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Gestione delle specie aliene, l’approccio italiano che piace anche alla comunità europea

La professoressa Iduna Arduini dell’Università di Pisa nel team che ha sviluppato la nuova metodologia

È tutto italiano il nuovo approccio per gestire l’invasione delle piante aliene recentemente segnalato anche sul sito web della Commissione Europea (section Energy, Climate change, Environment).

La ricerca pubblicata sulla rivista Ecological Indicators è stata condotta da un gruppo interdisciplinare di esperti provenienti da diverse istituzioni accademiche e centri di ricerca italiani. Per l’Università di Pisa ha partecipato la professoressa Iduna Arduini, botanica del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali che ha contribuito principalmente attraverso la raccolta e l’analisi dei dati sulle specie vegetali invasive.

Usando l’Italia come caso di studio, scienziati e scienziate hanno esaminato la diffusione attuale e futura di 34 piante invasive, integrando modelli predittivi climatici con dati reali di distribuzione. Sulla base dei risultati ottenuti, le piante sono state assegnate a tre categorie di gestioneeradicazione (per specie con alto rischio di invasione, ma ancora in fase iniziale), controllo e contenimento (per specie già diffuse, ma ancora gestibili) e monitoraggio, per specie già ampiamente diffuse o con impatti incerti. Grazie a questa metodologia sarà quindi possibile un approccio più efficace nella lotta alle piante invasive, prevenendo danni ambientali e ottimizzando l’uso delle risorse.

“Fortunatamente, non tutte le specie aliene diventano invasive – spiega Arduini – Ad esempio, delle 1597 specie vegetali aliene censite in Italia, soltanto il 14% circa ha manifestato un comportamento invasivo. Diventa perciò di cruciale importanza individuare quelle su cui indirizzare le azioni di eradicazione, controllo o semplice monitoraggio. Gli interventi di eradicazione sono raccomandati per le specie potenzialmente invasive ma non ancora ampiamente diffuse. Tra queste compaiono Nelumbo nucifera (fior di loto) e Phyllostachys aurea (bambù dorato) entrambe specie ornamentali il cui rilascio nell’ambiente deve essere assolutamente evitato sia sotto forma di semi che frammenti”.

 Iduna Arduini
Gestione delle specie aliene, l’approccio italiano che piace anche alla comunità europea; la ricerca pubblicata sulla rivista Ecological Indicators. Iduna Arduini

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

L’interazione tra buchi neri e onde gravitazionali si studia con un esperimento da tavolo

Lo studio, basato sulla tesi di Chiara Coviello, laureata in Fisica all’Unipi, è stato pubblicato sulla rivista AVS Quantum.

Uno studio basato sulla tesi di Chiara Coviello, laureata in Fisica all’Università di Pisa nel 2023 e adesso al King’s College di Londra per un dottorato di ricerca, è stato recentemente pubblicato dalla rivista AVS Quantum Science. Al centro dello studio – intitolato “Gravitational waves and Black Hole perturbations in acoustic analogues” – ci sono i buchi neri che, con il loro fascino oscuro, sono tra gli oggetti più affascinanti del cosmo e sono incredibilmente difficili da analizzare. Per comprenderli meglio, il gruppo di ricerca interdisciplinare di cui fa parte Coviello ha esaminato i buchi neri acustici, un equivalente analogico che intrappola le onde sonore e può essere creato in un esperimento da tavolo. Tra gli autori e le autrici dello studio ci sono anche la professoressa Marilù Chiofalo dell’Università di Pisa, i professori Dario Grasso dell’INFN di Pisa, Stefano Liberati della SISSA di Trieste e Massimo Mannarelli dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso, con la dottoressa Silvia Trabucco, dottoranda di ricerca al Gran Sasso Institute Science dopo essersi laureata in Fisica a Pisa.

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L’interazione tra buchi neri e onde gravitazionali si studia con un esperimento da tavolo; lo studio pubblicato su AVS Quantum Science

