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Università di Pavia

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Premio ICIS Presidential Rising Star in Translational Science a Livio Provenzi dell’Università di Pavia
Riconosciuto il valore della ricerca scientifica condotta presso il Laboratorio di Psicobiologia dello Sviluppo del Dipartimento di Scienze del Sistema Nervoso e del Comportamento UNIPV e di IRCCS Fondazione Mondino


PAVIA. In occasione della XXIV edizione del congresso biennale “International Congress on Infant Studies (ICIS, https://infantstudies.org/)” – una società scientifica internazionale dedicata alla promozione della ricerca sullo sviluppo dei bambini dalla nascita ai 3 anni di età – il professor Livio Provenzi dell’Università di Pavia è stato insignito del premio “Presidential Rising Star in Translational Science” (https://infantstudies.org/award-recipients/). Si tratta di un riconoscimento internazionale prestigioso che riconosce i meriti e la qualità della ricerca scientifica condotta presso il Laboratorio di Psicobiologia dello Sviluppo (https://www.devpsychobiology.com/) che il prof. Provenzi coordina da cinque anni presso IRCCS Fondazione Mondino e il dipartimento di Scienze del Sistema Nervoso e del Comportamento dell’Università di Pavia. In particolare, il premio sottolinea l’impatto traslazionale – ovvero le implicazioni cliniche, sociali e applicative – della ricerca condotta dal prof. Provenzi e dal suo team nell’ambito del benessere genitoriale e dello sviluppo infantile nei primi mille giorni dal concepimento ai due anni di vita. Progetti che includono lo studio degli effetti dello stress materno in gravidanza, i marcatori epigenetici del dolore neonatale, la regolazione della regolazione dell’attività cerebrale genitore-bambino e la messa a punto e la verifica di efficacia di interventi precoci a supporto della genitorialità in contesti di rischio evolutivo e franca disabilità del neurosviluppo.

Un riconoscimento internazionale per la ricerca traslazionale: Il prof. Livio Provenzi premiato dall’ICIS

In occasione della XXIV edizione del Congresso Biennale dell’International Congress on Infant Studies (ICIS) 2024 che si è tenuta nei giorni 10-12 luglio a Glasgow in Scozia, il professor Livio Provenzi dell’Università di Pavia ha ricevuto il prestigioso premio “Presidential Rising Star in Translational Science”. Questo evento biennale è un’importante vetrina per la comunità scientifica internazionale che si dedica alla promozione della ricerca sullo sviluppo dei bambini dalla nascita ai 3 anni di età. L’ICIS, rinomata per il suo impegno nel sostenere la ricerca infantile, ha istituito questo premio per la prima volta, conferendolo al prof. Provenzi per riconoscere la qualità e l’impatto della ricerca scientifica condotta presso il Laboratorio di Psicobiologia dello Sviluppo (dpb lab), un centro all’avanguardia che Provenzi coordina presso le Neuroscienze Pediatriche dell’IRCCS Fondazione Mondino e il Dipartimento di Scienze del Sistema Nervoso e del Comportamento dell’Università di Pavia. Del laboratorio fanno parte due ricercatrici di Fondazione Mondino (Serena Grumi e Alessandra Raspanti), una ricercatrice accademica (Sarah Nazzari) e due dottorande in Psicologia (Elena Capelli e Miriam Pili), oltre a più di 15 studenti ogni anno.

La Ricerca Traslazionale: Fondamentale nei Primi Mille Giorni di Vita

La ricerca traslazionale rappresenta un ponte fondamentale tra la scienza di base e le applicazioni cliniche, sociali e pratiche. Nei primi mille giorni di vita, che vanno dalla concezione ai due anni, il cervello del bambino attraversa un periodo di sviluppo critico e rapidissimo. Durante questa fase, i processi di crescita neurologica e fisica sono particolarmente influenzabili dalle esperienze ambientali e dalle interazioni con i genitori e in generale il contesto di cura.

“I genitori non sono un insieme di competenze, ma un luogo, un posto” sostiene il prof. Provenzi, “sono il luogo in cui avviene la crescita e lo sviluppo dei bambini. Prendersi cura di questo luogo è una priorità”.

Infatti, gli interventi a favore della genitorialità basati su evidenze scientifiche in questo periodo possono avere un impatto significativo e duraturo sullo sviluppo e sul benessere del bambino, prevenendo possibili difficoltà future e promuovendo uno sviluppo sano e armonioso. La ricerca traslazionale, quindi, non solo approfondisce la nostra comprensione scientifica di questi processi, ma traduce queste conoscenze in interventi pratici che possono essere applicati nelle cure quotidiane e nelle politiche sanitarie.

“Non dobbiamo educare o insegnare qualcosa ai genitori: dobbiamo prenderli sul serio e aiutarli ad essere il posto migliore per il loro bambino e la loro bambina”.

Livio Provenzi
Livio Provenzi

 

La ricerca scientifica del Prof. Livio Provenzi e del dpb lab

Il professor Livio Provenzi da diversi anni si occupa di comprendere e studiare come le precoci interazioni genitore-bambino costituiscano il tessuto attraverso cui promuovere lo sviluppo e il benessere infantile. I progetti di ricerca hanno ricevuto finanziamenti pubblici e privati e si concentrano su diversi aspetti cruciali. Tra questi: lo studio delle modificazioni biologiche nel neonato associate allo stress vissuto dalle donne in gravidanza durante la pandemia, gli effetti del dolore neonatale e della separazione precoce dai genitori nei nati pretermine, i meccanismi cerebrali attraverso cui genitori e bambini costruiscono la loro capacità di stare insieme, riconoscersi e imparare reciprocamente. Un recente progetto del dpb lab finanziato dal Ministero della Salute tramite il programma di Ricerca Finalizzata 2021 vede la collaborazione anche della dott.ssa Valentina Riva (IRCCS Medea, Bosisio Parini) e della dott.ssa Lucia Billeci (CNR, Pisa) e ha l’obiettivo di comprendere come un intervento precoce di supporto alla genitorialità possa favorire questi processi di regolazione e connessione cerebrale tra mamma e bambino.

