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Polarizzazione politica e interazioni sui social: esistono schemi comuni a livello internazionale
La ricerca pubblicata su Nature Communications, che ha coinvolto il Dipartimento di Informatica della Sapienza, mette in luce le dinamiche comuni della polarizzazione politica online su scala globale. Grazie all’analisi delle interazioni tra gli utenti su piattaforme online in ben nove Paesi, i ricercatori hanno rilevato l’esistenza di pattern ripetuti in diversi contesti nazionali.

La polarizzazione politica sui social network è un fenomeno internazionale. Al di là delle specificità dei singoli contesti nazionali – che differiscono per cultura, storia, sistema politico – il dibattito politico online si articola seguendo pattern comuni a livello globale. Lo studio, pubblicato su Nature Communications e condotto da un team internazionale di ricercatori, tra cui Walter Quattrociocchi, direttore del Centro per la Data Science e la complessità per la società della Sapienza, mira a individuare le dinamiche comunicative che vanno oltre i confini politici dei singoli Stati.

Grazie ad una analisi effettuata nel 2022 sulle interazioni che avvenivano su una specifica piattaforma in nove Paesi anche molto diversi tra loro (Canada, Francia, Germania, Italia, Polonia, Spagna, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti), il gruppo di ricercatori, composto da scienziati sociali e informatici, ha individuato molteplici elementi ricorrenti.

La polarizzazione politica – presente anche nel mondo offline – appare particolarmente visibile nel mondo dei social network, soprattutto per la struttura intrinseca delle piattaforme online. In tutti i Paesi analizzati, le reti di interazione politica sui social sono risultate strutturalmente polarizzate lungo linee ideologiche (ad esempio destra/sinistra).

“Su quella che era la piattaforma Twitter, l’ostilità tra gruppi politici contrapposti è manifesta – spiega Walter Quattrociocchi. Questo, a livello comunicativo, si traduce in interazioni più tossiche rispetto a quelle osservabili tra i membri appartenenti allo stesso gruppo politico. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le interazioni tossiche coinvolgono meno gli utenti. Per questi contenuti, il numero di like infatti appare minore rispetto a quello delle interazioni meno tossiche”

La ricerca mette in evidenza come la polarizzazione politica non sia un fenomeno limitato a una singola nazione, ma presenti caratteristiche simili tra diverse culture e contesti nazionali.

“Comprendere questi pattern comuni – commenta Quattrociocchi – è essenziale per poter pensare a soluzioni efficaci in grado di ridurre l’ostilità politica e promuovere un dialogo più costruttivo”.

Riferimenti bibliografici:

Patterns of partisan toxicity and engagement reveal the common structure of online political communication across countries – Falkenberg, M., Zollo, F., Quattrociocchi, W. et al. Nature Communications (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-024-53868-0

 

politica interazioni social media network
Polarizzazione politica e interazioni sui social: esistono schemi comuni a livello internazionale, lo studio su Nature Communications. Foto di Mudassar Iqbal

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Elezioni USA 2020 su Twitter: sostenitori dei repubblicani più faziosi e organizzati dei pro democratici

I risultati di uno studio coordinato dall’Università di Pisa su EPJ Data Science

Più faziosi, coordinati e determinati a diffondere i propri messaggi in modo virale attraverso sistemi automatici come i bot. La descrizione fotografa il comportamento su Twitter dei gruppi di estrema destra pro repubblicani durante le elezioni presidenziali USA del 2020. Al contrario i sostenitori dei democratici apparivano complessivamente meno coordinati e impegnati principalmente in una comunicazione innocua e basata sui fatti. Alla vigilia delle nuove elezioni in USA, il quadro emerge da uno studio realizzato dall’Università di Pisa e dall’Istituto di Informatica e Telematica del CNR pubblicato su EPJ Data Science, una rivista del gruppo Springer Nature.

La ricerca ha analizzato un dataset di 260 milioni di tweet e ha individuato tre categorie principali: i gruppi moderati e genuinamente interessati al dibattito elettorale, i gruppi cospirativi che hanno diffuso informazioni false e narrazioni controverse e le reti di influenza straniera che hanno cercato di cavalcare il dibattito. Al di là del comportamento dei sostenitori di destra e di sinistra, i risultati hanno inoltre mostrato che Twitter è stato efficace nel contrastare l’attività solo di alcuni gruppi, mentre ha fallito con altri altrettanto sospetti.

“In un contesto di crescente preoccupazione per la manipolazione dell’opinione pubblica attraverso i social media, il nostro studio offre un’analisi approfondita delle dinamiche su Twitter (ora X) durante le elezioni presidenziali del 2020 – dice il professore Marco Avvenuti del dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa – Il comportamento coordinato online è un fenomeno complesso che può avere effetti significativi sulla società e sulla politica, rendendo essenziale la sua analisi e comprensione. Con l’avvicinarsi delle elezioni del 2024, questi risultati offrono spunti cruciali per affrontare le minacce alla democrazia e alla comunicazione pubblica, contribuendo a garantire l’integrità del dibattito politico online”.

Marco Avvenuti
Marco Avvenuti

“Tra i risultati abbiamo anche trovato che alcune comunità straniere sono risultate più attive e determinate nell’influenzare il dibattito elettorale, con l’obiettivo di portare l’attenzione su proteste in atto nei loro paesi”, aggiunge Serena Tardelli, ricercatrice dell’Istituto di Informatica e Telematica del CNR.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa

EarthCARE: una nuova missione satellitare per capire l’impatto delle nuvole sul cambiamento climatico

Il Politecnico di Torino è tra i protagonisti degli studi scientifici che hanno permesso la realizzazione della missione. Le missioni di ricerca Earth Explorer, realizzate nell’ambito del programma dell’ESA FutureEO, mirano a comprendere la complessità del funzionamento della Terra e l’influenza delle attività umane sui processi naturali.

Torino, 6 giugno 2024

ESA missione EarthCARE

Nella giornata di martedì 28 maggio, nel contesto del prestigioso programma di osservazione della Terra “Earth Explorer” dell’ESA, è stato lanciato dalla base di Vandenberg, in California, il satellite EarthCARE-Earth Cloud Aerosol Radiation Explorer, frutto della collaborazione tra l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e quella Giapponese (JAXA). La missione, rivoluzionaria nel suo genere, si prefigge di migliorare la comprensione dell’interazione tra nuvole e aerosol nel modificare i bilanci energetici associati al trasporto di onde elettromagnetiche e il ciclo dell’acqua, così da contribuire in modo significativo ad una migliore previsione dell’entità dei cambiamenti climatici e quindi ad ottimizzare le strategie di adattamento e mitigazione del clima.

Tra gli attori coinvolti nella progettazione della missione il Politecnico di Torino, con il gruppo di ricerca del Dipartimento di Ingegneria dell’Ambiente, del Territorio e delle Infrastrutture-DIATI che ha partecipato, sotto la guida del professor Alessandro Battaglia, agli studi scientifici per la realizzazione del lancio e che contribuirà alle prossime fasi del progetto. Il professor Battaglia è da anni coinvolto nell’ideazione della missione: dal 2008 si registrano i suoi primi interventi negli studi preliminari di settore e nel 2015 viene ufficializzata la sua nomina a membro dell’ESA Mission Advisory Board per lo sviluppo della missione.