Coviello e gli altri autori e autrici hanno indagato se i buchi neri acustici possano essere utilizzati per comprendere le interazioni tra le onde gravitazionali e i buchi neri astrofisici. In un’analisi teorica, hanno esplorato come generare perturbazioni simili a onde gravitazionali in un condensato di Bose-Einstein di atomi ultrafreddi, uno stato della materia in cui qualche centinaia di migliaia di atomi si comportano collettivamente come se fossero un unica grande molecola. Nei condensati di Bose-Einstein, le eccitazioni di più bassa energia sono perturbazioni della densità, descritte da particella quantistiche chiamate fononi. Nello studio, i fononi si muovono come particelle senza massa in una geometria che può essere ingegnerizzata in modo da riprodurre caratteristiche di un buco nero per quanti di luce, o fotoni, cioè un buco nero astrofisico. Negli analoghi buchi neri acustici, infatti, sono i fononi a rimanere intrappolati e al tempo stesso costituire la cosiddetta radiazione di Hawking, predetta dal celebre astrofisico Stephen Hawking per i buchi neri astrofisici. Utilizzando quanto noto sulle onde gravitazionali, le autrici e gli autori hanno sviluppato un dizionario tra buchi neri astrofisici e buchi neri acustici, per comprendere meglio gli effetti di perturbazioni simili alle onde gravitazionali sull’orizzonte acustico di un buco nero da laboratorio. L’idea è usare esperimenti di fisica della materia in tavoli ottici di qualche metro quadro come simulatori quantistici altamente accurati e controllabili per studiare proprietà di oggetti di interesse astrofisico e cosmologico.

“Siamo entusiasti che questa fisica possa essere studiata in esperimenti attualmente realizzabili, ad esempio con atomi ultra-freddi, offrendo un nuovo modo per analizzare questi sistemi in un ambiente controllato”, ha dichiarato l’autrice Chiara Coviello.

Chiara Coviello
Chiara Coviello

I risultati potrebbero essere utilizzati per studiare gli effetti di dissipazione e riflessione delle perturbazioni simili alle onde gravitazionali nei buchi neri acustici. Gli autori e le autrici ritengono che ciò contribuirà a far luce sui comportamenti universali e sul ruolo delle fluttuazioni quantistiche nei buchi neri astrofisici.

Il team di ricerca, composto da una collaborazione tra diverse università e centri di ricerca, intende proseguire lo studio analizzando le proprietà di viscosità dell’orizzonte acustico in relazione alla sua entropia, note per avere comportamenti universali, cioè non dipendenti dallo specifico sistema fisico. I risultati potrebbero fornire nuove intuizioni sulla teoria fisica di base e sulle simmetrie dei buchi neri astrofisici.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

L’apprendimento si legge nelle pupille dei nostri occhi

Pubblicato su Current Biology uno studio condotto da ricercatori delle Università di Pisa, di Sydney, di Firenze e del Salento.

In uno studio appena pubblicato sulla rivista Current Biology, i ricercatori delle Università di Pisa, di Sydney, di Firenze e del Salento hanno dimostrato che l’apprendimento statistico – cioè quello in cui acquisiamo informazioni in modo del tutto automatico e inconsapevole – si può rintracciare persino in una delle nostre reazioni più semplici e inconsapevoli: la costrizione o dilatazione della pupilla dei nostri occhi, evocata dalla vista di un’immagine.

“Questo studio dimostra che il nostro sistema visivo è sensibile alle regolarità statistiche del nostro ambiente anche quando non siamo in grado di percepirle in modo consapevole – commenta Paola Binda, professoressa dell’Università di Pisa e prima autrice del lavoro – Il diametro pupillare si conferma una ricca fonte di informazioni sul funzionamento dei nostri sistemi sensoriali e cognitivi: una vera e propria finestra sulla mente e sulle sue capacità di apprendimento”.

Lo studio parte dalla considerazione che tantissime delle informazioni su cui si basa il nostro comportamento sono apprese in modo spontaneo e inconsapevole, basti pensare all’acquisizione del linguaggio: siamo in grado di distinguere le parole nel suono prodotto da chi ci parla, nonostante questo sia continuo e non abbia evidenti pause che demarcano la fine di una parola e l’inizio della successiva:

“Per imparare non ci servono istruzioni o indicazioni – continua Paola Binda – siamo capaci di farlo sin dalle prime settimane di vita, semplicemente ascoltando i suoni della nostra lingua. Probabilmente, questa forma di “apprendimento statistico” è importante per estrarre un senso da tutti i segnali sensoriali, non solo uditivi ma anche visivi, tattili etc.”.

Per il loro studio, i ricercatori hanno mostrato ai pazienti immagini che riportavano insiemi di barrette apparentemente casuali (un esempio è visibile a questo link). La loro successione temporale era molto rapida e regolata da una semplice struttura statistica: ogni immagine contenente 24 barrette era seguita da una con 6 barrette, 2 barrette erano seguite da 12 barrette e così via a creare delle coppie fisse di numerosità. Data la velocità con cui le immagini si susseguivano e la disposizione variabile degli elementi, questa struttura temporale non era percepibile. Cionondimeno, il diametro pupillare oscillava sistematicamente, rispondendo alla ripetizione delle coppie (mentre nessuna oscillazione si osservava in un esperimento di controllo in cui le medesime immagini erano presentate in ordine casuale).

