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Università Statale di Milano

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Long COVID: una possibilità di cura dai farmaci antistaminici e antiulcera

Uno studio multicentrico, coordinato dal professor Carmine Gazzaruso, ha analizzato il ruolo dell’istamina nella malattia, conseguenza dell’infezione da SARS-Cov-2

Vigevano, 7 settembre 2023 – Una combinazione di vecchi farmaci antistaminici e antiulcera accende la speranza in coloro che soffrono della sindrome del Long COVID, una malattia multisistemica conseguenza dell’infezione da SARS-Cov-2. A dimostrarlo è uno studio multicentrico coordinato dal professor Carmine Gazzaruso – responsabile Centro di Ricerca Clinico (Ce.R.C.A.) dell’Istituto Clinico Beato Matteo di Vigevano (Gruppo San Donato) e professore di Endocrinologia dell’Università Statale di Milano – che indaga il ruolo dei mastociti, cellule del sangue, nella fisiopatologia del Long COVID e l’efficacia del trattamento con bloccanti dei recettori dell’istamina, che è una delle sostanze rilasciate dai mastociti.

Il Long COVID è una patologia, talvolta invalidante, che ad oggi non ha una terapia standard ed efficace e può presentare una grande varietà di sintomi: cardiovascolari, psicologici, neurologici, respiratori, gastrointestinali, dermatologici e muscoloscheletrici. Tra queste manifestazioni le più comuni sono tachicardia, palpitazioni, ipotensione posturale, affaticamento, deterioramento cognitivo, mancanza di respiro e tosse.

Il team dei ricercatori guidati dal professor Carmine Gazzaruso ha preso in esame quattro gruppi di sintomi caratteristici nel Long COVID: stanchezza e astenia, alterazione cardiaca, nebbia mentale e alterazione della memoria, disturbi gastrointestinali (dolore, meteorismo, gonfiore). È stato quindi selezionato un campione di 27 soggetti affetti da questa condizione, che presentavano però caratteristiche comuni: soffrire di Long Covid da oltre 6 mesi, essersi sottoposti a diversi trattamenti – come ad esempio aver assunto multivitaminici, betabloccanti e aver affrontato percorsi riabilitativi – con risultati fallimentari.

“Inoltre i pazienti arruolati per il nostro trial non erano vaccinati contro il Sars-Cov-2, perché il vaccino potrebbe modificare i sintomi del Long COVID, non erano soggetti allergici e non avevano mai sofferto, prima della infezione da SARS-Cov-2, di uno dei sintomi presi in considerazione nello studio” afferma il professor Gazzaruso, principal investigator del lavoro, pubblicato sulla rivista Frontiers in cardiovascular medicine. “La stanchezza, che accomunava tutto il campione preso in esame, doveva essere accompagnata, per la validità dello studio, da almeno uno degli altri sintomi. Nella media dei pazienti esaminati il dato è stato confermato, registrando, anzi, la presenza di tre sintomi, se non addirittura dell’intera sintomatologia”.

prof Carmine Gazzaruso Long COVID
il professor Carmine Gazzaruso

Studi precedenti, condotti a livello nazionale e internazionale, avevano evidenziato come nei pazienti con Long COVID vi fosse una maggiore attivazione dei mastociti, rispetto al normale, reazione simile a quanto avviene nei soggetti allergici con i quali vi è, effettivamente, anche un’assonanza di sintomi. Nel paziente allergico si verifica una grande produzione di istamina e prostaglandine, sostanze liberate in eccesso dai mastociti, esattamente come rilevato anche nel campione dello studio. Si evince quindi che nei pazienti con Long COVID si scateni una reazione cronica infiammatoria sostenuta con un meccanismo tipico dell’allergia.Questa evidenza ha generato nei ricercatori l’idea di inibire la reazione prodotta, bloccando due dei quattro recettori dell’istamina, detti H1 e H2, mediante l’impiego di due farmaci datati, ormai poco utilizzati nella pratica clinica quotidiana: un antistaminico (la fexofenadina) e un antiulcera (la famotidina), molto usato prima dell’avvento dell’omeprazolo. Nello specifico, l’antistaminico bloccava il recettore H1 dell’istamina, mentre il secondo inibiva il recettore H2.

Il campione è stato poi suddiviso in due gruppi: il primo, formato da 14 persone, ha ricevuto la terapia farmacologica combinata, mentre al secondo, il gruppo di controllo formato da 13 persone, non è stato somministrato nulla.

I risultati sono stati promettenti: i sintomi del Long COVID sono scomparsi completamente nel 29% dei pazienti del primo gruppo, dopo soli 20 giorni di trattamento. In tutti gli altri pazienti trattati si è comunque rilevato un miglioramento significativo di ciascuno dei sintomi considerati. Nel gruppo di controllo, invece, non si sono registrate variazioni in merito allo stato di salute.

Lo studio è stato condotto grazie al contributo dell’Istituto Clinico Beato Matteo di Vigevano (Pavia), dell’Università Statale di Milano, dell’IRCCS MultiMedica di Sesto San Giovanni (Milano) e del Centro Medico Ticinello di Pavia.

“Questa scoperta permetterà alle persone affette da Long COVID, che presentano questo disturbo legato ai mastociti, di guarire o migliorare la propria condizione di salute, attraverso una terapia molto semplice e anche facilmente reperibile” afferma il professor Gazzaruso. “La nostra intuizione è frutto anche del lavoro di tanti colleghi sparsi per il mondo che stanno cercando delle risposte e delle cure per tutti coloro che, a distanza di anni, vivono ancora le conseguenze, talvolta molto gravi e invalidanti, dell’infezione da COVID-19”.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano sullo studio multicentrico sul Long COVID che indaga il ruolo dell’istamina, rivelando una possibilità di cura dai farmaci antistaminici e antiulcera.

Lo stress termico prolungato ha un effetto drammatico sugli animali selvatici e sull’intero ecosistema: il caso del falco grillaio (Falco naumanni)

Pubblicata su Global Change Biology una ricerca che dimostra sperimentalmente l’effetto drammatico che le ondate di calore possono avere su alcune specie di uccelli selvatici nell’area mediterranea. Lo studio è stato coordinato dall’Università degli Studi di Milano e condotto in stretta collaborazione con Università di Padova, CNR-IRSA, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) e Provincia di Matera.

Milano/Padova – 27 luglio 2023 – Lo stress termico prolungato, connesso alla disidratazione e all’impossibilità di dissipare calore, può avere effetti drammatici sugli animali selvatici, in particolare sugli uccelli, fino a condurre alla morte. Per evitare questo esito infausto, basterebbe avere alcuni accorgimenti nella progettazione e costruzione delle strutture destinate ad ospitarli.

