Alla riscoperta del fico, coltura strategica per aumentare sostenibilità e produttività del bacino del Mediterraneo
L’Università di Pisa capofila del progetto europeo AGROFIG con il gruppo di ricerca in genomica vegetale del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali
È una risorsa preziosa per la sua capacità di adattarsi a condizioni difficili, le sue radici vanno in profondità riducendo l’erosione, attira impollinatori e fauna selvatica, contribuendo alla biodiversità, i suoi frutti creano opportunità economiche per i piccoli agricoltori, il suo forte valore culturale è una leva per il turismo rurale. Tutte queste caratteristiche rendono il fico una pianta strategica per il futuro del bacino mediterraneo. Per valorizzarlo al meglio in termini di sostenibilità e produttività è appena partito AGROFIG – Fostering agroforestry benefits through fig tree cultivation in the Mediterranean un nuovo progetto europeo promosso da PRIMA (Partnership for research and innovation in the Mediterranean area) e guidato dall’Università di Pisa con il gruppo di ricerca in genomica vegetale del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali in prima fila.
“Utilizzare colture arboree resistenti alle condizioni ambientali avverse causate dai cambiamenti climatici è fondamentale – dice il responsabile di AGROFIG, Tommaso Giordani, professore associato di genetica agraria dell’Ateneo pisano – Il fico ha una grande capacità di adattarsi ad ambienti secchi, calcarei e salini, il che rende questa specie estremamente utile nella regione del Mediterraneo”.
“Malgrado la coltura del fico sia antichissima e raccontata anche nella Bibbia e che l’Italia sia stato fino alla fine degli anni ’60 il maggior produttore mondiale, negli ultimi decenni la produzione si è ridotta notevolmente – continua Giordani – il nostro obiettivo è di usare tecniche genomiche per caratterizzare e selezionare le varietà migliori e rilanciare questa coltura arborea particolarmente resiliente e ricca dal punto di vista nutrizionale”.
A livello scientifico, il gruppo dell’Ateneo pisano analizzerà la variabilità genetica delle varietà italiane di fico, oltre a valutare l’impatto di questa coltivazione a livello agronomico, economico e di microbiologia del terreno in associazione con altre specie erbacee come leguminose e altre foraggere.
AGROFIG finanziato per tre anni con oltre 850mila euro prosegue il lavoro avviato con FIGGEN, un altro progetto sul fico sempre coordinato da Giordani. Il gruppo di genomica vegetale di cui fa parte in questi anni ha approfondito lo studio di questa specie con varie pubblicazioni scientifiche. L’ultima nel febbraio 2025 sulla rivista The Plant Journal, una delle più prestigiose nel campo della biologia vegetale, ha esteso le conoscenze sul genoma del fico, già affrontata in un precedente lavoro del 2020 sulla stessa rivista.
Sono inoltre coinvolti in AGROFIG anche altri docenti del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali: Daniele Antichi della sezione di Agronomia, Monica Agnolucci della sezione di Microbiologia agraria, Gianluca Brunori della sezione di Economia Agraria. Gli altri partner del progetto sono sono il Centro di ricerca scientifica e tecnologica dell’Estremadura (CICYTEX) in Spagna, l’Università di Tunisi El Manar (UTM) in Tunisia, l’Università Aydın Adnan Menderes (ADU) in Turchia, l’Azienda Agricola dimostrativa “I giardini di Pomona” (AAP) di Brindisi, Italia.
Alla riscoperta del fico, coltura strategica per aumentare sostenibilità e produttività del bacino del Mediterraneo, con il progetto AGROFIG – Fostering agroforestry benefits through fig tree cultivation in the Mediterranean. Il gruppo di genomica vegetale del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali. Da sinistra: Alberto Vangelisti, Andrea Cavallini, Marco Castellacci, Flavia Mascagni, Samuel Simoni, Lucia Natali, Gabriele Usai, Tommaso Giordani
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.