Il satellite EarthCARE, una volta lanciato, ha raggiunto in pochi minuti la sua orbita eliosincrona polare, intorno ai 400 km di altezza. Nel corso dei prossimi gironi cominceranno  i primi test dei 4 strumenti all’avanguardia inseriti al suo interno: un radar atmosferico a 94 GHz con capacità Doppler che permette di profilare nuvole  e precipitazioni e di mappare per la prima volta le velocità verticali delle idrometeore; un lidar che, grazie alla sua risoluzione spettrale, consente di ottenere profili verticali micro e macrofisici di nubi e aerosol riuscendo anche a distinguere i diversi tipi di aerosol; un imager multispettrale (MSI) capace di offrire una mappatura bidimensionale della scena sotto osservazione; e infine un radiometro a banda larga che misura la radiazione solare riflessa e la radiazione infrarossa proveniente dalla Terra.

“La missione EarthCARE è uno dei progetti più ambiziosi mai affrontati dall’Agenzia spaziale europea in collaborazione con quella giapponese – ha commentato il professor Alessandro Battaglia – Nonostante le innumerevoli sfide tecnologiche e logistiche, la missione è diventata finalmente operativa. Insieme a colleghi dell’Università di Leicester, UK e McGill in Canada abbiamo lavorato in particolare allo sviluppo del simulatore e agli algoritmi di inversione del radar Doppler a lunghezza d’onda millimetrica. È quindi con trepidazione che aspettiamo i primi dati dopo tanti anni passati a simulare numericamente la risposta degli strumenti sui nostri computer. La tecnologia innovativa del radar che è stato sviluppato dai colleghi giapponesi ci consentirà di misurare per la prima volta il movimento verticale dell’aria in nuvole (e.g. all’interno di celle convettive) e la dimensione di particelle come gocce di pioggia e fiocchi di neve”“Questa missione terrestre – ha concluso Battaglia – è cruciale per meglio caratterizzare le nuvole e i sistemi precipitanti che svolgono un ruolo vitale nel sistema climatico. I risultati della missione potranno inoltre fungere da apripista ad altre missioni spaziali che impiegano radar Doppler millimetrici quali la missione WIVERN, al momento in fase A nello stesso programma Earth Explorer dell’ESA, e nella quale il Politecnico svolge un ruolo di punta”.

 

Testo e immagine dall’Ufficio Web e Stampa del Politecnico di Torino.

Il geotermico è la rinnovabile più efficace per diminuire le emissioni di CO2 (seguono idroelettrico e solare)

Lo studio dell’Università di Pisa su 27 paesi OCSE dal 1965 al 2020 pubblicato sul Journal of Cleaner Production

Impianto ad energia geotermica di Nesjavellir in Islanda, che fornisce acqua calda all'area di Reykjavík
Impianto ad energia geotermica di Nesjavellir in Islanda, che fornisce acqua calda all’area di Reykjavík. Foto di Gretar Ívarsson, modificata da Fir0002, in pubblico dominio

Per diminuire le emissioni di CO2 nell’atmosfera, il geotermico è la fonte di energia rinnovabile più efficace, seguito da idroelettrico e solare. La notizia arriva da uno studio su 27 paesi OCSE dal 1965 al 2020 pubblicato sul Journal of Cleaner Production.

La ricerca ha analizzato l’impatto di alcune fonti di energia rinnovabile per la produzione di energia elettrica: geotermico, solare, eolico, biofuel, idroelettrico. Dai risultati è emerso che ognuna di esse contribuisce a ridurre le emissioni di CO2 e dunque è utile agli obiettivi della transizione ecologica. Fra tutte, le migliori sono il geotermico, l’idroelettrico, e il solare, in ordine decrescente di importanza. A livello quantitativo, 10 terawattora di energia elettrica prodotti da geotermico, idroelettrico, e solare, consentono infatti di ridurre le emissioni di CO2 pro capite rispettivamente di 1.17, 0.87, e 0.77 tonnellate.

I 27 paesi OCSE esaminati dal 1965 al 2020 sono stati scelti come campione perché contribuiscono notevolmente al rilascio di emissioni di CO2 nell’atmosfera e rappresentano circa un terzo del totale delle emissioni globali di CO2. Nello specifico si tratta di Australia, Austria, Canada, Cile, Cipro, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Irlanda, Israele, Italia, Giappone, Messico, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia, Portogallo, Corea del Sud, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti.

Per ricavare i dati, la ricerca ha analizzato molteplici fonti, le principali sono: Food and Agriculture Organization (FAO), International Energy Agency (IEA), OECD, Our World in Data (OWID), e World Bank.

“È noto che circa due terzi degli italiani si dichiara appassionato del tema della sostenibilità e ritiene importante l’uso delle rinnovabili per avere città più sostenibili  – dice Gaetano Perone, ricercatore del dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa e autore dell’articolo – la mia analisi spiega in modo dettagliato l’impatto di ciascuna energia rinnovabile sulle emissioni di CO2, considerando anche altri aspetti legati ai costi di implementazione e costruzione delle centrali e delle opportunità date dalle caratteristiche geografiche e climatiche dei paesi considerati”.

Riferimenti bibliografici:

Gaetano Perone, The relationship between renewable energy production and CO2 emissions in 27 OECD countries: A panel cointegration and Granger non-causality approach, Journal of Cleaner Production,
Volume 434, 2024, 139655, ISSN 0959-6526, DOI: https://doi.org/10.1016/j.jclepro.2023.139655

Testo dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

Esiste una relazione tra fiducia nella scienza e nelle università e opinioni circa il cambiamento climatico?

A cercare di rispondere a questa e ad altre domande, uno studio di grande attualità, appena pubblicato su PLoS Climate.

Nonostante il forte consenso della più gran parte degli studiosi sul fatto che il clima della terra stia cambiando e che le attività umane giochino un ruolo importante in questo, è pur vero che il tema scatena una partigianeria fortemente polarizzata negli Stati Uniti, che porta al negazionismo (dall’abstract dello studio su PLoS Climate).
Il risultato potrebbe essere dovuto all’azione della retorica aziendale e di alcune organizzazioni non profit, e risulta associato alle élite del Partito Repubblicano.
Tutto questo ha creato notevole frustrazione nella comunità scientifica (p. 2), al punto che già due anni fa si è addirittura affermato che il contratto tra scienza e società si è ormai rotto, invocando una moratoria sul tema (dall’abstract del secondo studio qui in bibliografia, quello su Climate and Development).

Tornando alla ricerca in questione, la stessa vuole quindi gettare luce sulle determinanti politiche e sociali dell’azione climatica (p. 2 del nuovo studio).

 

cambiamento climatico fiducia scienza
Foto di Katie Rodriguez

Parafrasando Claude Lévi-Strauss (Il crudo e il cotto, 1964), importante è porsi le giuste domande, ancor più che dare le giuste risposte. A p. 3 gli autori si interrogano:

  • Come la fiducia nella scienza si associa al considerare il cambiamento climatico un problema?
  • Come la fiducia nella scienza si associa a punti di vista sul fatto che il cambiamento climatico sia causato dalla natura o dall’uomo?
  • Chi ha fiducia nei centri di ricerca universitari?

Il contesto: Ricerche precedenti hanno individuato due diversi processi comportamentali: un rifiuto psicologico della scienza (Psychological Science Rejection – PSR) e un rifiuto ideologico della scienza (Ideological Science Rejection – ISR).
Mentre la prima potrebbe essere aumentata nel tempo, la seconda prospettiva sottolinea la crescita del populismo e la diminuita fiducia nella politica, l’effetto polarizzante dei media, che va quindi ad influire sulla fiducia nella scienza. Alcuni media trattano la scienza in maniera “relativistica”, considerandola semplicemente come un’opinione tra tante, oppure mostrando un “falso equilibrio” tra scienziati e scettici (p. 2).
Storicamente, la fiducia nella scienza negli Stati Uniti è sempre stata alta, pur dovendo considerare differenze regionali, religiose, o legate ad altre forme di partigianeria (p. 3).

