai segnali generati dalle altre sorgenti del cielo, fornendo una prova diretta della teoria dell’inflazione. Questa è oggi la teoria di riferimento per la descrizione di ciò che sarebbe avvenuto nei primi istanti dell’universo, sviluppata negli anni ‘80 per spiegare alcune caratteristiche dell’universo, fra cui la ‘piattezza’ e l’estrema omogeneità dello spaziotempo.

QUBIC
Criostato. Crediti: archivio fotografico QUBIC

Secondo la teoria dell’inflazione, la rapidissima fase di espansione dell’universo subito dopo il Big Bang, durata meno di un centomillesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo (circa 10-32 secondi), avrebbe lasciato un debole fondo di onde gravitazionali, che a loro volta avrebbero prodotto particolari debolissime tracce, detti modi-B, nella polarizzazione del fondo cosmico di microonde. In pratica, le onde elettromagnetiche del fondo cosmico non oscillerebbero in direzioni casuali. Sarebbero invece leggermente preferite direzioni che in cielo formano un disegno vorticoso.

Alla precisione delle misure che saranno effettuate da QUBIC contribuiranno inoltre la limpidezza e l’assenza di umidità che contraddistinguono l’aria del sito di Alto Chorrillo in cui sarà istallato il telescopio, a circa 5000 metri sul livello del mare, sul plateau La Puna nell’Argentina settentrionale, vicino alla cittadina di San Antonio de los Cobres, nella provincia di Salta.

“QUBIC verrà portato nel sito di Alto Chorrillo entro pochi mesi. Le prime misure dimostreranno l’efficienza del nuovo metodo dell’interferometria bolometrica per la prima volta osservando sorgenti astronomiche. Lo strumento verrà poi completato inserendo un maggiore numero di rivelatori, in modo da poter eseguire le misure di interesse cosmologico entro tre anni. La strada è lunga, e QUBIC si presenta come estremamente originale e complementare a tutti gli altri che cercano di misurare questo elusivo segnale primordiale”, illustra Aniello Mennella, ricercatore INFN e docente all’Università di Milano.

La ricerca dei modi-B rappresenta una sfida formidabile e centrale per fisici e astrofisici. Il segnale da misurare è così debole da richiedere rivelatori ultrasensibili e telescopi di grande precisione, anche per rimuovere, durante l’analisi dati, altri segnali polarizzati di origine locale che potrebbero confondere la misura. Le misure di QUBIC saranno perciò contemporanee a quelle di una mezza dozzina di altri esperimenti nel mondo che hanno lo stesso obiettivo scientifico. A differenza di questi ultimi, che producono immagini direttamente tramite telescopi a singola apertura, QUBIC sarà l’unico strumento a effettuare osservazioni raccogliendo le microonde da molte aperture e facendole interferire.

“La misura di un segnale così debole”, dice Mario Zannoni, ricercatore INFN e docente all’Università di Milano-Bicocca, “verrà ritenuta esente da errori sistematici solo se si avranno risultati consistenti provenienti da strumenti molto diversi. Proprio per questo motivo QUBIC, unico interferometro bolometrico, rappresenta una risorsa insostituibile nella ricerca dei modi-B e nello studio dei primi attimi dell’universo”. Grazie alle capacità multispettrali e di autocalibrazione, “QUBIC produrrà dati del tutto originali e complementari a quelli degli altri esperimenti, offrendo agli analisti innumerevoli possibilità di controllo incrociato e quindi una robustezza ineguagliabile dei risultati”, conclude Giancarlo De Gasperis, ricercatore INFN e docente all’Università di Roma “Tor Vergata”.

QUBIC è il risultato della collaborazione di 130 ricercatori, ingegneri e tecnici in Francia, Italia, Argentina, Irlanda e Regno Unito. Lo strumento è stato integrato a Parigi presso i laboratori APC nel 2018 e calibrato durante il 2019-2021.