Si tratta di un trial clinico – uno studio interventistico – che traduce in azioni di cura e presa in carico del piccolo e dei suoi genitori le conoscenze di base che abbiamo accumulato negli anni – anche grazie alla collaborazione con altri laboratori nel panorama internazionale” spiega il prof. Provenzi.

 

L’Importanza del Premio dell’ICIS

L’ICIS ha istituito il premio “Presidential Rising Star in Translational Science” per la prima volta e lo ha conferito a un ricercatore italiano. Questo rappresenta un riconoscimento significativo non solo per il prof. Provenzi, ma anche per l’intera comunità scientifica pavese.

“Il lavoro che svolgiamo presso il Laboratorio di Psicobiologia dello Sviluppo non sarebbe possibile senza una collaborazione virtuosa con gli istituti clinici e scientifici del territorio – dalla Fondazione Mondino al Policlinico San Matteo”

sottolinea Provenzi. Il laboratorio vanta inoltre collaborazioni nazionali con altri istituti scientifici e realtà accademiche, così come partecipa a reti internazionali per lo studio della qualità di vita e il benessere di nati pretermine (Gruppo SCENE) e la promozione della salute genitore-bambino nei primi mille giorni (TREASURE COST Action dell’Unione Europea). Questo premio sottolinea l’importanza della ricerca traslazionale nel migliorare la vita dei bambini e delle loro famiglie, trasformando le scoperte scientifiche in interventi concreti, efficaci. Questo riconoscimento può essere anche ispirazione per giovani studenti e ricercatori, sottolineando l’importanza di condurre ricerche che abbiano un impatto diretto e positivo sulla società.

Tanti studenti partecipano alle nostre ricerche e ci danno una mano fondamentale: Anche il laboratorio è un luogo di crescita e promuovere l’entusiasmo dei giovani è un obiettivo fondamentale”.

 

Ricerca e Benessere: Un Impegno per il Futuro

La ricerca nel campo dello sviluppo infantile è cruciale per garantire un futuro migliore alle nuove generazioni. Comprendere come le prime esperienze di vita influenzino il cervello e il comportamento dei bambini permette di sviluppare strategie e interventi mirati a sostenere il benessere e lo sviluppo ottimale. Il lavoro del prof. Provenzi e del suo team rappresenta un passo avanti in questa direzione:

Investire nella ricerca traslazionale e preventiva nella prima infanzia significa fare del bene alle famiglie e alla società” prosegue Provenzi “Se gli interventi vengono promossi prima dei tre anni non solo ci sono benefici in termini di benessere, ma ci sono anche importanti vantaggi economici e un risparmio di costi diretti e indiretti per il sistema socio-sanitario e le singole famiglie”.

 

Link utili

Developmental Psychobiology Lab web page: https://www.devpsychobiology.com/

Developmental Psychobiology Lab social page: https://www.instagram.com/dpb.lab/

Pagina ICIS dei premi: https://infantstudies.org/award-recipients/

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Testo e foto dall'Ufficio Stampa Università di Pavia, Epoché - Agenzia Giornalistica Culturale

Terapie a RNA: fotografata l’interazione tra RNA e serina idrossimetiltrasferasi, una proteina metabolica coinvolta nella crescita dei tumori

In uno studio internazionale, coordinato dal Dipartimento di Scienze biochimiche A. Rossi Fanelli della Sapienza Università di Roma, è stata utilizzata una tecnica all’avanguardia per cogliere i dettagli del meccanismo di inibizione di una proteina metabolica da parte dell’RNA. I risultati della ricerca sostenuta da Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro sono stati pubblicati sulla rivista Molecular Cell. Se i dati saranno confermati in ulteriori studi, potranno offrire nuove speranze di applicazione delle terapie a RNA nella lotta contro il cancro.

Le cellule tumorali sono in grado di rielaborare le proprie funzioni in modo da crescere più velocemente e sopravvivere a condizioni avverse, aumentando per esempio la produzione di specifiche proteine. La ricerca potrebbe fornire strumenti per interferire con questi processi tramite terapie a base di RNA. Queste ultime infatti potrebbero a breve rivoluzionare la medicina, grazie alla loro capacità di influenzare direttamente l’espressione genica e di conseguenza la produzione di proteine all’interno delle cellule.

Il gruppo di ricerca guidato da Francesca Cutruzzolà della Sapienza Università di Roma ha chiarito i dettagli di un nuovo meccanismo per bloccare selettivamente l’attività della serina idrossimetiltrasferasi (SHMT), una proteina che ha un ruolo chiave nella crescita tumorale, utilizzando l’RNA come molecola inibitoria. La ricerca è avvenuta in collaborazione con il Dipartimento di Chimica e Tecnologie del farmaco della Sapienza, l’IBPM-CNR, le università di Milano e di Pavia e altre istituzioni nazionali e internazionali.

Grazie alla microscopia crioelettronica, una tecnica all’avanguardia che permette di osservare le molecole allo stato nativo con una risoluzione senza precedenti, i ricercatori hanno potuto osservare l’interazione tra SHMT1 e RNA a livello atomico. Ciò ha consentito di comprendere dettagliatamente il meccanismo di inibizione dell’enzima.

“Questa tecnica permette di scattare una fotografia di un oggetto oltre mille volte più piccolo di una singola cellula”, commentano Sharon Spizzichino e Federica Di Fonzo del gruppo di ricerca della Sapienza.