Il sondaggio: La ricerca su PLoS Climate espone i risultati di un sondaggio su un campione rappresentativo di statunitensi (p. 3), ponderato sulla base di elementi che attengono alla persona, oltre che educazione, regione geografica, voto alle elezioni presidenziali del 2020 (p. 5).

Per gli autori, il cambiamento climatico è una sfida globale che necessita un approccio collaborativo e interdisciplinare, tanto per comprendere come per affrontare il problema. Considerando questo, e rispondendo quindi alla prima domanda, si tratta perciò di un tema cruciale che permette di misurare la fiducia pubblica nella scienza (p. 4).
Per quanto non ci sia accordo interdisciplinare su come concettualizzare fiducia e sfiducia, gli autori considerano un tipo di fiducia verso le istituzioni, che si relaziona alle performance delle istituzioni, perché ovviamente è la nostra esperienza delle stesse (che può essere anche indiretta, per il tramite di altri) a condizionare il nostro giudizio. Più nel dettaglio, non si tratta di istituzioni governative o di media in questo caso: le istituzioni prese in considerazione sono scienziati, centri di ricerca, università, per i quali gli statunitensi possono non avere esperienza diretta e quindi basare la loro fiducia su altri elementi, ad esempio di carattere legati all’ideologia, alla religione o forme di partigianeria (pp. 4-5).

Un sondaggio del 2020 rivelava una forte divisione: quasi il 50% degli statunitensi crede che il cambiamento climatico abbia cause antropiche, mentre una percentuale simile è divisa tra coloro che ritengono che le cause siano di origine naturale e coloro che ritengono non ci siano prove di un riscaldamento globale (p. 4).
Ad alcuni anni di distanza dal precedente, il nuovo sondaggio rivela dati un po’ diversi, per cui il 45% degli statunitensi pensano che il cambiamento climatico sia un problema molto importante, il 23% pensa che in qualche modo sia un problema importante, il 18% pensa che sia un problema poco importante e il 14% pensa che non sia un problema.
Il nuovo sondaggio ha semplificato il discorso della cause, per cui il 59% degli statunitensi pensa che il cambiamento climatico sia dovuto alle attività umane e il 41% (Fig. 1 a p. 8).

Secondo l’età, chi ha tra i 45 e i 64 anni, o 64 e più anni è meno incline a pensare che il cambiamento climatico sia un problema importante. Le donne sono più inclini degli uomini. Sulla stessa domanda, non vi sono state informazioni significative relativamente alla fonte delle informazioni, ad esempio, se gli intervistati si informassero alla radio o con fonti online.

Per rispondere alla seconda e alla terza domanda, le ipotesi verificate statisticamente sono che gli schieramenti sul cambiamento climatico siano determinati dall’ideologia e dalle visioni dei due partiti (Democratici e Repubblicani), per cui ad es. un democratico più probabilmente crederà che il cambiamento climatico è un problema; tra i conservatori, coloro che si identificano come moderati o liberal più probabilmente degli altri risponderanno che è un problema importante. Oltre a questo, coloro che hanno una bassa fiducia nella scienza risponderanno con minore probabilità che il cambiamento climatico è causato dalle attività umane (p. 10).
Gli autori sottolineano che si tratti di dati significativi e di magnitudine considerevole.

Mentre coloro che Ebrei e Cattolici sono più inclini a ritenere che il cambiamento climatico sia causato dalle attività umane, coloro che non professano alcuna fede registrano valori ancora più alti. Coloro che partecipano più spesso alle funzioni religiose sono più inclini a credere che il cambiamento climatico sia dovuto a cause naturali.
Per quanto riguarda la fiducia verso i centri di ricerca universitari, democratici e moderati si sono rivelati più inclini ad averla rispetto agli indipendenti.

In conclusione, gli autori constatano pure che studi empirici come questo siano pochi in letteratura, auspicando ulteriori ricerche sul tema, per diversi aspetti. Auspicano però soprattutto una cultura dove la ricerca e la comunicazione scientifica ricevano fiducia, costruendola già nell’educazione primaria e secondaria.

 

Con la premessa importante che quello su PLoS Climate è uno studio basato sul pubblico degli Stati Uniti, vi è una quarta domanda che ovviamente non è nella ricerca ma che viene naturale porsi: quanto queste considerazioni potrebbero essere valide anche per l’Italia?

Pure nel nostro Paese registriamo una fortissima polarizzazione su questi temi e il presentarsi delle medesime condizioni: il populismo in ascesa, la visione “relativistica” come i dibattiti “falsamente equilibrati” sui media, ecc.
Non sarebbe certo corretto rispondere senza dati a sostegno, ma – visto quanto sopra – il sospetto che si possano conseguire risultati non dissimili potrebbe forse accompagnarci e spingere qualcuno a ripetere l’esperimento anche nel nostro Paese.

 

 

Riferimenti bibliografici:

R. Michael Alvarez, Ramit Debnath, Daniel Ebanks, Why don’t Americans trust university researchers and why it matters for climate change, PLoS Climate (2023) 2(9): e0000147. DOI: 10.1371/journal.pclm.0000147

Bruce C. Glavovic, Timothy F. Smith & Iain White (2021) The tragedy of climate change science, Climate and Development, 14:9, 829-833, DOI: 10.1080/17565529.2021.2008855
PEW, The politics of climate; 2020. Link: https://www.pewresearch.org/science/2016/10/04/the-politics-of-climate/

ZePrion: in orbita per sviluppare nuovi farmaci 

Lanciato verso la Stazione Spaziale Internazionale l’esperimento ZePrion, che avrà il compito di confermare il meccanismo molecolare alla base di un innovativo protocollo farmaceutico per contrastare le malattie da prioni. Sviluppato da un gruppo internazionale di ricercatori, tra cui le scienziate e gli scienziati italiani delle università di Milano-Bicocca e Trento, della Fondazione Telethon, dell’INFN Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e dell’Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-IBBA), l’esperimento potrebbe avere ricadute importanti anche per altre malattie.

Lancio di NG-19 con l'esperimento ZePrion. Foto NASA
Lancio di NG-19 con l’esperimento ZePrion. Foto NASA

Un esperimento lanciato con successo oggi, mercoledì 2 agosto 2023, verso la Stazione Spaziale Internazionale (ISS), potrebbe portare ad una validazione del meccanismo di funzionamento di un protocollo del tutto innovativo per lo sviluppo di nuovi farmaci contro gravi malattie neurodegenerative e non solo. Frutto di una collaborazione internazionale che coinvolge diversi istituti accademici e l’azienda israeliana SpacePharma, l’esperimento ZePrion vede un fondamentale contributo dell’Italia attraverso l’Università Milano-Bicocca, l’Università di Trento, la Fondazione Telethon, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), e l’Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-IBBA). Decollato con la missione spaziale robotica di rifornimento NG-19 dalla base di Wallops Island, in Virginia (USA), ZePrion si propone di sfruttare le condizioni di microgravità presenti in orbita per verificare la possibilità di indurre la distruzione di specifiche proteine nella cellula, interferendo con il loro naturale meccanismo di ripiegamento (folding proteico). L’arrivo di NG-19 e ZePrion sulla ISS è previsto per venerdì 4 agosto, quando in Italia saranno all’incirca le 8:00.