Il contributo italiano è stato fondamentale per lo sviluppo dello strumento, e continuerà ad esserlo nelle fasi successive dell’esperimento. Lo strumento è ospitato in un criostato, progettato e costruito nei laboratori della Sapienza e della Sezione di Roma dell’INFN, capace di raffreddare vicino allo zero assoluto non solo i rivelatori ma anche tutto il sistema ottico dell’interferometro. Lo stesso gruppo ha realizzato anche il sistema crio-meccanico che permette di ruotare i componenti ottici all’interno del criostato per misurare lo stato di polarizzazione della radiazione. Italiane sono anche altre componenti criogeniche, che lavorano a una temperatura inferiore a -270 °C, come le avanzatissime antenne corrugate che selezionano i fotoni da far interferire, realizzate nei laboratori dell’Università e della Sezione INFN di Milano Statale, mentre le ottiche che focalizzano i fotoni sui rivelatori e il sistema di otturatori che permette di variare la configurazione dell’interferometro e di autocalibrarlo sono realizzate dall’Università e dalla Sezione di Milano Bicocca. L’Università di Roma “Tor Vergata” e la Sezione INFN di Roma2 contribuisce invece allo sviluppo del complesso software di analisi dei dati.

Per maggiori informazioni:

 

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Testo dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca e dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma, immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma.

Il primo sorvolo di Mercurio della missione BepiColombo

Il 2 ottobre all’1.35 ora italiana la sonda spaziale passerà a 200 km dalla superficie del pianeta. A bordo un esperimento, il Mercury Orbiter Radioscience Experiment (MORE), sviluppato dal team guidato da Luciano Iess della Sapienza, che permetterà di determinare la gravità e l’orbita del corpo celeste più vicino al sole.

La sonda spaziale BepiColombo, lanciata il 20 ottobre 2018 dal Centro spaziale di Kourou nella Guyana francese, è in viaggio verso Mercurio, la sua destinazione finale. Il primo dei sei sorvoli del pianeta più vicino al Sole avverrà il 2 ottobre 2021 all’1.35 ora italiana (23.15 del primo ottobre, ora di Greenwich), quando la sonda passerà a 200 km dalla superficie.

BepiColombo ha già effettuato con successo un sorvolo della Terra, il 10 aprile 2020, e due sorvoli di Venere, il 20 ottobre 2020 e il 10 agosto 2021. Questi incontri ravvicinati hanno lo scopo primario di modificare la traiettoria della sonda, facendole acquistare velocità sufficiente per la cattura finale da parte della gravità di Mercurio, prevista per la fine del 2025. Ma allo stesso tempo sono anche un primo assaggio di quanto verrà poi osservato con assai maggiore dettaglio nella missione primaria, quando BepiColombo orbiterà attorno al pianeta per due anni.

Mercurio BepiColombo

BepiColombo nasce dalla collaborazione tra l’ESA (Agenzia Spaziale Europea) e la JAXA (Agenzia Spaziale Giapponese). Prende il nome dallo scienziato italiano Giuseppe (da cui Bepi) Colombo, che diede un contributo fondamentale allo studio di Mercurio. La sonda è composta da tre moduli principali: il modulo MPO (Mercury Planetary Orbiter) e il modulo MTM (Mercury Transfer Module) sviluppati dall’ESA, il terzo modulo MMO (Mercury Magnetospheric Orbiter) sviluppato dalla JAXA. Con la sofisticata strumentazione scientifica di bordo, BepiColombo vuole rispondere ad alcune domande fondamentali per comprendere la formazione e l’evoluzione del pianeta: qual è la sua struttura interna, dal nucleo alla superficie? Quali sono gli elementi e i minerali di cui è composto? Qual è l’origine del campo magnetico e come interagisce con il vento solare, un flusso di particelle alla velocità di 400 km/s?