“La fotografia a livello atomico dell’interazione tra RNA e proteine metaboliche – spiega Francesca Cutruzzolà, coordinatrice dello studio – rappresenta un importante traguardo nella ricerca biomedica, aprendo la strada a nuove frontiere nel trattamento delle malattie attraverso terapie innovative basate sull’RNA”.

I risultati ottenuti aprono la strada a una comprensione più profonda dei meccanismi molecolari alla base delle terapie a RNA, fondamentale per lo sviluppo di trattamenti più efficaci e meno invasivi per numerose condizioni patologiche. La ricerca è stata sostenuta da AIRC, e da altri fondi quali quelli del Piano nazionale ripresa resilienza (PNRR) assegnati al progetto dal titolo “National Center for Gene Therapy and Drugs based on RNA Technology.

 

Riferimenti bibliografici:

Structure-based mechanism of riboregulation of the metabolic enzyme SHMT1 – S. Spizzichino, F. Di Fonzo, C. Marabelli et al., Mol. Cell. – DOI:https://doi.org/10.1016/j.molcel.2024.06.016

 

microscopio cellule invecchiamento
Foto PublicDomainPictures

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

I VIDEOGIOCHI D’AZIONE MIGLIORANO LA PERCEZIONE DEI FONEMI NEI BAMBINI A RISCHIO DI DISLESSIA

Uno studio condotto da un team di ricercatori di Bergamo, Padova, Pavia, Milano, Varese, Lecco e Parigi ha messo in luce che giocando con un videogioco d’azione si normalizza la percezione dei suoni del linguaggio in bambini prescolari con difficoltà di linguaggio.

 

Bergamo/Padova 22 marzo 2024  Sebbene giocare sia considerato indispensabile per lo sviluppo cognitivo, sensorimotorio e sociale di un bambino, vi è ancora una certa resistenza nel pensare che un simile ruolo possa essere svolto anche dagli attuali videogiochi. Giocare con i videogiochi d’azione può risolvere le difficoltà nella percezione dei suoni del linguaggio, detti fonemi, che sono considerati la principale causa della dislessia evolutiva, ovvero la difficoltà nell’apprendimento della lettura?

Diversi studi hanno dimostrato che nei bambini con dislessia, la velocità di lettura può migliorare in seguito a un trattamento riabilitativo con videogiochi commerciali che stimolano le abilità attentive. Un miglioramento dell’attenzione risulta indispensabile per leggere le lettere.

Queste le premesse dello studio Action video games normalise the phonemic awareness in pre-readers at risk for developmental dyslexiapubblicato sulla rivista NPJ Science of Learning del gruppo Nature, condotto da un team internazionale di ricercatori coordinati dalle Università di Bergamo e Padova, con l’Università di Pavia, la Sigmund Freud University di Milano, la ASST di Valle Olona di Saronno (VA), l’IRCCS “E. Medea” di Bosisio Parini (Lecco) e l’Université Paris Cité.

«Da queste premesse abbiamo ipotizzato che i videogiochi d’azione potessero migliorare anche la percezione dei fonemi», spiega la Dr.ssa Sara Bertoni del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli studi di Bergamo e primo autore della ricerca. «Questo studio di prevenzione ha coinvolto 120 bambini dell’ultimo anno della scuola dell’infanzia. Un sottogruppo di essi presentava difficoltà nei prerequisiti della letto-scrittura, e quindi erano a rischio per una futura dislessia. Lo studio dimostra che con solo 20 sessioni di gioco con un videogioco d’azione da 45 minuti ciascuna si annullano specificatamente i disturbi nella percezione dei fonemi.»

«Questi risultati – aggiunge il Prof. Andrea Facoetti del Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova e coordinatore della ricerca –, combinati al fatto che la memoria fonologica e la denominazione rapida non sono state modificate, rivoluzionano le attuali conoscenze condivise sulla dislessia come un puro deficit linguistico dell’emisfero sinistro, suggerendo il ruolo causale del controllo automatico dell’attenzione dell’emisfero destro nella percezione dei fonemi.»

«Il miglioramento nella percezione dei fonemi era presente nella maggior parte dei bambini. Questi progressi risultavano più del doppio di quelli ottenuti dopo il trattamento linguistico tradizionale e perduravano a distanza di sei mesi dalla fine del trattamento. Inoltre – affermano gli autori della ricerca – dimostriamo il ruolo come un’esperienza divertente, che allena l’attenzione, migliori la velocità di elaborazione del linguaggio che, come hanno dimostrato alcuni dei nostri precedenti studi, è alla base delle future abilità di lettura.»

 Questi risultati sono cruciali per futuri programmi di prevenzione dei disturbi del neurosviluppo, come i disturbi dell’apprendimento, del linguaggio, della coordinazione motoria e dello spettro dell’autismo, estremamente comuni nella società contemporanea.

 

Link alla ricerca: https://rdcu.be/dBYWp

Titolo: “Action video games normalise the phonemic awareness in pre-readers at risk for developmental dyslexia” – «NPJ Science of Learning» 2024

Autori: Sara Bertoni, Chiara Andreola, Sara Mascheretti, Sandro Franceschini, Milena Ruffino, Vittoria Trezzi, Massimo Molteni, Maria Enrica Sali, Antonio Salandi, Ombretta Gaggi, Claudio Palazzi, Simone Gori & Andrea Facoetti.


videogiochi percezione fonemi dislessia bambini
I videogiochi d’azione possono risolvere – nei bambini in età prescolare – le difficoltà nella percezione dei fonemi, considerata la principale causa della dislessia evolutiva

 

Testo e foto di Marisa Brini e Tito Calì dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

Un orologio interno che spacca il secondo lo si può ottenere grazie al nuoto e alla corsa

Uno studio pubblicato sulla rivista Psychology of Sport & Exercise, frutto di una collaborazione tra Università di Milano-Bicocca e Università di Pavia, dimostra come il cervello dei nuotatori (ma anche di chi pratica la corsa) abbia elevate capacità di percepire e misurare il tempo.