Il successo dell’esperimento ZePrion fornirebbe un possibile modo per confermare il meccanismo molecolare alla base di una nuova tecnologia di ricerca farmacologica denominata Pharmacological Protein Inactivation by Folding Intermediate Targeting (PPI-FIT), sviluppata da due ricercatori delle Università Milano-Bicocca e di Trento e dell’INFN. L’approccio PPI-FIT si basa sull’identificazione di piccole molecole (dette ligandi), in grado di unirsi alla proteina che costituisce il bersaglio farmacologico durante il suo processo di ripiegamento spontaneo, evitando così che questa raggiunga la sua forma finale.

“La capacità di bloccare il ripiegamento di specifiche proteine coinvolte in processi patologici apre la strada allo sviluppo di nuove terapie per malattie attualmente incurabili”,

spiega Pietro Faccioli, professore dell’Università Milano-Bicocca, ricercatore dell’INFN, coordinatore dell’esperimento e co-inventore della tecnologia PPI-FIT.

Un tassello finora mancante per la validazione della tecnologia è la possibilità di ottenere un’immagine ad alta risoluzione del legame tra le piccole molecole terapeutiche e le forme intermedie delle proteine bersaglio (quelle che si manifestano durante il ripiegamento), in grado di confermare in maniera definitiva l’interruzione del processo di ripiegamento stesso. In genere, questo tipo di immagine viene ottenuta analizzando con una tecnica chiamata cristallografia a raggi X cristalli formati dal complesso ligando-proteina. Nel caso degli intermedi proteici, però, gli esperimenti necessari non sono realizzabili all’interno dei laboratori sulla Terra, in quanto la gravità genera effetti che interferiscono con la formazione dei cristalli dei corpuscoli composti da ligando e proteina, quando questa non abbia ancora raggiunto la sua forma definitiva. Questo ha spinto le ricercatrici e i ricercatori della collaborazione ZePrion a sfruttare la condizione di microgravità che la Stazione Spaziale Internazionale mette a disposizione.

“Esiste infatti chiara evidenza che la microgravità presente in orbita fornisca condizioni ideali per la creazione di cristalli di proteine”, illustra Emiliano Biasini, biochimico dell’Università di Trento e altro co-inventore di PPI-FIT, “ma nessun esperimento ha provato fino ad ora a generare cristalli di complessi proteina-ligando in cui la proteina non si trovi in uno stato definitivo”.

Esattamente quanto si propone di fare l’esperimento ZePrion, lavorando in modo specifico sulla proteina prionica, balzata tristemente agli onori della cronaca negli anni Novanta durante la crisi del ‘morbo della mucca pazza’. Questa malattia è infatti causata da una forma alterata della proteina prionica chiamata prione, coinvolta in gravi malattie neurodegenerative dette appunto ‘da prioni’ tra le quali la malattia di Creutzfeld-Jakob o l’insonnia fatale familiare.

“Anche grazie al sostegno di Fondazione Telethon, che da sempre supporta le mie ricerche per individuare nuove terapie contro queste malattie, abbiamo l’opportunità di validare del meccanismo di funzionamento della tecnologia PPI-FIT, che potrebbe rappresentare veramente un punto di svolta in questo settore”, aggiunge Biasini.

“In orbita sarà possibile generare cristalli formati da complessi tra una piccola molecola e una forma intermedia della proteina prionica, che in condizioni di gravità ‘normale’ non sarebbero stabili. Questi cristalli potranno poi essere analizzati utilizzando la radiazione X prodotta con acceleratori di particelle, per fornire una fotografia tridimensionale del complesso con un dettaglio di risoluzione atomico. Campioni non cristallini ottenuti alla SSI verranno inoltre analizzati per Cryo-microscopia Elettronica di trasmissione (Cryo/EM)”, sottolinea Pietro Roversi, ricercatore CNR-IBBA.

ZePrion si compone di un vero e proprio laboratorio biochimico in miniatura (lab-in-a-box) realizzato da SpacePharma, che opererà a bordo della Stazione Spaziale Internazionale e verrà controllato da remoto. Oltre alla componente italiana, la collaborazione ZePrion si avvale della partecipazione delle scienziate e degli scienziati dell’Università di Santiago di Compostela.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.

Inquinamento da plastica: alcuni laghi soffrono più degli oceani

In alcuni casi, le concentrazioni di plastiche e microplastiche negli ambienti d’acqua dolce sono maggiori di quelle riscontrate nelle aree oceaniche. A rivelarlo uno studio internazionale guidato da Milano-Bicocca, pubblicato su Nature.

Milano, 12 luglio 2023 – Frammenti di rifiuti plastici, fibre derivanti dal lavaggio di indumenti, residui di imballaggi. Plastiche e microplastiche hanno invaso laghi e bacini idrici artificiali su scala globale. L’inquinamento causato da questi detriti non risparmia neppure i luoghi più remoti, dove l’impatto dell’uomo è minimo. Inoltre, per la prima volta emerge che in alcuni casi le concentrazioni di plastica presenti negli ambienti d’acqua dolce sono più elevate di quelle rinvenute nelle isole di plastica oceaniche, le cosiddette “Garbage patches”.

A fare luce sui fattori che causano questa contaminazione è lo studio guidato dalla giovane ricercatrice Veronica Nava, assegnista  del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università di Milano-Bicocca, sotto la supervisione della professoressa Barbara Leoni, coordinatrice del gruppo di ricerca di Ecologia e gestione delle acque interne che nello stesso dipartimento si occupa di laghi e fiumi. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista scientifica Nature col titolo “Plastic debris in lakes and reservoirs” (DOI:10.1038/s41586-023-06168-4).

Il progetto ha coinvolto 79 ricercatori appartenenti al network internazionale Global Lake Ecological Observatory Network (GLEON), attivo nella ricerca scientifica su scala globale su processi e fenomeni che avvengono negli ambienti di acqua dolce.
Grazie a questo gruppo di scienziati è stato possibile prelevare campioni di acqua superficiale, usando dei retini da plancton, da 38 laghi collocati in 23 diversi Paesi, distribuiti in 6 continenti, rappresentativi di diverse condizioni ambientali.

I campioni prelevati sono poi arrivati all’Università di Milano-Bicocca, dove sono stati analizzati grazie alla strumentazione tecnologicamente avanzata messa a disposizione dalla rete interdipartimentale di spettroscopie di ateneo.
Fiore all’occhiello di questa dotazione,  la micro-spettroscopia Raman (Spettrometro Raman Horiba Jobin Yvon LabRAM HR Evolution), presente nel laboratorio guidato dalla professoressa Maria Luce Frezzotti, che con estrema accuratezza è stata in grado di confermare la composizione polimerica delle microplastiche, evidenziando la presenza specialmente di poliestere, polipropilene e polietilene.

Tra i laghi in cui è stata evidenziata la maggior contaminazione da detriti di plastica, si trovano alcune fra le principali fonti d’acqua potabile per le popolazioni locali come i laghi Maggiore (CH-IT), Lugano (CH-IT), Tahoe (USA) e Neagh (UK), fondamentali inoltre per la loro centralità nelle rispettive economie ricreative.

Inquinamento da plastica: alcuni laghi soffrono più degli oceani. Gallery

Oltre ad impattare negativamente sull’uso potabile delle acque, l’inquinamento da plastica ha effetti dannosi sugli organismi acquatici e sul funzionamento dell’ecosistema.