Mercurio BepiColombo

Quattro dei sedici esperimenti scientifici di BepiColombo sono italiani. Tra questi, l’esperimento di radioscienza, MORE (Mercury Orbiter Radioscience Experiment), è guidato dal professor Luciano Iess del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza, coadiuvato da un gruppo internazionale di scienziati e ingegneri. In Italia, collaborano le Università di Pisa e Bologna, l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Università d’Annunzio. Gli obiettivi scientifici di MORE sono la determinazione della struttura interna di Mercurio attraverso misure di precisione della gravità del pianeta, la ricerca di violazioni della teoria della relatività generale di Einstein e la dimostrazione in volo di un nuovo e avanzato sistema di navigazione spaziale.

Il primo sorvolo di Mercurio della missione BepiColombo. Immagine ESA

Mercurio è il pianeta più vicino al Sole, dove la curvatura dello spazio-tempo, prevista da Einstein nel 1915, è più accentuata. Tale curvatura produce “anomalie” nell’orbita del pianeta (tra cui la famosa precessione del perielio) e nella propagazione della luce e dei segnali radio (compresa la deflessione osservata durante l’eclisse solare del 1919). Circa un secolo dopo, MORE consentirà di verificare a un livello di precisione mai raggiunto finora se la relatività einsteniana rimane una teoria valida della gravità. I primi esperimenti di fisica fondamentale sono già cominciati nel marzo 2021 e proseguiranno fino alla fine della missione, nel 2027.

Mercurio BepiColombo

MORE si prefigge di raggiungere tali obiettivi scientifici tramite l’utilizzo di segnali radio scambiati tra grandi antenne di terra (34 m di diametro) ubicate in Argentina e California, e uno strumento di bordo, il KaT (Ka-band Transponder), realizzato da Thales Alenia Space Italia con la collaborazione del team di Sapienza e finanziato dall’Agenzia spaziale italiana. L’avanzato sistema radio renderà possibile misurare la distanza della sonda con precisione di pochi centimetri e la sua velocità a livello di alcuni millesimi di millimetro al secondo. I dati di un altro strumento italiano (Italian Spring Accelerometer – ISA) saranno utilizzati per misurare tutte quelle accelerazioni della sonda non riconducibili alla gravità, permettendo di ottenere una determinazione più precisa del moto della sonda.

Il ruolo fondamentale che svolge l’esperimento MORE all’interno della missione BepiColombo conferma Sapienza come un polo centrale della ricerca per le tematiche di struttura ed evoluzione planetaria, fisica fondamentale e sistemi di navigazione interplanetaria.

 

Testo, foto e video dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Fabiana ramulosa: una pianta contro l’antibiotico-resistenza 

Un team multidisciplinare della Sapienza ha individuato in una molecola dell’arbusto originario delle pendici montuose del Cile e dell’Argentina un alleato naturale contro la resistenza agli antibiotici. L’azione antimicrobica della pianta è stata scoperta utilizzando approcci bioinformatici e screening biologici. I risultati del lavoro sono pubblicati sulla rivista Journal of Antimicrobial Chemotherapy

Fabiana densa ramulosa antibiotico-resistenza
Il composto BBN149, estratto da Fabiana ramulosa, inibisce la crescita batterica di batteri resistenti alla colistina. A destra la pianta utilizzata per l’estrazione del BBN149 la cui struttura è riportata al centro. Il grafico a sinistra riporta l’inibizione della crescita (Growth %) di un ceppo di P. aeruginosa resistente alla colistina in presenza di dosi crescenti di BBN149 e colistina (+ colistin). Si può notare che in presenza di colistina il BBN149 inibisce completamente la crescita del ceppo resistente alle concentrazioni comprese tra 125 e 31 mM, mentre non ha alcun effetto in assenza di colistina.

La resistenza agli antibiotici, o antibiotico-resistenza, è un meccanismo che deriva dal naturale sistema di difesa dei batteri nei confronti degli agenti esterni. A livello molecolare si tratta di un processo che normalmente avviene in pochi microrganismi di una popolazione batterica. Tuttavia, quando la popolazione è esposta agli antibiotici, i batteri resistenti per continuare a sopravvivere e a proliferare diffondono velocemente questa capacità a batteri diversi presenti nello stesso ecosistema.