Pubblicato su «PNAS» lo studio dell’Università di Padova e della Fondazione Museo Civico di Rovereto in cui si dimostra come la maggioranza delle piante delle Alpi nord orientali italiane si sposta verso quote più alte come risposta ai cambiamenti climatici. Il Bromus erectus, ad esempio, negli ultimi trent’anni si è spostato con una velocità di circa 3 metri l’anno. Il Sorghum halepense, una specie aliena, si è spostato con una velocità di 4 metri l’anno. Diverso è il caso della Pulsatilla montana, specie rara, che ha retratto la sua distribuzione storica di circa 50 metri nei trent’anni. Le piante aliene, soprattutto negli ambienti antropizzati, sono molto veloci a crescere e sottraggono le risorse alle altre specie autoctone.
È stata pubblicata sulla rivista internazionale «Proceedings of the National Academy of Sciences» (PNAS) la ricerca dal titolo “Red-listed plants are contracting their elevational range faster than common plants in the European Alps” firmato dal professor Lorenzo Marini e dalla dottoressa Costanza Geppert del Dipartimento di Agronomia, Animali, Alimenti, Risorse naturali e Ambiente dell’Università di Padovainsieme ad Alessio Bertolli e Filippo Prosser, botanici della Fondazione Museo Civico di Rovereto, sulle variazioni della distribuzione geografica delle piante alpine in base ai cambiamenti a lungo termine delle temperature.
Lo studio ha monitorato non solo la presenza, ma anche la tipologia (autoctona comune, autoctona rara e aliena) della flora situata sulle Alpi Nord-orientali italiane: in questi tre decenni vi è stato uno spostamento verso quote più alte delle popolazioni di piante. Eppure la distribuzione delle specie autoctone rare non si è espansa verso l’alto in concomitanza con i cambiamenti climatici, ma si è, anzi, contratta. Infine le piante aliene, invece, si sono diffuse rapidamente a quote più alte spostandosi con la stessa velocità del riscaldamento climatico pur mantenendo la loro presenza anche a valle.
Papaveri. Credits: Paolo Paolucci
La pubblicazione, frutto della collaborazione di Lorenzo Marini e Costanza Geppert dell’Università di Padova con Filippo Prosser e Alessio Bertolli, esperti botanici della Fondazione Museo Civico di Rovereto, dimostra che la flora alpina vive un profondo mutamento. Alcune popolazioni di piante, per effetto del cambiamento climatico, sono sottoposte a temperature troppo alte per la loro sopravvivenza. Per questa ragione alcune specie “migrano” a quote più alte, dove si trovano condizioni termiche più fredde.
Tuttavia non è solo l’innalzamento della temperatura a sconvolgere la flora alpina, anche l’attività dell’uomo ha un importante impatto poiché a valle si concentrano le attività antropiche e vi è maggiore è una pressione sull’ambiente.
Il paesaggio alpino ha subito importanti trasformazioni negli ultimi anni: sono aumentate a valle le aree urbane o agricole e, parallelamente, sono stati abbandonati i prati semi-naturali – non sfruttabili da un’agricoltura sempre più intensiva – a quote intermedie.
Le piante delle Alpi in fuga dal caldo: Pulsatilla montana. Credits: Paolo Paolucci
Come è stata calcolata la velocità di risalita? Per prima cosa si è stimata, per ogni specie, la distribuzione di densità (probabilità) in cui si verificava il fenomeno. Il margine caldo è stato collocato nel 10% (quantile) della distribuzione, quello freddo nel restante 90%. Lo spostamento è stato misurato raffrontando (in sottrazione) i quantili storici del periodo 1990-2004 da quelli attuali 2005-2019.
Per specie aliena si intende una qualsiasi specie vivente (nel nostro caso vegetale) che, a causa dell’azione dell’uomo (accidentale o deliberata), si trova ad abitare e colonizzare un territorio diverso dal suo areale di origine, autosostenendosi riproduttivamente nel nuovo sito. In particolare, nel studio, sono state considerate aliene le specie consolidate introdotte dall’uomo in Europa da un altro continente dopo il XVI secolo. Come specie aliena, il Sorghum halepense, negli ultimi trent’anni, ha spostato il margine freddo della sua distribuzione verso quote più elevate con una velocità di circa 4 metri l’anno.