“La plastica che si accumula sulla superficie dei sistemi acquatici – spiega Veronica Nava – può favorire il rilascio di metano e altri gas serra. Le materie plastiche possono arrivare oltre l’idrosfera e interagire con l’atmosfera, la biosfera e la litosfera, influenzando potenzialmente i cicli biogeochimici, ossia la circolazione tra i vari comparti della terra degli elementi chimici che passano dalla materia vivente a quella inorganica grazie a trasformazioni e reazioni chimiche, attraverso meccanismi che devono essere ancora compresi e che richiedono una valutazione olistica dell’inquinamento da plastica nei sistemi lentici”.

Data la concentrazione relativamente alta di microplastiche nei laghi e nei bacini idrici di grandi dimensioni, questi ambienti possono essere considerati “sentinelle dell’inquinamento” in quanto agiscono come collettori e integratori di diverse fonti di plastica provenienti dai bacini idrici e dall’atmosfera.

“Inoltre questi ambienti possono trattenere, modificare e trasportare i detriti plastici attraverso i bacini idrici fino agli oceani.  Questi risultati – conclude Barbara Leoni – dimostrano la portata globale dell’inquinamento da plastica: nessun lago, neppure quelli più lontani dall’attività antropiche, può essere considerato realmente incontaminato: questo deve spingerci a rivedere le strategie di riduzione dell’inquinamento e i processi di gestione dei rifiuti”.

Testo, video e immagini dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca.

AFTER WORK

un documentario per la regia di ERIK GANDINI

After Work Erik Gandini

liberamente ispirato dagli scritti sull’ideologia del lavoro di Roland Paulsen

Durata 77’

DAL 15 GIUGNO AL CINEMA CON FANDANGO DISTRIBUZIONE

After Work – Opzioni per lo streaming

SINOSSI LUNGA

Nel 2013, due ricercatori di Oxford hanno pubblicato “The Future of Employment” (Il futuro dell’occupazione), in cui hanno analizzato la possibilità che diverse professioni vengano sostituite da algoritmi informatici nei prossimi 20 anni. Questo studio, molto citato, è giunto alla conclusione che il 47% dei lavori statunitensi è ad alto rischio. Ad esempio, c’è una probabilità del 99% che gli addetti al telemarketing e i sottoscrittori di assicurazioni perdano il loro lavoro a favore degli algoritmi. Il 97% di probabilità che entro il 2033 i cassieri saranno sostituiti da macchine. Per gli autisti di autobus le probabilità sono l’89%.

La maggior parte dei lavori esistenti oggi potrebbe scomparire nel giro di qualche anno. Man mano che l’intelligenza artificiale supera l’uomo in un numero sempre maggiore di compiti, sostituirà l’uomo in un numero sempre maggiore di lavori. Si profila un’era di disoccupazione tecnologica, in cui gli scienziati informatici e gli ingegneri del software ci toglieranno essenzialmente il lavoro, e il numero totale di posti di lavoro diminuirà in modo costante e permanente.

La nostra società è una società basata sul lavoro. Fin dall’infanzia ci viene insegnato ad essere orientati al risultato e ad essere competitivi. Mentre impariamo a lavorare, tendiamo a mettere da parte tutti gli altri aspetti dell’essere umano. Possiamo pensare a un futuro diverso?

Uno sguardo al futuro prossimo ci dice che nel XXI secolo potremmo assistere alla creazione della classe dei non lavoratori, caratterizzata da persone che si sentono irrilevanti, senza valore economico perché non possono fare nulla di meglio dell’IA o di un robot e, diventando sostituibili, potrebbero finire per essere privi di una forza politica collettiva.

Il dibattito sulle conseguenze di questa situazione è dominato da esperti di tecnologia ed economisti e spesso dipinto come una distopia fantascientifica. Ciò che manca è la prospettiva umana, nel senso di uno sguardo a ciò che questo significherà per noi come esseri umani. L’approccio di questo documentario è quindi puramente esistenziale e mira a esplorare come saremo e cosa faremo quando non dovremo più lavorare.

Il paradosso del lavoro è che molte persone odiano il proprio lavoro, ma sono molto più infelici se non fanno nulla. Oppure, sono infelici perché non guadagnano abbastanza? O perché c’è una pressione culturale intorno a loro?

Attraverso storie contemporanee, in quattro diversi angoli del mondo, After Work porta allo spettatore utili elementi per disegnare scenari futuri, raccontando aspetti iperbolici e paradigmatici dell’ideologia, dell’etica del lavoro, del rapporto tra esistenza e lavoro, in – Kuwait, Corea del Sud, Stati Uniti e Italia – società con modelli di sviluppo molto distanti tra loro.

una produzione FASAD PRODUCTION AB

una coproduzione

PROPAGANDA ITALIA con RAI CINEMA

e INDIE FILM

CAST

Insegnante – YOO GA YEON

Fabbricante – YOO DEUG YOUNG

Proprietario del giardino di Valsanzibio – ARMANDO PIZZONI

Direttore generale del Centro sviluppo etica del lavoro – JOSH DAVIS

Filosofo – ELIZABETH S. ANDERSON

Socio dirigente di Gallup – PA SINYAN

Filosofo – NOAM CHOMSKY

Autista Amazon – ASTRID MOSS

Sceneggiatore – MEQDAD AL KOUT

Autore e professore universitario – MAI AL NAKIB

Impiegata pubblica – FATIMA

Allevatrice di cavalli – RORY MARZOTTO

Uomo d’affari – FERDINANDO BUSINARO

Sociologo – LUCA RICOLFI

Ex dipendente – JEONG BOSEONG

CREW

Regia di ERIK GANDINI

Direttore della fotografia FREDRIK WENZEL, FSF

Montaggio e Musiche JOHAN SÖDERBERG

Produttore musicale e arrangiamenti CHRISTOFFER BERG

Sound Design JØRGEN BERGSUND, RIKARD STRØMSODD

Sound recordist CHIARA ANDRICH

CREDITI

Prodotto da Fasad Production AB

In coproduzione con Propaganda Italia / Marina Marzotto a.g.i.c.i & Mattia Oddone con Rai Cinema
Indie film / Carsten Aanonsen

SVT / Axel Arnö & Asta Dalman
Film i Väst / Jenny Luukkonen
VPRO / Commissioning Editor Barbara Truyen
GEO Television / Arno Becker & Simone Theilmann

In associazione con YLE / Jenny Westergård

 

Con la partecipazione di RTS Radio Télévision Suisse Department of Documentaries Steven Artels & Bettina Hofmann

Con il contributo di MiC- Ministero Italiano della Cultura

Svenska Filminstitutet / Klara Grunning

Nordisk Film & Tv Fond / Karolina Lidin

Norsk Filminstitutt / Eirin Gjørv

Fritt Ord Foundation / Bente Roalsvig NRK / Fredrik Færden

Consulenti di produzione NFI Ravn Wikhaug & Benedikte Danielsen

Produttore associato Costanza Julia Bani

Produttore delegato

per Propaganda Italia Cristina Rajola

Durata 77’

Distributore Fandango

I DIVERSI STATI IN AFTER WORK

USA

‘No Vacation Nation’ – Secondo uno studio condotto dal Project Time Off della US Travel Association, nel 2018 i lavoratori americani hanno lasciato sul tavolo 768 milioni di giorni di vacanza non utilizzati. Ciò si traduce in una stima di 65,5 miliardi di dollari di mancati benefici, ovvero una media di 571 dollari per dipendente. Inoltre, lo studio ha rilevato che più della metà dei lavoratori americani (55%) non ha utilizzato tutti i giorni di ferie nel 2018 e il 24% ha dichiarato di non averne usufruito affatto. Ciò suggerisce che molti lavoratori americani non sono in grado o non sono disposti a prendere le ferie a cui hanno diritto, perpetuando la cultura del superlavoro e la reputazione di “No Vacation Nation”.