L’antibiotico-resistenza sta compromettendo la possibilità di trattare le più comuni infezioni batteriche, mettendo a rischio anche procedure mediche ordinarie quali gli interventi chirurgici o i trattamenti chemioterapici. La situazione inoltre sta peggiorando con l’emergere di nuovi ceppi batterici capaci di sviluppare resistenza a più antibiotici (multi-resistenza) e persino pan-resistenza a tutti gli antibiotici disponibili. Basti pensare a batteri come Klebsiella pneumoniae, Escherichia coli, Staphlylococcus aureus e Pseudomonas aeruginosa, che sono diffusi in tutti i paesi e mostrano resistenze multiple anche agli antibiotici indicati come ultima risorsa, limitando fortemente le opzioni di cura per i pazienti.

Per il trattamento di infezioni da batteri multi- o pan-resistenti sono stati reimmessi nella terapia vecchi antibiotici che, non essendo stati più stati utilizzati da diversi anni, possono risultare efficaci. Uno di questi è la colistina, una molecola antimicrobica entrata in disuso negli anni ‘50 e recentemente riconsiderata per il trattamento di infezioni da batteri Gram-negativi come la Klebsiella.

Oggi, un nuovo studio coordinato dalla Sapienza Università di Roma, in collaborazione con altre università e enti di ricerca italiani, ha indagato i meccanismi molecolari alla base della resistenza dei batteri alla colistina, giungendo a identificare un composto naturale in grado di disattivare l’azione dei batteri contro il farmaco.

Lo studio, risultato dell’approccio multidisciplinare di un team di chimici, bioinformatici, microbiologi e biochimici, è stato pubblicato sulla rivista Journal of Antimicrobial Chemotherapy e ha visto il supporto del MUR, della Fondazione Fibrosi Cistica e dell’Istituto Pasteur Fondazione Cenci Bolognetti.

In particolare, i ricercatori hanno osservato che la colistina si lega alla parete dei batteri, nello specifico alla loro componente lipideA del lipopolisaccaride, e ne distrugge l’integrità causandone la morte. Nei batteri che sviluppano resistenza alla colistina invece si attiva l’enzima ArnT, che modifica il lipideA rendendolo inattaccabile.

La conoscenza dei meccanismi molecolari alla base della colistina-resistenza, ha permesso quindi di identificare BBN149, un composto di origine naturale estratto dalla pianta Fabiana densa var. ramulosa, un genere di piante originario delle pendici montuose del Cile e dell’Argentina.

“Poiché in alcuni casi la colistina rappresenta l’ultima opportunità terapeutica disponibile è molto importante preservarne l’attività il più a lungo possibile” – spiega Fiorentina Ascenzioni del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza. “Il nostro obiettivo è stato quello di trovare un composto capace di inattivare ArnT e lo abbiamo fatto attraverso lo screening di una vasta libreria di composti naturali appartenente al gruppo di Bruno Botta del Dipartimento di Chimica e tecnologia del farmaco del nostro Ateneo”.

Successivamente i ricercatori hanno confermato la funzione di BBN149 con dati microbiologici e biochimici e poi attraverso l’utilizzo di tecniche di molecular modeling, utili a simulare il comportamento della molecola.

I dati sperimentali presentati nel lavoro, da una parte confermano ArnT come target anti-colistina-resistenza, dall’altra aprono la strada allo sviluppo di adiuvanti della colistina nel trattamento di infezioni batteriche da Gram-negativi colistina-resistenti, le quali sono rapidamente aumentate da quando è stato ripristinato l’utilizzo della molecola negli antibiotici.