Milano, 19 ottobre 2023 – Bracciata dopo bracciata, vasca dopo vasca, i nuotatori sviluppano un’eccezionale capacità di cronometrare il tempo. Come ci riescono, immersi come sono in un ambiente ovattato come l’acqua? Lo spiega una ricerca intitolata “Temporal perception in closed-skill sports: An experimental study on expert swimmers and runners”, coordinata da Luisa Girelli, insieme a Simona Perrone del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca, in collaborazione con Daniele Gatti e Luca Rinaldi del Dipartimento di Scienze del sistema nervoso e del comportamento dell’Università di Pavia.

Magari non ce ne accorgiamo, ma il nostro cervello misura continuamente il tempo grazie a una sorta di orologio interno: succede, per esempio, quando pianifichiamo o eseguiamo i movimenti necessari ad attraversare la strada oppure quando siamo alla guida di una macchina. Questa abilità cognitiva ha un ruolo chiave anche in ambito sportivo, non solo perché la prestazione sportiva dipende sempre anche da una perfetta calibrazione temporale dell’azione, ma anche perché in alcuni sport è il fattore tempo a determinare il successo.

È il caso degli sport closed skills: si tratta di discipline – come appunto il nuoto o la corsa – che si svolgono in un contesto stabile e prevedibile, dove la prestazione si basa sulla ripetizione ciclica dello stesso gesto motorio e in cui vince chi fa il miglior tempo.

«In acqua il nuotatore può controllare la performance e cronometrare l’andatura solo basandosi sulla propria percezione interna. Si tratta di un’attività molto diversa rispetto agli sport open skills, dove il contesto è mutevole e imprevedibile», spiega Luisa Girelli. «Pensiamo agli sport di squadra, come il calcio o il basket, dove l’atleta deve di continuo tenere conto delle situazioni esterne e dalle azioni degli altri giocatori in campo per decidere come agire. È sempre stato riconosciuto come queste discipline siano allenanti per funzioni cognitive come l’attenzione, l’abilità decisionale, la pianificazione e l’anticipazione motoria».

Che cosa accade invece a chi pratica a livello intensivo gli sport closed skills?

 «La nostra ipotesi di ricerca era che anche questi sport potenziassero determinate competenze cognitive, in particolare, le abilità di percepire e stimare il tempo, facendo ampio conto sul proprio ritmo interno»,

dice Girelli. E le conferme sono arrivate. I partecipanti allo studio – divisi in due gruppi di atleti, nuotatori e corridori, e un gruppo di controllo di non sportivi – sono stati sottoposti a compiti per valutare la loro capacità di stimare durate temporali e tenere il tempo. Gli sportivi sono risultati più abili, in particolare i nuotatori, abituati a sfidare il cronometro in acqua, dove gli stimoli uditivi e visivi sono attenuati e quindi meno rilevanti per mantenere il ritmo e tenere traccia dello scorrere del tempo. Ecco perché, tra una virata e l’altra, il nuotatore controlla al meglio il proprio “orologio” interno, affinandolo sempre di più.

nuoto orologio interno
Un orologio interno che spacca il secondo lo si può ottenere grazie al nuoto e alla corsa. Foto Flickr del Consell Comarcal del Baix Empordà, CC BY-SA 2.0

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca

Università di Pavia: Nasce il nuovo Campus della Salute

Lunedì 18 settembre inaugurazione della nuova sede della Facoltà di Medicina, alla presenza del ministro Bernini e del presidente della Regione Lombardia Fontana

PAVIA. Una tappa storica per l’Università di PaviaLunedì 18 settembre, alle 11:30, verrà inaugurata la nuova sede della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Pavia: uno dei corsi di studio con cui ha preso avvio l’ateneo pavese più di 660 anni fa, e che anche quest’anno è stato certificato come il migliore in Italia dalla classifica Censis.

Alla cerimonia, oltre al Rettore Francesco Svelto e alla professoressa Cristina Tassorelli, Presidente della Facoltà, interverranno il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana e il Ministro dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini. Saranno presenti anche il Sindaco della città Fabrizio Fracassi e il Presidente della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo Alessandro Venturi.

Il Campus della Salute, che ospiterà dai primi di ottobre più di duemila studenti da tutto il mondo, apre le sue porte in quello che fino a pochi anni fa era il padiglione delle Cliniche Mediche del San Matteo. L’edificio, originario degli inizi degli anni ’30 del secolo scorso, ha una superficie totale di 13.000 metri quadrati ed è stato interamente riqualificato con l’impiego di tecnologie orientante alla sostenibilità e all’efficienza energetica. Tutti gli spazi sono stati riprogettati per essere moderni e confortevoli, per offrire così a studenti e docenti un ambiente ideale dove incontrarsi, condividere esperienze e scambiarsi informazioni e conoscenze.

«Il Campus della Salute – anticipa il Rettore Francesco Svelto – si trova poi in una zona strategica della città: nel cuore del Policlinico San Matteo, vicino agli Istituti Mondino e Maugeri, in stretta connessione con i Dipartimenti scientifici e tecnologici dell’Università, a loro volta in fase di profonda riqualificazione nelle loro strutture edilizie».