“Grazie a questa metodologia innovativa è possibile seguire in modo indiretto e non invasivo l’evolversi di processi cerebrali complessi – conclude Binda – Nel lungo termine, questo tipo di ricerca potrebbe consegnarci nuovi strumenti per caratterizzare le differenze interindividuali dell’apprendimento e le sue disfunzioni”.

la professoressa Paola Binda. Crediti per la foto: Guido Marco Cicchini
L’apprendimento statistico si può rintracciare nella costrizione o dilatazione delle pupille dei nostri occhi, evocata da un’immagine, secondo il nuovo studio pubblicato su Current Biology. In foto, la professoressa Paola Binda. Crediti per la foto: Guido Marco Cicchini

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

L’influenza dei cambiamenti climatici sulle strategie riproduttive delle piante: uno studio dell’Università di Pisa traccia l’evoluzione dei semi negli ultimi 150 milioni di anni

La ricerca pubblicata sulla rivista New Phytologist

Uno studio dell’Università di Pisa ha tracciato l’evoluzione dei semi negli ultimi 150 milioni di anni evidenziando una relazione diretta tra evoluzione, cambiamento del clima terrestre e comparsa di innovazioni riproduttive nelle angiosperme, le piante a fiore maggiormente diffuse sul nostro pianeta. La ricerca condotta dal professore Angelino Carta dell’Ateneo pisano e da Filip Vandelook del Giardino botanico Meise in Belgio è stata pubblicata sulla rivista New Phytologist.

L’analisi ha riguardato i semi di 900 specie rappresentative di tutte le famiglie di angiosperme di cui è stato valutato il rapporto fra dimensioni dell’embrione e riserve nutritive. Dai risultati è emerso che i cambiamenti del clima della Terra hanno portato a un’ampia diversificazione, permettendo alle angiosperme di esplorare nuove strategie riproduttive e di adattarsi a habitat sempre più vari.

“Non sappiamo se i nuovi tipi di semi hanno favorito tale diversificazione oppure se i nuovi tipi di semi son comparsi in conseguenza di essa. Certamente però, ed è la cosa più affascinante – spiega Carta – l’innovazione evolutiva dei semi, coincide con la comparsa dei principali modelli strutturali dei fiori contribuendo a spingere la biodiversità moderna verso cambiamenti epocali denominati Rivoluzione Terrestre delle Angiosperme”.

La condizione ancestrale delle piante era quella di avere semi con embrioni relativamente piccoli, tendenza che ha avuto poche variazioni sino a quando le temperature medie globali sono state alte, sopra i 25 °C. Quando le temperature globali sono diminuite, con temperature intorno ai 15 °C, l’evoluzione ha favorito semi con embrioni più grandi che tendono infatti a germinare più rapidamente, un vantaggio in ambienti secchi o soggetti a condizioni imprevedibili. E tuttavia, come è emerso dallo studio, questo sviluppo non esaurisce la storia evolutiva dei semi che piuttosto ha avuto un andamento “a salti”. Semi con maggiori riserve nutritive e minori dimensioni dell’embrione mantengono infatti il vantaggio di ritardare la germinazione e aumentare le possibilità di sopravvivenza, soprattutto in ambienti come le foreste e gli habitat umidi.

“Questa ricerca è stata una sfida materiale e virtuale che non solo aiuta a comprendere il passato evolutivo delle piante a fiore, ma potrebbero anche fornire informazioni importanti su come risponderanno ai cambiamenti climatici futuri – conclude Angelino Carta, del Dipartimento di Biologia – la sfida materiale è iniziata diversi anni fa quando abbiamo iniziato, guidati da Filip Vandelook ad assemblare il più grande dataset relativo alle caratteristiche dimensionali e strutturali dei semi, utilizzando sia a materiale vivo ma anche valorizzando materiale conservato in erbari e banche semi; la sfida virtuale è stata gestire e analizzare questa mole di informazioni per ricostruire gli ultimi 150 milioni di anni di storia evolutiva dei semi attraverso sofisticati approcci analitici e le risorse del centro di calcolo dell’Ateneo pisano”.

Link articolo scientifico: https://doi.org/10.1111/nph.20445

Immagine di mxwegele

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Coltivare le verdure nello spazio: sarà possibile anche in assenza di luce 

La ricerca, a cui ha preso parte un team di biologi della Sapienza Università di Roma, ha individuato i meccanismi molecolari che consentono ad alcune microverdure di germogliare e crescere al buio. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista “Plant Communications”.