Fabiana ramulosa antibiotico-resistenza
Fabiana ramulosa, dalla quale è possibile estrarre una molecola, alleato naturale contro l’antibiotico-resistenza. Foto di Penarc, CC BY 3.0

Riferimenti:

A novel colistin adjuvant identified by virtual screening for ArnT inhibitors – Francesca Ghirga, Roberta Stefanelli, Luca Cavinato, Alessandra Lo Sciuto, Silvia Corradi, Deborah Quaglio, Andrea Calcaterra, Bruno Casciaro, Maria Rosa Loffredo, Floriana Cappiello, Patrizia Morelli, Alberto Antonelli, Gian Maria Rossolini, Marialuisa Mangoni, Carmine Mancone, Bruno Botta, Mattia Mori, Fiorentina Ascenzioni, Francesco Imperi – Journal of Antimicrobial Chemotherapy (2020), dkaa200, https://doi.org/10.1093/jac/dkaa200

Le piante del genere Fabiana prendono il loro nome dal vescovo Francisco Fabián y Fuero. Qui in un dipinto di Juan Bautista Suñer, olio su tela (201 x 114 cm), all’Università di Valencia. Immagine UV CC BY-SA 4.0

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Sapienza Università di Roma sulla molecola dalla Fabiana densa var. ramulosa, alleato contro l’antibiotico-resistenza.

Il professor Emidio Albertini premiato per uno studio sul ruolo svolto dalla variazione del numero di cromosomi nell’evoluzione delle piante 

Emidio Albertini cromosomi piante
Emidio Albertini

Il Prof. Emidio Albertini, del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali (DSA3) dell’Università degli Studi di Perugia, è risultato vincitore di un progetto per il trasferimento di conoscenze di Ricerca e Innovazione Tecnologica nell’ambito dell’H2020-Marie Sklodowska-Curie.

Il Prof. Albertini, che negli ultimi 5 anni è stato responsabile di 4 ‘azioni’ Marie Sklodowska-Curie, ha ottenuto il prestigioso riconoscimento con il progetto dal “The polyploidy paradigm and its role in plant breeding”; è il secondo che lo vede coordinatore ed è volto a comprendere il ruolo giocato dalla variazione del numero cromosomico nella evoluzione delle piante.

 Il progetto ha avuto una delle maggiori valutazioni (90.2 su 100) tra quelli finanziati dalla EU confermando il gruppo di Genetica del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali dell’Università degli Studi di Perugia ai vertici Europei.  

Partner dello studio sono, oltre alle Università di Milano e di Napoli, la University of California, Davis (USA), la Lincoln University (Nuova Zelanda), il CONICET (Argentina), la Galway University (Irlanda) e due industrie, la Sequentia Biotech (Spagna) e la Keygene (Olanda).

“Organismi come l’uomo e gli animali hanno normalmente due set completi di cromosomi (46 cromosomi nel caso dell’uomo) e mal sopportano la presenza di qualche cromosoma soprannumerario che molto spesso porta alla morte dell’organismo – spiega il Prof. Albertini -. Nel corso dei millenni, invece, le piante hanno sviluppato un complesso sistema genetico che ha permesso loro di avere numeri multipli di assetti cromosomici che hanno conferito caratteristiche uniche. Si pensi, ad esempio, ai frumenti, che derivano tutti dalla moltiplicazione di un assetto cromosomico di base. Così dal farro monococco, che ha due assetti cromosomici, nel corso dei millenni si è sviluppato il frumento duro (quello della nostra pasta), che di assetti ne ha 4 e, molti decenni dopo, il frumento tenero (quello del nostro pane) che di set completi di cromosomi ne ha ben 6”.

La notevole superiorità dei poliploidi è stata dunque utilizzata da decenni dai genetisti vegetali per ottenere varietà sempre migliori e più produttive. Nonostante questo, poco si sa su come le piante poliploidi si siano formate in natura. E l’obiettivo di questo progetto è proprio quello di far luce su questo affascinante aspetto evolutivo.

“Siamo molto soddisfatti che il progetto che ci vede coordinatori sia stato finanziato a solo un anno di distanza dalla conclusione del precedente – conclude il Prof. Albertini –: dimostrazione che il lavoro che da anni svolgiamo sullo studio dell’evoluzione delle piante e del loro sistema riproduttivo è apprezzato e riconosciuto a livello internazionale”.

Emidio Albertini

 

Perugia, 4 settembre 2020

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Perugia sulla premiazione del professor Emidio Albertini per uno studio sul ruolo svolto dalla variazione del numero di cromosomi nell’evoluzione delle piante.