CON L’ECOGRAFIA POLMONARE, SOTTO CONTROLLO IL RESPIRO DEI NEONATI
La Federico II con il professore Francesco Raimondi e la dottoressa Letizia Capassonel team internazionale di ricerca individua nella tecnica non-invasiva lo strumento per garantire ai neonati una terapia su misura.
L’ecografia polmonare nei neonati pretermine, a poche ore di vita, permette di capire subito se il piccolo avrà bisogno della somministrazione di surfattante (sostanza naturale prodotta nel polmone, carente nei neonati prematuri, che impedisce il collasso degli alveoli), della terapia intensiva neonatale o solo di un monitoraggio che gli permetterà di stare accanto alla mamma.
Nasce da un accordo internazionale di collaborazione fra l’Università Degli Studi di Napoli Federico II, l’Università di Padova, l’Università francese Paris-Saclay, e altri atenei stranieri lo studio multicentrico internazionale Quantitative Lung Ultrasonography to guide surfactant therapy in late preterm and term neonates, pubblicato sulla rivista «JAMA Network Open», che ha fornito la possibilità di guidare con l’ecografia polmonare la somministrazione di surfattante nei neonati pretermine e a termine.
L’accordo di collaborazione internazionale è nato per promuovere progetti congiunti di ricerca clinica e translazionale nel campo della neonatologia rivolta in particolare ai giovani medici. Lo studio è un progetto altamente innovativo e di grande valore in termini di sanità pubblica che ha utilizzato l’ecografia polmonare quantitativa in 157 neonati valutati ad un’età media di 3 ore di vita.
L’eco polmonare è una tecnica non-invasiva, applicabile al letto del paziente (point-of-care), non gravata dall’utilizzo di radiazioni ionizzanti delle radiografie e facile da imparare: la sua implementazione, perciò, ha permesso un’assistenza neonatale più personalizzata oltre ai vantaggi suddetti.
Lo studio è stato coordinato da un gruppo di studio delle Università Paris Saclay e Stanford diretto dal professore Daniele De Luca, che ha messo a punto l’ecografia polmonare quantitativa in collaborazione con il professore Francesco Raimondi e la dottoressa Letizia Capasso dell’Università di Napoli. I neonatologi padovani della terapia intensiva neonatale dell’Azienda Ospedale-Università di Padova (professore Eugenio Baraldi e dottor Luca Bonadies) da tempo hanno introdotto questa metodica in reparto e hanno contribuito alla realizzazione dello studio.
“Lo studio di JAMA Network Open continua una linea di ricerca cominciata a Napoli oltre 10 anni fa – dice il prof Francesco Raimondi direttore della Terapia Intensiva Neonatale dell’Università Federico II – che ha permesso di ridurre il numero di radiografie al neonato e con esse il carico, a volte pesante, di radiazioni ionizzanti. L’ecografia polmonare arriva così nelle mani del clinico che la usa come estensione dell’esame obiettivo. Essa consente una rapida diagnosi di condizioni potenzialmente mortali come lo pneumotorace iperteso e permette anche un tempestivo allarme nei centri nascita di primo livello che non sono dotati delle sofisticate attrezzature della Neonatologia moderna.
L’applicazione dell’ecografia alla patologia respiratoria, che è il problema principale della Neonatologia, è un successo della ricerca clinica italiana che i colleghi di tutto il mondo ci riconoscono volentieri”.
“Con l’ecografia è stato possibile capire a pochissime ore di vita se il neonato andrà incontro ad insufficienza respiratoria grave o no, quindi se avrà bisogno di essere trasferito in terapia intensiva neonatale, magari a chilometri di distanza, o se potrà restare vicino alla mamma o nell’ospedale di nascita con un supporto respiratorio minore – spiega il prof Eugenio Baraldi, direttore del dipartimento di Salute della Donna e del Bambino dell’Università di Padova -. I vantaggi sono molteplici sia sul piano medico, che logistico e familiare. Prima di questo studio la decisione di somministrare il surfattante per via endotracheale veniva presa in base alla necessità di ossigeno; ora invece la decisione clinica può essere presa affiancando l’ecografia del polmone che permette una valutazione più specifica e sensibile. Oggi l’ecografia polmonare quantitativa fornisce informazioni più precise rispetto ad una radiografia tradizionale del torace e viene utilizzata oltre che nei neonati anche nei bambini con problemi respiratori come la bronchiolite e la polmonite”.
Pandemie e crisi globali: il ruolo cruciale delle scienze comportamentali per le decisioni politiche
A spiegare come l’alleanza tra scienziati e decisori politici possa essere decisiva in contesti critici globali sono i risultati di uno studio internazionale pubblicato su Nature. Tra gli 80 ricercatori coinvolti, provenienti da 30 Paesi, anche Valerio Capraro, docente di Psicologia delle decisioni morali dell’Università di Milano-Bicocca.