Gli americani hanno un rapporto unico con il lavoro. Il concetto di “sogno americano” è stato a lungo associato all’idea di lavorare sodo e raggiungere il successo. Questa mentalità ha creato una cultura in cui il lavoro è spesso visto come l’obiettivo finale, con poca enfasi sul tempo libero. Di conseguenza, gli Stati Uniti sono noti come la “nazione senza vacanze”. Mentre molti altri Paesi sviluppati garantiscono ai loro lavoratori ferie retribuite, negli Stati Uniti non esiste una legge federale che imponga ai datori di lavoro di fornire ferie retribuite.

KUWAIT

L’impiego pubblico in questo paese comporta privilegi unici: il rischio di essere licenziati è praticamente inesistente e le promozioni si basano sull’età anziché sul rendimento. La vita quotidiana nel settore pubblico è caratterizzata da un notevole esubero di personale e dalla mancanza di compiti. Questo modello si ripercuote sull’etica del lavoro e sulla produttività e, secondo l’OMS, il Kuwait è il Paese più fisicamente inattivo del mondo, anche se tutti hanno un impiego e sono ben retribuiti. Il sistema di distribuzione delle ricchezze petrolifere del Paese è stato paragonato a un reddito di base (UBI), ma con un impegno lavorativo ’’simulato’’ come contropartita. La scarsa intensità di lavoro in edifici all’avanguardia, il clima caldo disagevole e i vasti centri commerciali rendono il Kuwait un luogo congeniale per analizzare una probabile idea di lavoro del futuro.

COREA DEL SUD

Un’etica del lavoro unica, che affonda le sue radici nel confucianesimo, è alla base della miracolosa crescita della Corea del Sud, dalla povertà estrema al successo informatico. Tuttavia, la cultura del lavoro si è rivelata un rischio per la salute e un problema sociale che è considerato la causa del calo delle nascite, delle alte statistiche sui suicidi e del fenomeno della Gwarosa, la “morte per eccesso di lavoro”. Il ministro del Lavoro coreano Kim Joung Joo (forse l’unico ministro del Lavoro al mondo con la missione di far lavorare meno le persone) ha lanciato diverse campagne per cambiare le abitudini lavorative tossiche. A lei si deve l’iniziativa “Diritto al riposo”, che ha ridotto la settimana lavorativa da 68 ore a un massimo di 52. L’ultima direttiva del governo garantisce che i computer in tutti i principali luoghi di lavoro vengano spenti automaticamente alle 18.00. Parallelamente, vengono realizzate campagne pubblicitarie che invitano i lavoratori a non rimanere in ufficio fino a tardi. In una di queste appaiono lavoratori esausti che ricevono consigli su occupazioni alternative: cucinare, fare formazione, dipingere un quadro, passare del tempo con i bambini e la famiglia. L’immaginazione collettiva di una società sovraccarica di lavoro è esaurita al punto che sono necessarie immagini prodotte dall’esterno per ispirare idee su ciò che potrebbe essere la vita al di là del lavoro?

ITALIA

Con l’obiettivo di raggiungere un altro livello di riflessione sull’esistenza senza lavoro, l’attenzione iniziale si concentra sul piccolo gruppo di persone iper-ricche appartenenti a dinastie imprenditoriali industriali che hanno vissuto per diverse generazioni senza dover lavorare. Come si presenta la vita quotidiana di queste persone? Che cosa hanno imparato dovendo scegliere la propria vita, esplorando creativamente ciò che ha senso per loro? Quali sono le intuizioni e i consigli di cui possono beneficiare i futuri disoccupati? Un aspetto che rende l’Italia ancora più interessante è che offre un ulteriore livello di complessità. Qui non sono solo i super-ricchi a non lavorare. All’interno della classe media italiana si trova il più grande gruppo di “NEET” (Neither in Employment, Education or Training) in Europa. Questo gruppo rappresenta il 28,9% degli italiani tra i 20 e i 34 anni, rispetto a una media del 16,5% in Europa e dell’8% in Svezia.

NOTE DI REGIA

Ho un incubo personale ricorrente: arrivare alla fine della mia vita e con rimpianto, rendermi conto di aver lavorato troppo. Essere colpito, troppo tardi, dalla consapevolezza di aver sbagliato a stabilire le priorità per tutta la mia esistenza a causa di un’idea, radicata in me, che fa parte della cultura di cui sono il prodotto. Il lavoro è un’idea normale come l’aria che respiriamo, quindi difficile da mettere in discussione. La nostra società è una società basata sul lavoro. Fin dall’infanzia ci viene insegnato a seguire l’etica del lavoro, a istruirci per prepararci a trovare un lavoro.

Ho sempre visto il documentario come un modo per catturare, esporre e dare un senso al mio tempo (La teoria svedese dell’amore, The Rebel Surgeon, Videocracy, Surplus). Con After Work ho voluto fare un passo avanti, cercando di documentare una realtà che non è ancora completamente accaduta. Attraverso il metodo del What-if? Cosa faremo quando non dovremo più lavorare?

Questo film non è fatto con l’intenzione di ritrarre le cose come sono. Piuttosto come potrebbero essere.

È girato nel presente, con l’obiettivo di creare una proiezione nel futuro. Il futuro attraverso il presente.

Erik Gandini. Crediti per la foto: Jens Lasthein
Erik Gandini. Crediti per la foto: Jens Lasthein

CATTURARE CIÒ CHE POTREBBE ESSERE

Un importante punto di partenza per questo progetto è la distinzione del filosofo tedesco Herbert Marcuse tra pensiero unidimensionale – attenersi solo a “ciò che è” – e pensiero bidimensionale – abbracciare anche “ciò che potrebbe essere”. Marcuse vedeva nell’arte la chiave per dare vita alla seconda dimensione in un’epoca in cui le razionalizzazioni aprivano la strada al dominio del pensiero unidimensionale. O all’evasione come cura alla sorta di alienazione che la vita moderna, il consumo e il lavoro noioso portavano con sé. Per Marcuse l’arte ha il dovere di invitare a immaginare un mondo migliore. Non solo per criticare o per distrarre.

Quando ho iniziato a girare After Work c’era questa mia chiara intenzione: la maggior parte del dibattito sul futuro del lavoro è dominato da tecnici e teorici, esperti di IA e automazione. A me non interessa la tecnologia, il mio approccio con After Work è esistenziale. Ho cercato di evitare quasi completamente la prospettiva tecnologica, concentrandomi invece sui personaggi, sulla prospettiva umana. Sono incuriosito dalle possibilità di una vita post-lavorativa, di un’esistenza libera dal lavoro. Esplorare questo enigma: riusciremo a liberarci dal workismo, dalla convinzione quasi religiosa che il lavoro debba essere il fulcro della nostra esistenza? O continueremo a lavorare per il gusto di lavorare?

Una delle ispirazioni per After Work mi è venuta leggendo il sociologo svedese Roland Paulsen e i suoi scritti su quella che lui chiama ‘’L’ideologia del lavoro’’, ‘’un insieme di paure, valori e idee che giustificano il fatto che dovremmo continuare a lavorare tanto, o anche di più, indipendentemente da quanto la tecnologia diventi efficace.’’