Le specie comuni, quelle autoctone non inserite nella lista rossa IUCN (organismo mondiale che monitora lo stato del mondo naturale e propone misure necessarie per la sua salvaguardia), si sono spostate verso quote più elevate. Questo movimento, però, non è stato omogeneo. Un esempio può essere il Bromus erectus che si è spostato di circa 3 metri l’anno al margine freddo e 5 metri l’anno al margine caldo, restringendo, quindi, la sua distribuzione totale. La Pulsatilla montana, specie rara, non ha conquistato quote più elevate ma ha, anzi, retratto la sua distribuzione storica di circa 50 metri.
Costanza Geppert
«In ecologia è raro poter esaminare dati con una buona risoluzione spaziale e temporale. In questo studio abbiamo potuto analizzare i cambiamenti di distribuzione di più di un milione di record di 1.479 specie alpine in un periodo di trent’anni – spiega Costanza Geppert, prima autrice dello studio –. I valori sono stati registrati con dei rilievi floristici in campo dal team di botanici della Fondazione Museo Civico di Rovereto che ha mappato per più di trent’anni le specie presenti nella provincia di Trento.Dalla nostra analisi sono emersi risultati allarmanti: le piante rare sono in diminuzione».
Lorenzo Marini
«La rapida perdita delle aree di distribuzione specifica delle piante rare si è verificata in zone in cui le attività umane e le pressioni ambientali sono elevate. Questo ci suggerisce che bisognerebbe proteggere anche alcune aree a valle e non solo le zone d’alta quota più remote – afferma Lorenzo Marini, coordinatore dello studio –. Quello che abbiamo fatto è stato misurare l’abilità a competere, anche con l’uomo, delle specie vegetali. Le piante aliene in condizioni di disturbo – per fertilizzazione, rimozione della vegetazione residente per la costruzione di una casa, una strada o un parcheggio – sono molto veloci a crescere e sfruttare le risorse presenti, sottraendole alle altre specie autoctone. Dal nostro studio è emerso che proprio nelle aree più antropizzate e disturbate le piante aliene sono particolarmente abili a competere con le altre specie».
«Sono numerose le specie floristiche minacciate legate agli ambienti agricoli tradizionali e a prati e pascoli – osservano Filippo Prosser e Alessio Bertolli, botanici esperti della Fondazione Museo civico di Rovereto che hanno coordinato i rilievi di campo in Trentino –. Le zone aperte rischiano di scomparire poiché nelle aree più acclivi e scomode sono in fase di abbandono, mentre in quelle pianeggianti vicino alle strade sono soggette a sempre più eccessive concimazioni e pascolamenti, che determinano una banalizzazione della componente floristica. Il pericolo è perdere specie davvero uniche e preziose per la biodiversità delle nostre Alpi».
Studio dell’Università di Padovadimostra che tra tre generazioni il cambiamento climatico provocherà un’espansione di zone a clima arido con condizioni di scarsità idrica.
Penalizzati saranno i paesaggi agricoli in forte pendenza, luoghi di agricoltura eroica e di grande valore storico culturale.
Clima di fine secolo e agricoltura “eroica”: coltivazione di arancio su terrazzamenti in aree ad alta pendenza a Valencia (Spagna)
Pubblicata su «Nature Food» la ricerca dal titolo “Future climate-zone shifts are threatening steep-slope agriculture”, coordinata dal Professor Paolo Tarolli del Dipartimento di Territorio e Sistemi Agro-Forestali dell’Università di Padova, in cui si mostra quale sarà l’impatto del cambiamento climatico sulle aree agricole a forte pendenza alla fine del secolo. Lo studio è basato sulla proiezione delle zone climatiche attuali (1980-2016) a fine secolo (2071-2100) secondo lo scenario di concentrazione di gas serra RCP8.5, ovvero senza l’adozione di iniziative a favore della protezione del clima e, pertanto, con crescita delle emissioni ai ritmi attuali. Sono stati utilizzati dati satellitari e territoriali open-access, analizzati tramite la piattaforma online Google Earth Engine, in modo che la metodologia possa essere replicata non solo da scienziati, ma anche da operatori del settore agricolo ed enti per la gestione del territorio.