Nasce il nuovo Campus della Salute dell'Università di Pavia
Nasce il nuovo Campus della Salute dell’Università di Pavia

I NUMERI

Il nuovo polo dell’Università di Pavia conta 16 aule didattiche (da 36 a 240 posti, per un totale di 2100 posti), 12 sale studio (260 posti complessivi sui due piani), 4 aule informatizzate. Al piano terra si trova la biblioteca da 200.000 volumi e un’ala è interamente destinata al Centro di Didattica Simulata che consentirà agli studenti esercitazioni chirurgiche innovative. Si tratta di una struttura tecnologicamente all’avanguardia in Lombardia e in Italia, costituita da due ambienti attrezzati come vere e proprie sale operatorie, ciascuna con la propria cabina di regia, un locale con postazioni per simulare piccole operazioni e altre sale per il debriefing. In più: una caffetteria, spazi ristoro autonomo e aree verdi all’aperto.

Nell’ultimo anno accademico gli iscritti ai corsi UNIPV di Medicina e Chirurgia, su tutti i sei anni di studio, sono stati complessivamente 2.326: 1.580 al corso “Golgi” in lingua italiana e 746 al corso “Harvey” interamente in lingua inglese. I posti per le nuove matricole per l’a.a. 2023/2024 sono cresciuti a quota 388 nel primo caso e 103 nel secondo.

L’evento di inaugurazione sarà trasmesso in diretta streaming sul canale YouTube ufficiale dell’Università di Pavia.
https://www.youtube.com/watch?v=pBvY9V335uo

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pavia.

uno Starting Grant del Consiglio Europeo della Ricerca (ERC) aggiudicato al Progetto “OutOfSpace” del professor Luca Rinaldi: indagando sui meccanismi neurocognitivi alla base delle mappe mentali
1,5 milioni di euro alla ricerca dell’Università di Pavia


Il Consiglio Europeo della Ricerca (ERC) ha recentemente reso noti i vincitori dei programmi di ricerca scientifica per i giovani ricercatori europei (Starting Grant).
Si tratta di finanziamenti riservati a progetti innovativi, trasversali e di frontiera, grazie al quale il Consiglio Europeo ha erogato 628 milioni di euro a giovani ricercatori in un’ampia gamma di settori disciplinari.

Tra i vincitori del bando ERC Starting Grant, il professor Luca Rinaldi del Dipartimento di Scienze del Sistema Nervoso e del Comportamento dell’Università di Pavia ha ottenuto un finanziamento per il progetto “Structuring spatial knowledge through domain-general, non-spatial learning mechanisms” (acronimo: “OutOfSpace”), per un importo di circa 1,5 milioni di euro.

Il progetto è risultato “pionieristico”, capace cioè di aprire nuove frontiere nell’ambito della ricerca neuroscientifica, e indagherà i meccanismi neurocognitivi che stanno alla base delle mappe mentali.
In particolare, “OutOfSpace” si occuperà di studiare quanto tali meccanismi siano gli stessi che supportano il ragionamento spaziale. In altre parole: è vero che i nostri processi di pensiero sono strettamente legati alla nostra capacità di elaborare lo spazio che ci circonda?

Secondo alcune teorie neuroscientifiche recenti, infatti, il nostro cervello sfrutterebbe i circuiti neurali originariamente predisposti per la navigazione spaziale – circuiti condivisi con altre specie animali – per creare delle vere e proprie mappe mentali ed esplorare qualsiasi tipo di conoscenza, incluse quelle più concettuali e astratte. Gli stessi meccanismi neurali che supporterebbero il ragionamento spaziale (ad esempio, indicare quali tra due città si trova più a Nord) sarebbero dunque coinvolti anche in forme di ragionamento non spaziale (ad esempio, indicare quali tra due autovetture ha il motore più potente).

Il progetto “OutOfSpace” mette invece in discussione lo spazio come elemento fondante della nostra cognizione: la struttura delle mappe mentali che creiamo quotidianamente non sarebbe di natura spaziale, bensì associativa (non spaziale). L’obiettivo è dunque quello di chiarire la natura (spaziale o associativa) dei meccanismi mentali – e delle sottostanti strutture neurali – che consentono all’uomo di organizzare le proprie conoscenze in mappe concettuali. Per fare ciò, il progetto utilizzerà un approccio multistrumentale, combinando tecniche recenti di intelligenza artificiale (modelli di semantica distribuzionale) con metodiche comportamentali (eye-tracking), di neurostimolazione (TMS-EEG) e di neuroimmagine (fMRI e intracranial-EEG). Nei cinque anni di durata del progetto verranno quindi elaborati nuovi modelli neuroscientifici che chiariranno l’apporto del ragionamento spaziale e non spaziale nella formazione di mappe mentali.

cervello riserva cognitiva tumori cerebrali OutOfSpace Starting Grant Luca Rinaldi
Premiato con lo Starting Grant il progetto OutOfSpace del professor Luca Rinaldi. Immagine di ElisaRiva

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pavia.

Identificata la causa della malattia genetica rara della piccola Bea nel gene ARHGAP36

La prestigiosa rivista Nature Communications ha pubblicato il lavoro internazionale che ha studiato la malattia rara relativa al caso della piccola Bea.

Nel 2010 Bea venne visitata nell’Ambulatorio di Genetica Clinica Pediatrica dell’Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino perché presenta delle tumefazioni alle articolazioni. Le radiografie e la TAC rilevarono rapidamente una situazione molto particolare, una serie di “calcificazioni” che stavano progressivamente trasformando la cartilagine in osso. Bea era una bimba vivace ed intelligente, ma ben presto le articolazioni si bloccarono, rendendo impossibili i movimenti di braccia e gambe. Gli esami radiologici mostrarono un quadro sempre più grave: nessuno specialista aveva mai visto un caso come quello di Bea in tutto il mondo. La famiglia creò una Onlus, si adoperò per far conoscere il caso e la zia pubblicò #Leggera come una piuma – Il Mondo di Bea (Pathos edizioni) per far conoscere la malattia. I mezzi di comunicazione si interessarono al caso e Bea venne conosciuta da molte persone che accompagnarono la famiglia nel lungo percorso di malattia della bambina.

