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Università Sapienza di Roma

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Un prelievo di sangue per identificare specifiche alterazioni cerebrali alla base della sindrome di Down

Un gruppo di ricercatori della Sapienza, in collaborazione con l’ospedale pediatrico Bambino Gesù e la Fondazione Policlinico Gemelli, ha evidenziato per la prima volta la possibilità di identificare, con un semplice prelievo di sangue, le specifiche alterazioni del segnale dell’insulina nel cervello dei bambini con sindrome di Down, alla base della loro disabilità intellettiva. Lo studio è stato pubblicato su Alzheimer’s & Dementia: The Journal of the Alzheimer’s Association.

prelievo di sangue Sindrome di Down trisomia 21
Cariotipo esemplificativo per la trisomia 21. Immagine U.S. Department of Energy Human Genome Program in pubblico dominio

La sindrome di Down è la più comune causa genetica di disabilità intellettiva ed è dovuta alla presenza, parziale o totale, di un cromosoma 21 in sovrannumero (la cosiddetta “trisomia 21”). Si stima che l’attuale prevalenza nella popolazione generale vari tra 1:1000 e 1:2.000 nati. La disabilità intellettiva è costante, ma di grado variabile. Inoltre, l’evoluzione della sindrome di Down può essere condizionata da un invecchiamento precoce e dalla comparsa della malattia di Alzheimer.

È noto il ruolo svolto dal segnale dell’insulina nel cervello che, in particolare, risulta fondamentale rispetto a funzioni cognitive quali memoria e apprendimento. Diversi studi precedenti hanno infatti evidenziato come alterazioni di questo segnale a livello del cervello, che vanno sotto il nome di insulino-resistenza cerebrale, siano alla base del declino cognitivo sia durante il normale processo di invecchiamento che durante lo sviluppo di malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer, caratterizzato proprio dalla comparsa della demenza.

Un gruppo di ricercatori coordinati da Eugenio Barone e Marzia Perluigi del Dipartimento di Scienze biochimiche A. Rossi Fanelli della Sapienza, in collaborazione con il Centro Sindrome di Down dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù – che si prende cura di circa 800 bambini e ragazzi con sindrome di Down e che ha contribuito con la sua ampia casistica a reclutare i ragazzi coinvolti nello studio – e la Fondazione Policlinico Gemelli di Roma, ha evidenziato per la prima volta che le alterazioni del segnale dell’insulina a livello cerebrale si verificano molto presto nei bambini e negli adolescenti con sindrome di Down. Queste alterazioni dell’età pediatrica, indipendentemente dalla trisomia 21, contribuiscono in maniera importante alla disabilità intellettiva che presentano i bambini affetti da sindrome di Down. Inoltre, i ricercatori della Sapienza hanno messo in luce la possibilità di identificare questo tipo di alterazioni attraverso un semplice prelievo di sangue. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Alzheimer’s & Dementia: The Journal of the Alzheimer’s Association.

“Quello che pensiamo – spiega Eugenio Barone della Sapienza – è che il perdurare di questo tipo di alterazioni possa facilitare lo sviluppo precoce della malattia di Alzheimer in queste persone”.

“Questo lavoro rappresenta una scoperta importante principalmente per tre motivi – chiarisce Marzia Perluigi della Sapienza. “Il primo è l’aver dimostrato che queste alterazioni si verificano molto presto, già nei bambini con Sindrome di Down”; il secondo riguarda il metodo: riuscire con un prelievo di sangue a risalire ad alterazioni cerebrali per le quali oggi non abbiamo altri strumenti diagnostici in grado di identificarle”.

“Il terzo motivo – conclude Barone – sta nel fatto che identificare quanto prima le alterazioni che si verificano nel cervello, soprattutto nei bambini con sindrome di Down, permetterà di studiare in maniera ancora più approfondita le cause della loro disabilità intellettiva, aprendo di conseguenza a possibili trattamenti terapeutici in grado di migliorarne la qualità di vita”.

Riferimenti:

Aberrant crosstalk between insulin signaling and mTOR in young Down syndrome individuals revealed by neuronal-derived extracellular vesicles – Marzia Perluigi, Federico Marini, Giuseppe Familiari, Emanuele Marzetti, Anna Picca, Elita Montanari, Riccardo Calvani, Roberto Matassa, Antonella Tramutola, Fabio Di Domenico, D. Allan Butterfield, Alberto Villani, Kenneth J. Oh, Emanuele Marzetti, Diletta Valentini, Eugenio Barone – Alzheimer’s & Dementia: The Journal of the Alzheimer’s Association DOI: 10.1002/alz.12499

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma.

I mammiferi invasivi minacciano la biodiversità nel Vecchio Continente

Grido d’allarme dei ricercatori internazionali sulla crescente presenza in Europa di mammiferi introdotti da altri continenti, quali il visone, la nutria e lo scoiattolo. Le specie invasive rappresentano un rischio per la sopravvivenza di numerose specie native e anche per la salute dell’uomo.

Un gruppo congiunto di ricercatori internazionali provenienti da Italia, Austria e Portogallo ha recentemente messo in luce nella review “Introduction, spread, and impacts of invasive alien mammals in Europe”, pubblicata su Mammal Review, che i mammiferi alieni invasivi stanno espandendo i loro areali in Europa, minacciando la biodiversità nativa.

La presenza di queste specie, introdotte – in territori diversi dal loro habitat naturale – intenzionalmente come “animali da compagnia o da pelliccia” o accidentalmente, ha conseguenze negative, non solo sull’ambiente, ma anche sulla potenziale trasmissione di patogeni, inclusi quelli zoonotici che possono essere trasmessi dagli animali all’uomo. Il team di ricerca ha evidenziato che questo rischio è associabile all’81% delle specie aliene invasive studiate.

Il lavoro, coordinato da ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e dell’Università di Vienna, in collaborazione con l’Università di Lisbona, ha evidenziato come, nonostante l’implementazione di appositi accordi internazionali, in Europa le segnalazioni di mammiferi alieni invasivi siano in forte aumento a scapito delle specie autoctone. La ricerca consiste in una review sistematica della letteratura finora pubblicata su 16 specie aliene invasive, integrata con informazioni aggiornate ed estratte dai database globali.

L’Unione Europea per far fronte al fenomeno, ha adottato nel 2014 il Regolamento n. 1143/2014 con l’obiettivo di controllare o eradicare le specie aliene invasive prioritarie e prevenirne ulteriori introduzioni e insediamenti. Il cuore del regolamento è la Union List, una lista di specie verso cui indirizzare misure di prevenzione, gestione, individuazione precoce ed eradicazione veloce. Nonostante l’interesse comunitario al problema, nessuno studio finora aveva affrontato specificamente l’ecologia dei mammiferi alieni invasivi della lista.