Paolo Tarolli
«In questo lavoro abbiamo prodotto una mappa globale ad alta risoluzione dei paesaggi agricoli collinari e di montagna, analizzando la loro distribuzione nelle zone climatiche attuali (tropicale, arido, temperato, freddo, polare) e nelle proiezioni climatiche future – spiega il Professor Paolo Tarolli –. La nostra analisi dimostra che le aree agricole in forte pendenza sono significativamente più minacciate dal cambiamento climatico rispetto alla media della superficie agricola globale, in particolare vi sarà un’espansione di zone a clima arido, quindi di condizioni di scarsità idrica».
Mappa globale ad alta risoluzione dei paesaggi agricoli di collina e montagna, con indicati i relativi siti patrimonio dell’umanità UNESCO e patrimonio agricolo globale GIAHS (FAO)
I sistemi agricoli in aree a forte pendenza, sebbene rappresentino una frazione ridotta della superficie agricola globale, sono di grande rilevanza per diversi aspetti. La loro importanza agronomica, così come il valore storico e culturale che li contraddistingue, sono ampiamente riconosciuti dalle Nazioni Unite e protetti con iniziative come i siti patrimonio dell’umanità UNESCO e patrimonio agricolo globale GIAHS (FAO). Le coltivazioni in pendenza sono soprattutto concentrate in Messico, Italia, Etiopia e Cina: si tratta di colture di altissima “specializzazione”. Tra gli esempi si possono citare le aree terrazzate Honghe Hani nella provincia cinese dello Yunnan, gestite dalle minoranze Hani da oltre 1300 anni, le quali producono 48 varietà di riso, dando vita ad un habitat ideale anche per l’allevamento di bovini, anatre e pesci, in un’ottica di economia circolare, oppure, in Italia, la viticoltura eroica sulle colline del Prosecco e del Soave.
Sul totale, l’agricoltura in forte pendenza si trova principalmente in zone climatiche temperate (46%) e fredde (28%): insieme, esse ospitano quasi tre quarti di questi paesaggi. Le coltivazioni in aree in pendenza delle regioni tropicali sono pari al 17%, nelle aride al 9% e in quelle polari arrivano all’1%, coprendo insieme il restante quarto del totale. Il cambiamento climatico rappresenterà una seria minaccia per tutta l’agricoltura e i sistemi rurali, con un impatto su raccolti e prezzi alimentari. In particolare, esso provocherà una variazione nell’estensione delle aree climatiche globali, con ripercussioni significative sui versanti agricoli in forte pendenza.
«Tra ottant’anni, secondo le proiezioni del nostro studio, la percentuale dei terreni agricoli di collina e montagna delle zone tropicali saliranno al 27% e quelle aride al 16%: sostanzialmente raddoppieranno rispetto alla situazione attuale. All’opposto, nelle regioni fredde si osserverà una riduzione di terreni agricoli di collina e montagna dall’attuale 28% al 13%, mentre in quelle temperate si passerà dal 46% al 44% – sottolinea Paolo Tarolli –. In sole tre generazioni quindi aree agricole più estese saranno interessate da un clima più caldo che comporterà un calo della disponibilità di acqua per l’irrigazione e la produzione alimentare. La nostra ricerca dimostra che le aree agricole in forte pendenza, spesso caratterizzate da un’alta specializzazione nella gestione dell’acqua derivante da antichi saperi tradizionali, saranno quelle maggiormente minacciate dal cambiamento climatico, soprattutto dalla siccità. Data l’urgente necessità di garantire una produzione alimentare sostenibile e per tutti riteniamo che i governi e le istituzioni debbano investire di più nell’identificazione e mitigazione degli effetti del cambiamento climatico in agricoltura. In particolare il nostro studio – conclude Tarolli – evidenzia la necessità di azioni atte a migliorare, specie per i paesaggi agricoli collinari e montani, la resilienza al cambiamento climatico previsto nei prossimi decenni, al fine di preservare il loro ruolo nella produzione alimentare, reddito, valore storico e culturale, e servizi ecosistemici».