Perché l’ideologia del lavoro sia così forte, perché queste paure e questi valori siano così presenti è una sorta di enigma, un mistero che mi ha ispirato in questo film. Con questa domanda ho esplorato diverse società che sono interessanti se ci si interroga sul ruolo del lavoro. Siamo in grado di immaginare un futuro diverso, con una nuova idea di lavoro più compatibile con il futuro?

E si può trovare un modello nel presente? Magari proprio tra quelli che non ci aspettiamo che possano insegnarci qualcosa? Come per esempio i super ricchi e i privilegiati.

Mi piace pensare a After Work come a un film guidato dalle idee, più che dai personaggi. Eppure ho trovato persone immensamente affascinanti con intuizioni nate da esperienze reali negli Stati Uniti, la “No Vacation Nation”, l’unico paese del mondo sviluppato senza leggi che garantiscano le ferie.

E in Corea del Sud, dove il governo sta cercando di affrontare il problema del sovraccarico di lavoro attraverso drastici interventi statali, e dove c’è l’unico ministro del Lavoro al mondo con la missione di far lavorare meno le persone.

In Kuwait, dove i cittadini privilegiati potrebbero lavorare meno, ma viene chiesto loro di far finta di lavorare in cambio di un reddito garantito.

E in Italia, il mio Paese d’origine, dove esiste una cultura dell’anti-lavoro e dell’edonismo all’interno della categoria dei giovani definiti NEET – giovani tra i 20 e i 34 anni che non hanno un lavoro, né un’istruzione, né una formazione che in Italia costituiscono 1/3 della gioventù. Considerata dalla leadership del Paese come preoccupante, ma che potrebbe contenere i semi di una potenziale etica anti-lavoro.

SULL’ESTETICA DI AFTER WORK

La collaborazione con Fredrik Wenzel, pluripremiato direttore della fotografia (due volte vincitore della Palma d’Oro come DOP di The Square e Triangle of Sadness di Ruben Östlund), ha aperto nuove frontiere. Abbiamo iniziato a utilizzare semplici telecamere fisse in ambienti reali come uffici o centri commerciali. Per le interviste, abbiamo utilizzato sfondi come i grandi uffici vuoti di Seoul, e lo strumento ‘Eye direct’, la stessa tecnica usata da Errol Morris Interrotron, che fa sì che gli occhi degli intervistati siano rivolti direttamente verso l’obiettivo. Il 4K e il formato cinemascope hanno rafforzato la qualità cinematografica del materiale filmico che è stato curato dal montatore e compositore delle musiche Johan Söderberg, mio collaboratore di lunga data.

Johan Söderberg ha composto le musiche che sono state arrangiate da Christoffer Berg e registrate dal vivo nello studio di Ennio Morricone a Roma con un’orchestra di musicisti italiani.

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa Studio Sottocorno.

CAMBIAMENTI CLIMATICI ED EVOLUZIONE DEI FIUMI ARTICI UNA “SORPRESA” DAL DISGELO DEL PERMAFROST 

Dalla ricerca pubblicata su «Nature Climate Change» emerge che una temperatura più alta modifica la vegetazione e l’infiltrazione d’acqua nelle pianure fluviali artiche, portando ad un rallentamento dell’erosione dei fiumi.

Il riscaldamento globale sta cambiando i paesaggi artici a causa del disgelo del permafrost, lo strato di terreno perennemente ghiacciato che ha ricoperto la tundra artica per millenni. Il disgelo del permafrost causa frane e smottamenti e, in casi estremi, può persino portare al prosciugamento di interi laghi. L’aspetto più allarmante però è il potenziale rilascio in atmosfera di enormi quantità di gas serra – tra cui metano, anidride carbonica e protossido di azoto – rimaste intrappolate nel permafrost per secoli. Si stima infatti che nel permafrost siano congelati 1400 miliardi di tonnellate di carbonio – una quantità quattro volte superiore a quella emessa dall’uomo dalla rivoluzione industriale ad oggi – e quasi il doppio di quella attualmente contenuta nell’atmosfera.

Emissioni significative di gas serra nelle regioni artiche sono generate dall’azione dei fiumi che, spostandosi lateralmente con velocità che possono arrivare a decine di metri all’anno, erodono terreni ricchi di permafrost. Infatti, l’acqua che scorre lungo un fiume tende a erodere sedimenti lungo le sponde concave e ri-depositarli lungo le sponde convesse, determinando così una migrazione laterale del fiume nel corso degli anni. L’indebolimento delle sponde dei fiumi a causa del disgelo del permafrost, nonché l’aumento dei flussi di acqua e sedimenti dovuti al degrado della criosfera, potrebbe favorire l’erosione delle sponde, aumentando la mobilità laterale dei fiumi e modificando ulteriormente le emissioni in atmosfera.

Ma l’aumento delle temperature e dell’umidità atmosferica che favoriscono lo scioglimento del permafrost hanno solo effetti negativi sul paesaggio artico? Per rispondere a questa domanda, un team di ricerca internazionale ha monitorato l’evoluzione dei grandi fiumi dell’Alaska e del Canada e svelato come, a seguito del forte riscaldamento della regione, i fiumi non si muovano come gli scienziati si aspettavano.

Lo studio, dal titolo “Large sinuous rivers are slowing down in a warming Arctic” e pubblicato su «Nature Climate Change», ha analizzato l’evoluzione dei 10 maggiori fiumi artici in Alaska (Stati Uniti), nello Yukon e nei Territori del Nord-Ovest (Canada) durante gli ultimi 50 anni. La ricerca, coordinata da Alessandro Ielpi dell’Università della British Columbia e frutto della collaborazione tra il Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, l’Università della British Columbia (Canada), l’Università di Stanford (USA) e l’Università Laval (Canada), rivela che una temperatura più alta modifica anche la vegetazione e i flussi d’acqua superficiali nelle pianure fluviali artiche: ciò rallenterebbe l’erosione dei fiumi e potrebbe influenzare il rilascio di gas serra causato dal disgelo del permafrost.

«Abbiamo testato l’ipotesi, ampiamente accettata dalla comunità scientifica, che il riscaldamento atmosferico e il conseguente disgelo del permafrost indeboliscano le sponde e provochino un aumento dei tassi di migrazione laterale dei fiumi artici. Per fare ciò – dice Alvise Finotello, ricercatore del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova e autore della pubblicazione – abbiamo utilizzato sequenze di immagini satellitari ad alta risoluzione che coprono un periodo temporale di circa mezzo secolo. In totale, abbiamo analizzato più di mille chilometri di sponde distribuiti lungo 10 corsi d’acqua, tutti caratterizzati da larghezze comprese tra 100 e 1000 metri, così da poter essere facilmente identificabili anche nelle immagini satellitari più datate e risalenti agli anni Settanta. Lo studio è stato possibile grazie alle metodologie di analisi da remoto che il nostro gruppo di ricerca ha sviluppato nel corso degli anni, e che possono essere applicate a sistemi fluviali in diversi contesti climatici, dalle foreste tropicali ai deserti, fino appunto agli ambienti artici. Contrariamente a quanto ci aspettavamo di osservare, i nostri risultati mostrano una sorprendente riduzione dei tassi di migrazione laterale di dei fiumi nell’ordine del 20% negli ultimi 50 anni, una stima che potrebbe addirittura essere conservativa date le metodologie di analisi che abbiamo utilizzato».

Alvise Finotello
Alvise Finotello

«Tale rallentamento è con ogni probabilità dovuto ad una serie di effetti indiretti legati al riscaldamento atmosferico e al conseguente scioglimento del permafrost. Temperature più alte favoriscono lo sviluppo della vegetazione grazie a stagioni di crescita più calde e lunghe, un processo noto come inverdimento artico. Inoltre – spiega Alessandro Ielpi dell’Università della British Columbia e già visiting scientist al Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova nel 2019 – lo scioglimento del permafrost permette alle radici delle specie arbustive di penetrare più in profondità nel terreno rispetto a quanto accadeva nel passato. Radici più profonde aumentano la resistenza delle sponde e la capacità di ritenzione idrica delle piane alluvionali, riducendo così i tassi di erosione e la velocità di migrazione laterale dei fiumi».

Alessandro Ielpi
Cambiamenti climatici ed evoluzione dei fiumi artici, una “sorpresa” dal disgelo del permafrost. In foto, Alessandro Ielpi

Poiché una ridotta mobilità dei fiumi ha un impatto diretto sui flussi di gas serra rilasciati dall’erosione di terreni ricchi di permafrost, i risultati dello studio avranno importanti ramificazioni per quanto riguarda i bilanci delle emissioni globali e i cambiamenti climatici futuri ad essi connessi.

Link alla ricerca: https://doi.org/10.1038/s41558-023-01620-9

Titolo: “Large sinuous rivers are slowing downin a warming Arctic” – «Nature Climate Change» – 2023

Autori: Alessandro Ielpi, Mathieu G.A. Lapôtre, Alvise Finotello, Pascale Roy-Léveillée

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova.

ISTANTANEA DI MOTI A SPIRALE: COSÌ PARTONO I GETTI DAL DISCO DI ACCRESCIMENTO DI UNA STELLA IN FORMAZIONE

Osservate, per la prima volta in maniera diretta, le linee di flusso di un “disk wind” magnetoidrodinamico, il vento che, secondo le previsioni teoriche, si origina dai dischi di accrescimento intorno a oggetti cosmici come stelle in formazione e buchi neri. A firmare la scoperta, pubblicata oggi su Nature Astronomy, un team internazionale guidato da Luca Moscadelli dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, mediante le osservazioni radio di un’emissione “maser” dell’acqua nei pressi di una stella nascente realizzate con il Very Long Baseline Interferometry (VLBI) array, una rete globale di 26 radiotelescopi distribuiti tra l’Europa, l’Asia e gli Stati Uniti.

Durante il loro processo di formazione, molti oggetti astrofisici, dai buchi neri supermassicci fino ai pianeti giganti, sono circondati da un disco di accrescimento dal quale partono potenti getti, collimati lungo l’asse di rotazione del disco. Il collegamento tra i due fenomeni, l’accrescimento e l’emissione dei getti, è essenziale affinché questi oggetti possano formarsi, rimuovendo dal sistema il momento angolare in eccesso e permettendo alla materia di continuare ad accumularsi sull’oggetto centrale.

Illustrazione delle linee di flusso (in blu e azzurro) rilevate in prossimità di una stella nascente nella regione IRAS 21078+5211 mediante osservazione in banda radio dei maser dell’acqua (mostrati in rosso e arancione). In alto a destra, un’immagine su scala maggiore dei getti bipolari provenienti dalla stella in formazione e, nell’angolo, su scala ancora maggiore, un’immagine in banda infrarossa della nursery stellare (cliccare per ingrandire).
Crediti: André Oliva, Institut für Astronomie und Astrophysik, Universität Tübingen

Questo processo è stato compreso teoricamente negli anni Ottanta, collegando la formazione di buchi neri e stelle al cosiddetto disk wind magnetoidrodinamico: il vento lanciato dal disco tramite un meccanismo magneto-centrifugo. Mediante questo meccanismo, una frazione del flusso di accrescimento che dal disco procede verso l’oggetto centrale in formazione (un buco nero oppure una stella) viene lanciata e accelerata verso l’esterno, lungo l’asse di rotazione del disco, formando getti bipolari collimati.

La miglior prova ad oggi dell’esistenza dei disk wind magnetoidrodinamici era stata l’osservazione di un gradiente della velocità lungo la linea di vista perpendicolare all’asse del getto, interpretata in termini di rotazione del getto dovuta alla sua origine magneto-centrifuga. Si trattava, tuttavia, di evidenza indiretta, soggetta a interpretazioni fallaci ed errori sistematici. Tracciare le linee di flusso tipiche di un disk wind magnetoidrodinamico è una prova molto più convincente.

Il nuovo studio, condotto dai ricercatori INAF Luca Moscadelli e Alberto Sanna insieme a colleghi del Max-Planck-Institute for Astronomy di Heidelberg, dell’Università di Tubinga e dell’Università di Duisburg-Essen, in Germania, ha osservato una particolare emissione in banda radio: la riga emessa dalla molecola dell’acqua a una frequenza di circa 22 GHz. Questa emissione è comunemente osservata come un intenso “maser” – l’equivalente di un laser nella banda delle microonde – nelle regioni di formazione stellare. Come i laser, i maser sono fasci di radiazione intensi e altamente collimati. Le osservazioni della riga maser dell’acqua hanno consentito al team di rilevare, per la prima volta in maniera diretta, due tipiche linee di flusso di un disk wind magnetoidrodinamico: dei moti a spirale, in prossimità dell’asse di rotazione, e un flusso che ruota insieme al disco a distanze maggiori dall’asse.

Le osservazioni sono state effettuate utilizzando il Very Long Baseline Interferometry (VLBI) array, una rete globale formata da 26 radiotelescopi che osservano a 22 GHz distribuiti in Europa, Asia e Stati Uniti. Queste antenne hanno osservato simultaneamente, per 24 ore, l’emissione della riga maser dell’acqua in direzione della stella nascente, che si trova nella regione di formazione stellare IRAS 21078+5211, a circa 5300 anni luce da noi.

La tecnica dell’interferometria a lunghissima linea di base permette di simulare un telescopio gigante con un diametro paragonabile a quello terrestre e di raggiungere una risoluzione angolare estremamente elevata (~0,5 milliarcsec), essenziale per studiare la distribuzione spaziale dei singoli centri di emissione dei maser dell’acqua vicino a stelle in formazione. Raggiungendo anche una sensibilità molto elevata (~0,7 mJy) nella riga maser, sono stati rivelati un gran numero di centri di emissione maser deboli (< 50 mJy), consentendo al team di tracciare accuratamente le linee di flusso del disk wind.

“Questo lavoro mostra che osservare le emissioni maser dell’acqua in prossimità di stelle in formazione usando l’interferometria a lunghissima linea di base (VLBI) può essere uno strumento unico per studiare la fisica dei disk wind con dettagli senza precedenti” afferma Luca Moscadelli, ricercatore INAF a Firenze e primo autore del nuovo studio. “Abbiamo eseguito nuove osservazioni dell’emissione della riga maser dell’acqua includendo tutti i telescopi disponibili nella rete VLBI, con l’obiettivo di simulare radiointerferometri di prossima generazione che miglioreranno la sensibilità attuale di oltre un ordine di grandezza. Il nostro obiettivo era rilevare maser deboli originantesi in gas eccitato in urti a bassa velocità vicino alla stella in formazione per campionare meglio la cinematica di un disk wind”.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Snapshot of a magnetohydrodynamic disk wind traced by water maser observations”, di L. Moscadelli, A. Sanna, H. Beuther, G. A. Oliva e R. Kuiper, è stato pubblicato online sulla rivista Nature Astronomy.

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza
Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) sull’istantanea di moti a spirale, getti dal disco di accrescimento di una stella in formazione.