 

Lo stress termico prolungato ha un effetto drammatico sugli animali selvatici e sull’intero ecosistema: il caso del falco grillaio. Gallery, foto di Davorin Tome

Ecco la conclusione a cui sono giunti i ricercatori dell’Università degli Studi di Milano e dell’Università di Padova che, assieme all’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), al CNR-IRSA e alla Provincia di Matera, hanno appena pubblicato i risultati dell’esperimento empirico su Global Change Biology, in Open Access.

L’aumento di frequenza e intensità delle ondate di calore nell’area mediterranea negli anni recenti, una conseguenza della crisi climatica in atto, sta infatti avendo profonde ripercussioni sulla biodiversità di questa zona, ma lo studio degli effetti degli eventi estremi è tuttavia complicato dalla loro relativa imprevedibilità temporale e richiede studi di lungo periodo.

Lo studio è stato condotto a Matera durante le ondate di calore che hanno investito il sud Italia nel giugno 2021 e 2022, dove si sono registrate temperature superiori a 37°C per più giorni consecutivi, condizioni estreme di temperatura mai verificate in quest’area nei 20 anni precedenti. I ricercatori hanno sperimentato una metodologia innovativa di raffrescamento dei nidi, per quantificare sperimentalmente l’effetto dell’esposizione a ondate di calore intense e prolungate sul successo riproduttivo di una specie di uccello rapace coloniale caratteristico delle regioni mediterranee, il falco grillaio (Falco naumanni).

Matera ospita infatti ospita una delle maggiori colonie riproduttive mondiali di questa specie, con circa un migliaio di coppie nidificanti, ed è parte integrante del patrimonio culturale della città. Un tempo estremamente abbondante, il falco grillaio è un piccolo rapace migratore (circa 140 g) di interesse conservazionistico a livello europeo, tutelato dalla Direttiva Uccelli, che ha subito un drastico declino delle popolazioni nella seconda metà del secolo scorso, causato dall’intensificazione agricola e da eventi di siccità nella regione del Sahel dove trascorre l’inverno. Nelle regioni mediterranee, la specie nidifica in aree urbane, in cavità di edifici, monumenti e pareti rocciose, e frequenta spesso cassette nido posizionate appositamente dai ricercatori per studiarne l’ecologia e il comportamento riproduttivo e per favorirne la conservazione.

Il raffrescamento sperimentale è avvenuto mediante una semplice ombreggiatura delle cassette nido, che ha consentito di abbassare la temperatura interna delle cassette nido di circa 4°C rispetto a quelle non ombreggiate. Il successo riproduttivo della specie nelle cassette nido non schermate è stato drammaticamente ridotto: solo un terzo delle uova deposte ha generato pulcini pronti all’involo, mentre nelle cassette nido ombreggiate tale valore rientra nella norma (circa 70%). Nelle cassette nido non ombreggiate si sono verificati diffusi episodi di mortalità dei pulcini, tutti in corrispondenza con le giornate più calde (con temperatura dell’aria superiore a 37°C all’ombra e temperature interne delle cassette nido superiori a 44°C), mentre tali eventi sono risultati molto rari nelle cassette nido ombreggiate. Inoltre, i pulcini cresciuti in cassette nido schermate sono risultati essere in condizioni fisiche decisamente migliori e di taglia maggiore, caratteristiche che ne promuovono la sopravvivenza una volta involati.

“Questi risultati evidenziano come fenomeni di temperature estreme, in passato estremamente rari e in alcuni casi mai registrati prima, possano avere effetti profondi e molto rapidi sulle popolazioni di animali selvatici. Considerato che gli scenari di cambiamento climatico prevedono un ulteriore aumento della frequenza e intensità delle ondate di calore nei prossimi decenni, in particolare nella regione mediterranea, ciò potrebbe rappresentare una ulteriore grave minaccia per la biodiversità delle regioni colpite”spiega il prof. Diego Rubolini dell’Università Statale di Milano.

Tra l’altro, l’attuale persistenza dell’anticiclone africano ha determinato nel 2023 condizioni ancora più calde rispetto al 2021-2022 e i risultati preliminari delle nostre attività di monitoraggio indicano un effetto ancora peggiore sui falchi grillai rispetto a quanto osservato in precedenza.

“Questi risultati suggeriscono anche che limitati accorgimenti nella progettazione e costruzione di strutture destinate ad ospitare animali selvatici, come un incremento dell’isolamento termico delle cassette nido, debbano essere attentamente considerati in quanto possono favorire in maniera significativa il successo dei progetti di conservazione in uno scenario di riscaldamento globale”conclude il prof Andrea Pilastro, dell’Università di Padova.

Lo studio è stato realizzato con il parziale supporto del programma di finanziamento LIFE della Comunità Europea (progetto LIFE FALKON, www.lifefalkon.eu) e del MUR (PRIN 2017).

 

Testo dagli Uffici Stampa dell’Università Statale di Milano e dell’Università di Padova.

I risultati dello studio Neuro-COVID Italy sulle complicanze neurologiche di COVID-19

Disturbi progressivamente meno frequenti e nella maggioranza dei casi risolti nelle varie ondate pandemiche, anche se con diverse tempistiche. Questi in sintesi gli esiti del progetto di ricerca che ha coinvolto 160 neurologi, 2000 pazienti e 38 unità operative di Neurologia in Italia e nella Repubblica di San Marino, all’apice della pandemia. A coordinarlo, il prof. Carlo Ferrarese, direttore della Clinica Neurologica di Milano-Bicocca presso la Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza.

Milano, 24 luglio 2023 – Disturbi neurologici meno frequenti e nella maggioranza dei casi, risolti, spesso anche in tempi brevi, nelle ondate pandemiche successive alla prima. Questi gli esiti dello studio Neuro-COVID Italy, promosso dalla Società Italiana di Neurologia (SIN), recentemente pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Neurology, giornale ufficiale della American Academy of Neurology.

I disturbi neurologici associati all’infezione da COVID-19, chiamati collettivamente con il termine “neuro-COVID”, sono tra gli aspetti più allarmanti, controversi e meno compresi della recente pandemia. Si tratta di sintomi e malattie diverse – dall’encefalopatia acuta (ovvero un grave stato confusionale, con disorientamento e allucinazioni) fino all’ictus ischemico, l’emorragia cerebrale, le difficoltà di concentrazione e memoria, la cefalea cronica, la riduzione dell’olfatto e del gusto, alcune forme di epilessia e di infiammazione dei nervi periferici.

I risultati dello studio Neuro-COVID Italy sulle complicanze neurologiche di COVID-19 Attuali farmaci e nuove mutazioni del SARS-CoV-2; lo studio computazionale dell'Università degli Studi di Padova Long COVID olfatto
I risultati dello studio Neuro-COVID Italy sulle complicanze neurologiche di COVID-19. Immagine di Gerd Altmann

Il progetto Neuro-COVID Italy ha coinvolto 38 unità operative di Neurologia in Italia e nella Repubblica di San Marino ed è stato coordinato dal Prof. Carlo Ferrarese, direttore della Clinica Neurologica dell’Università di Milano-Bicocca presso la Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza.

Lo studio, ideato dai ricercatori dell’Università degli Studi di Milano (Prof. Vincenzo Silani e Alberto Priori, rispettivamente Direttore del Dipartimento di Neuroscienze di Auxologico IRCCS e Direttore della Clinica Neurologica III, Polo Universitario San Paolo) e di Milano-Bicocca (Prof. Carlo Ferrarese), è stato presentato al Comitato Etico di Auxologico IRCCS a Milano il 26 Marzo 2020, ed è durato per un periodo di 70 settimane, da Marzo 2020 fino a Giugno 2021, con un successivo follow-up fino a Dicembre 2021.

Su quasi 53000 pazienti ospedalizzati per COVID-19, circa 2000 pazienti erano affetti da disturbi neuro-COVID e sono stati seguiti per almeno 6 mesi dopo la diagnosi, per analizzare l’evoluzione dei disturbi.

“Lo studio Neuro-COVID Italy è stato un grande lavoro di squadra, svolto con impegno e dedizione da 160 neurologi impegnati in prima linea durante il periodo più duro della pandemia”, afferma Carlo Ferrarese, coordinatore dello studio. “Lo studio è stato promosso dalla Società Italiana di Neurologia, che fin dall’inizio ha supportato tutte le attività di ricerca”.

Il dott. Simone Beretta, Neurologo presso la Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza e primo autore dello studio sottolinea l’importanza dei risultati ottenuti:

“Un primo dato importante è che i disturbi neuro-COVID sono diventati gradualmente meno frequenti ad ogni successiva ondata pandemica, passando da circa l’8 per cento della prima ondata a circa il 3 per cento della terza ondata. Questo indipendentemente dalla severità respiratoria del virus e prima dell’arrivo dei vaccini. La ragione più probabile di questa riduzione sembra quindi legata alle varianti stesse del virus, che passando da quella originale di Wuhan fino a Delta hanno reso il virus meno pericoloso per il sistema nervoso. Con la variante Omicron e l’uso dei vaccini, la situazione è andata ulteriormente migliorando e i disturbi neuro-COVID sono ora diventati molto rari”.

Un secondo dato, riguarda il recupero neurologico nei mesi successivi all’infezione, come spiega il professore Carlo Ferrarese:

“In oltre il 60 per cento dei pazienti c’è stato una risoluzione completa dei sintomi neurologici oppure la persistenza di sintomi lievi, che non impediscono le attività della vita quotidiana. Questa percentuale arriva a oltre il 70 per cento per i pazienti in età lavorativa, tra i 18 e i 64 anni. Non bisogna però dimenticare che – prosegue Ferrarese – in circa il 30 per cento dei pazienti, i sintomi neurologici sono durati oltre i 6 mesi dall’infezione. Questo è vero soprattutto per quanto riguarda i pazienti con ictus associato all’infezione da COVID, che nelle prime ondate sono stati gravati anche da una elevata mortalità intraospedaliera”.

Ma anche per i disturbi cognitivi, della concentrazione e della memoria, la risoluzione dei sintomi è stata molto più lenta rispetto ad altre condizioni neurologiche, tanto da rientrare in quella che è stata chiamata sindrome long-COVID. Questa nuova sindrome è attualmente seguita in molti centri neurologici coinvolti nello studio».

Il Professor Alberto Priori, direttore della Scuola di Specializzazione in Neurologia e della Clinica Neurologica dell’Università degli Studi di Milano presso il Polo Universitario San Paolo alla ASST Santi Paolo e Carlo di Milano, che con i suoi collaboratori ha descritto per primo i disturbi cognitivi associati al COVID, rileva inoltre che

“se, quando e quanto l’infezione da Sars-Cov-2 potrà determinare un incremento del rischio di patologie neurologiche ad essa correlate a distanza di anni rimane ovviamente da essere studiato. Visti i dati della pandemia appena finita, i numeri potrebbero ipoteticamente essere importanti. Ciò implica che i sistemi sanitari europei oltre che le società scientifiche dovranno monitorare attentamente il quadro neuro-epidemiologico e dedicare sin da ora risorse specifiche a tale osservazione nel tempo”.

«Lo studio Neuro COVID Italy ci rende orgogliosi – conclude Vincenzo Silani – per avere intuito precocemente il coinvolgimento del sistema nervoso nella pandemia legata al COVID ed avere così determinato la raccolta dei dati nella penisola tracciando una prima valutazione dell’impatto neurologico in acuto e nel lungo termine della pandemia».

 

Testo dagli Uffici Stampa dell’Università Statale di Milano e dell’Università di Milano-Bicocca.

Nanotecnologie per curare il diabete di tipo 1: una nuova strategia terapeutica scoperta al Centro di Ricerca Pediatrica Invernizzi della Statale di Milano

 I ricercatori del Centro di Ricerca Pediatrica Romeo ed Enrica Invernizzi dell’Università degli Studi di Milano hanno sviluppato una nuova strategia terapeutica per il diabete di tipo 1 basata su nanotecnologie che permette il targeting delle cellule T effettrici contemporaneamente nei linfonodi pancreatici e nel pancreas. Il lavoro, svolto in collaborazione con il Brigham and Women’s Hospital e la Harvard Medical School, è stato pubblicato su Advanced Materials.

COVID-19 albumina diabete tipo 1 nanotecnologie
Foto di Michal Jarmoluk

Milano – 17 luglio 2023 – I ricercatori del Centro di Ricerca Pediatrico Romeo ed Enrica Invernizzi dell’Università degli Studi di Milano, guidati dal Prof. Paolo Fiorina, in collaborazione con il Brigham and Women’s Hospital e la Harvard Medical School, hanno sviluppato una nuova strategia terapeutica per il diabete di tipo 1, basata su nanotecnologie che permette il targeting delle cellule T effettrici contemporaneamente nei linfonodi pancreatici e nel pancreas.

I risultati sono stati appena pubblicati sulla rivista internazionale Advanced Materials, una delle più prestigiose in ambito di scienza dei materiali. I ricercatori hanno sviluppato per la prima volta una nuova e specifica piattaforma basata su nanotecnologie per curare il diabete di tipo 1 che ha come target le HEVs (high endothelial venules) presenti nei linfonodi pancreatici e nel pancreas. L’anticorpo monoclonale anti-CD3 è incapsulato in nanoparticelle la cui superficie è coniugata con un anticorpo che riconosce le HEVs, questo consente il rilascio diretto dell’anti-CD3 mAb sia nei linfonodi pancreatici che nel pancreas. Il trattamento di topi NOD iperglicemici con queste nanoparticelle è risultato in una significativa remissione del diabete di tipo 1 rispetto ai gruppi di controllo.

 “Abbiamo scoperto come nel pancreas di topi NOD e di pazienti con diabete di tipo 1 vi siano HEVs di nuova formazione” afferma Paolo Fiorina, Professore Ordinario di Endocrinologia all’Università Statale di Milano, Direttore del Centro di Ricerca Internazionale sul Diabete di Tipo 1 presso il Centro di Ricerca Pediatrico Romeo ed Enrica Invernizzi, Direttore di Endocrinologia Ospedale Sacco-Fatebenefratelli-Melloni “questo trattamento, che ha come target le HEVs, può essere quindi utilizzato per rilasciare in modo specifico nei linfonodi pancreatici e nel pancreas agenti immunoterapici allo scopo di sopprimere in modo efficace il diabete autoimmune”.

Analizzando in vitro le caratteristiche immunologiche dei linfociti T dei topi NOD iperglicemici trattati con le nanoparticelle, i ricercatori hanno rilevato una riduzione significativa delle cellule T effettrici e una diminuzione nella produzione di citochine pro-infiammatorie.

“Questa piattaforma basata su nanotecnologie, creata in collaborazione con il Brigham and Women’s Hospital e la Harvard Medical School, ci ha permesso di preservare le isole pancreatiche, ridurre le cellule T effettrici, aumentare le cellule T regolatorie e curare il diabete autoimmune in un modello preclinico di diabete di tipo 1” afferma il Prof. Paolo Fiorina.

 Sarà necessario effettuare ulteriori studi ma sicuramente questi dati possono essere un punto di partenza per ottenere un’efficace strategia terapeutica per il trattamento dei pazienti diabetici di tipo 1.

Questo è un altro successo del Centro di Ricerca Pediatrica Romeo ed Enrica Invernizzi che si aggiunge a quelli già recentemente presentati”, commenta il Prof. Gian Vincenzo Zuccotti, Direttore del Centro di Ricerca Pediatrica Romeo ed Enrica Invernizzi. “Questo Centro sta facendo così tanto in termini di ricerca, deve diventare un punto di riferimento per la ricerca scientifica in Italia, un polo all’avanguardia anche per la scoperta di nuove terapie”, continua Zuccotti,senza la collaborazione internazionale tra l’Università di Milano e il Brigham Women’s Hospital Harvard Medical School questo sarebbe stato difficile, impossibile senza il sostegno fondamentale della Fondazione Romeo ed Enrica Invernizzi che ha permesso la costruzione di questo Centro e che ci motiva ogni giorno a lavorare per fare di più in questo campo”.

I coautori dello studio sono Sungwook Jung, Moufida Ben Nasr, Baharak Bahmani, Vera Usuelli, Jing Zhao, Gianmarco Sabiu, Andy Joe Seelam, Said Movahedi Naini, Hari Baskar Balasubramanian, Youngrong Park, Xiaofei Li, Salma Ayman Khalefa, Vivek Kasinath, MacKenzie D. Williams, Ousama Rachid, Yousef Haik, George C. Tsokos, Clive H. Wasserfall, Mark A. Atkinson, Jonathan S. Bromberg, Wei Tao, Paolo Fiorina, Reza Abdi.

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università Statale di Milano

Progetto Cli-DaRe@School: grazie al lavoro di 350 studenti recuperate oltre 4.000 pagine di antichi dati meteorologici italiani

Nell’ambito dei percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, 350 studenti e studentesse delle scuole superiori hanno partecipato al progetto Cli-DaRe@School di AISAM, coordinato da un team interdisciplinare di scienziati, volto a recuperare tramite digitalizzazione l’immenso patrimonio storico italiano di dati pluviometrici e termometrici. Oltre 4.000 le pagine recuperate durante il primo anno.

 Milano, 13 luglio 2023 – Coinvolgere gli studenti per recuperare, analizzare e digitalizzare antichi dati metereologici che altrimenti potrebbero andare perduti: ecco l’obiettivo Cli-DaRe@School, un progetto formativo promosso dall’Associazione Italiana di Scienze dell’Atmosfera e Meteorologia (www.aisam.eu) all’interno di Cli-DaReattività di Citizen Science.

Cli-DaRe@School è stato sviluppato da un team di ricercatori e ricercatrici dell’Università Statale di Milano, dell’Università di Trento, del Politecnico di Milano, dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima ISAC/CNR, di Eurac Research e della Società Meteorologica ItalianaHa coinvolto 350 studenti e studentesse di 10 scuole superiori italiane, nell’ambito delle ore di PCTO (percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento– ex alternanza scuola-lavoro), volta alla digitalizzazione dei dati delle pubblicazioni sui dati mensili di precipitazione e di temperatura: sono stati coinvolti 350 studenti di 10 scuole superiori italiane.

L’Italia dispone infatti di un patrimonio di antichi dati meteorologici di eccezionale valore. Il recupero di questo enorme patrimonio di dati osservativi è in corso da lungo tempo, ma, ancora oggi, una parte consistenze è disponibile solamente su supporto cartaceo: registri osservativi di singoli osservatori, raccolte di dati pubblicate su annali o antichi lavori monografici che avevano l’obiettivo di censire e raccogliere i dati esistenti al momento della loro pubblicazione. Queste ultime fonti, in particolare, sono ricche e importanti per i dati di precipitazione (pioggia, neve, grandine, …). Per questa variabile esistono pubblicazioni che presentano i dati mensili di migliaia di stazioni, raccolti in Italia al 1915; dal 1916 al 1920 e dal 1921 al 1950. Per i dati mensili della temperatura dell’aria invece è disponibile una pubblicazione con i dati del periodo 1926-1955.

I ricercatori e le ricercatrici si sono occupati innanzitutto di individuare, regione per regione, quali fossero i dati da digitalizzare, assegnando poi alle singole classi un set di pagine da digitalizzare (mediamente una dozzina per studente), sotto monitoraggio dei docenti. I dati digitalizzati restituiti sono infine stati sottoposti a minuziosi controlli di qualità, anche grazie al lavoro di tesi di diversi laureandi e laureande dell’Università degli Studi di Milano e dell’Università di Milano-Bicocca. Ogni scuola è stata seguita da un membro del gruppo di lavoro che ha supportato il lavoro dei ragazzi durante l’intera durata del progetto.

Inoltre, per sensibilizzare gli studenti e le studentesse al problema del cambiamento climatico e per avvicinarli alle discipline della scienza dell’atmosfera sono stati organizzati dei seminari a tema. Infine, una volta ultimata l’attività di digitalizzazione, per alcuni studenti che volevano proseguire l’attività formativa sui dati digitalizzati sono stati preparati dei pacchetti di attività, come un tool per il controllo della correttezza delle coordinate di ogni stazione digitalizzata e uno per la verifica della qualità dei dati recuperati.

Il progetto si è chiuso con un evento conclusivo aperto con i saluti del presidente AISAM, Dino Zardi, e del Direttore dell’Agenzia Nazionale per la Meteorologia e la Climatologia Italia Meteo, Carlo Cacciamani. Durante l’evento, alcuni ragazzi e ragazze hanno presentato i loro risultati e mostrato brevi video di loro realizzazione. Nella stessa occasione il gruppo di lavoro ha presentato alcuni risultati del progetto e gli esiti dei questionari di gradimento, rivolti sia ai docenti sia ai ragazzi.

Durante l’evento si sono anche discussi gli aspetti positivi e le potenziali criticità di questo primo anno di progetto, cercando di capire come migliorare per i prossimi anni, perché Cli-DaRe@School verrà riproposto anche nel prossimo anno scolastico con nuove proposte” conclude Maurizio Maugeri, climatologo e referente dell’Università Statale di Milano per il progetto.

Dolomiti Sud Tirolo recuperati antichi dati meteorologici italiani
Progetto Cli-DaRe@School: recuperati antichi dati meteorologici italiani. Dolomiti, Sud Tirolo, nella foto di 🌼Christel🌼(ChiemSeherin)

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università Statale di Milano sul Progetto Cli-DaRe@School di recupero di antichi dati meteorologici italiani

L’impatto della telepsichiatria in Lombardia durante la pandemia

 Uno studio epidemiologico coordinato dall’Università Statale di Milano evidenzia l’implementazione dei servizi di telepsichiatria durante la pandemia, distinguendo la tipologia di disturbi trattata con maggiore frequenza (disturbi alimentari ed ossessivo-compulsivo) e suggerisce lo sviluppo di nuove politiche sanitarie volte ad ottimizzare l’erogazione dei servizi di psichiatria. La pubblicazione su Nature Mental Health.

Milano, 12 luglio 2023. I ricercatori del dipartimento di Scienze della Salute dell’Università Statale di Milano, in collaborazione con i dipartimenti di Salute Mentale e delle Dipendenze dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano e dell’ASST di Lodi, e con la Struttura Salute Mentale, Dipendenze, Disabilità e Sanità Penitenziaria della Regione Lombardia, hanno pubblicato uno studio su Nature Mental Health sull’impatto di strumenti di telepsichiatria. Al progetto hanno collaborato anche docenti di psichiatria dell’Università di Oxford e dei tre poli didattici cittadini della facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Statale di Milano.

È stata utilizzata la banca dati di Regione Lombardia dei servizi di salute mentale territoriali per descrivere la trasformazione degli interventi durante il primo anno pandemico, compresa la progressiva implementazione della telepsichiatria. Sebbene le implicazioni per la salute mentale della crisi pandemica siano oggetto di innumerevoli studi, non era infatti ad oggi disponibile una lettura epidemiologica integrata sulla risposta di un sistema sanitario pubblico esteso come quello lombardo, che copre un bacino di utenza di 10 milioni circa di persone mediante il lavoro di 36 dipartimenti, distribuiti su 12 province.

Rispetto all’anno precedente, nel primo semestre del 2020 si registrava una riduzione nel numero complessivo di prestazioni, e le province con un impatto precoce e maggiore della pandemia mostravano anche un maggior decremento del numero di interventi psichiatrici. Il numero di prestazioni tornava però rapidamente sovrapponibile a quello dell’anno precedente nel secondo semestre 2020, quando si osservava una progressiva integrazione della telepsichiatria nella pratica clinica (sino ad un intervento ogni quattro negli ultimi mesi dell’anno). Questi interventi erano relativamente più utilizzati con utenti donne per tutte le fasce d’età e le diagnosi; in generale, si evidenziava poi una progressiva diminuzione degli interventi effettuati da remoto all’aumentare dell’età, con un nuovo aumento oltre i 65 anni. La telepsichiatria era relativamente più utilizzata in gruppi di utenti con un impatto complessivo minore sulle risorse dei servizi, quali disturbi alimentari ed ossessivo-compulsivo, meno in quelli con maggiore impatto, quali ad esempio i disturbi dello spettro schizofrenico.

I dati internazionali disponibili ad oggi provenivano da singoli siti o da collaborazioni di piccoli gruppi nel contesto di reti assistenziali meno integrate. Oltre a fornire informazioni specifiche sulla risposta dei servizi di salute mentale all’emergenza pandemica, lo studio evidenzia i vantaggi in termini di ricerca dei registri italiani per la salute mentale, che riflettono l’attività di un sistema sanitario pubblico estesamente distribuito ed accessibile, con una rete di servizi ampiamente sovrapponibili tra i centri.

Sebbene le diseguaglianze regionali nell’organizzazione dei servizi e nelle risorse a disposizione limitino l’estensibilità delle osservazioni, i risultati potranno contribuire allo sviluppo di nuove politiche sanitarie volte ad ottimizzare l’erogazione dei servizi, a livello nazionale e in contesti internazionali simili al nostro” conclude Armando D’Agostino, psichiatra dell’Università degli Studi di Milano e dell’Ospedale San Paolo e coordinatore del lavoro di ricerca.

Nonostante l’emergenza relativa alla salute mentale catalizzata dalla pandemia, l’Italia continua infatti ad essere uno dei paesi G7 con minori risorse economiche destinate al settore. La mole di interventi annuali erogati evidenziata dallo studio (circa 1,5 milioni) sembra giustificare un congruo investimento sulle nuove tecnologie, sulla formazione dei lavoratori e sulla ricerca epidemiologica su vasta scala relativa ad efficacia degli interventi e soddisfazione di operatori e utenti.

dottore telepsichiatria Lombardia pandemia
L’impatto della telepsichiatria in Lombardia durante la pandemia. Immagine di Mohamed Hassan

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università Statale di Milano.

Frutta e verdura: dall’acido ellagico, capace di inibire la formazione di biofilm, un aiuto per le infezioni resilienti

Uno studio coordinato dall’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con l’Institute for Research in Biomedicine di Bellinzona, ha scoperto che l’acido ellagico, una sostanza naturale presente in molta frutta e verdura, limita la formazione di biofilm, una “maglia” che protegge i microorganismi da situazioni avverse, aprendo prospettive di ricerca su infezioni resistenti agli antibiotici. La pubblicazione su Pharmaceutics.

acido ellagico biofilm
Nell’immagine, l’acido ellagico è in giallo

Milano 10 luglio 2023 – L’acido ellagico, un polifenolo naturale presente nella frutta e nella verdura come noci, frutti di bosco, lamponi, uva, melagrana, pistacchi e anacardi, è capace di inibire la formazione di biofilm, una “protezione” che permette ai microorganismi, inclusi quelli patogeni, di sopravvivere in situazioni non ottimali.

vegetarianismo disturbi del comportamento alimentare DCA
Foto PublicDomainPictures

Il lavoro, finanziato dal progetto GSA-IDEA (Progetto Grandi Sfide di Ateneo), è stato recentemente pubblicato su Pharmaceutics e ha coinvolto un team di ricercatori dell’Università degli Studi di Milano coordinati da Giovanni Grazioso, docente di Chimica Farmaceutica presso il Dipartimento di Scienze Farmaceutiche, e da Fabio Forlani del Dipartimento di Scienze per gli Alimenti, la Nutrizione e l’Ambiente, in collaborazione con ricercatori svizzeri afferenti all’Institute for Research in Biomedicine, Università della Svizzera Italiana (Bellinzona).

“Il biofilm è uno stato fisiologico dove comunità microbiche pluricellulari sono incorporate in una matrice polimerica extracellulare e che permette ai microorganismi, inclusi quelli patogeni, di tollerare condizioni stressanti legate per esempio alla scarsità di nutrienti, a fenomeni ossidativi, alle difese dell’ospite o alla presenza di antimicrobici come gli antibiotici. Proprio per questa loro resilienza, i biofilm patogeni sono un fattore importante della persistenza di infezioni sia fungine, come la candidosi, che batteriche, come la febbre tifoide e la diarrea emorragica”, spiegano gli scienziati del team.

“La letteratura non chiarisce il meccanismo attraverso il quale l’acido ellagico agisce come agente antibiofilm ma, attraverso studi computazionali e prove sperimentali microbiologiche, biofisiche e biochimiche, abbiamo dimostrato che l’attività microbiologica del polifenolo dipende dalla sua interazione con WrbA, una proteina enzimatica coinvolta nella formazione del biofilm batterico. Dallo studio è emerso che l’acido ellagico altera l’omeostasi redox mediata da WrbA, attraverso l’inibizione della sua funzione enzimatica”, continuano gli autori.

Tali evidenze forniscono una solida base per future ricerche che esploreranno nuove strategie di lotta contro biofilm microbici patogeni attraverso l’utilizzo potenziale dell’acido ellagico e di nuove molecole naturali calibrate sul nuovo bersaglio proteico, con l’obiettivo di una mitigazione della proliferazione di batteri resistenti agli antibiotici.

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa dell’Università Statale di Milano

Malattie genetiche rare, parte la prima ricerca italiana sulla sindrome di Kleefstra

 Il progetto “Drop by drop” punta a studiare le alterazioni genetiche alla base della malattia, testando alcuni farmaci in laboratorio. La presentazione della ricerca (kick-off meeting) ha riunito i ricercatori dei tre partner Policlinico di Milano, Università degli Studi di Milano ed ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, e i rappresentanti dell’Associazione Italiana Sindrome di Kleefstra. Il finanziamento della Fondazione Regionale per la Ricerca Biomedica è di oltre 1 milione di euro.

Bergamo, 30 maggio 2023 – È stato presentato martedì 30 maggio all’ospedale Papa Giovanni XXIII un progetto di ricerca che punta a nuove conoscenze, anche di carattere terapeutico, sulla sindrome di Kleefstra, malattia genetica rara che si manifesta fin dall’infanzia con ritardo nello sviluppo psicomotorio, disabilità intellettiva, riduzione del tono muscolare, associati spesso ad anomalie del comportamento e neurologiche, epilessia, tratti autistici, difetti congeniti cardiaci e renali.

Obiettivo del progetto è anzitutto quello di costruire un registro ufficiale italiano per questa malattia, che resterà a disposizione dell’Associazione Italiana Sindrome di Kleefstra e garantirà una migliore conoscenza delle caratteristiche della condizione, per una migliore diagnosi, assistenza e per lo sviluppo di progetti futuri. Sarà poi creata una biobanca delle linee cellulari a scopo di ricerca, insieme a una “mappatura” delle mutazioni dei geni responsabili della sindrome in ciascun paziente. Le ricercatrici infine testeranno in laboratorio, attraverso modelli cellulari in vitro (organoidi), i possibili effetti benefici di molecole selezionate. Si punta a capire come una particolare classe di molecole possa ripristinare la corretta conformazione della cromatina che risulta alterata nella sindrome di Kleefstra e in altre 80 condizioni circa (cromatinopatie) che condividono alcune manifestazioni tipiche con la sindrome di Kleefstra, come disabilità intellettiva e anomalie del neurosviluppo.

Uno dei fattori che fa la differenza sul fronte delle malattie rare è la capacità di mettere in rete competenze e conoscenze. Il progetto ha tra i suoi punti di forza la complementarietà, dal punto di vista dell’approccio alla genetica, dei tre centri clinici e di ricerca lombardi partner del progetto. Donatella Milani, medico genetista del Policlinico di Milano ha una forte competenza nell’ambito della definizione clinica e della gestione di condizioni sindromiche rare, in particolare afferenti ai disturbi del neurosviluppo. Il gruppo dell’Università Statale di Milano, con Valentina Massa, docente di Biologia Applicata e Cristina Gervasini, docente di Genetica Medica, entrambe del Dipartimento di Scienze della Salute, si occuperà dello sviluppo e utilizzo di modelli cellulari 2D e 3D (organoidi). L’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo è uno dei centri di riferimento in Italia per la diagnosi genetica delle malattie pediatriche rare e ultrarare.

“Indagare una malattia rara è sempre una sfida – ha spiegato Laura Pezzoli biologa genetista del Laboratorio di Genetica Medica dell’ASST Papa Giovanni XXIII e principal investigator del progetto -. Ogni piccolo passo in avanti rappresenta un progresso importante sia per i genitori che hanno già ricevuto una diagnosi per il figlio, sia per le famiglie ancora in cerca di un corretto inquadramento clinico per la condizione del proprio bambino”.

Scoperta recentemente dalla ricercatrice olandese Tjitske Kleefstra, da cui ha preso il nome, questa malattia genetica rara conta pochissime diagnosi. Si calcola siano tra 1.000 e 2.000 nel mondo, 58 delle quali in Italia.

Il progetto è stato accolto con entusiasmo da Mariella Priano, Presidente dell’Associazione Italiana Sindrome di Kleefstra“A nome dei bimbi e ragazzi senza voce ringraziamo la Fondazione Regionale per la Ricerca Biomedica e Regione Lombardia per il finanziamento, le ricercatrici per aver promosso la prima ricerca italiana della Sindrome di Kleefstra, sindrome rara e ancora poco conosciuta ed il genetista prof. Romano Tenconi che ci ha messo in contatto con loro. Sapere che un giorno l’impegno e la perseveranza delle ricercatrici potrà condurre alla tanto auspicata ‘pillola magica’ costituisce un’utile iniezione di fiducia e speranza per sopportare la sofferenza dei nostri figli”.

È proprio ispirandosi al motto dell’associazione che i ricercatori hanno deciso di chiamare questo progetto “Drop by drop”, una sintesi perfetta per rendere l’immagine del lavoro metodico con cui, a piccoli passi a volte impercettibili – goccia dopo goccia appunto – vengono indagate le malattie genetiche rare.

“Drop by drop” ha ricevuto un importante finanziamento di 1.157.500 euro da FRRB- Fondazione Regionale per la Ricerca Biomedica, attraverso il bando “Unmet Medical Needs” 2022.

“FRRB è lieta di finanziare un progetto che risponde pienamente ad uno degli obiettivi principali del Bando Unmet Medical Needs: la necessità di sviluppare terapie per il trattamento di malattie rare, tramite un approccio di precisione basato su caratteristiche genotipiche e fenotipiche dei pazienti, al fine di migliorare la conoscenza e la diagnosi di tali malattie e di sviluppare una cura” afferma Veronica Comi, Direttore Generale della Fondazione Regionale per la Ricerca Biomedica. “Il progetto sarà realizzato da un team multidisciplinare e complementare, che con le proprie competenze, potrà dare slancio alla caratterizzazione della sindrome di Kleefstra e di altre cromatinopatie e allo sviluppo di approcci terapeutici. Inoltre, il progetto sarà coordinato da 3 donne; ciò conferma l’efficacia delle misure implementate da FRRB nei propri bandi per promuovere la partecipazione e affermare la carriera di responsabili scientifici di genere femminile nella ricerca biomedica” conclude Comi.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

TUMORE AL SENO: IDENTIFICATO UN NUOVO MECCANISMO MOLECOLARE ALLA BASE DELLE FORME PIÙ AGGRESSIVE

Pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature Communications i risultati di una ricerca coordinata da Università di Torino, Università Statale di Milano, Istituto Europeo di Oncologia (IEO) e sostenuta da Fondazione AIRC. Il meccanismo molecolare riguarda la proteina p140Cap che inibisce a monte l’attività della beta-Catenina, una potente proteina coinvolta nella crescita tumorale.

MilanoTorino, 11 maggio 2023. Una nuova chiave di lettura per comprendere i tumori della mammella più aggressivi nasce dagli studi condotti in collaborazione tra due gruppi di scienziati di Milano e Torino. Hanno coordinato la ricerca la professoressa Paola Defilippi, ordinario di Biologia applicata e Responsabile del Laboratorio di ricerca “Piattaforme di segnalazione nei tumori” presso il Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, e il professor Salvatore Pece, ordinario di Patologia generale all’Università Statale di Milano e Direttore del Laboratorio “Tumori Ormono-Dipendenti e Patobiologia delle Cellule Staminali” dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO). I risultati dello studio, sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, sono appena stati pubblicati sulla rivista Nature Communications.

La ricerca ha portato alla scoperta di un meccanismo molecolare con cui i tumori mammari si arricchiscono in cellule staminali tumorali. A loro volta queste cellule, da un lato, funzionano da forza motrice della crescita della massa tumorale e, dall’altro lato, sopprimono la risposta immunitaria naturale che, a livello del microambiente circostante il tumore, dovrebbe invece contrastare la crescita del cancro.

All’origine dell’intero processo c’è verosimilmente p140Cap, una proteina in grado di inibire la crescita tumorale. La sua assenza, che caratterizza almeno il 40-50% di tutti i casi di tumori mammari umani, determina una cascata di eventi che portano all’attivazione incontrollata del gene responsabile della sintesi di beta-Catenina, una potente proteina coinvolta nella crescita tumorale. Una volta attivata, la beta-Catenina provoca l’espansione del compartimento delle cellule staminali tumorali. A loro volta queste cellule rilasciano citochine anti-infiammatorie, inibendo così direttamente la risposta immunitaria anti-tumorale e creando un ambiente favorevole all’ulteriore crescita del tumore.

“Dunque p140Cap – sottolinea la professoressa Paola Defilippi – si comporta come una specie di interruttore molecolare che, tramite l’inibizione di beta-Catenina e la conseguente riduzione del compartimento delle cellule staminali tumorali, esercita una duplice funzione anti-tumorale: inibisce l’espansione della massa tumorale e sostiene una efficiente risposta immunitaria anti-tumorale nel microambiente circostante”.

“Attraverso studi clinici retrospettivi in coorti di pazienti – continua il professor Salvatore Pece – abbiamo dimostrato una chiara correlazione tra bassi livelli della proteina p140Cap nei tumori mammari più aggressivi e ridotta presenza di cellule del sistema immunitario, in particolare linfociti, nelle aree circostanti il tumore. Questi dati suggeriscono che p140Cap potrebbe essere utilizzato come un utile biomarcatore nella pratica clinica, per identificare i tumori mammari con alterazioni della risposta immunitaria anti-tumorale”.

Spiega Vincenzo Salemme, ricercatore del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino e primo autore dell’articolo:

“Il meccanismo molecolare con cui p140Cap inibisce a monte l’attività della beta-Catenina dipende dal fatto che la prima proteina è parte di un complesso macchinario multi-proteico deputato a distruggere la stessa beta-Catenina, che così non si accumula eccessivamente all’interno della cellula. In assenza di p140Cap questa funzione è alterata, come accade in alcuni tumori mammari, dove aumentano di conseguenza sia i livelli di beta-Catenina, sia la sua azione capace di influire sull’espansione delle cellule staminali tumorali”.

Continua la professoressa Paola Defilippi“Nel corso degli ultimi anni è emerso in modo chiaro che tra i principali responsabili all’origine della formazione e della continua crescita dei tumori ci sono le cellule staminali tumorali. Si tratta di cellule dotate di capacità illimitata di auto-rinnovamento e in grado di sostenere nel tempo la crescita della massa tumorale. In nostri precedenti studi avevamo già messo in luce il ruolo inibitore di p140Cap sulla crescita tumorale e stabilito che la perdita di questa proteina è legata a una maggiore aggressività biologica e a un decorso clinico più sfavorevole di alcuni tipi di tumori mammari. Non avevamo però ancora una completa comprensione del meccanismo d’azione specifico e della varietà di conseguenze funzionali legate alla perdita di p140Cap sulla crescita tumorale. Ora, attraverso questi studi sappiamo che questa funzione dipende da un’azione diretta di p140Cap sull’attività di beta-Catenina. Inoltre, grazie ai risultati ottenuti sia in topi di laboratorio con tumore mammario, sia in campioni ottenuti da pazienti, abbiamo compreso che la presenza di p140Cap è fondamentale. Infatti questa proteina, inibendo le cellule staminali tumorali, da un lato blocca direttamente la crescita del tumore e dall’altro lato permette una efficiente risposta immune anti-tumorale nel microambiente circostante il tumore stesso”.

“Sappiamo inoltre – aggiunge la professoressa Defilippi – che possiamo inibire l’azione tumorigenica delle cellule staminali tumorali e, al contempo, ripristinare una efficiente risposta immunitaria anti-tumorale nei tessuti circostanti la neoplasia. Ciò è possibile simulando la funzione di p140Cap all’interno del macchinario di distruzione della beta-Catenina, attraverso l’utilizzo di farmaci al momento disponibili solo per uso sperimentale”.

“I risultati dei nostri studi – sottolinea il professor Pece – si collocano nella prospettiva di alcuni tra i più importanti concetti emersi nella ricerca oncologica degli ultimi anni, nel tentativo di spiegare l’aggressività biologica e clinica dei tumori, in particolare di quelli mammari. Sappiamo oggi che i tumori più aggressivi e con decorso clinico più sfavorevole sono quelli arricchiti in cellule staminali tumorali, oppure quelli in grado di sfuggire alla risposta immunitaria naturale, rendendo inefficienti i meccanismi di barriera anti-tumorale esercitati dalle cellule del sistema immunitario. La nostra scoperta, dell’esistenza di un nuovo circuito molecolare p140Cap/beta-Catenina, apre a una prospettiva concreta per la stratificazione a fini terapeutici delle pazienti con tumore mammario che hanno perduto p140Cap. Tale perdita è infatti alla base dell’acquisizione contemporanea di entrambe queste caratteristiche aggressive della biologia dei tumori mammari. Grazie a questi risultati le pazienti potrebbero beneficiare in futuro di nuove terapie per colpire le cellule staminali tumorali e ripristinare una efficiente risposta immunitaria contro il cancro. Terapie di questo tipo sono oggi l’obiettivo delle principali linee di ricerca per lo sviluppo di nuovi farmaci in oncologia”.

“Questo studio rappresenta per noi motivo di grande soddisfazione – conclude il professor Pece – non solo per la sua valenza scientifica ma anche perché dimostra l’importanza dello sforzo cooperativo tra gruppi di ricerca che fondono differenti competenze scientifiche e piattaforme tecnologiche per far avanzare la conoscenza della biologia dei tumori mammari e aprire nuove prospettive terapeutiche per le pazienti”.

tumore al seno meccanismo molecolare p140Cap beta-Catenina
Identificato nuovo meccanismo molecolare alla base delle forme più aggressive di tumore al seno. Foto di Pexels

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Il segreto per sconfiggere Alzheimer e Parkinson nascosto nella laguna di Venezia? Un nuovo studio sul botrillo, pubblicato su Cells, per comprendere le malattie neurodegenerative

Padova – Milano, 20 aprile 2023 – Ad oggi, non conosciamo ancora quali siano le cause di malattie come l’Alzheimer o la Malattia di Parkinson; di conseguenza, le terapie a disposizione non sono purtroppo in grado di arrestare o rallentare la patologia. Ciò vale per tutte le cosiddette “malattie neurodegenerative”, che comprendono anche nomi noti, quali la Sclerosi Laterale Amiotrofica, e meno noti come la Demenza o Sindrome Fronto-Temporale (FTD).

botrillo (Botryllus schlosseri) per comprendere le malattie neurodegenerative
Nuovo studio sul botrillo (Botryllus schlosseri) per comprendere le malattie neurodegenerative. Foto di Géry PARENT, in pubblico dominio

Ma un inatteso aiuto potrebbe arrivare da un piccolo animale marino, l’invertebrato di nome botrilloun animaletto che cresce e si riproduce a basse profondità in mari quali il Mediterraneo e, in particolare in zone ricche in nutrienti e calde dell’Adriatico, come la Laguna di Venezia. Si tratta di un essere vivente molto semplice che presenta al suo interno anche un cervello rudimentale, costituito da poco meno di un migliaio di neuroni. Tuttavia tale organismo appartiene al gruppo di animali considerati i parenti più prossimi ai vertebrati (il gruppo a cui anche l’uomo appartiene) e, anche per tale motivo, i ricercatori lo stanno studiando da tempo.

Team internazionale di ricercatori  – Università di Stanford, California (dr.ssa Chiara Anselmi) e Università Statale di Milano (proff. Alberto Priori e Tommaso Bocci) – coordinato dalla prof.ssa Lucia Manni del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova ha pubblicato lo studio Multiple Forms of Neural Cell Death in the Cyclical Brain Degeneration of A Colonial Chordate sulla rivista scientifica «Cells» che evidenzia come questo invertebrato contenga tutti i geni coinvolti nelle malattie neurodegenerative umane e, durante il suo ciclo vitale, le sue cellule nervose invecchino esattamente come nell’uomo.

“Il botrillo, che abbiamo studiato attraverso microscopia elettronica e analisi dell’espressione genica, va incontro naturalmente a neurodegenerazione secondo modalità che potrebbero aiutare la ricerca nell’uomo a trovare strategie, o farmaci, per fermare gravi malattie neurodegenerative”, spiega la prof.ssa Lucia Manni, autore referente dello studio. “In particolare, i neuroni del botrillo mostrano diversi tipi di morte cellulare, così come avviene nelle malattie neurodegenerative umane. Inoltre, geni criticamente coinvolti in queste malattie sono espressi nelle diverse fasi del ciclo vitale del botrillo secondo tempistiche che ricordano molto il progredire delle malattie nell’uomo. Per esempio, geni tipici dei disordini conformazionali, come l’Alzheimer e il Parkinson, sono espressi nel botrillo in tempi che richiamano nell’uomo il passaggio della malattia da una fase di degenerazione pre-clinica alla comparsa di sindromi specifiche nell’uomo”.

“Questi risultati potrebbero aprire inediti scenari sia nell’identificazione di un minimo comune denominatore fra patologie umane molto dissimili fra di loro, sia nell’impiego di nuove metodiche di stimolazione elettrica cerebrale non invasiva per la prevenzione e la cura della neurodegenerazione”, dice il prof. Alberto Priori del Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università Statale di Milano e co-autore della ricerca.

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Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.