GELSO-NET: IL PROGETTO DI AGRICOLTURA CIRCOLARE DI UNITO PER RILANCIARE LA COLTIVAZIONE DI GELSO E L’ALLEVAMENTO DEI BACHI DA SETA IN PIEMONTE
L’Università di Torino è capofila del progetto “GELSO-NET – Filiera agroalimentare del gelso: frutto – foraggio – bachicoltura”, finanziato dalla Regione Piemonte nell’ambito del Programma di Sviluppo Rurale 2014-2020 con un importo di 625.000.000 Euro.
Puntando sulla sostenibilità e l’efficienza delle risorse disponibili sul territorio regionale, GELSO-NET mira a rivisitare con un approccio innovativo la coltura del gelso con l’obiettivo di produrre sorosi (i frutti del gelso freschi e trasformati) a scopo alimentare attraverso nuovi modelli colturali, propri dell’arboricoltura intensiva; alimentare bachi da seta con foglie fresche e trasformate a fine di supportare il rilancio della bachicoltura Piemontese e di una moderna “filiera seta regionale” a km zero e produrre mangimi per conigli a base di farina di foglie di gelso per ottenere un alimento funzionale che consenta la riduzione dei costi razione per gli allevatori, il miglioramento delle caratteristiche nutraceutiche della carne e risponda alle crescenti esigenze del consumatore.
In un’ottica di Circular Agriculture, GELSO-NET intende rilanciare la filiera agroindustriale del gelso da frutto e da foglia, in stretta connessione con le filiere zootecniche di produzione del baco da seta e della coniglicoltura. Il progetto si prefigge una rivisitazione fortemente innovativa della filiera del gelso, che concorra allo sviluppo integrato e sostenibile del settore agroalimentare e valorizzi gli innumerevoli servizi ecosistemici del gelso secondo criteri di ordine socio-culturale e di convenienza economica.
Il progetto, di durata triennale, è sviluppato dai ricercatori del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari (DISAFA) e del Dipartimento di Scienze Veterinarie (DSV) e vede il coinvolgimento di numerose aziende piemontesi: l’eccellenza agroalimentare Agrimontana Spa, l’Azienda Agricola Mellano Mauro, l’Azienda Agricola Cunigranda di Perano Danilo, l’Azienda Agricola Vallino Alessandro, l’Azienda Agricola Villa Villacolle di Fea Manuela, La Maurina Società Semplice Agricola, e la ditta di consulenza AStudio, composta da un team di periti agrari in grado di fungere da intermediari tra l’azienda agricola e la pubblica amministrazione.
Il team di UNITO, coordinato dalla Prof.ssa Laura Gasco, docente di Zoocolture presso il DISAFA, vede la stretta collaborazione di ricercatori e docenti afferenti al DISAFA e al DSV, tra cui il Prof. Gabriele Beccaro, la Dott.ssa Manuela Renna, la dott.ssa Gabriella Mellano, il Prof. Alberto Brugiapaglia, la Dott.ssa IlariaBiasato e il Prof. Achille Schiavone. Si tratta di una compagine multi-disciplinare, avente competenze in agronomia, nutrizione animale, scienze alimentari e veterinarie, con una comprovata esperienza nei settori della gelsicoltura, della coniglicoltura e dell’allevamento di insetti.