Dopo 13 anni e centinaia di esperimenti, un gruppo internazionale di ricercatori, coordinati dalla dott.ssa Elisa Giorgio ricercatrice dell’Università di Pavia e di Fondazione Mondino IRCCS, è riuscito ad identificare la causa della malattia di Bea, chiarendo come questa sia una malattia genetica non solo rarissima, ma semplicemente unica. La ricerca è iniziata attraverso la collaborazione tra i Pediatri che hanno inizialmente approfondito il quadro clinico (Prof. Giovanni Battista Ferrero, Prof.ssa Margherita SilengoUniversità di Torino) ed il laboratorio di Genetica Medica e malattie rare del prof. Alfredo Brusco (Dipartimento di Scienze MedicheUniversità di TorinoCittà della Salute e della Scienza, Torino). Per capire il complesso meccanismo alla base della malattia è stata necessaria una collaborazione con diversi centri italiani (Dott. Marco Tartaglia, Ospedale Pediatrico Bambin Gesù, Roma; Prof. Massimo Delledonne, Università di Verona) ed esteri (Prof. Malte Spielmann, Università di Lubecca e Kiel, Germania).

Nella foto da sinistra: Palazzo del Lavoro (edificio coperto con il tricolore), Pala Vela (dietro al CTO), Ospedali CTO (grattacielo) e Regina Margherita (edificio ai piedi del CTO) e il Tetto di Torino Esposizioni (tetto ad arco tra gli alberi). Foto Flickr di Simone Graziano Panetto, CC BY 2.0

Inizialmente erano state approfondite le cause note di malattie genetiche associate alle calcificazioni ectopiche, quadri clinici caratterizzati da formazione di osso in tessuti normalmente non ossificati, come muscoli, tendini e legamenti. Questi disturbi sono solitamente causati da una mutazione genetica, come nella Fibrodisplasia ossificante progressiva (FOP), una rara malattia genetica in cui i muscoli e i tessuti molli vengono gradualmente sostituiti dalle ossa. La FOP è causata da una mutazione nel gene ACVR1, responsabile dell’informazione necessaria per formare tessuto osseo nei vari distretti scheletrici. Quando questo gene è mutato, invia un segnale anomalo a vari tessuti che progressivamente calcificano e si trasformano in osso

 

LA RICERCA

La malattia di Bea aveva molte similitudini con la FOP, ma si era presentata nelle prime settimane di vita con un’evoluzione molto rapida ed invalidante. Le analisi genetiche avevano da subito escluso questa malattia.

Nel frattempo il gruppo di ricerca aveva identificato, con una serie di approfondimenti, un’anomalia cromosomica unica, mai descritta in letteratura caratterizzata dalla presenza di un segmento del cromosoma 2 doppio, inserito sul cromosoma X della bambina.

Questa anomalia dei cromosomi, ovvero l’inserzione di una regione di un cromosoma su un altro, può portare a un’espressione genica alterata. Questi eventi sono rari, molto eterogenei tra loro, ed è assai complesso capirne le conseguenze biologiche. Solo negli ultimi anni la tecnologia ha messo a disposizione dei ricercatori degli approcci estremamente complessi per poter studiare queste anomalie cromosomiche.

L’attività di ricerca ha permesso di capire che il pezzo di cromosoma 2 in più conteneva delle regioni in grado di attivare i geni sul cromosoma X nei tessuti sbagliati. In particolare, si è dimostrato che il gene ARHGAP36 produce una proteina in quantità molto più elevate dell’atteso, ma soprattutto nel tessuto sbagliato, la cartilagine. Proprio questo gene induce la formazione si tessuto osseo dove non dovrebbe essere presente.

“Questo studio è la dimostrazione di come la collaborazione tra gruppi di ricerca con competenze diverse sia la chiave per ottenere successi scientifici” spiega la dott.ssa Giorgio. “La ricerca ha bisogno di tempo e si costruisce sulle conoscenze che a mano a mano gli scienziati accumulano; nel 2010 non avevamo i mezzi tecnologici, né le conoscenze di base per capire la malattia di Bea”. Proprio la Dott.ssa Giorgio nel 2015 aveva scoperto un meccanismo simile a quello che causa la malattia di Bea (chiamato in gergo tecnico “adozione di un enhancer”) come causa di una rara forma di malattia neurodegenerativa, l’ADLD, adesso uno dei filoni di ricerca del suo laboratorio a Pavia.

La definizione del meccanismo biologico alla base del quadro clinico ha permesso di dare alla famiglia della bambina una risposta attesa da molti anni, una risposta che permette, come in tutte le malattie rare, di porre fine all’odissea diagnostica, complessa e dolorosa che caratterizza queste patologie.

LE PROSPETTIVE 

Studiando le malattie rare come quella di Bea, gli scienziati possono trovare percorsi e meccanismi che potrebbero essere coinvolti anche in malattie più comuni. Lo studio identifica un gene ARHGAP36 come implicato nella formazione ossea, un’informazione del tutto sconosciuta fino ad ora. Studiando questo gene e la sua funzione è possibile che capiremo meglio le malattie ossee nella popolazione generale. Al momento è troppo presto per pensare ad un utilizzo pratico della ricerca fatta, ma i ricercatori coinvolti sono entusiasti di aver contribuito a risolvere uno dei casi più difficili di malattia genetica rara conosciuta, quello della piccola Bea.