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Il cane procione (Nyctereutes procyonoides). Foto di Piotr Pkuczynski

Secondo gli autori della Review, le specie invasive più diffuse in Europa sono il cane procione (Nyctereutes procyonoides) originario della Siberia orientale, il topo muschiato (Ondatra zibethicus), il visone (Neovison vison) e il procione (Procyon lotor), queste ultime di origine nordamericana, che hanno invaso almeno 19 paesi e sono presenti da 90 anni nel territorio europeo. L’ampia distribuzione di questi mammiferi può essere attribuita a diversi fattori, tra cui adattabilità, capacità di colonizzare ambienti diversi e grande capacità riproduttiva.

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I mammiferi invasivi minacciano la biodiversità nel Vecchio Continente. Il visone americano (Neovison vison). Foto di Ryzhkov Sergey

Inoltre è stato visto come tutte e cinque le specie di Sciuridi (la famiglia di roditori che comprende, tra gli altri, marmotte, petauri e scoiattoli arboricoli) sono state introdotte in Europa almeno una volta come “animali da compagnia” o per svago: vengono spesso rilasciate illegalmente nei parchi urbani quando non si è più disposti a tenerle, oppure a scopo ornamentale, sebbene tale attività, grazie alle campagne di sensibilizzazione, stia cadendo in disuso.

Altre specie come la nutria (Myocastor coypus), il procione o il visone americano sono state, invece, ripetutamente introdotte per essere allevate come animali da pelliccia: le fughe dagli allevamenti, frequenti, non sempre accidentali e ripetute negli anni, hanno permesso che si stabilissero vere e proprie popolazioni in natura.

“Nonostante negli ultimi 50 anni si sia registrata una diminuzione nelle nuove introduzioni di mammiferi alieni – spiega Lisa Tedeschi della Sapienza, prima autrice dello studio – questi continuano a espandere i loro areali in Europa, aiutati dal rilascio illegale di individui in natura, minacciando gravemente la biodiversità nativa”.

Un altro aspetto importante riguarda il coinvolgimento delle specie studiate nei cicli di trasmissione di patogeni zoonotici: alcune malattie infettive associate a mammiferi invasivi (come echinococcosi, toxoplasmosi e bailisascariasi) possono minacciare la salute umana. Basti pensare agli outbreaks del virus SARS-CoV-2 registrati negli allevamenti di visoni americani di Paesi Bassi e Danimarca nel 2020, nonostante non sia ancora chiaro il ruolo epidemiologico dei visoni (e di altri mammiferi invasivi) nel ciclo del virus.

Oltretutto, il visone americano esercita un effetto negativo anche attraverso la predazione su altre specie, come l’arvicola eurasiatica (Arvicola amphibius). Anche il patrimonio genetico delle specie autoctone può essere minacciato dai mammiferi invasivi, attraverso l’ibridazione (cioè l’incrocio tra specie animali diverse): nel Regno Unito, per esempio, il cervo sika (Cervus nippon) sta mettendo a rischio l’integrità genetica della sottospecie scozzese di cervo rosso (Cervus elaphus scoticus).

“I mammiferi invasivi possono contribuire all’estinzione delle specie autoctone attraverso diversi meccanismi, tra cui competizione, predazione e trasmissione di malattie – dichiara Carlo Rondinini della Sapienza, coordinatore del lavoro insieme a Franz Essl dell’Università di Vienna. “Lo scoiattolo rosso eurasiatico (Sciurus vulgaris), per esempio, in Italia si è estinto in più della metà del suo areale ed è stato sostituito dallo scoiattolo grigio orientale (Sciurus carolinensis), mentre il visone americano ha colonizzato l’area occupata dal visone europeo (Mustela lutreola) confinando questa specie nativa, nonchè in grave pericolo di estinzione, in poche aree della Spagna”.

Poiché l’eradicazione di mammiferi alieni che hanno una così ampia distribuzione è difficile da ottenere, sarebbe opportuno invece gestire in maniera ottimale le popolazioni delle specie che sono diventate invasive e che potrebbero essere problematiche.

“In questo contesto – conclude Lisa Tedeschi – l’identificazione di popolazioni problematiche o di aree più invase di altre può aiutare a mitigare gli impatti futuri”.

Riferimenti:

Introduction, spread, and impacts of invasive alien mammal species in Europe – Tedeschi L, Biancolini D, Capinha C, Rondinini C, Essl F.  Mammal Review  https://doi.org/10.1111/mam.12277

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

La iena gigante che non ha resistito ai cambiamenti climatici 
Pachycrocuta brevirostris, la iena gigante dal muso corto diffusa nel Vecchio Mondo durante il Pleistocene, si è estinta in Europa circa 800 mila anni fa a seguito di cambiamenti climatici e ambientali e non a causa della competizione con altre specie che si diffusero nello stesso periodo. A svelarlo un nuovo studio del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza, pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews.

Un super-predatore un tempo popolava Europa, Asia e Africa, la iena gigante dal muso corto Pachycrocuta brevirostris. Con un peso probabilmente superiore ai 100 chilogrammi, fu la iena più grande mai esistita. Diffusasi in Europa circa due milioni di anni fa, fu uno dei predatori più temibili che si trovarono ad affrontare le prime popolazioni di ominini avventuratesi fuori dall’Africa; sebbene il ruolo diretto delle iene come concorrenti ecologici degli ominini del Pleistocene venga spesso enfatizzato, esse erano comunque una componente unica della fauna incontrata da queste popolazioni.

Pachycrocuta brevirostris iena gigante dal muso corto
Pachycrocuta brevirostris, la iena gigante dal muso corto che non ha resistito ai cambiamenti climatici e ambientali

Le iene sono comunemente note per la loro abilità di rompere le ossa e cibarsi del loro contenuto, e Pachycrocuta brevirostris si era ben adattata a questa abitudine alimentare. La iena gigante era anche in grado di accumulare ossa, come oggi testimoniano alcuni siti che rappresentano un vero tesoro per i paleontologi. Durante il Pleistocene, gli ominini erano l’unico altro gruppo capace di sfruttare le ossa come risorsa alimentare, con l’ausilio di strumenti litici per romperle. Per questo motivo, la possibile competizione di queste popolazioni con la iena gigante suscita un grande interesse tra i ricercatori. Eppure, il motivo per cui la specie si estinse e la tempistica di questo evento in Europa rimanevano ancora avvolti nell’incertezza.

Un nuovo studio, condotto da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra di Sapienza e pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews, ha riconsiderato i fossili di Pachycrocuta brevirostris e di altre iene che si diffusero in Europa nel Pleistocene, rivelando che la iena gigante dal muso corto scomparve dall’Europa circa 800 mila anni fa, probabilmente a seguito di cambiamenti climatici e ambientali e non a causa della competizione con altre specie che si diffusero nello stesso periodo.

Pachycrocuta brevirostris, Crocuta crocuta e Hyaena prisca

Studi precedenti avevano infatti ipotizzato che la competizione generata dall’arrivo di Crocuta crocuta, l’attuale iena macchiata, potesse aver giocato un ruolo nell’estinzione di Pachycrocuta brevirostris. Tale ipotesi sarebbe supportata dalla coesistenza delle due specie in alcune località dove la iena gigante sopravvisse più a lungo. Tuttavia, i risultati di questa nuova ricerca vanno nella direzione opposta, escludendo l’ipotesi della compresenza e della competizione diretta tra queste iene.

“La scomparsa della iena gigante dall’Europa circa 800 mila anni fa – commenta Alessio Iannucci di Sapienza, primo nome dello studio – è pressappoco coincidente con l’arrivo della iena macchiata, Crocuta crocuta, e di un’altra specie meno nota, la “Hyaena” prisca. Tuttavia, queste specie furono in grado di diffondersi in Europa solo dopo il declino della iena gigante e non contribuirono alla sua estinzione”.

La iena gigante dunque, un tempo diffusa in tutto il continente, non fu in grado di far fronte ai cambiamenti climatici e ambientali che avvennero durante la transizione tra Pleistocene Inferiore e Pleistocene Medio, la cosiddetta “Early–Middle Pleistocene Transition”. Si tratta di un periodo che vide acuirsi l’intensità delle fluttuazioni tra intervalli glaciali e interglaciali, dando poi inizio all’era glaciale. L’avvicendamento tra Pachycrocuta brevirostris e le altre iene fu uno degli eventi più caratteristici del rinnovamento faunistico avvenuto in quel momento: diversi carnivori specializzati, come le tigri dai denti a sciabola, andarono in declino o si estinsero, mentre si diffusero specie nuove e più adattabili. Tra queste si ricordano le linee evolutive dei moderni cervi, cinghiali, daini e lupi, così come popolazioni umane in grado di produrre strumenti litici bifacciali (come cunei, o asce da pugno).

“Le specie meglio adattate a particolari ambienti o a strategie alimentari, come Pachycrocuta brevirostris, sono quelle più a rischio, ma anche quelle che si sono evolute facendo fronte alle fluttuazioni climatiche dell’ultimo milione di anni potrebbero non essere in grado di adattarsi ai rapidi cambiamenti causati dall’attività umana – conclude Raffaele Sardella di Sapienza. “Studiare la risposta degli ecosistemi del passato è cruciale per interpretare criticamente i cambiamenti climatici che osserviamo attualmente”.

 

Riferimenti:

The extinction of the giant hyena Pachycrocuta brevirostris and a reappraisal of the Epivillafranchian and Galerian Hyaenidae in Europe: faunal turnover during the Early-Middle Pleistocene Transition – Alessio Iannucci, Beniamino Mecozzi, Raffaele Sardella, Dawid Adam Iurino – Quaternary Science Reviews 2021, 272:107240. https://doi.org/10.1016/j.quascirev.2021.107240

 

Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

La Grande macchia rossa di Giove: una tempesta anticiclonica dalla profondità “contenuta”

I nuovi risultati delle misurazioni di gravità del pianeta ottenute dalla sonda Juno rivelano, in uno studio pubblicato su Science, che la grande macchia rossa, pur molto estesa, non è profonda come si immaginava. Questa scoperta potrebbe spiegare i motivi della sua evoluzione e forse della possibile scomparsa.

grande macchia rossa Giove
L’animazione simula il moto delle nuvole della Grande Macchia Rossa di Giove. E’ stata creata applicando il modello del movimento dei venti ad un mosaico di immagini scattate dallo strumento. Credits: NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS/Gerald Eichstadt/Justin Cowart

Giove è il più grande pianeta del sistema solare, con un raggio equatoriale di 71.492 km, ed è composto principalmente da idrogeno ed elio e per questo viene definito “gigante gassoso”.

La caratteristica forse più iconica del pianeta è la Grande macchia rossa, una tempesta anticiclonica scoperta probabilmente da Giandomenico Cassini nel 1665. Oggi questa assomiglia a un ovale di dimensioni approssimativamente pari a 16000 x 12000 km, che ne fanno la più grande tempesta del sistema solare, seppur negli ultimi 100 anni, per cause ancora ignote, si sia ridotta considerevolmente. La Grande macchia rossa porta con sé ancora molti interrogativi: uno di questi riguarda la profondità con cui questa tempesta si inabissa dentro Giove.

A questo come ad altri quesiti sulla dimensione del nucleo ha risposto la sonda Juno, realizzata dalla NASA con un importante contributo italiano.

Rappresentazione artistica di Juno in orbita attorno a Giove. Crediti: Nasa/JPL-Caltech

Durante due sorvoli ravvicinati di Giove (febbraio e luglio 2019), la missione Juno della NASA (in orbita intorno a Giove dal 5 luglio 2016 per studiare i meccanismi di formazione, la struttura interna, la magnetosfera e l’atmosfera del gigante gassoso) ha osservato per la prima volta da vicino la Grande macchia rossa. Poiché l’interno del pianeta non è direttamente osservabile, per comprenderne la struttura più intima si ricorre a misurazioni accurate del campo gravitazionale, che è espressione della distribuzione della massa all’interno del pianeta.

grande macchia rossa Giove
Geometria delle osservazioni di Juno della Grande Macchia Rossa (GRS). Il campo di velocità della Grande Macchia Rossa (frecce nere) e le tracce a terra di Juno durante PJ18 e PJ21 (linee colorate) sono sovrimposte a una immagine della Grande Macchia Rossa effettuata da JunoCam durante PJ21. La quota della sonda durante il passaggio ravvicinato con la Grande Macchia Rossa (latitudine 20°S) era, rispettivamente per PJ18 e PJ21, di 13,000 km e 19,000 km, con scostamenti longitudinali di 11° e 2° 

Le misure del campo gravitazionale del pianeta avevano mostrato che i forti venti est-ovest (con velocità fino a 360 km/h), visibili tracciando il moto delle nubi, si spingono alla profondità di circa 3000 km.

Gli strati inferiori della Grande Macchia Rossa di Giove sono stati osservati da Juno anche usando i dati del radiometro a microonde (MWR). Ognuno dei sei canali dello strumento osserva diverse profondità sotto le nuvole

Oggi, una nuova ricerca, finanziata in parte dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e coordinata da Marzia Parisi, ex-dottoranda della Sapienza, ora post-doc al California Institute of Technology/Jet Propulsion Laboratory, insieme a un gruppo internazionale di cui fanno parte Daniele Durante e Luciano Iess del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza, mostra come invece i venti della Grande macchina rossa abbiano una profondità di penetrazione verticale piuttosto contenuta, pari a circa 300 km, assai inferiore a quella dei venti che soffiano nelle bande visibili del pianeta. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Science.

“I risultati del nostro studio – spiega Daniele Durante del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza – attestano una massa della tempesta pari a circa la metà dell’intera atmosfera terrestre e poco meno di quella di tutta l’acqua del Mar Mediterraneo, e rappresentano la Grande macchia rossa come un oggetto molto simile a un disco assai esteso (la sua dimensione minore è pari all’incirca al diametro della Terra) ma piuttosto sottile, con caratteristiche che ricordano quelle delle più grandi tempeste terrestri”.

grande macchia rossa Giove
Le dimensioni della Grande macchia rossa a confronto con la Terra. La profondità determinata dalle misure di gravità è di soli 300 km.

Con un’orbita molto eccentrica, la sonda Juno è riuscita ad avvicinarsi molto al gigante gassoso, fino a 4-5000 km al di sopra delle nubi: a queste distanze è possibile avere una elevata sensibilità all’accelerazione gravitazionale esercitata principalmente dalle strutture dell’atmosfera del pianeta. La sonda ha utilizzato lo strumento di radioscienza KaT (Ka-Band Translator, realizzato da Thales Alenia Space-I e finanziato dall’Agenzia spaziale italiana), il cuore dell’esperimento che ha permesso di determinare l’estensione verticale della Grande macchia rossa.

La Grande macchia rossa ha perturbato impercettibilmente l’orbita di Juno, ma l’estrema accuratezza della misura (fino a 0.01 mm/s) ha permesso di catturarne il debolissimo segnale gravitazionale e di stimare così la profondità a circa 300 km.

“Le misure di Juno – conclude Luciano Iess dello stesso Dipartimento – hanno fornito la terza dimensione a quel fenomeno dell’atmosfera di Giove che ha attratto l’attenzione di molti di noi, come anche quella degli astronomi da più di trecento anni, mostrando come sia una tempesta superficiale certamente molto estesa, ma ben poco profonda. Questa nuova misura contribuirà a capirne la natura, l’evoluzione e, forse, la sua possibile scomparsa”.

Riferimenti:

The depth of Jupiter’s Great Red Spot constrained by the Juno gravity overflights – Authors: M. Parisi, Y. Kaspi, E. Galanti, D. Durante, S. J. Bolton, S. M. Levin, D. R. Buccino, L. N. Fletcher, W. M. Folkner, T. Guillot, R. Helled, L. Iess, C. Li, K. Oudrhiri, M. H. Wong. Science 2021 DOI: 10.1126/science.abf1396

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Giove, il pianeta più grande del sistema solare

 

L’anima irrequieta dei pianeti

La Sapienza in prima fila nella caccia alle zanzare “invernali”

I ricercatori chiedono l’aiuto dei cittadini per tracciare l’invasione di specie di zanzare invasive provenienti dall’Asia

Lotta alle zanzare: approda in Italia MosquitoAlert, l’app che permette ai cittadini di contribuire con un click 

Trent’anni fa la zanzara tigre asiatica (Aedes albopictus) ha cominciato la sua invasione del mondo arrivando a stabilirsi in tutti i continenti. Ma la storia non è finita lì! Negli ultimi anni si sono moltiplicate le segnalazioni in Europa di altre specie di zanzare invasive di origine asiatica, in particolare quella coreana (Aedes koreicus) e quella giapponese (Aedes japonicus), ancora più adatte della zanzara tigre a vivere in climi e stagioni fredde. Tutte specie molto aggressive, soprattutto a causa della loro attività di puntura durante le ore diurne, ma anche pericolose, perché capaci, se pungono una persona infetta da un virus tropicale come il dengue o il chikungunya, di trasmetterlo dopo pochi giorni ad una persona sana, attraverso una successiva puntura.

Proprio in questi giorni è arrivata la notizia che la zanzara coreana, prima segnalata in Italia solo in Veneto e Friuli Venezia Giulia, nel 2020 era presente anche in Lombardia nelle province di Bergamo e Brescia. È ancora presente in queste regioni? Potrebbe essere presente anche altrove? E come conoscere l’espansione della sua cugina giapponese? La ricerca di queste specie attraverso catture di esemplari adulti, di larve o di uova grazie a specifiche trappole entomologiche può dare una riposta a queste domande, ma non dappertutto in Italia vengono effettuati monitoraggi su vasta scala e l’arrivo di nuove specie invasive, inclusa la più pericolosa di tutte (l’Aedes aegypti), potrebbe passare inosservata.

Per questo motivo i ricercatori del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive dell’Università Sapienza – in collaborazione con colleghi dell’Istituto Superiore di Sanità, dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, del MUSE di Trento e dell’Ateneo di Bologna – hanno pensato di chiedere il contributo dei cittadini, sviluppando un progetto di scienza partecipata, la cosiddetta “citizen science”. Come partecipare al progetto? È molto semplice: basta scaricare sul proprio telefono cellulare l’app gratuita MosquitoAlert e inviare tramite l’app segnalazioni fotografiche di zanzare o semplicemente segnalazioni di punture. Un team di esperti entomologi identificheranno la specie grazie alle fotografie inviate, informeranno tramite l’app stessa “i cittadini scienziati” della specie segnalata, e utilizzeranno i dati per generare mappe di distribuzione e di stagionalità delle zanzare più comuni, che potranno essere consultate sia dai cittadini, sia da chi si occupa di interventi di controllo anti-zanzara. Attraverso le segnalazioni ottenute sarà anche possibile identificare l’eventuale presenza di nuove specie invasive in nuove aree geografiche, come successo la scorsa estate in Spagna, dove grazie a MosquitoAlert, è stata identificata per la prima volta la presenza della zanzara giapponese. Ricevere segnalazioni in questi mesi autunnali e invernali, sarà particolarmente importante per tracciare la zanzara coreana, che riesce a sopravvivere bene anche a basse temperature.

MosquitoAlert La Sapienza zanzare invernali
La Sapienza in prima fila nella caccia alle zanzare “invernali”

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

I cuprati: metalli strani e promettenti per la tecnologia del futuro

Un team internazionale di ricerca, che ha visto la partecipazione del Dipartimento di Fisica di Sapienza, ha pubblicato su Science una ricerca che aggiunge un importante tassello al complicato puzzle dei cuprati, famiglia di composti che diventano superconduttori ad alta temperatura critica.

cuprati
Il cuprato di ittrio e bario, il cristallo nella foto è stato sviluppato presso la University of British Columbia, Vancouver. Foto di  Shreyas Patankar (SPat), CC BY-SA 3.0

I superconduttori sono materiali che rappresentano una delle sfide ancora aperte della ricerca scientifica. Diverse, infatti, sono le loro possibili applicazioni per la proprietà di cui sono dotati di sostenere il passaggio di corrente elettrica senza scaldarsi e dissipare energia: questa caratteristica può essere sfruttata, per esempio, per ridurre gli sprechi nel trasporto di energia elettrica dalle centrali alle case, per la diagnostica avanzata della risonanza magnetica nucleare.

Tuttavia, affinché un materiale manifesti tale proprietà e diventi effettivamente superconduttivo, bisogna scendere a temperature bassissime. Al momento, l’uso dei superconduttori su larga scala è antieconomico per gli alti costi di gestione, principalmente rispetto al raffreddamento. Temperatura, dunque, è la parola chiave e, a livello globale, la soluzione è nei nuovi materiali che si comportino da superconduttori anche a temperature più elevate

In questa cornice si studiano con crescente attenzione i cuprati, composti a base di rame e ossigeno che, se opportunamente drogati” (ovvero con l’aggiunta di piccole quantità di impurità), diventano superconduttori ad alta temperatura, aprendo la prospettiva di promettenti applicazioni future.

In particolare i cuprati sono caratterizzati da un complesso diagramma di fase nel piano temperatura-drogaggio, in cui diverse fasi appaiono in competizione tra loro. Alcune di queste fasi competitive sono elusive ed è fondamentale osservarle e caratterizzarle. È il caso della fase dell’onda di densità di carica (fase nella quale gli elettroni, al di sotto di una temperatura caratteristica del materiale considerato, si dispongono a formare una struttura ordinata nello spazio), che era stata predetta dal gruppo teorico di Roma fin dal 1995 ed è stata osservata solo recentemente in tutti i materiali della famiglia dei cuprati, grazie allo sviluppo di tecniche di diffusione anelastica risonante di raggi X.

Un’altra importante caratteristica dei cuprati è costituita dalle anomalie delle proprietà della fase metallica: in particolare, nella cosiddetta fase del “metallo strano”, la resistività elettrica aumenta linearmente con la temperatura in un intervallo sorprendentemente ampio, che può estendersi dalle temperature più alte osservate fino alla temperatura di transizione alla fase superconduttiva, e anche a temperature più basse, se la superconduttività viene soppressa da un campo magnetico. Tale comportamento non è mai osservato nei metalli ordinari. Nei cuprati, il comportamento anomalo scompare nella fase dell’onda di densità di carica.

In un nuovo studio pubblicato su Science, che ha visto la partecipazione del Dipartimento di Fisica di Sapienza in un team di ricerca internazionale insieme alle Università di Chalmers e Cottbus, al Politecnico di Milano e allo European Synchrotron Radiation Facility di Grenoble, è stata osservata nel cuprato di ittrio e bario, ovvero un materiale ceramico che in condizioni normali (cioè, quando non è “drogato”) è un isolante, una profonda connessione tra la comparsa dell’onda di densità di carica e la deviazione da questo comportamento anomalo della fase metallica a bassa temperatura.

“Incrociando le misure di resistività e di diffusione anelastica risonante di raggi X su film sottili di questo superconduttore, comunemente chiamato YBCO – spiega Sergio Caprara del Dipartimento di Fisica della Sapienza – abbiamo dimostrato che, al diminuire dello spessore del film, nella regione del diagramma di fase in cui sono presenti onde di densità di carica, a una loro progressiva soppressione si associa un recupero della dipendenza lineare della resistività dalla temperatura, caratteristica di questi metalli strani”.

Il risultato suggerisce, tra l’altro, la possibilità di manipolare lo stato fondamentale di materiali quantistici utilizzando come parametro di controllo lo sforzo elastico, che nell’esperimento è introdotto dalla crescita dei film sottili su un substrato.

Questo studio apre dunque a una ulteriore conoscenza dei cuprati, materiali sempre più promettenti per future applicazioni tecnologiche.

Riferimenti:

Restored strange metal phase through suppression of charge density waves in underdoped YBa2Cu3O7-δ – Eric Wahlberg, Riccardo Arpaia, Götz Seibold, Matteo Rossi, Roberto Fumagalli, Edoardo Trabaldo, Nicholas B. Brookes, Lucio Braicovich, Sergio Caprara, Ulf Gran, Giacomo Ghiringhelli, Thilo Bauch, Floriana Lombardi – Science, 2021. DOI: https://doi.org/10.1126/science.abc8372

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Giorgio Parisi è Nobel per la Fisica 2021

L’assegnazione del Premio al docente Sapienza, resa pubblica oggi alle 11.45, corona una carriera di scienziato costellata di successi e riconoscimenti.

Giorgio Parisi Nobel per la Fisica 2021

Giorgio Parisi è Nobel per la Fisica.
L’assegnazione del Premio, resa pubblica oggi alle ore 11.45, è giunta con la seguente motivazione: “Per la scoperta del legame tra il disordine e le fluttuazioni nei sistemi fisici dalla scala anatomica a quella planetaria”. 

“Quella di oggi è un’emozione difficile da tradurre in parole, è un orgoglio immenso, per la Sapienza, per la comunità scientifica e per il nostro Paese – sottolinea la Rettrice Antonella Polimeni – Giorgio Parisi è un gigante, uno di quelli sulle cui spalle le generazioni future si siederanno per scrutare l’orizzonte della scienza e fare un passo ulteriore verso la conoscenza”


Lo studioso, professore ordinario di Fisica Teorica alla Sapienza di Roma, già Presidente dell’Accademia dei Lincei, è il 6° italiano a ottenere l’ambito riconoscimento nel campo della Fisica, dopo Guglielmo Marconi (1908), Enrico Fermi (1938), Emilio Segre (1959), Carlo Rubbia (1984), Riccardo Giacconi (2002).

Nel 2021, il fisico italiano è stato insignito del Premio Wolf ed è entrato, primo esponente dell’accadmia italiana, nella Clarivate Citation Laureates per “le scoperte rivoluzionarie relative alla cromodinamica quantistica e lo studio dei sistemi disordinati complessi”.

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Giorgio Parisi è professore ordinario di Fisica Teorica alla Sapienza Università di Roma, ricercatore associato all’INFN Istituto Nazionale di Fisica Nucleare ed è stato Presidente dell’Accademia dei Lincei (2018-2021). Nato a Roma nel 1948, Parisi ha completato i suoi studi alla Sapienza Università di Roma dove si è laureato in fisica nel 1970 sotto la guida di Nicola Cabibbo. Ha iniziato la sua carriera scientifica ai Laboratori Nazionali di Frascati dell’INFN, prima come membro del CNR (1971-1973) e successivamente come ricercatore dell’INFN (1973-1981). Durante questo periodo ha trascorso lunghi soggiorni all’estero, prima alla Columbia University di New York (1973-1974), all’Institut des Hautes Études Scientifiques a Bures-sur-Yvettes (1976-1977), all’École Normale Superieure di Parigi (1977-1978). Nella sua carriera scientifica, Giorgio Parisi ha dato molti contributi determinanti e ampiamente riconosciuti in diverse aree della fisica: in fisica delle particelle, meccanica statistica, fluidodinamica, materia condensata, supercomputer. Ha, inoltre, scritto articoli su reti neurali, sistema immunitario e movimento di gruppi di animali. È stato vincitore di due advanced grant dell’ERC European Reasearch Council, nel 2010 e nel 2016, ed è autore di oltre seicento articoli e contributi a conferenze scientifiche e di quattro libri. Le sue opere sono molto conosciute.

Riconoscimenti. Nel 1992 gli è stata conferita la Medaglia Boltzmann (assegnata ogni tre anni dalla IUPAP International Union of Pure and Applied Physics per nuovi risultati in termodinamica e meccanica statistica) per i suoi contributi alla teoria dei sistemi disordinati, e la Medaglia Max Planck nel 2011, dalla società tedesca di fisica Deutsche Physikalische Gesellschaft. Ha ricevuto i premi Feltrinelli per la Fisica nel 1987, Italgas nel 1993, la Medaglia Dirac per la fisica teorica nel 1999, il premio del Primo Ministro italiano nel 2002, Enrico Fermi nel 2003, Dannie Heineman nel 2005, Nonino nel 2005, Galileo nel 2006, Microsoft nel 2007, Lagrange nel 2009, Vittorio De Sica nel 2011, Prix des Trois Physiciens nel 2012, il Nature Award Mentoring in Science nel 2013, High Energy and Particle Physics dell’EPS European Physical Society nel 2015, Lars Onsager dell’APS American Physical Society nel 2016. Nel 2021 ha ricevuto il prestigioso Wolf Prize per la Fisica.  Sempre nel 2021, è entrato, primo esponente dell’accademia italiana, nella Clarivate Citation Laureates.   È membro dell’Accademia dei Quaranta, dell’Académie des Sciences, dell’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti, dell’Accademia Europea, dell’Academia Europea e dell’American Philosophical Society.

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Un arcobaleno di luce per potenziare le telecomunicazioni
Una ricerca condotta dalla Sapienza, in collaborazione con l’Università di Brescia, con l’Istituto Xlim di Limoges in Francia e con la Southern Methodist University di Dallas negli Stati Uniti d’America, ha dimostrato un metodo semplice ed economico per generare fasci laser arcobaleno a spirale, applicabili in diversi ambiti, dalle telecomunicazioni, all’ottica quantistica. Lo studio è pubblicato su Scientific Reports.

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Comprendere esattamente la forma della luce è sempre stata una sfida complessa, fin dai tempi di Newton, che immaginava che la luce solare fosse composta da particelle. Oggi sappiamo che la luce è un’onda elettromagnetica e attribuirle una forma risulta più facile: comunemente, infatti, entriamo in contatto con oggetti luminosi di una forma definita, come ologrammi o fasci laser, che possono essere considerati raggi di luce.

Ma è possibile intervenire su un raggio laser cambiandone la forma: questo accade quando si agisce sul fronte d’onda della radiazione elettromagnetica (ossia nei punti dove la fase dell’onda è costante) ottenendo la cosiddetta luce strutturata che può assumere le più svariate forme (o strutturazioni).

Tra le infinite strutturazioni che è possibile dare alla luce, particolarmente studiate sono quelle a forma di spirale. I fasci laser a spirale, infatti, per le loro caratteristiche uniche, trovano applicazione in campi di frontiera, come la biofisica e le tecnologie quantistiche.

Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports e coordinato da Stefan Wabnitz del Dipartimento di Ingegneria dell’informazione, elettronica e telecomunicazioni di Sapienza, propone un metodo per realizzare fasci a forma di spirale a partire da piccoli segmenti di fibre ottiche: sfruttando la geometria cilindrica della fibra ottica per guidare la luce lungo un percorso elicoidale, il fronte d’onda che serve all’emissione di un fascio a spirale, finisce per prodursi spontaneamente. Un metodo economico e semplice, che non richiede alcuna nanofabbricazione: bastano infatti solo alcuni elementi facilmente reperibili, quali un laser, una lente convergente e pochi centimetri di fibra ottica standard.

Il lavoro, sviluppato con la collaborazione dell’Università di Brescia, l’istituto universitario XLIM di Limoges e la Southern Methodist University americana, rientra nel progetto STEMS di Horizon 2020 finanziato dall’European Research Council.

Comunemente la realizzazione di luce strutturata richiede l’uso di sistemi ottici dedicati: è necessario munire di volta in volta un fascio laser del corretto fronte d’onda al fine di generare la strutturazione desiderata. Ciò viene realizzato tramite maschere ad hoc che però hanno funzionalità ancora poco duttili. Esistono anche metodi più flessibili che utilizzano strumenti basati sui cristalli liquidi. Tuttavia, queste tecnologie risultano essere molto costose, oltre che ingombranti.

“Uno degli elementi chiave della nostra ricerca è la linearità del fenomeno – dichiara Stefan Wabnitz – ovvero il fatto che la generazione di fasci a spirale, con questo metodo, prescinda dalla potenza del laser impiegato. Basti pensare – aggiunge Wabnitz – che siamo riusciti a produrre in laboratorio un fascio a spirale utilizzando come sorgente un comune puntatore laser acquistabile nei negozi di elettronica”.

Se invece vengono utilizzati laser ad alta potenza, andando a generare effetti non lineari, è possibile osservare un fenomeno molto particolare sotto il profilo cromatico: la spirale, originariamente di un solo colore, acquista tutte le tonalità, dal rosso al violetto.

“Tali colori spontaneamente si organizzano per formare un arcobaleno di forma spirale – sottolinea Mario Ferraro, ricercatore della Sapienza – Questa peculiare forma multicolore non può essere realizzata con metodi convenzionali, e troverà certamente impiego in diversi campi applicativi, dall’ottica quantistica alle telecomunicazioni”.

Riferimenti:

Rainbow Archimedean spiral emission from optical fibres – Fabio Mangini, Mario Ferraro, Vladimir L Kalashnikov, Alioune Niang, Tigran Mansuryan, Fabrizio Frezza, Alessandro Tonello, Vincent Couderc, Alejandro Aceves, Stefan Wabnitz – Scientific Reports 2021. DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-021-92313-w

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Il primo sorvolo di Mercurio della missione BepiColombo

Il 2 ottobre all’1.35 ora italiana la sonda spaziale passerà a 200 km dalla superficie del pianeta. A bordo un esperimento, il Mercury Orbiter Radioscience Experiment (MORE), sviluppato dal team guidato da Luciano Iess della Sapienza, che permetterà di determinare la gravità e l’orbita del corpo celeste più vicino al sole.

La sonda spaziale BepiColombo, lanciata il 20 ottobre 2018 dal Centro spaziale di Kourou nella Guyana francese, è in viaggio verso Mercurio, la sua destinazione finale. Il primo dei sei sorvoli del pianeta più vicino al Sole avverrà il 2 ottobre 2021 all’1.35 ora italiana (23.15 del primo ottobre, ora di Greenwich), quando la sonda passerà a 200 km dalla superficie.

BepiColombo ha già effettuato con successo un sorvolo della Terra, il 10 aprile 2020, e due sorvoli di Venere, il 20 ottobre 2020 e il 10 agosto 2021. Questi incontri ravvicinati hanno lo scopo primario di modificare la traiettoria della sonda, facendole acquistare velocità sufficiente per la cattura finale da parte della gravità di Mercurio, prevista per la fine del 2025. Ma allo stesso tempo sono anche un primo assaggio di quanto verrà poi osservato con assai maggiore dettaglio nella missione primaria, quando BepiColombo orbiterà attorno al pianeta per due anni.

Mercurio BepiColombo

BepiColombo nasce dalla collaborazione tra l’ESA (Agenzia Spaziale Europea) e la JAXA (Agenzia Spaziale Giapponese). Prende il nome dallo scienziato italiano Giuseppe (da cui Bepi) Colombo, che diede un contributo fondamentale allo studio di Mercurio. La sonda è composta da tre moduli principali: il modulo MPO (Mercury Planetary Orbiter) e il modulo MTM (Mercury Transfer Module) sviluppati dall’ESA, il terzo modulo MMO (Mercury Magnetospheric Orbiter) sviluppato dalla JAXA. Con la sofisticata strumentazione scientifica di bordo, BepiColombo vuole rispondere ad alcune domande fondamentali per comprendere la formazione e l’evoluzione del pianeta: qual è la sua struttura interna, dal nucleo alla superficie? Quali sono gli elementi e i minerali di cui è composto? Qual è l’origine del campo magnetico e come interagisce con il vento solare, un flusso di particelle alla velocità di 400 km/s?

Mercurio BepiColombo

Quattro dei sedici esperimenti scientifici di BepiColombo sono italiani. Tra questi, l’esperimento di radioscienza, MORE (Mercury Orbiter Radioscience Experiment), è guidato dal professor Luciano Iess del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza, coadiuvato da un gruppo internazionale di scienziati e ingegneri. In Italia, collaborano le Università di Pisa e Bologna, l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Università d’Annunzio. Gli obiettivi scientifici di MORE sono la determinazione della struttura interna di Mercurio attraverso misure di precisione della gravità del pianeta, la ricerca di violazioni della teoria della relatività generale di Einstein e la dimostrazione in volo di un nuovo e avanzato sistema di navigazione spaziale.

Il primo sorvolo di Mercurio della missione BepiColombo. Immagine ESA

Mercurio è il pianeta più vicino al Sole, dove la curvatura dello spazio-tempo, prevista da Einstein nel 1915, è più accentuata. Tale curvatura produce “anomalie” nell’orbita del pianeta (tra cui la famosa precessione del perielio) e nella propagazione della luce e dei segnali radio (compresa la deflessione osservata durante l’eclisse solare del 1919). Circa un secolo dopo, MORE consentirà di verificare a un livello di precisione mai raggiunto finora se la relatività einsteniana rimane una teoria valida della gravità. I primi esperimenti di fisica fondamentale sono già cominciati nel marzo 2021 e proseguiranno fino alla fine della missione, nel 2027.

Mercurio BepiColombo

MORE si prefigge di raggiungere tali obiettivi scientifici tramite l’utilizzo di segnali radio scambiati tra grandi antenne di terra (34 m di diametro) ubicate in Argentina e California, e uno strumento di bordo, il KaT (Ka-band Transponder), realizzato da Thales Alenia Space Italia con la collaborazione del team di Sapienza e finanziato dall’Agenzia spaziale italiana. L’avanzato sistema radio renderà possibile misurare la distanza della sonda con precisione di pochi centimetri e la sua velocità a livello di alcuni millesimi di millimetro al secondo. I dati di un altro strumento italiano (Italian Spring Accelerometer – ISA) saranno utilizzati per misurare tutte quelle accelerazioni della sonda non riconducibili alla gravità, permettendo di ottenere una determinazione più precisa del moto della sonda.

Il ruolo fondamentale che svolge l’esperimento MORE all’interno della missione BepiColombo conferma Sapienza come un polo centrale della ricerca per le tematiche di struttura ed evoluzione planetaria, fisica fondamentale e sistemi di navigazione interplanetaria.

 

Testo, foto e video dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Tumori: vaccino anti COVID efficace al 94%, ma servono 2 dosi in 21 giorni. È italiano il più grande studio al mondo nei pazienti oncologici

La sperimentazione, che ha coinvolto 816 persone con cancro, pubblicata su “Clinical Cancer Research” rivista ufficiale dell’American Association for Cancer Research (AACR).

Il Professor Francesco Cognetti, Direttore Oncologia Medica Regina Elena-Sapienza Università di Roma: “Il tasso di risposta è aumentato in maniera significativa dal 59,8% a tre settimane dalla prima inoculazione fino al 94,2% dopo la seconda. Sono in corso valutazioni sul mantenimento dell’immunoreattività nel tempo per definire la necessità della terza somministrazione in questi pazienti fragili”

tumori vaccino anti COVID
Tumori: vaccino anti COVID efficace al 94%, ma servono 2 dosi in 21 giorni. Foto di Spencer Davis

Roma, 28 settembre 2021 – Il vaccino anti COVID è efficace nei pazienti oncologici, ma per ottenere un’adeguata protezione sono indispensabili due dosi. Lo dimostra il più grande studio al mondo sulla risposta immunologica e sulla sicurezza del vaccino a mRNA nelle persone colpite da cancro, condotto presso l’Istituto Regina Elena-Sapienza Università di Roma. Lo studio, pubblicato su “Clinical Cancer Research”, la rivista ufficiale dell’American Association for Cancer Research (AACR), ha arruolato 816 pazienti con diversi tipi di neoplasie solide, in particolare tumore della mammella (31%), del polmone (21%) e melanoma (15%), in trattamento attivo o sottoposti a cure nei 6 mesi precedenti la vaccinazione anti COVID. I risultati del lavoro sono presentati oggi in una conferenza stampa presso Sapienza Università di Roma.

“Tutti i pazienti hanno ricevuto entrambe le dosi di vaccino a distanza di 21 giorni – spiega Francesco Cognetti, Professore di Oncologia Medica Sapienza Università di Roma e Direttore Oncologia Medica Regina Elena di Roma -. Il tasso di risposta sierologico e il titolo positivo di immunoglobuline (IgG) sono stati misurati in tre diversi momenti: prima della vaccinazione, a 3 e a 7 settimane dalla prima inoculazione. Il gruppo di confronto con le persone sane era rappresentato da 274 operatori sanitari, sottoposti alla immunizzazione anti COVID con ciclo completo. Il tasso di risposta anticorpale è aumentato nei pazienti oncologici in maniera significativa dal 59,8% a 21 giorni dalla prima dose fino al 94,2% dopo 7 settimane. Invece gli operatori sani hanno evidenziato una percentuale di risposta del 93,7% già 21 giorni dopo la prima dose (raggiungendo il 100% a 7 settimane). Tutti i pazienti oncologici vaccinati sono stati seguiti con frequenti tamponi molecolari. Complessivamente sono stati registrati solo 5 casi (0,6%) di infezioni da COVID peraltro asintomatiche. Ciò conferma l’elevatissimo valore della vaccinazione in questa popolazione molto fragile di pazienti”.

“Primi in Italia, abbiamo cominciato a vaccinare i pazienti oncologici nel Lazio lo scorso marzo – afferma Alessio D’Amato, Assessore Sanità e integrazione Socio-Sanitaria Regione Lazio -. I risultati di questo studio convalidano la nostra decisione. Nel Lazio c’è stato uno sforzo senza precedenti grazie al lavoro di squadra condotto dagli operatori sanitari e dalle Istituzioni. La nostra Regione si è distinta per efficienza proprio verso i più fragili e siamo partiti per primi anche con la somministrazione della terza dose del vaccino anti COVID nei confronti di questa popolazione”.

“Si tratta di uno studio fondamentale che mostra come la vaccinazione induca una risposta immune in un’elevata percentuale di pazienti affetti da neoplasie solide – spiega Gianni Rezza, Direttore Generale della Prevenzione, Ministero della Salute -. Si tratta di uno studio estremamente ampio e condotto nella pratica reale. Sarà estremamente importante ora valutare l’effetto a lungo termine della vaccinazione”.

È lo studio con la più ampia casistica al mondo sull’efficacia del vaccino anti COVID nei pazienti oncologici in trattamento attivo. Le persone colpite da cancro sono ad alto rischio di conseguenze gravi fino alla morte, se contagiate dal virus. Finora però vi erano evidenze scientifiche molto limitate sull’immunogenicità e sulla sicurezza del vaccino in questa popolazione, perché esclusa dagli studi di fase 3 che hanno portato all’approvazione del siero. Le ricerche già pubblicate fino a oggi hanno considerato solo qualche decina di pazienti oncologici. Inoltre, questo è il primo studio effettuato con valutazioni della sierologia in tre tempi diversi: prima della vaccinazione, dopo la prima inoculazione e successivamente alla seconda. Una ricerca israeliana e una americana su casistiche molto inferiori hanno considerato i risultati solo in due momenti: prima della vaccinazione e alla conclusione del ciclo completo, non analizzando quindi i risultati dopo la prima dose.

“Lo studio presentato oggi ribadisce l’alto profilo della ricerca medica italiana nello scenario internazionale e punta i riflettori su una fascia di pazienti fragili che è necessario tutelare al meglio – sottolinea la Rettrice Antonella Polimeni -. Sono particolarmente orgogliosa del contributo di Sapienza nel contrasto alla pandemia, che trova fondamento nel legame indissolubile tra assistenza, ricerca e didattica, ben rappresentato dai Policlinici universitari e dalla capacità di dialogo con gli enti di territorio. Un modello che ha prodotto casi virtuosi e risultati concreti”.

Dallo studio emerge con chiarezza il valore fondamentale della seconda dose nelle persone colpite da cancro e molto fragili, che devono riceverla entro 21 giorni dalla prima, pena il potenziale rischio di contagio. FOCE (Federazione degli oncologi, cardiologi ematologi) aveva già segnalato le potenziali conseguenze pericolose del ritardo della seconda dose di vaccino per i pazienti oncologici in trattamento attivo, nei quali invece andava rigorosamente rispettata la tempistica delle due somministrazioni.

Inoltre, nello studio, la risposta anticorpale è risultata inferiore nelle persone trattate con chemioterapia e con uso prolungato di steroidi, proprio per gli effetti immunosoppressivi di queste cure. Ed è il primo studio a evidenziare l’impatto negativo dei glucorticoidi (cortisone), una classe di ormoni steroidei, sull’efficacia del vaccino anti COVID a mRNA, finora dimostrato solo in persone con malattie infiammatorie croniche. Va quindi evitato l’uso non indispensabile di steroidi. Nello studio è anche emerso lo scarso valore aggiunto degli anticorpi neutralizzanti anche particolarmente costosi, i cui test possono essere evitati nei pazienti oncologici.

La frequenza di effetti collaterali locali o sistemici, nella maggior parte dei casi lievi, è stata bassa e comunque in linea con quanto osservato nei sani, anzi la comparsa di effetti collaterali espressione dell’attivazione della risposta infiammatoria è stata osservata correlata ad un maggiore tasso di risposta anticorpale.

Sono in corso valutazioni sul mantenimento dell’immunoreattività umorale nel corso del tempo. “Dati preliminari in corso di pubblicazione – conclude il Professor Cognetti – mostrano a questo riguardo una notevole diminuzione del tasso anticorpale nei pazienti oncologici in trattamento attivo a 6 mesi dalla prima dose, diminuzione molto più significativa rispetto ai sani ed una previsione di azzeramento degli anticorpi in questi pazienti a circa 9 mesi rispetto ai 16 mesi nei sani e la conferma nel corso del tempo degli stessi fattori clinici già dimostratisi correlati con la diminuzione delle immunoreattività umorale. Questi dati, quindi, sono di indubbia utilità nella selezione delle priorità temporali alla somministrazione della terza dose nei malati oncologici”.

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma sulla validità del vaccino anti COVID a mRNA per chi è colpito da tumori.