“La produzione dei sorosi di gelso che in passato rappresentava in Italia un prodotto secondario, è oggi l’elemento su cui si può fondare un’approfondita rivisitazione dell’intera filiera in chiave moderna”, dichiara la Prof.ssa Laura Gasco. “In passato, in Piemonte il gelso era coltivato per la produzione di foglie che costituivano alimento indispensabile per l’allevamento dei bachi da seta. La sericoltura, legata indissolubilmente alla coltivazione del gelso, è oggi quasi scomparsa sul territorio regionale, sebbene essa abbia contribuito per lungo tempo a fornire benessere e sostentamento per molte famiglie. Il progetto GELSO-NET consente di riportare alla luce una produzione tradizionale come quella del baco da seta, rivisitata però in chiave innovativa, valorizzando una nuova filiera produttiva rappresentata dai sorosi, delicati e prelibati frutti del gelso, e da una coniglicoltura più sostenibile ed attenta alle esigenze dei consumatori”.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino
Uno studio internazionale, coordinato dalla Sapienza, identifica un nuovo gene capace di contrastare l’invasione dei patogeni fungini e in particolare di Botrytis cinerea, responsabile della muffa grigia in numerose specie vegetali tra le quali la vite, il pomodoro e la fragola. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista Molecular Plant Pathology, aprono a nuove possibilità in ambito agronomico per lo sviluppo di varietà più resistenti senza l’uso di pesticidi pericolosi
Nel settore agronomico i patogeni delle piante rappresentano un grave problema in quanto causano ingenti perdite dei raccolti e in alcuni casi intossicano i cibi di origine vegetale secernendo micotossine potenzialmente pericolose anche per la salute dell’uomo.
Fra gli invasori più comuni e conosciuti vi è la botrite o anche detta la muffa grigia per la peluria cenerina che ricopre la superficie delle foglie facendole seccare e appassire rapidamente.
Per limitare i danni causati da questi patogeni, l’approccio maggiormente utilizzato è il trattamento estensivo con pesticidi, purtroppo con gravi conseguenze sull’inquinamento del suolo e delle falde acquifere. Una soluzione eco-compatibile sono le tecniche di manipolazione genetica mirate a ottenere una maggiore resistenza delle piante ai microbi ambientali, il cosiddetto miglioramento genetico, il cui limite applicativo consiste però nella scarsità di conoscenze sui geni che le piante sfruttano per attivare i meccanismi di difesa immunitaria.
In questo ambito, un importante tassello è stato aggiunto grazie alla sinergica attività di ricerca genetica, molecolare e biochimica che ha coinvolto i dipartimenti di Biologia e biotecnologie Charles Darwin e di Scienze biochimiche della Sapienza insieme con altre università ed enti francesi.
Nello studio pubblicato sulla rivista Molecular Plant Pathology, ilteam di ricercatori coordinato da Vincenzo Lionetti e Daniela Bellincampi ha identificato nella pianta arabetta comune (Arabidopsis thaliana) un nuovo gene di difesa contro i patogeni fungini e in particolare Botrytis cinerea, un fungo necrotrofo in grado di provocare gravi perdite di raccolto in più di 200 specie vegetali, incluse quelle di grande rilevanza agronomica, quali vite, pomodoro e fragola.
“Il gene, chiamato AtPME17, si è visto avere un ruolo centrale nei meccanismi di difesa immunitaria della pianta – spiega Vincenzo Lionetti del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin. L’enzima che codifica, la Pectina Metilesterasi17, è in grado di modulare lo stato di metilazione delle pectine, componenti importanti della parete cellulare, dove avviene il primo contatto tra pianta e patogeni. L’attività enzimatica rafforza localmente la parete cellulare favorendo nella pianta l’attivazione della risposta immunitaria e bloccando, in corrispondenza del sito di infezione, l’invasione del fungo”.
I risultati dello studio trovano considerevoli applicazioni in ambito biotecnologico: il gene identificato può infatti essere impiegato nel miglioramento genetico di piante d’interesse agronomico per lo sviluppo di varietà più resistenti a un gran numero di malattie infettive, senza l’uso di pesticidi pericolosi per la salute umana e per l’ambiente.
Riferimenti:
AtPME17 is a functional Arabidopsis thaliana pectin methylesterase regulated by its PRO region that triggers PME activity in the resistance to Botrytis cinerea – Daniele Del Corpo, Maria R. Fullone, Rossella Miele, Mickaël Lafond, Daniela Pontiggia, Sacha Grisel, Sylvie Kieffer‐Jaquinod, Thierry Giardina, Daniela Bellincampi and Vincenzo Lionetti. Molecular Plant Pathology https://doi.org/10.1111/mpp.13002