NEW YORK/MILANO, 13 dicembre 2023 – Un nuovo studio globale guidato da Kai Ruggeri, PhD, della Columbia Mailman School of Public Health, che ha coinvolto oltre 80 collaboratori provenienti da più di 30 Paesi, sottolinea il ruolo cruciale delle scienze comportamentali nella formulazione di decisioni politiche, sviluppando al contempo un nuovo metodo per valutare l’evidenza sperimentale su politiche pubbliche in maniera sistematica. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature.
Nell’aprile 2020, un gruppo di ricercatori ha pubblicato un articolo di notevole impatto con 19 raccomandazioni politiche sul COVID-19 basate sulle scienze comportamentali. Il documento era frutto di un’ampia collaborazione di oltre 40 esperti, guidati da Jay Van Bavel dell’Università di New York e Robb Willer di Stanford, ed è stato citato migliaia di volte da governi, ricercatori e personaggi pubblici. Le sue raccomandazioni riguardavano argomenti come la comunicazione ufficiale sul distanziamento sociale, come ottenere un vaccino una volta disponibile e la necessità di lavorare all’interno delle comunità per produrre un impatto reale.
Ora, il nuovo lavoro di Ruggeri et al. su Nature valuta le prove scientifiche che, dopo la pubblicazione del primo lavoro, hanno supportato le sue affermazioni e la loro applicabilità alla politica.
“I governi di tutto il mondo hanno formulato strategie politiche per quanto riguarda la pandemia esplicitamente sulla base dei suggerimenti comportamentali evidenziati nel documento del 2020 di Jay J. Van Bavel et al.”, afferma Ruggeri, professore di politica e gestione sanitaria presso la Mailman School of Public Health della Columbia University. “Date le preoccupazioni per la mancanza di fiducia del pubblico nella scienza, in particolare nel contesto del COVID-19, abbiamo ritenuto importante valutare le evidenze sperimentali intorno alle raccomandazioni delle politiche pubbliche, in modo da promuovere trasparenza e creare fiducia”.
Due team indipendenti di 72 esperti – inclusi sia gli autori del documento del 2020, sia un team indipendente di valutatori – hanno esaminato 747 articoli di ricerca relativi alla pandemia per valutare in che misura le affermazioni del documento originale hanno fornito una valida guida politica.
“Abbiamo assegnato un rating a ciascuna ricerca in maniera sistematica. Rating più alti corrispondevano a ricerche con conclusioni più forti dal punto di vista del potenziale impatto reale, come gli studi sul campo. I rating di ciascun articolo sono stati assegnati da più ricercatori in maniera indipendente e anonima”, afferma Valerio Capraro, professore associato di psicologia presso l’Università di Milano-Bicocca e primo autore italiano dello studio.
Alex Haslam, PhD, professore di psicologia presso l’Università del Queensland in Australia e coautore dello studio, afferma: “Negli ultimi anni si è discusso molto dei limiti delle scienze psicologiche e comportamentali, soprattutto di fronte alla cosiddetta “crisi della replicabilità”. In contrapposizione a ciò, questa ricerca ha dimostrato che esiste un nucleo di buona teoria in questi campi, che fornisce una solida base sia per la previsione scientifica che per le politiche pubbliche. Questa teoria potrebbe non essere sempre appariscente, ma è il fondamento di una buona scienza sociale, e questo studio conferma che è qualcosa su cui possiamo fare affidamento per avere una guida quando ne abbiamo bisogno”.
Lo studio trova evidenze scientifiche per 18 delle 19 affermazioni contenute nel documento del 2020, comprese quelle relative al senso di identità e alla connessione con la comunità, leadership e fiducia, comunicazione su salute pubblica, coesione sociale e disinformazione. Tra queste 18 il documento del 2020 ha identificato correttamente 16 concetti comportamentali rilevanti durante la pandemia, inclusi alcuni probabili ostacoli alla riduzione della diffusione della malattia e le sfide sociali che i politici si sarebbero trovati ad affrontare. I ricercatori non hanno riscontrato alcun effetto per due delle politiche proposte, entrambe relative ad una comunicazione pubblica efficace (che i messaggi dovrebbero enfatizzare i benefici per il destinatario e che dovrebbero concentrarsi sulla protezione degli altri). Inoltre, il team non ha trovato prove da esaminare per una raccomandazione molto dibattuta pubblicamente ma che non ha ricevuto attenzione dalla comunità scientifica, che suggeriva che l’espressione “distanziamento fisico” fosse preferibile a “distanziamento sociale”.
Le affermazioni più fortemente supportate riguardavano l’importanza degli interventi per combattere la disinformazione e la polarizzazione, che si sono rivelati vitali per garantire l’aderenza alle linee guida sulla salute pubblica.
La ricerca ha inoltre sottolineato che, per essere efficace, la comunicazione deve provenire da leader fidati e rinforzare norme sociali positive.
Gli interventi di sanità pubblica che hanno ricevuto maggiore attenzione non sono stati necessariamente quelli con l’evidenza migliore. Ad esempio, la pulizia delle mani è stata ampiamente promossa come strategia per fermare la diffusione del COVID, ma gli effetti trovati nei vari studi sono stati minimi o nulli, in particolare se confrontati all’uso di mascherine, all’isolamento, al distanziamento e ai vaccini.
Per quanto riguarda le mascherine, le prime linee guida in alcuni paesi suggerivano che la pratica non avrebbe ridotto il COVID-19, ma prove successive hanno sottolineato la loro efficacia. Allo stesso modo, la ricerca ha anche ridimensionato le linee guida sull’impatto della chiusura delle scuole e della disinfezione delle superfici.
“Sebbene esistano comprensibili pressioni per emanare rapidamente linee guida durante una crisi, prendere decisioni politiche senza prove adeguate può avere un costo in molti modi”, afferma la coautrice dello studio Katherine Baicker, PhD, Direttore generale dell’Università di Chicago. “Con l’arrivo nel tempo di nuove evidenze scientifiche, alcune persone potrebbero considerare l’evoluzione delle linee guida politiche come un segno di impreparazione – o addirittura di cospirazione – il che indebolisce la fiducia nella competenza. I politici devono bilanciare la necessità di rapidità con la necessità di prove solide e credibilità”.
Il nuovo studio identifica anche diversi ambiti mancanti nel documento del 2020. Questi includono la percezione della minaccia e del rischio, il ruolo della disuguaglianza e del razzismo, lo scetticismo nei confronti della scienza, l’incentivazione di comportamenti al di là della semplice descrizione dei benefici (ad esempio, fornendo ricompense finanziarie per la vaccinazione) e l’assenza di una chiara leadership.
Infine, il gruppo di ricerca fornisce raccomandazioni per aiutare ricercatori e responsabili politici a reagire a future pandemie e disastri. Queste ultime includono la necessità di studiare le popolazioni globali, di fare più test sul campo e di essere più specifici nella formulazione di domande verificabili.
“Non si può sottovalutare il valore di testare sul campo ciò che funziona davvero per cambiare i comportamenti sanitari, e le conclusioni più forti che siamo riusciti a trarre in questo articolo sono arrivate spesso grazie alle partnership che i ricercatori hanno stretto con i governi locali e gli operatori sanitari per valutare attentamente ciò che effettivamente aggiunge valore nel mezzo di una crisi”, afferma la coautrice dello studio Katy Milkman, PhD, professoressa alla Wharton School dell’Università della Pennsylvania. I ricercatori incoraggiano inoltre gli scienziati a stringere più alleanze con politici e decisori – nel governo locale, negli ospedali, nelle scuole, nei media e oltre.
“Questo lavoro ha il potenziale per aumentare la trasparenza e creare fiducia nella scienza e nella salute pubblica, nonché per predisporre direttamente lo sviluppo di strumenti e conoscenze per pandemie o crisi future. I ricercatori possono essere una valida fonte di consulenza politica nel contesto di una crisi, e le nostre raccomandazioni indicano modi per migliorare ulteriormente questo ruolo delle scienze sociali e comportamentali”, afferma il co-autore senior dello studio Robb Willer, PhD, professore di sociologia all’Università di Stanford.
“Questo nuovo articolo ha valutato rigorosamente le raccomandazioni politiche del nostro team originale per vedere se fossero accurate, utilizzando grandi quantità di dati e un nuovo team di revisori indipendenti provenienti da tutto il mondo. Oltre a confermare la stragrande maggioranza delle nostre affermazioni originali, stabilisce un nuovo standard di riferimento per la valutazione delle evidenze quando devono essere prese decisioni politiche, in particolare quelle urgenti”, afferma Jay Van Bavel, PhD, professore di psicologia alla New York University, autore principale dell’articolo decisivo del 2020 e co-autore senior del nuovo articolo.
Un elenco completo degli autori è disponibile nell’articolo (DOI: 10.1038/s41586-023-06840-9).
Testo dall’Ufficio stampa dell’Università di Milano-Bicocca
Le aree importanti per la biodiversità, dove gli NCP aumentano maggiormente, contribuiscono al benessere dell’umanità Una nuova ricerca, che coinvolge il Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, rivela il contributo sostanziale della biodiversità nella regolazione del clima, della qualità dell’aria, e della quantità di acqua. Lo studio pubblicato sulla rivista Nature Sustainability apre nuove prospettive per delineare politiche di conservazione efficaci.
Le crescenti pressioni umane sull’ambiente e l’utilizzo intensivo delle risorse stanno determinando una perdita globale di biodiversità e la conseguente alterazione degli ecosistemi naturali. Questi processi inducono anche il declino dei cosiddetti “contributi della natura alle persone” (NCP o servizi ecosistemici), cioè tutti quei contributi della natura – sia positivi che negativi – alla qualità della vita degli esseri umani.
Negli ultimi 50 anni è stato osservato che la perdita di biodiversità e la tendenza al declino di diversi NCP, come la regolazione del clima e l’impollinazione (definiti regolatori) o le esperienze culturali e psicologiche (NCP non materiali) stanno progredendo in parallelo. È diventato quindi cruciale comprendere la relazione spaziale tra la biodiversità e questi servizi ecosistemici per garantire i sistemi di supporto vitale della Terra.
Un nuovo studio del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, realizzato in collaborazione con l’Università di Stanford, stima l’importanza delle regioni ad alta biodiversità nel mantenere l’erogazione di alcuni NCP, considerando quattro diversi scenari di cambiamento climatico e di sviluppo socio-economico. La ricerca pubblicata sulla rivista Nature Sustainability si concentra in particolare su tre NCP regolatori fondamentali e ad oggi in declino, ovvero la regolazione della qualità dell’aria, del clima e della quantità di acqua dolce.
“Il nostro lavoro – spiega Marta Cimatti del laboratorio di ricerca Biodiversity and Global Change della Sapienza, prima autrice dello studio – ha permesso di misurare il valore attuale e futuro degli NCP utilizzando una serie di indicatori ambientali derivati da modelli climatici d’avanguardia, e di valutare se il rischio derivante dal cambiamento ambientale è maggiore o minore nelle regioni ad alta biodiversità rispetto alle regioni di controllo”.
Dai risultati della ricerca emerge che sono presenti livelli più elevati di NCP nelle regioni ad alta biodiversità per tutti gli indicatori, sia nel presente che nei diversi scenari futuri, evidenziando la congruenza spaziale tra la biodiversità e gli NCP. Inoltre, gli indicatori della qualità dell’aria e della regolazione del clima mostrano livelli in rapido aumento nelle regioni importanti per la biodiversità, specialmente negli scenari che prevedono alte emissioni, mentre gli indicatori della regolazione della quantità di acqua sono leggermente in calo.
“Aver dimostrato che gli NCP aumentano maggiormente nelle aree importanti per la biodiversità – continua Marta Cimatti – è fondamentale per definire le politiche di conservazione, e consente di individuare possibili sinergie tra il raggiungimento degli obiettivi prefissati nell’ambito di diverse convenzioni internazionali e diversi obiettivi di sviluppo sostenibile. Infatti, la conservazione di queste aree proteggerebbe la vita sulla Terra attraverso la conservazione della biodiversità, ma garantirebbe anche la salute e il benessere degli esseri umani, la fornitura di acqua pulita e servizi igienico-sanitari e la mitigazione del clima”.
“I temi dello sviluppo sostenibile e della conservazione della biodiversità sono diventati ormai prioritari, ma non sempre è chiaro a tutti il legame stretto tra questi obiettivi globali – conclude Moreno Di Marco, a capo del laboratorio Biodiversity and Global Change e autore senior dello studio. Questo lavoro dimostra come la conservazione della biodiversità sia fondamentale per il mantenimento dei contributi della natura alle persone e conseguentemente per il raggiungimento degli obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030.”
Riferimenti: The role of high-biodiversity regions in preserving Nature’s contributions to People – Marta Cimatti, Rebecca Chaplin-Kramer, Moreno Di Marco – Nature Sustainability (2023) https://doi.org/10.1038/s41893-023-01179-5
Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Il segreto per sconfiggere Alzheimer e Parkinson nascosto nella laguna di Venezia? Un nuovo studio sul botrillo, pubblicato su Cells, per comprendere le malattie neurodegenerative
Padova – Milano, 20 aprile 2023 – Ad oggi, non conosciamo ancora quali siano le cause di malattie come l’Alzheimer o la Malattia di Parkinson; di conseguenza, le terapie a disposizione non sono purtroppo in grado di arrestare o rallentare la patologia. Ciò vale per tutte le cosiddette “malattie neurodegenerative”, che comprendono anche nomi noti, quali la Sclerosi Laterale Amiotrofica, e meno noti come la Demenza o Sindrome Fronto-Temporale (FTD).
Ma un inatteso aiuto potrebbe arrivare da un piccolo animale marino, l’invertebrato di nome botrillo, un animaletto che cresce e si riproduce a basse profondità in mari quali il Mediterraneo e, in particolare in zone ricche in nutrienti e calde dell’Adriatico, come la Laguna di Venezia. Si tratta di un essere vivente molto semplice che presenta al suo interno anche un cervello rudimentale, costituito da poco meno di un migliaio di neuroni. Tuttavia tale organismo appartiene al gruppo di animali considerati i parenti più prossimi ai vertebrati (il gruppo a cui anche l’uomo appartiene) e, anche per tale motivo, i ricercatori lo stanno studiando da tempo.
Team internazionale di ricercatori – Università di Stanford, California (dr.ssa Chiara Anselmi) e Università Statale di Milano (proff. Alberto Priori e Tommaso Bocci) – coordinato dalla prof.ssa Lucia Manni del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova ha pubblicato lo studio Multiple Forms of Neural Cell Death in the Cyclical Brain Degeneration of A Colonial Chordate sulla rivista scientifica «Cells» che evidenzia come questo invertebrato contenga tutti i geni coinvolti nelle malattie neurodegenerative umane e, durante il suo ciclo vitale, le sue cellule nervose invecchino esattamente come nell’uomo.
“Il botrillo, che abbiamo studiato attraverso microscopia elettronica e analisi dell’espressione genica, va incontro naturalmente a neurodegenerazione secondo modalità che potrebbero aiutare la ricerca nell’uomo a trovare strategie, o farmaci, per fermare gravi malattie neurodegenerative”, spiega la prof.ssa Lucia Manni, autore referente dello studio. “In particolare, i neuroni del botrillo mostrano diversi tipi di morte cellulare, così come avviene nelle malattie neurodegenerative umane. Inoltre, geni criticamente coinvolti in queste malattie sono espressi nelle diverse fasi del ciclo vitale del botrillo secondo tempistiche che ricordano molto il progredire delle malattie nell’uomo. Per esempio, geni tipici dei disordini conformazionali, come l’Alzheimer e il Parkinson, sono espressi nel botrillo in tempi che richiamano nell’uomo il passaggio della malattia da una fase di degenerazione pre-clinica alla comparsa di sindromi specifiche nell’uomo”.
“Questi risultati potrebbero aprire inediti scenari sia nell’identificazione di un minimo comune denominatore fra patologie umane molto dissimili fra di loro, sia nell’impiego di nuove metodiche di stimolazione elettrica cerebrale non invasiva per la prevenzione e la cura della neurodegenerazione”,dice il prof. Alberto Priori del Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università Statale di Milano e co-autore della ricerca.
CAMBIAMENTI CLIMATICI ED EVOLUZIONE DEI FIUMI ARTICI UNA “SORPRESA” DAL DISGELO DEL PERMAFROST
Dalla ricerca pubblicata su «Nature Climate Change» emerge che una temperatura più alta modifica la vegetazione e l’infiltrazione d’acqua nelle pianure fluviali artiche, portando ad un rallentamento dell’erosione dei fiumi.
Il riscaldamento globale sta cambiando i paesaggi artici a causa del disgelo del permafrost, lo strato di terreno perennemente ghiacciato che ha ricoperto la tundra artica per millenni. Il disgelo del permafrost causa frane e smottamenti e, in casi estremi, può persino portare al prosciugamento di interi laghi. L’aspetto più allarmante però è il potenziale rilascio in atmosfera di enormi quantità di gas serra – tra cui metano, anidride carbonica e protossido di azoto – rimaste intrappolate nel permafrost per secoli. Si stima infatti che nel permafrost siano congelati 1400 miliardi di tonnellate di carbonio – una quantità quattro volte superiore a quella emessa dall’uomo dalla rivoluzione industriale ad oggi – e quasi il doppio di quella attualmente contenuta nell’atmosfera.
Emissioni significative di gas serra nelle regioni artiche sono generate dall’azione dei fiumi che, spostandosi lateralmente con velocità che possono arrivare a decine di metri all’anno, erodono terreni ricchi di permafrost. Infatti, l’acqua che scorre lungo un fiume tende a erodere sedimenti lungo le sponde concave e ri-depositarli lungo le sponde convesse, determinando così una migrazione laterale del fiume nel corso degli anni. L’indebolimento delle sponde dei fiumi a causa del disgelo del permafrost, nonché l’aumento dei flussi di acqua e sedimenti dovuti al degrado della criosfera, potrebbe favorire l’erosione delle sponde, aumentando la mobilità laterale dei fiumi e modificando ulteriormente le emissioni in atmosfera.
Ma l’aumento delle temperature e dell’umidità atmosferica che favoriscono lo scioglimento del permafrost hanno solo effetti negativi sul paesaggio artico? Per rispondere a questa domanda, un team di ricerca internazionale ha monitorato l’evoluzione dei grandi fiumi dell’Alaska e del Canada e svelato come, a seguito del forte riscaldamento della regione, i fiumi non si muovano come gli scienziati si aspettavano.
Lo studio, dal titolo “Large sinuous rivers are slowing down in a warming Arctic” e pubblicato su «Nature Climate Change», ha analizzato l’evoluzione dei 10 maggiori fiumi artici in Alaska (Stati Uniti), nello Yukon e nei Territori del Nord-Ovest (Canada) durante gli ultimi 50 anni. La ricerca, coordinata da Alessandro Ielpi dell’Università della British Columbia e frutto della collaborazione tra il Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, l’Università della British Columbia (Canada), l’Università di Stanford (USA) e l’Università Laval (Canada), rivela che una temperatura più alta modifica anche la vegetazione e i flussi d’acqua superficiali nelle pianure fluviali artiche: ciò rallenterebbe l’erosione dei fiumi e potrebbe influenzare il rilascio di gas serra causato dal disgelo del permafrost.
«Abbiamo testato l’ipotesi, ampiamente accettata dalla comunità scientifica, che il riscaldamento atmosferico e il conseguente disgelo del permafrost indeboliscano le sponde e provochino un aumento dei tassi di migrazione laterale dei fiumi artici. Per fare ciò – dice Alvise Finotello, ricercatore del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova e autore della pubblicazione – abbiamo utilizzato sequenze di immagini satellitari ad alta risoluzione che coprono un periodo temporale di circa mezzo secolo. In totale, abbiamo analizzato più di mille chilometri di sponde distribuiti lungo 10 corsi d’acqua, tutti caratterizzati da larghezze comprese tra 100 e 1000 metri, così da poter essere facilmente identificabili anche nelle immagini satellitari più datate e risalenti agli anni Settanta. Lo studio è stato possibile grazie alle metodologie di analisi da remoto che il nostro gruppo di ricerca ha sviluppato nel corso degli anni, e che possono essere applicate a sistemi fluviali in diversi contesti climatici, dalle foreste tropicali ai deserti, fino appunto agli ambienti artici. Contrariamente a quanto ci aspettavamo di osservare, i nostri risultati mostrano una sorprendente riduzione dei tassi di migrazione laterale di dei fiumi nell’ordine del 20% negli ultimi 50 anni, una stima che potrebbe addirittura essere conservativa date le metodologie di analisi che abbiamo utilizzato».
«Tale rallentamento è con ogni probabilità dovuto ad una serie di effetti indiretti legati al riscaldamento atmosferico e al conseguente scioglimento del permafrost. Temperature più alte favoriscono lo sviluppo della vegetazione grazie a stagioni di crescita più calde e lunghe, un processo noto come inverdimento artico. Inoltre – spiega Alessandro Ielpi dell’Università della British Columbia e già visiting scientist al Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova nel 2019 – lo scioglimento del permafrost permette alle radici delle specie arbustive di penetrare più in profondità nel terreno rispetto a quanto accadeva nel passato. Radici più profonde aumentano la resistenza delle sponde e la capacità di ritenzione idrica delle piane alluvionali, riducendo così i tassi di erosione e la velocità di migrazione laterale dei fiumi».
Poiché una ridotta mobilità dei fiumi ha un impatto diretto sui flussi di gas serra rilasciati dall’erosione di terreni ricchi di permafrost, i risultati dello studio avranno importanti ramificazioni per quanto riguarda i bilanci delle emissioni globali e i cambiamenti climatici futuri ad essi connessi.
Le pulsar, stelle di neutroni che ruotano rapidamente, emettono un vero e proprio vento, composto da particelle di alta energia e permeato da campi magnetici, che può scontrarsi con il gas che incontra sul suo cammino. Da questo scontro viene prodotta radiazione di sincrotrone che letteralmente “accende” le nebulose. Un’indagine sulle proprietà della luce proveniente da uno di questi oggetti celesti, la Vela Pulsar Wind Nebula (PWN), osservabile nella direzione della costellazione della Vela, nel cielo australe, mostra come essa risulti polarizzata.
Questo aspetto fornisce importanti indicazioni sulla distribuzione e sulla geometria dei campi magnetici che caratterizzano la pulsar, e dalle quali dipende la direzione di emissione del vento di particelle responsabile della radiazione di sincrotrone all’origine della luminosità della nebulosa circostante. Il risultato, pubblicato oggi, mercoledì 21 dicembre, sulla rivista Nature, è stato ottenuto dalla collaborazione internazionale dell’esperimento Imaging X-ray Polarimetry Explorer (IXPE), satellite, frutto di una collaborazione tra NASA e ASI, che è dotato di innovativi rivelatori sviluppati, realizzati e testati dall’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) e dall’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica). IXPE è stato in grado di osservare la polarizzazione della luce nella banda X dalla Vela PWN e di studiare il vento prodotto dalla sua pulsar.
Prodotta circa 12000 anni fa a seguito dell’esplosione di una stella, la nebulosa della Vela, insieme a quella del Granchio (risultato anch’essa di una supernova, talmente luminosa da essere visibile anche di giorno, come riportato da astronomicinesi nel 1054), sono tra i più studiati oggetti celesti della loro tipologia. Ma le somiglianze tra le due sorgenti astrofisiche non terminano qui. Le radiazioni emesse da entrambe le nebulose risultano infatti polarizzate. Ciò significa che i campi elettromagnetici dei fotoni non sono distribuiti in modo casuale, ma risultano essere allineati lungo direzioni specifiche, che variano in base alla regione della nebulosa da cui sono stati emessi. L’allineamento dei fotoni implica che gli elettroni ad altissima energia che compongono il vento della pulsar alla base del meccanismo responsabile dell’emissione della luce di sincrotrone, e quindi dei fotoni stessi, si muovano lungo una spirale all’interno del campo magnetico delle PWN. Comportamento che suggerisce che i campi magnetici di Vela PWN siano disposti in una geometria molto ordinata.
“IXPE ha rivelato che i campi magnetici di Vela PWN sono ben allineati con l’immagine nei raggi X della nebulosa” dice Fei Xie, professoressa associata alla Guangxi University e già post-doc presso l’INAF di Roma, prima autrice dell’articolo pubblicato su Nature. “Questi campi formano delle strutture a forma di ciambella (dette tori) che circondano l’equatore della pulsar e i getti di emissione che partono dai poli della pulsar stessa. Ancora più sorprendentemente, il grado di polarizzazione misurato risulta essere molto elevato, superando il 60% in più regioni. Questo è il grado di polarizzazione più elevato mai misurato in una sorgente celeste nei raggi X ed è un valore prossimo al valore massimo permesso dalla fisica dell’emissione di sincrotrone”.
“L’alta polarizzazione vista da IXPE, assieme alla distribuzione energetica costante (nel blu), suggerisce che gli elettroni non sono accelerati da processi di shock turbolenti, che risultano svolgere un ruolo predominante in altre sorgenti di raggi X, quali i resti di Supernova con strutture a guscio. A produrre un tale risultato, invece, potrebbe essere un processo non turbolento come la riconnessione magnetica”, dice Roger W. Romani, astrofisico di Stanford coinvolto nell’analisi dei dati.
“Questa misura di polarizzazione in banda X, ottenuta da IXPE, aggiunge un pezzo finora mancante al puzzle di Vela PWN”, dichiara Alessandro Di Marco, ricercatore presso l’INAF di Roma che ha contribuito all’analisi dei dati. “IXPE ha svelato la struttura dei campi magnetici nella regione centrale, fornendoci una loro mappa con una risoluzione precedentemente mai ottenuta, mostrando come questa sia in accordo con le immagini ottenute in radio per la nebulosa esterna”.
“Il risultato è stato reso possibile dalle caratteristiche uniche degli strumenti, tutti Italiani, al piano focale dei tre telescopi di IXPE, che non solo forniscono una sensibilità alla polarizzazione senza precedenti in questa banda di energia, ma permettono anche di misurare, fotone per fotone, la direzione d’arrivo e l’energia”, commenta Luca Baldini, ricercatore dell’INFN e dell’Università di Pisa, Co-Principal Investigator italiano di IXPE.
“Le misure di polarizzazione della Vela PWN nei raggi X evidenziano quanto sia diversificata in sorgenti astrofisiche la struttura dei campi magnetici alla base dell’emissione X osservata. Quella della Vela PWN è di certo tra le meno complesse, dato l’elevato grado di polarizzazione vicino al limite teorico previsto” dice Immacolata Donnarumma, ASI Project Scientist.
IXPE sta continuando a osservare il cielo ai raggi X sondando più in profondità nelle strutture dei campi magnetici di diverse sorgenti celesti, fornendoci nuove informazioni sulla fisica estrema di questi acceleratori cosmici di particelle.
Testo e immagine dagli Uffici Stampa Agenzia Spaziale Italiana, Istituto Nazionale di Astrofisica, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.
DA UN PICCOLO INVERTEBRATO MARINO, IL BOTRILLO, UN AIUTO PER CAPIRE MEGLIO ALZHEIMER E PARKINSON
Con l’avanzare dell’età nel Botryllus schlosseri si osserva una riduzione del numero di neuroni e delle abilità comportamentali, come nell’uomo.
Inoltre il suo cervello manifesta geni la cui espressione caratterizza malattie neurodegenerative umane quali l’Alzheimer e il Parkinson. Pubblicato su PNAS lo studio delle Università di Stanford, Padova e Cham Zuckerberg Biohub
I tunicati, invertebrati marini molto comuni nei nostri mari, sono i parenti più stretti dei vertebrati, di cui fa parte anche l’uomo. Tra i tunicati il botrillo, Botryllus schlosseri, forma piccole colonie in cui gli individui adulti si dispongono come i petali di un fiore. Nella colonia, che può essere formata anche da centinaia di fiori, ciascun individuo adulto presenta ai lati del corpo uno o più piccoli individui in crescita (le sue gemme), derivate per riproduzione asessuata. Gli adulti vengono settimanalmente riassorbiti e sostituiti dalle loro gemme nel frattempo maturate. Questo processo di sostituzione è ciclico e siccome ogni “genitore” produce più di una gemma, la colonia cresce di dimensioni in maniera veloce e continua. Tuttavia, se gli adulti hanno vita breve e sono continuamente sostituiti da nuovi individui, la colonia non vive in eterno: nella Laguna veneta muoiono tipicamente dopo 1-2 anni, ma in laboratorio si possono mantenere in vita anche per periodi molto più lunghi.
Questi animali semplici, i botrilli, sono al centro dell’articolo dal titolo “Two distinct evolutionary conserved neural degeneration pathways characterized in a colonial chordate” pubblicato da un team di ricercatori del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova e dell’Università di Stanford, in collaborazione con il Cham Zuckerberg Biohub di San Francisco, sulla rivista scientifica «PNAS» perché presentano una degenerazione del cervello simile a quella umana. Capire quindi quali siano i processi che portano al decadimento del loro sistema nervoso, anche da un punto di vista evolutivo, può esser d’aiuto nel comprendere neuropatologie, spesso invalidanti, che coinvolgono un numero crescente di persone.
Lo studio
Il botrillo, come detto, ci offre la straordinaria possibilità di studiare la degenerazione del cervello sia nel breve periodo, ovvero nel processo ciclico (settimanale) di riassorbimento degli individui adulti che comporta di fatto un loro rapido invecchiamento, sia nel lungo periodo, ovvero nel processo di invecchiamento dell’intera colonia, che vede nel tempo diminuire la sua capacità di produrre nuovi individui ed espandersi.
La ricerca – coordinata da Chiara Anselmi, dottorata all’Ateneo patavino e ora post-doc all’Università di Stanford, Lucia Manni del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, Ayelet Voskoboynik e Irv Weissman dell’Università di Stanford – ha utilizzato colonie prelevate nella Laguna Veneta e allevate alla Stazione Idrobiologica di Chioggia e al Dipartimento di Biologia dell’Ateneo patavino oltre a quelle prese dalla Hopkins Marine Station, nella baia di Monterey in California.
Dalle analisi fatte emerge che la degenerazione del cervello del botrillo ha fortissime analogie con il decadimento del cervello umano: sia nella neurodegenerazione breve (settimanale) che in quella lunga (relativo all’invecchiamento della colonia). In entrambi i processi, nell’animale si osserva una riduzione del numero di neuroni e una diminuzione delle abilità comportamentali.
«È stato davvero sorprendente per noi vedere che nella degenerazione breve degli individui adulti il cervello cominciava a diminuire di volume qualche giorno prima del loro riassorbimento completo ovvero della loro morte. Dopo tre giorni di vita – dice la professoressa Lucia Manni del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova – il numero di neuroni nel cervello cominciava a diminuire, così come la loro capacità di rispondere a stimoli come il tocco della loro bocca, il sifone, attraverso cui l’acqua entra per la nutrizione e la respirazione. Questi stessi segni di invecchiamento erano poi presenti anche in individui di colonie neoformate rispetto a quelli presenti in colonie di soli 6 mesi. Eravamo quindi in presenza di due processi di neurodegenerazione la cui presenza non era mai stata sospettata, uno veloce e uno lento, nello stesso organismo».
Ma ciò che è ancor più interessante è che durante entrambi i processi degenerativi il cervello dell’animale manifesta geni la cui esressione caratterizza malattie neurodegenerative umane come l’Alzheimer e il Parkinson.
«Ancor più incredibile è stato poi verificare che entrambi i processi di neurodegenerazione erano associati all’aumento di espressione di geni che caratterizzano le malattie neurodegenerative nell’uomo come l’Alzheimer, il Parkinson, la malattia di Huntington, la demenza frontotemporale e altre ancora – sottolinea Chiara Anselmi dell’Università di Stanford –. Molti di questi geni erano espressi in entrambi i processi neurodegenerativi, mentre una piccola parte li differenziava. Questi geni, pertanto, svolgono un ruolo anche in questi semplici animali e questo piccolo invertebrato può rappresentare una risorsa per comprendere come l’evoluzione abbia forgiato i processi neurodegenerativi e quali siano le relazioni tra invecchiamento e perdita della funzionalità neuronale».
«Approfondire ora lo studio dell’invecchiamento e della neurodegenerazione in questo animale ci porterà a capire come il botrillo riesca a controllare e coordinare la neurodegenerazione ciclica rispetto a quella associata all’invecchiamento – concludono gli autori –. Questo potrebbe svelarci qualcosa di inaspettato rispetto alla nostra possibilità di governare i processi neurodegenerativi nell’uomo».
Il progetto di ricerca è stato finanziato dall’Università di Padova (Progetti di Ricerca di Ateneo, Dottorato di Ricerca, Iniziative di Cooperazione Universitaria), Fondazione “Aldo Gini”, Università di Stanford (School of Medecine Deans’s Postdoctoral Fellowship), l’NIH, il Chan Zuckerberg investigator program, e le Fondazioni “Stinehart-Reed” e “Larry L. Hillblom”.
Titolo: Two distinct evolutionary conserved neural degeneration pathways characterized in a colonial chordate – “PNAS” – 2022
Autori: Chiara Anselmi, Mark Kowarsky, Fabio Gasparini, Federico Caicci, Katherine J. Ishizuka, Karla J. Palmeri, Tal Raveh, Rahul Sinha, Norma Neff, Steve R. Quake, Irving L. Weissman, Ayelet Voskoboynik, Lucia Manni
Testo e foto dall’Università degli Studi di Padova