 

Nature Communications, Nat Commun. 2023 Apr 11;14(1):2034. doi: 10.1038/s41467-023-37585-8. PMID: 37041138

Enhancer hijacking at the ARHGAP36 locus is associated with connective tissue to bone transformation.

Melo US, Jatzlau J, Prada-Medina CA, Flex E, Hartmann S, Ali S, Schöpflin R , Bernardini L, Ciolfi A, Moeinzadeh M-H, Klever M-K, Altay A, Vallecillo-Garcia P, Carpentieri G, Delledonne M, Ort M-J, Schwestka M, Ferrero GB, Tartaglia M, Brusco A, Gossen M, Strunk D, Geißler S, Mundlos S, Stricker S, Knaus P, Giorgio E, Spielmann M. –  https://www.nature.com/articles/s41467-023-37585-8

 

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Un coccodrillo marino pasto indigesto del Giurassico

Un coccodrillo marino del Giurassico Superiore era un pasto indigesto per i grandi predatori, è quanto è emerso dallo studio del dott. Giovanni Serafini di Unimore e dal prof. Luca Giusberti dell’Università di Padova. I due geologi hanno studiato dei resti fossili presenti nel Museo di Geologia e Paleontologia dell’università patavina per scoprire che sono appartenuti ad un giovane esemplare di rettile marino che è stato rigurgitato 150 milioni di anni fa. Il reperto è il primo segnalato tra i suoi simili ed il terzo in una rigurgitalite in tutto il mondo.

Un nuovo studio guidato dalle Università di Modena-Reggio Emilia e Padova ha rivelato la natura sorprendente di un fossile proveniente dal Giurassico bellunese. Lo studio, a cura del Dr. Giovanni Serafini (Unimore) e del Prof. Luca Giusberti (UniPd) è frutto di una collaborazione con l’Università di Pavia, il National Museum of Scotland e l’Università di Yale. La scoperta è stata pubblicato su «Papers in Palaeontology» in un articolo dal titolo “Tough to digest: first record of Teleosauroidea (Thalattosuchia) in a regurgitalite from the Upper Jurassic of north-eastern Italy”.

Un coccodrillo marino pasto indigesto del Giurassico
I resti fossili

Nel 1980 il geologo feltrino Danilo Giordano scoprì presso Ponte Serra, in provincia di Belluno, i resti scheletrici di un piccolo rettile teleosauroide (gruppo di animali marini prossimi ai coccodrilli) in una lastra di Rosso Ammonitico Veronese, formazione geologica celebre per l’attività estrattiva in Veneto. Nonostante il reperto fosse esposto da alcuni anni al Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Padova, questo aveva ricevuto poca attenzione fino al 2021.

Durante una revisione dei rettili marini del museo da parte degli autori, si è notato infatti che il reperto presenta diverse caratteristiche inusuali: le piccole vertebre, gli elementi del bacino e gli osteodermi (“scudi” ossei tipici dei coccodrillomorfi) dell’esemplare appaiono infatti raggruppati in un’unica massa e sono molto sovrapposti tra loro. Questa particolare conformazione è altamente improbabile che sia il risultato di processi fisici nell’ambiente in cui si è fossilizzato (un mare abbastanza profondo con un fondale non interessato da correnti) mentre invece è molto più plausibile con un’origine biologica: il reperto è infatti molto simile ad un pellet gastrico, ossia una massa di elementi scheletrici passati dal canale alimentare di un altro animale. Analisi geochimiche e microstrutturali condotte al microscopio elettronico su campioni di matrice e osso estratti dall’esemplare confermano questa ipotesi: il tessuto scheletrico si presenta microscopicamente corroso e il sedimento registra bassi livelli di fosforo persi dall’osso. Queste particolari caratteristiche indicano un attacco piuttosto rapido e limitato da parte degli acidi gastrici, aspetto che permette di identificare il reperto come una regurgitalite, una massa rigurgitata da un predatore o da uno spazzino.

Questo resto fossile rappresenta il primo teleosauroide rinvenuto in una regurgitalite. L’esemplare è stato ascritto agli Aeolodontinae (il primo in Italia), un gruppo di teleosauroidi particolarmente adattato alla vita in mare aperto tipico del Giurassico Superiore; la datazione del sedimento per mezzo dei microfossili ha confermato questa assunzione, collocando il reperto nel Giurassico Superiore, intorno ai 150 milioni di anni fa.

La testimonianza di Ponte Serra è quindi di grande interesse, in quanto documenta un’interazione trofica estremamente rara in ambiente marino. Il predatore che può essersi nutrito del piccolo teleosauroide per poi rigurgitarlo non è facilmente identificabile: può essere stato un pliosauro, un ittiosauro, uno squalo oppure un’altra categoria di “coccodrilli” marini tipica dei mari giurassici, i metriorinchidi.

Apparentemente sembrerebbe un insignificante mucchietto di ossa fossili conservato da 40 anni al Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Padova, invece grazie al nostro studio ha svelato un “segreto” avvenuto nei mari giurassici di 150 milioni di anni fa. Il fossile è stato interpretato come regurgitalite – dice Luca Giusberti del Dipartimento di Geoscienze dell’Ateneo patavino –. Le ossa della vittima che costituiscono tale rigurgito appartengono ad un esemplare giovanile di Aeolodontinae, un coccodrillo marino particolarmente adattato alla vita in mare aperto, segnalato per la prima volta in Italia. Il reperto sarà prossimamente esposto nel Museo della Natura e dell’Uomo dell’Università di Padova di prossima apertura a Palazzo Cavalli”.