Tra le principali sfide nella coltivazione di verdure nello spazio, una delle più rilevanti è la limitata disponibilità di risorse energetiche, in particolare la luce, fondamentale per la crescita e il corretto sviluppo delle piante.

L’individuazione di varietà di microverdure in grado di essere coltivate in contesti ambientali estremi, come le missioni spaziali, rappresenta una soluzione ideale soprattutto per rifornire di cibi freschi gli astronauti durante i viaggi e la loro permanenza nello spazio.

Uno studio, pubblicato sulla rivista “Plant Communications” e coordinato dai ricercatori Raffaele Dello Ioio e Paola Vittorioso del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie della Sapienza, in collaborazione con l’Institute of Experimental Botany, l’Agenzia Spaziale Italiana e il Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, ha permesso di isolare microverdure capaci di germinare al buio identificando un meccanismo molecolare che promuove la loro crescita indipendentemente dalla luce.

La ricerca si è focalizzata sulla Cardamine hirsuta, più comunemente nota come crescione amaro peloso, una pianta modello con caratteristiche di microverdura.

I ricercatori hanno dimostrato che la Cardamine è capace di germinare indipendentemente dalla luce e che deve questa sua capacità agli alti livelli di Acido gibberellico (GA), ormone presente in tutte le piante e responsabile della loro crescita, e al regolatore DAG1, che invece è coinvolto nel processo indipendentemente dalle condizioni di luce.

I risultati ottenuti dalla ricerca permetteranno di traslare queste conoscenze anche ad altre microverdure attraverso tecnologia TEA (tecniche di evoluzione assistita), aumentando il plafond di prodotti vegetali disponibili per gli astronauti e avvicinando la colonizzazione di altri pianeti.

Grazie alla joint venture del gruppo di Paola Vittorioso e di Raffaele Dello Ioio, finanziata dalla regione Lazio, sarà possibile inoltre approfondire nuove prospettive per lo sviluppo di colture più resilienti e che riescano ad adattarsi a contesti ambientali sempre più complessi a causa del cambiamento climatico.

 “Oggi le tematiche legate all’ambiente – commenta Dello Ioio – coinvolgono la società in tutte le sue componenti rendendo necessario lo sviluppo di strategie alternative per rendere le coltivazioni sostenibili e adattabili alle nuove condizioni climatiche. La generazione di piante di interesse agronomico i cui semi sono capaci di germinare in condizioni non ottimali rappresenterebbe quindi un importante traguardo per la generazione di colture tolleranti i cambiamenti ambientali”.

Riferimenti bibliografici:

Andrea Lepri, Hira Kazmi, Gaia Bertolotti, Chiara Longo, Sara Occhigrossi, Luca Quattrocchi, Mirko De Vivo, Daria Scintu, Noemi Svolacchia, Danuse Tarkowska, Veronika Tureckova, Miroslav Strnad, Marta Del Bianco, Riccardo di Mambro, Paolo Costantino, Sabrina Sabatini, Raffaele Dello Ioio, Paola Vittorioso, A DOF transcriptional repressor-gibberellin feedback loop plays a crucial role in modulating light-independent seed germination, Plant Communications, Volume 0, Issue 0, 101262, DOI: https://www.cell.com/plant-communications/fulltext/S2590-3462(25)00024-0

Coltivare le verdure nello spazio: sarà possibile anche in assenza di luce; la ricerca si è concentrata sul crescione amaro peloso (Cardamine hirsuta). Foto di Rasbak, CC BY-SA 3.0

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Progetto LIFE OASIS: proteggere le tartarughe marine dalla “pesca fantasma”

Il Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa è partner di LIFE OASIS, un progetto europeo che punta a salvaguardare la biodiversità marina riducendo il rischio intrappolamento che deriva da attrezzi da pesca abbandonati o smarriti.

Ogni anno, in Mediterraneo molte tartarughe marine possono rimanere intrappolate in attrezzi da pesca persi o abbandonati. Proteggere gli ecosistemi del ‘Mare Nostrum’ richiede un’azione coordinata e una responsabilità condivisa, fra i diversi paesi e le diverse flotte che operano al suo interno, per proteggere la nostra biodiversità, ma anche la sostenibilità della pesca e la sicurezza marittima. LIFE OASIS è stato istituito per affrontare questo problema, un progetto pionieristico che combina tecnologia, ricerca e collaborazione diretta con il settore della pesca e marittimo a livello internazionale e che vede il Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa fra i partner. Il progetto durerà cinque anni e punta a mitigare gli impatti negativi della pesca e dei rifiuti marini sulla biodiversità del Mediterraneo, con particolare attenzione alle tartarughe Caretta caretta, una specie prioritaria, censita anche nella Direttiva Habitat e classificata nella Lista Rossa della IUCN come specie “Vulnerabile” a livello globale.

Reti, lenze, nasse lasciate in mare e lasciate incustodite si possono infatti trasformare in trappole mortali e possono continuare a catturare pesci e altre specie per mesi o addirittura anni, un fenomeno noto come “pesca fantasma”.

In particolare, il Progetto LIFE OASIS svilupperà di un modello intelligente di aFAD (intelligent anchored Fish Aggregating Device) cioè di dispositivi ancorati sul fondale marino usati per pescare in modo controllato e sostenibile. Gli strumenti saranno dotati di sensori avanzati per monitorare le l’ecosistema circostante e raccogliere dati sulla presenza di pesci e specie protette come le tartarughe marine. Verrà inoltre realizzata una mappatura degli attrezzi da pesca abbandonati, persi o scartati nel Mediterraneo.

“Il progetto coniuga innovazione tecnologica e ricerca scientifica, promuovendo la sinergia tra pescatori, operatori del settore e ricercatori con azioni che si svolgono in continuità con le azioni di progetti finanziati in passato come LIFE MEDTURTLES o TARTALIFE. L’obiettivo è triplice: prevenire la cattura accidentale delle tartarughe marine, promuovere la sostenibilità della pesca e tutelare la biodiversità – spiega il professor Paolo Casale dell’Università di Pisa, referente scientifico del progetto ed esperto nella conservazione delle tartarughe marine e nelle loro interazioni con la pesca.

“Le iniziative che intraprenderemo – conclude Casale – avranno un impatto positivo sulla salute degli ecosistemi marini, contribuendo a limitare i danni alla biodiversità e riducendo il rischio di cattura accidentale di specie protette”.

LIFE OASIS (Mitigating the negative interactions of protected species with marine litter and pelagic fisheries of the Mediterranean) è un’iniziativa co-finanziata dall’Unione Europea nell’ambito del Programma LIFE (GA n. 101148343 – LIFE23-NAT-ES-LIFEOASIS). Il progetto è coordinato da Alnitak Research Institute (una ONG spagnola) e vede la collaborazione di prestigiosi partner, tra cui il Consiglio superiore delle ricerche scientifiche spagnolo (CSIC) e, fra quelli italiani, la Stazione Zoologica Anton Dhorn e l’Associazione Filicudi Wildlife Conservation.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Censita per la prima volta la flora del Comune di Pisa, in totale sono presenti 1404 specie di cui 112 aliene

La ricerca dell’Università di Pisa pubblicata sulla rivista Plants rivela una ricca diversità floristica, anche se le specie aliene superano le aspettative

La città di Pisa rappresenta un po’ la culla della Botanica moderna: nel 1543, durante il Rinascimento, proprio all’Università venne fondato il primo Orto Botanico accademico al mondo. Ma nonostante questa illustre storia, ancora oggi mancava un elenco completo di tutte le specie e sottospecie di piante vascolari (felci, conifere, piante a fiore) che crescono spontaneamente nel Comune di Pisa.

Censita per la prima volta la flora del Comune di Pisa. Gallery

A colmare questa lacuna è stato un gruppo di botanici dell’Università di Pisa, Lorenzo Peruzzi, Gianni Bedini Jacopo Franzoni del Dipartimento di BiologiaIduna Arduini del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali a cui si è aggiunto Brunello Pierini, studioso appassionato della materia. Il risultato è stata una ricerca appena pubblicata sulla rivista internazionale Plants che ha censito nel Comune di Pisa un totale di 1404 tra specie e sottospecie, di cui 112 aliene.

“Nonostante la marcata urbanizzazione dell’area, abbiamo documentato una importante ricchezza floristica, con il 33% di specie native in più rispetto all’atteso – afferma Lorenzo Peruzzi, professore ordinario di Botanica sistematica – ma purtroppo, anche le specie aliene sono molto rappresentate, con il 34,9% in più rispetto alle aspettavive”.

Dal punto di vista conservazionistico, l’inventario comprende alcune piante a rischio di scomparsa che in gran parte sono state trovate nell’area protetta del Parco Naturale Regionale di Migliarino – San Rossore – Massaciuccoli. In particolare, sono quattro le specie vulnerabili (Butomus umbellatus , Leucojum aestivum subsp. aestivum , Ranunculus ophioglossifoliusThelypteris palustris), nove quelle minacciate (Anacamptis palustrisBaldellia ranunculoidesCardamine apenninaCentaurea aplolepa subsp. subciliataHottonia palustrisHydrocotyle vulgarisSagittaria sagittifoliaSolidago virgaurea subsp. litoralis , Triglochin barrelieri) e una gravemente minacciata (Symphytum tanaicense).

“Il problema delle invasioni biologiche è molto rilevante nel Comune di Pisa – commenta Iduna Arduini, professoressa associata di Botanica ambientale e applicata – Tra le 45 aliene invasive documentate nello studio, ve ne sono 4 di rilevanza unionale, piante cioè i cui effetti negativi sono talmente rilevanti da richiedere un intervento coordinato e uniforme a livello di Unione Europea, e una, Salpichroa origanifolia, localmente molto invasiva”.

“La fonte primaria dei dati floristici utilizzati è rappresentata da Wikiplantbase #Toscana,” – continua Gianni Bedini, professore ordinario di Botanica sistematica – un database floristico liberamente accessibile da cui abbiamo potuto estrarre ben 12.002 segnalazioni, disponibili grazie allo sforzo di numerosi e attivi collaboratori, ben esemplificando il ruolo cruciale giocato anche dalla cosiddetta Citizen Science nell’accumulare importanti informazioni di tipo floristico”.

“Questo lavoro, oltre a fare il punto sulle conoscenze floristiche della città, fornirà anche i dati di base per il progetto IDEM FLOS, finanziato nell’ambito di un bando a cascata del National Biodiversity Future Center, con l’Università di Trieste come partner capofila – conclude Jacopo Franzoni, assegnista in Botanica sistematica – consentendoci di costruire uno strumento per l’identificazione di tutte queste specie, che sarà reso liberamente accessibile entro il 2025 e potrà essere usato per diffondere le conoscenze della flora locale alla popolazione”.

Riferimenti bibliografici:

Peruzzi L, Pierini B, Arduini I, Bedini G, Franzoni J. The Vascular Flora of Pisa (Tuscany, Central Italy), Plants. 2025; 14(3):307, DOI: https://doi.org/10.3390/plants14030307

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Cambiamento climatico: se aumentano le temperature le piante assorbono più nanoplastiche

La ricerca dell’Università di Pisa sulla rivista Plant Physiology and Biochemistry.

Le alte temperature aumentano l’assorbimento delle nanoplastiche da parte delle piante. La notizia arriva da uno studio dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Plant Physiology and Biochemistry che per la prima volta ha analizzato l’effetto amplificatore dei cambiamenti climatici sull’inquinamento da nanoplastiche. La ricerca è stata condotta dal gruppo di Botanica della professoressa Monica Ruffini Castiglione, e da quello di Fisiologia Vegetale della dottoressa Carmelina Spanò, in collaborazione con le colleghe Stefania Bottega e Debora Fontanini. La sperimentazione nei laboratori dell’Università di Pisa ha impiegato come pianta modello Azolla filiculoides Lam, una piccola felce acquatica galleggiante con radici fluttuanti e sottili che assorbono le sostanze disciolte nell’acqua. Come inquinante sono state utilizzate nanoplastiche di polistirene, una delle materie plastiche più comuni e diffuse con cui si realizzano ad esempio posate e piatti usa e getta, imballaggi, contenitori da asporto e seminiere per l’ortoflorovivaismo.

Cambiamento climatico piante nanoplastiche
il laboratorio

Dai dati è emerso che a 35° la presenza di nanoplastiche aumenta apprezzabilmente all’interno della pianta rispetto alla situazione ottimale a 25°. Questo provoca il deterioramento dei parametri fotosintetici e l’aumento dello stress ossidativo e della tossicità nelle piante. L’impiego di nanoplastiche fluorescenti ha inoltre permesso alle ricercatrici di tracciarne con precisione l’assorbimento e la distribuzione nei tessuti e negli organi vegetali.

“Il maggior assorbimento di nanoplastiche in condizioni di alte temperature da parte delle piante solleva preoccupazioni riguardo al possibile impatto sulle colture di interesse agronomico, con implicazioni potenzialmente rilevanti per l’ingresso di queste sostanze nella catena alimentare”, dicono Monica Ruffini Castiglione e Carmelina Spanò.

“Il nostro studio – continua Ruffini Castiglione – sottolinea come i cambiamenti climatici non solo sono in grado di amplificare gli effetti negativi dei rifiuti plastici, ma possano anche creare nuove sinergie pericolose tra fattori ambientali e inquinanti, aggravando ulteriormente le sfide ecologiche già esistenti. Questo deve aumentare la nostra consapevolezza e portare a un maggiore impegno verso comportamenti più sostenibili, come ridurre il consumo di plastica monouso”.

Cambiamento climatico: se aumentano le temperature le piante assorbono più nanoplastiche; lo studio su Plant Physiology and Biochemistry. In foto, il gruppo di ricerca

Le ricercatrici dei gruppi di Botanica e di Fisiologia vegetale impegnate in questo studio si occupano da anni delle risposte di piante modello e di interesse agronomico a metalli, anche in forma nanometrica e a contaminanti emergenti, quali micro e nanoplastiche. L’interesse nasce dalla consapevolezza che le piante sono organismi estremamente sensibili e al contempo resilienti agli stress ambientali. Questa duplice natura le rende modelli ideali per studiare l’impatto dei contaminanti sugli organismi viventi, soprattutto nel contesto dei cambiamenti climatici. Le ricerche del gruppo, svolte anche in collaborazione con l’IBBA CNR e l’Università di Siena, sono state pionieristiche nello studio delle interazioni tra piante e nanomateriali dimostrando per la prima volta, a livello ultrastrutturale, l’assorbimento e la traslocazione di nanomateriali plastici nelle cellule vegetale.

Link all’articolo scientifico:

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0981942824006144

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Ateneo in lutto per la scomparsa del professor Ubaldo Bonuccelli

Neurologo di fama internazionale, ha dato uno straordinario impulso alla ricerca sulla Malattia di Parkinson

È scomparso all’età di 75 anni il professor Ubaldo Bonuccelli, a lungo docente di Neurologia all’Università di Pisa, in pensione dal 2021.

Qui di seguito inviamo un ricordo del professore a firma di Gabriele Siciliano e Roberto Ceravolo e dei colleghi e delle colleghe del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale.

 

Ubaldo Bonuccelli si è laureato con lode in Medicina e Chirurgia all’Università di Pisa nel 1975, dove nel 1979 si è specializzato in Neurologia. Ha quindi intrapreso la sua attività professionale presso la Clinica Neurologica diretta dal professor Alberto Muratorio, dedicandosi al contempo ad argomenti di ricerca nelle malattie neurodegenerative. Nel 1989 ha conseguito la Specializzazione in Farmacologia presso l’Università di Cagliari su tematiche di neurofarmacologia nella malattia di Parkinson.

È stato professore associato di Neurologia, fino al 2007, quindi ordinario di Neurologia all’Università di Pisa. È stato Direttore della UOC di Neurologia dell’Ospedale Versilia dal 2001 al 2011, quando poi è diventato Direttore della UOC Neurologia presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Pisa.

Dopo la iniziale formazione a Pisa, ha maturato esperienze di neurofarmacologia di base e clinica con soggiorni in istituzioni nazionali e in USA, dedicandosi in particolare a numerosi aspetti di ricerca sulla Malattia di Parkinson, sviluppando nel tempo qualificate collaborazioni con i più importanti istituti di ricerca a livello internazionale in tale ambito. Ha organizzato numerosi congressi e convegni nazionali e internazionali dedicati in particolare al Parkinson. È autore di oltre 500 pubblicazioni.  Fellow dell’American Academy of Neurology (dal 1990), ha ricoperto importanti cariche statutarie in società scientifiche, Presidente dell’European Society for Clinical Neuropharmacology (1996-1997), Presidente dell’Associazione Autonoma Disturbi del movimento e Malattia di Parkinson (DISMOV-SIN) (2004-2005), affiliata alla Società Italiana di Neurologia, Presidente Società LIMPE (2010-12).

Ha dato uno straordinario impulso alla ricerca sulla Malattia di Parkinson e ha contribuito in modo significativo alla realizzazione delle linee guida per la gestione della malattia, curando altresì aspetti divulgativi nella conoscenza delle malattie neurologiche come nel caso della Associazione per la Ricerca Neurologica ATORN-ARNO fondata negli anni 80, del periodico “Amici del Cervello news” e del libro di grande successo di pubblico e critica “Intervista al Cervello. Come funziona, come potenziarlo e mantenerlo efficiente”, scritto insieme al giornalista Fabrizio Diolaiuti.

Persona di grandissimo acume e intelligenza, con raffinatissimo intuito clinico e profonda cultura neurologica e coinvolgente curiosità, ha trasmesso a decine di allievi oggi operanti in Italia e all’estero la passione per la ricerca, l’entusiasmo per esplorare strade innovative e impervie, ribadendo sempre il fondamento dell’arte medica di attenzione empatica e partecipativa ai bisogni dei pazienti.

 

Gabriele Siciliano e Roberto Ceravolo, con i colleghi e le colleghe del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Il cortile del Palazzo della Sapienza dell’Università degli Studi di Pisa. Foto di Antonio D’Agnelli, in pubblico dominio

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Salute dei bambini: l’impatto su famiglie e sistema sanitario delle infezioni da virus respiratorio sinciziale (RSV)

L’Università di Pisa partner dello studio pubblicato sulla rivista The Lancet Respiratory Medicine

 

Pisa, 28 gennaio 2025 – Le infezioni virus respiratorio sinciziale (RSV) sono una delle principali cause di bronchiolite e di polmonite nei bambini sotto i 5 anni. Uno studio pubblicato su The Lancet Respiratory Medicine, una delle più prestigiose riviste scientifiche internazionali del settore, ha valutato l’impatto sociale di questa patologia su famiglie e servizi sanitari in 5 paesi europei: Italia, Belgio, Paesi Bassi, Spagna e Regno Unito. La ricerca, a cui ha partecipato l’Università di Pisa, è durata dal 2021 al 2023 e ha coinvolto oltre 3.400 bambini.

Dai dati è emerso che quasi un terzo (32,9%) delle infezioni respiratorie acute nei bambini in età prescolare è associato all’RSV. La durata media della malattia è di circa 12 giorni, con oltre il 45% dei genitori che ha dovuto assentarsi dal lavoro e il 70% dei bambini che ha perso giorni di scuola o asilo. I risultati evidenziano inoltre notevoli differenze tra i paesi coinvolti nello studio in termini di approcci terapeutici, di utilizzo delle risorse sanitarie e di impatto sociale.

Il focus sull’Italia rivela che il tasso di positività all’RSV nei bambini è stato del 42,6%, il più alto tra i paesi partecipanti. I bambini RSV-positivi in Italia sono stati sottoposti in media a 3 visite in assistenza primaria, dato che ci mette al pari della Spagna contro le 1,4 dei Paesi Bassi. La durata media della malattia è stata di 11,7 giorni, poco al di sotto della media generale. Il 76,8% dei bambini italiani RSV-positivi ha ricevuto farmaci, con broncodilatatori e antibiotici tra i più prescritti, mentre in paesi come il Regno Unito il ricorso alle medicine è stato più limitato. In linea con il dato generale, il 45,7% dei genitori italiani si è dovuto assentare da lavoro con una media di 4,1 giorni persi, dato che ci equipara al Belgio contro invece 1,3 giorni della Spagna.

“I risultati mettono in luce la necessità di migliorare la prevenzione per alleviare il carico sulle famiglie e sui sistemi sanitari, soprattutto nel periodo invernale in cui il virus circola di più – sottolinea la professoressa Caterina Rizzo, ordinaria di Igiene e Medicina Preventiva all’Università di Pisa – negli ultimi anni sono stati approvati in Europa nuovi strumenti preventivi contro l’RSV, tra cui un nuovo anticorpo monoclonale che permette di immunizzare i neonati ed un vaccino da somministrare durante la gravidanza, si tratta di  misure che possono avere un impatto positivo non solo sulla salute dei bambini, ma anche sull’organizzazione complessiva delle cure primarie”.

Caterina Rizzo. Crediti per la foto: Fabio Muzzi
Caterina Rizzo. Crediti per la foto: Fabio Muzzi

Caterina Rizzo, docente del dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’Ateneo pisano, e il suo gruppo sono un punto di riferimento nel campo della sorveglianza e prevenzione delle malattie infettive emergenti e riemergenti con particolare riferimento alle malattie respiratorie acute. Rizzo ha coordinato per più di dieci anni il sistema integrato di Sorveglianza delle sindromi simil influenzali in Italia presso l’Istituto Superiore di Sanità e fa parte del Gruppo consultivo tecnico nazionale per l’immunizzazione (NITAG).

La ricerca pubblicata su The Lancet Respiratory Medicine è stata finanziata da Sanofi e AstraZeneca attraverso il National Institute for Public Health and the Environment, Paesi Bassi.

 

Riferimenti bibliografici:

Hak, Sarah FAlfayate-Miguélez, Santiago et al., Burden of RSV infections among young children in primary care: a prospective cohort study in five European countries (2021–23), The Lancet Respiratory Medicine, Volume 0, Issue 0, DOI: https://doi.org/10.1016/s2213-2600(24)00367-9

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.