Dalla prima analisi del fossile bellunese ci siamo presto resi conto che qualcosa non tornava nell’organizzazione degli elementi scheletrici: vertebre e scudi dermici erano raggruppati in un’unica massa, in modo del tutto diverso dai normali resti disarticolati in ambiente profondo. Abbiamo optato – afferma il dott. Giovanni Serafini Dipartimento di Scienze Chimiche e Geologiche di Unimore – quindi per una spiegazione biologica e ogni analisi successiva sembrava confermare la nostra ipotesi: il piccolo coccodrillomorfo era stato rigurgitato da un predatore. Inoltre la particolare ornamentazione degli scudi dermici ci ha permesso di attribuire il reperto alla sottofamiglia di teleosauroidi detta Aeolodontinae tipica del Giurassico Superiore (150 milioni di anni fa). Il reperto di Ponte Serra si è quindi dimostrato estremamente interessante, dal momento che rappresenta un’interazione predatore-preda in ambiente marino, estremamente rara nel record fossile. Di fatto questo piccolo rettile marino è solamente il terzo segnalato in una regurgitalite in tutto il mondo, e in assoluto il primo tra i suoi simili“.

Link alla ricerca: https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/spp2.1474

Titolo: “Tough to digest: first record of Teleosauroidea (Thalattosuchia) in a regurgitalite from the Upper Jurassic of north-eastern Italy” – «Papers in Palaeontology» 2022

Autori: Giovanni Serafini, Caleb M. Gordon, Davide Foffa, Miriam Cobianchi, Luca Giusberti

 

Modena/Padova, 6 dicembre 2022

Testo e immagine dagli Uffici Stampa Unimore e Università di Padova.

L’effetto di Internet sul capitale sociale

Uno studio internazionale condotto da un ricercatore della Sapienza in collaborazione con le Università di Cardiff, Louvain e Pavia, mostra che la penetrazione della banda larga ha causato una diminuzione dell’impegno e della partecipazione civica e politica, senza però compromettere le relazioni con parenti e amici.

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Foto di Sumanley xulx

Sono numerosi gli studi che documentano che gli indicatori di fiducia, partecipazione civica e interazioni sociali sono in declino in molti paesi almeno a partire dalla seconda metà degli anni 1990.

La pandemia da Coronavirus ha messo ulteriormente a dura prova le relazioni interpersonali. Da due anni il distanziamento sociale ostacola molte forme di partecipazione alla vita pubblica, minando la fiducia nelle istituzioni e la coesione sociale e incrementando una fase di per sé già difficile per il capitale sociale in Europa.

Alcuni autori hanno attribuito il declino iniziale del capitale sociale in Europa all’uso sempre più pervasivo della televisione. Sembra plausibile che l’effetto di Internet, un mezzo di comunicazione più interattivo della televisione e in grado di fornire contenuti on demand, possa essere stato ancora più forte. Questa possibilità è stata indagata da un team internazionale di ricercatori formato da Fabio Sabatini del Dipartimento di Economia e diritto della Sapienza[MOU1] , Andrea Geraci (Università di Pavia), Mattia Nardotto (KU Leuven) e Tommaso Reggiani (Cardiff University), che si sono chiesti se il tempo speso online possa spiazzare la nostra partecipazione politica e sociale, rendendoci più concentrati su noi stessi e meno disponibili a preoccuparci del benessere della comunità in cui viviamo.

Per rispondere a questa domanda, i ricercatori hanno combinato informazioni sulla topologia della vecchia rete telefonica del Regno Unito con dati campionari geolocalizzati raccolti annualmente dal 1998 al 2018 dall’Institute for Social and Economic Research, mostrando in che misura l’uso di Internet ad alta velocità ha colpito varie dimensioni del capitale sociale: mentre la partecipazione civica e politica sono più vulnerabili alla pressione dei nuovi media sulle scelte di allocazione del tempo degli utenti, le relazioni con i familiari e gli amici sembrano invece in  grado di resistere all’impatto delle nuove tecnologie della comunicazione. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Journal of Public Economics.

L’analisi empirica ha dimostrato in particolare come le attività orientate al bene comune che richiedono un significativo dispendio di tempo, quali il coinvolgimento nelle iniziative delle associazioni volontarie (capitale sociale di tipo bridging) abbiano risentito maggiormente dell’effetto “spiazzamento” della banda larga. L’effetto è statisticamente significativo e di dimensioni rilevanti. Una riduzione di 1,8 km della distanza tra l’abitazione e il nodo della rete telefonica più vicino, corrispondente a un significativo aumento della velocità della connessione, ha causato una diminuzione della probabilità di partecipare ad attività associative del 4,7% tra il 2005 e il 2017. Per le associazioni di volontariato, la probabilità di partecipare si è ridotta del 10,3%. Nel caso dei partiti politici, l’accesso alla banda larga ha causato una riduzione della probabilità di partecipazione del 19%.

L’effetto spiazzamento non ha intaccato invece le relazioni con i familiari e gli amici (forma di capitale sociale di tipo bonding) basate sui legami già esistenti, che tendono a rafforzare l’attenzione degli individui su obiettivi particolaristici.

“È un risultato poco confortante che, con la dovuta cautela, potrebbe fornire una chiave di interpretazione di fenomeni sociali recenti come il crescente distacco del pubblico dalla politica” – commenta Fabio Sabatini. “Tuttavia, l’evidenza empirica osservata nel Regno Unito non è necessariamente valida ovunque: l’impatto economico e sociale della penetrazione della banda larga potrebbero variare in base allo stock iniziale di capitale sociale, al contesto istituzionale e all’uso che gli utenti fanno della rete veloce”.

Riferimenti:

Broadband Internet and social capital – Andrea Geraci, Mattia Nardotto, Tommaso Reggiani, Fabio Sabatini – Journal of Public Economics  https://doi.org/10.1016/j.jpubeco.2021.104578

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma