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ACQUA OSSIGENATA SOSTENIBILE GRAZIE A UN NUOVO IDROGEL

Ricerca dell’Università di Padova converte la luce del sole in prodotti chimici tramite il movimento

acqua ossigenata Idrogel

Ha proprietà ossidanti e disinfettanti, è utilizzata in ambito medico per la pulizia delle ferite, in ambito industriale come agente sbiancante e nell’ambiente domestico per la sanificazione e la rimozione di macchie: stiamo parlando dell’acqua ossigenata.

Attualmente questa importante sostanza chimica viene prodotta principalmente attraverso la riduzione dell’ossigeno tramite un processo che, sebbene efficiente e ampiamente utilizzato, presenta alcune criticità soprattutto in termini di sostenibilità perché necessita di solventi organici, idrogeno e metalli nobili. Proprio per questo motivo si stanno sviluppando processi alternativi che permettano di ridurre l’ossigeno ad acqua ossigenata utilizzando l’energia elettrica o direttamente la luce solare.

Ma come convertire la luce del sole in prodotti chimici nel modo più efficiente e naturale possibile? Una risposta arriva dal movimento: in natura, per esempio, le piante regolano la fotosintesi tramite il movimento degli stomi che si aprono e si chiudono per gestire lo scambio di gas e la perdita di acqua. Anche nel corpo umano il movimento degli organi svolge funzioni importantissime: basti pensare al cuore o ai polmoni che si espandono e si comprimono per pompare il sangue o permettere lo scambio di gas.

Proprio grazie al movimento un team internazionale di ricercatori delle Università di Padova e Northwestern (Chicago, USA) ha scoperto un nuovo materiale per rendere più efficiente la conversione dell’energia solare in prodotti chimici: lo studio, dal titolo Mechanical and Light Activation of Materials for Chemical Production, è stato pubblicato sulla rivista scientifica «Advanced Materials».

acqua ossigenata Idrogel
Grazie a un nuovo idrogel e al movimento, con la luce solare un metodo sostenibile per la riduzione in acqua ossigenata; lo studio pubblicato su Advanced Materials

Gli studi scientifici attuali testano i materiali per la fotosintesi artificiale – così vengono chiamate le ricerche che si ispirano a questo processo naturale e che si riferiscono a qualunque sistema per catturare e immagazzinare l’energia dalla luce del sole nei legami chimici di un combustibile – in condizioni statiche, ignorando le reazioni in caso di movimento, aspetto che hanno deciso di indagare i ricercatori delle Università di Padova e Northwestern.

«Per testare se il movimento potesse influenzare la fotosintesi artificiale è stato fondamentale preparare un materiale nuovo», spiega Luka Ðorđević, primo autore della ricerca e docente del Dipartimento di Scienze Chimiche dell’Università di Padova. «Questo materiale non solo doveva essere in grado di assorbire e convertire la luce solare, ma doveva essere anche abbastanza intelligente da gonfiarsi e contrarsi a seconda degli stimoli a cui veniva sottoposto».

A tale scopo i ricercatori hanno scelto degli idrogel, materiali ad alto contenuto acquoso che si deformano facilmente. Questi idrogel sono costituiti da due componenti: uno è il fotocatalizzatore, che permette di convertire la luce solare in reazioni chimiche, e l’altro è un materiale che lo rende termoresponsivo.

«Il nostro nuovo idrogel, di base completamente organica, si è rilevato efficiente nella produzione di acqua ossigenata, che abbiamo scelto come prodotto della fotosintesi artificiale», aggiunge Marianna Barbieri, autrice della ricerca e dottoranda del corso di dottorato in Materials Science and Technology dell’Università di Padova. «Oltre a rispondere alla luce, l’idrogel risponde in maniera notevole anche alla temperatura: in questo modo è possibile contrarre il materiale o ripristinare la sua forma espansa».

Marianna Barbieri
Marianna Barbieri

«È stato interessante osservare che l’efficienza di produzione di acqua ossigenata aumenta quando il nuovo materiale viene sottoposto a cicli di contrazione ed espansione: più sono veloci questi cicli e più efficiente è il materiale», conclude Ðorđević. «Similmente agli organi del corpo, abbiamo visto che il movimento meccanico aiuta a velocizzare lo scambio di prodotti e reagenti e ci auguriamo che possa essere applicato anche ad altri materiali e ad altre reazioni».

Luka Ðorđević

Lo studio è stato svolto nell’ambito del progetto europeo ERC Starting Grant recentemente finanziato dall’Unione Europea del prof. Luka Ðorđević.

Luka Đorđević, Tyler J. Jaynes, Hiroaki Sai, Marianna Barbieri, Jacob E. Kupferberg, Nicholas A. Sather, Steven Weigand, e Samuel I. Stupp, Mechanical and Light Activation of Materials for Chemical Production – «Advanced Materials» – 2025, Link: https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/adma.202418137

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

L’ERC FINANZIA DUE PRINCIPAL INVESTIGATOR DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA: I vincitori sono Elisa Cimetta del Dipartimento di Ingegneria Industriale col progetto SPOTTED e Manuele Faccenda del Dipartimento di Geoscienze col progetto MODEM

L’Agenzia Esecutiva dello European Research Council – ERCEA ha annunciato oggi i Principal Investigator (PI) selezionati nell’ambito della seconda call ERC Proof of Concept POC 2024, che assegna un finanziamento di 150.000 euro a 134 ricercatori e ricercatrici in tutta Europa.

Sono due i progetti vincitori dell’Università di Padova: il progetto SPOTTED di Elisa Cimetta, docente al Dipartimento di Ingegneria Industriale, e MODEM di Manuele Faccenda, docente al Dipartimento di Geoscienze, entrambi beneficiari di un finanziamento di 150.000 euro.

Il programma Proof of Concept del Consiglio Europeo della Ricerca (ERC) supporta eccellenti PI che hanno già ricevuto una sovvenzione ERC per un progetto di ricerca di frontiera e ora desiderano esplorare il potenziale commerciale o sociale della propria idea scientifica. Le proposte selezionate per il finanziamento sono distribuite su 20 paesi: Germania, Italia e Paesi Bassi con 15 grant vinti ciascuno sono i paesi con il maggior numero di finanziamenti ottenuti, seguiti da Spagna e Regno Unito con 14 e Israele con 12.

Il progetto SPOTTED di Elisa Cimetta

Con un budget di 150.000 euro, il progetto dal titolo MicroScale system integrating Patient-specific cancer Organoids in a 3D Tumor microenvironment for Therapy rEsponse preDiction (SPOTTED) di Elisa Cimetta si propone di sviluppare uno strumento innovativo per testare i trattamenti dei pazienti affetti da tumore pancreatico, aiutando i medici a scegliere le terapie più efficaci per ciascuno. Questo approccio rivoluzionario potrebbe colmare il divario tra ricerca e pratica clinica, aprendo la strada a trattamenti oncologici più efficaci e personalizzati per milioni di persone.

«Il progetto SPOTTED mira a sviluppare modelli avanzati e specifici per il paziente grazie a una piattaforma microfluidica all’avanguardia», spiega Elisa Cimetta. Utilizzando piccole repliche di tumori coltivate in laboratorio a partire da tessuti di pazienti, SPOTTED crea un modello tridimensionale altamente realistico del tumore pancreatico, una delle forme più letali della malattia. Questo modello non solo riproduce fedelmente l’ambiente tumorale, ma integra anche componenti chiave come cellule immunitarie e di supporto, permettendo test farmacologici più accurati. Grazie alla sua capacità di ricreare le condizioni all’interno del corpo umano, SPOTTED offre uno strumento innovativo per testare i trattamenti in un ambiente controllato, aiutando i medici a scegliere le terapie più efficaci per ogni paziente».

Elisa Cimetta

Dopo la laurea e il dottorato di ricerca in Ingegneria Chimica all’Università di Padova, Elisa Cimetta è stata Associate Research Scientist nel laboratorio della Prof Vunjak-Novakovic alla Columbia University di New York. In quel periodo ha vinto una prestigiosa fellowship dalla New York Stem Cell Foundation e ottenuto una certificazione post-lauream in business e amministrazione. È co-fondatrice di EpiBone Inc, produttrice di ossa ingegnerizzate e tessuti osteocondrali paziente-specifici con studi clinici in Fase I-II. Ora docente al Dipartimento di Ingegneria Industriale (DII), nel 2017 ha vinto un ERC Starting Grant dell’EU. Sempre a livello di programmi di ricerca EU, ha vinto un altro Proof of Concept nel 2024. Il suo laboratorio BIAMET ha sede presso il DII e l’Istituto di Ricerca Pediatrica (IRP) Città della Speranza. Con oltre 15 anni di esperienza nel campo dello sviluppo di bioreattori e microbioreattori, è stata pioniera nello sviluppo di tecnologie e dispositivi volti a studiare i sistemi biologici e avvicinarli a nuove applicazioni cliniche.

Elisa Cimetta
Elisa Cimetta

Il progetto MODEM di Manuele Faccenda

Con un budget di 150.000 euro, il progetto dal titolo Monitoring crustal stress state frOm 4D sEismic iMaging (MODEM) di Manuele Faccenda mira allo sviluppo di un software che, attraverso la rilevazione automatica di variazioni di velocità delle onde sismiche derivanti da condizioni di fratturazione delle rocce crostali, fornirà importanti informazioni sulle condizioni dei sistemi magmatici e sismogenetici nei mesi e settimane precedenti a eventi potenzialmente catastrofici, favorendo una diminuzione dei rischi correlati. Le zone tettonicamente attive come le aree vulcaniche e i sistemi di faglie sismogenetiche sono infatti caratterizzate da condizioni di sforzo in continua evoluzione che controllano lo stato di fratturazione delle rocce e la migrazione di magma e fluidi crostali, specie nelle fasi precedenti le eruzioni vulcaniche e i terremoti maggiori.

«La metodologia che intendiamo sviluppare avrà ricadute positive sulla società in quanto migliorerà il monitoraggio di importanti siti geologici come aree vulcaniche ma anche campi petroliferi e geotermici, fornendo informazioni di importanza critica riguardo lo stato di fratturazione delle rocce e la distribuzione dei fluidi in profondità che porteranno alla possibilità di “prevedere” imminenti attività sismiche – commenta Manuele Faccenda –. Il software verrà testato e calibrato grazie ai dati acquisiti dal sistema di monitoraggio dell’Etna, e successivamente distribuito agli enti di monitoraggio italiani e internazionali delle principali aree vulcaniche».

Manuele Faccenda

Si è laureato in Geologia nel 2005 all’Università di Perugia, per poi conseguire nel 2009 il dottorato in Geofisica all’ETH di Zurigo. Dopo 2 anni come research fellow alla Monash University (Australia), nel 2012 viene assunto come ricercatore al Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, dove dal 2018 ricopre il ruolo di docente in Geofisica della Terra Solida. Le attività di ricerca sono rivolte principalmente allo studio della struttura e dinamica interna del pianeta Terra tramite l’utilizzo di tecniche di modellazione numerica dei processi geologici e geofisici e di metodi di indagine sismologica quali la tomografia sismica. Queste attività hanno portato alla pubblicazione di circa 60 articoli e oltre 100 contributi in convegni scientifici.

Manuele Faccenda
Manuele Faccenda

Per informazioni:

https://erc.europa.eu/news-events/news/Proof-of-Concept-Grants-2024

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

I GEMELLI DIGITALI PER LA MEDICINA PERSONALIZZATA

Studio dell’Università di Padova pone le basi per una nuova generazione di strumenti diagnostici e terapeutici che combinano la scienza delle reti, la biologia computazionale e la medicina digitale

Il futuro della medicina personalizzata sta assumendo una nuova forma grazie a un approccio trasparente basato su modelli computazionali che superano i limiti delle tradizionali metodologie di intelligenza artificiale.I gemelli digitali per la medicina personalizzata

Un team internazionale guidato da ricercatori dell’Università di Padova del Padua Center for Network Medicine ha proposto un nuovo quadro concettuale per l’uso dei gemelli digitali (digital twins) in medicina di precisione. Il gemello digitale è un modello virtuale di un oggetto fisico che segue il ciclo di vita dell’oggetto e utilizza i dati in tempo reale inviati dai sensori sull’oggetto stesso per simularne il comportamento e monitorare le operazioni.

I gemelli digitali per la medicina personalizzata
I gemelli digitali per la medicina personalizzata; uno studio pubblicato sulla rivista NPJ Digital Medicine

I risultati della ricerca dal titolo Challenges and opportunities for digitaltwins in precision medicine from acomplex systems perspective sono stati pubblicati sulla rivista scientifica «NPJ Digital Medicine», del gruppo editoriale Nature, e pongono le basi per una nuova generazione di strumenti diagnostici e terapeutici che combinano la scienza delle reti, la biologia computazionale e la medicina digitale.

«Il nostro approccio non è un semplice esercizio di modellazione predittiva – spiega Manlio De Domenico, primo autore dello studio e docente al dipartimentodi Fisica e Astronomia dell’Università di Padova –. Si basa su modelli computazionali complessi guidati da ipotesi biologiche esplicite, che consentono di simulare e analizzare interventi terapeutici in modo trasparente e interpretabile, migliorando la comprensione dei meccanismi sottostanti ai processi biologici. La sfida, adesso, è farli comunicare bene tra loro».

Manlio De Domenico
Manlio De Domenico

Una piattaforma interdisciplinare per la medicina del futuro

Lo studio si distingue per la sua interdisciplinarietà, poiché integra concetti e tecniche della fisica statistica con la biologia e la medicina. I gemelli digitali descritti nel lavoro non sono semplici riproduzioni statistiche di dati clinici ma veri e propri modelli esplicativi che, in linea di principio, sono in grado di replicare in-silico il comportamento di cellule, organi o interi organismi utilizzando simulazioni basate su meccanismi biologici multiscala e multilivello. Questo consente di esplorare strategie terapeutiche dinamiche e ottimizzare le decisioni cliniche in tempo reale.

La ricerca, condotta in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia, la Binghamton University (USA), il London Institute for Mathematical Sciences e la Universidade Católica Portuguesa di Lisbona, mette in evidenza come questi modelli possano colmare le lacune delle tecniche basate sull’intelligenza artificiale “opaca”, definita tale in quanto la sua complessità impedisce agli utenti umani di comprendere e spiegare pienamente i meccanismi che la guidano, suscitando una certa diffidenza nel suo utilizzo. Questa complessità ostacola la diffusione dell’intelligenza artificiale in settori cruciali come medicina e sicurezza.

«Il nostro obiettivo è rendere la medicina personalizzata più affidabile e comprensibile, evitando l’opacità delle soluzioni puramente data-driven», aggiunge Valeria d’Andrea, ricercatrice del dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Ateneo patavino, che ha contribuito allo studio.

Valeria D'Andrea
Valeria D’Andrea

Impatti pratici e applicazioni future

Grazie all’uso di modelli generativi ipotesi-guidati, questo approccio promette di migliorare l’efficacia delle terapie personalizzate, riducendo i rischi associati a diagnosi e trattamenti non ottimali. L’integrazione di “big data” biologici, storici e ambientali consente inoltre di catturare la complessità delle interazioni biologiche e dell’esposoma (l’insieme degli stimoli ambientali che entrano in contatto con il corpo), aprendo nuove possibilità nella lotta contro malattie complesse come il cancro, le malattie neurodegenerative e molte patologie croniche.

«I gemelli digitali non solo simulano scenari clinici realistici, ma permettono di testare interventi terapeutici in modo sicuro ed efficiente, fornendo uno spettro di alternative clinicamente rilevanti per supportare le decisioni dei medici», conclude De Domenico.

Questa ricerca rappresenta un punto di incontro tra fisica dei sistemi complessi, medicina e biologia dei sistemi e delinea nuove prospettive per lo sviluppo di una medicina più equa, efficace e sostenibile, segnando un passo importante verso la realizzazione del potenziale della medicina di precisione. L’impegno del Padua Center for Network Medicine dell’Università di Padova in questa direzione sottolinea il ruolo centrale della ricerca interdisciplinare nella trasformazione della medicina moderna.

Riferimenti bibliografici:

Autori: Manlio De Domenico, Luca Allegri, Guido Caldarelli, Valeria d’Andrea, Barbara Di Camillo, Luis M. Rocha, Jordan Rozum, Riccardo Sbarbati, & Francesco Zambelli, Challenges and opportunities for digitaltwins in precision medicine from acomplex systems perspective – «NPJ Digital Medicine» – 2025

Link: https://www.nature.com/articles/s41746-024-01402-3

Padova, 20 gennaio 2025

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

L’ORSO BRUNO IN LETARGO CONSERVA LA MASSA MUSCOLARE

Questi animali non sviluppano l’atrofia muscolare tipicamente associata al disuso prolungato. Pubblicato su «Nature Communications» lo studio del team di ricercatori dell’Università di Padova e dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare guidati da Bert Blaauw sulla riduzione dell’attività ATPasica della miosina nel muscolo scheletrico a riposo.

 

“Reduced ATP turnover during hibernation in relaxed skeletal muscle” è il titolo dello studio pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale Nature Communications dal team di ricercatori guidato da Bert Blaauw, professore ordinario al Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova oltre che Principal investigator dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM).

Lo studio ha rivelato un fenomeno sorprendente negli orsi bruni durante il letargo: nonostante una drastica riduzione dell’attività, questi animali non sviluppano l’atrofia muscolare tipicamente associata al disuso prolungato. La ricerca ha messo in luce un meccanismo chiave di questo adattamento: l’attività ATPasica della miosina nel muscolo scheletrico a riposo che subisce modifiche significative. Questa alterazione dell’attività enzimatica contribuisce in modo sostanziale al risparmio energetico, permettendo agli orsi di preservare la massa muscolare durante i lunghi mesi di inattività invernale.

L’analisi di singole fibre muscolari, prelevate agli orsi sia durante il letargo che in estate, ha rivelato importanti cambiamenti durante il periodo di svernamento. Le fibre degli orsi in letargo mostrano un lieve calo nella produzione di forza, accompagnato da una significativa riduzione dell’attività ATPasica della miosina a riposo. La miosina, che funge da motore molecolare del muscolo scheletrico, presenta quindi una marcata diminuzione della sua attività enzimatica quando il muscolo è in stato di quiescenza durante il letargo. Questi risultati evidenziano un adattamento fisiologico che potrebbe contribuire al risparmio energetico durante lo svernamento.

«I risultati che emergono dallo studio dimostrano che il muscolo scheletrico limita la perdita di energia riducendo l’attività dell’ATPasi della miosina, indicandone un possibile ruolo in molteplici condizioni di atrofia muscolare – sottolinea Bert Blaauw –. Questa ricerca apre quindi nuove prospettive terapeutiche, suggerendo potenziali strategie per contrastare la perdita di massa e forza muscolare associata a periodi di inattività prolungata o al processo di invecchiamento nell’uomo. Le scoperte sui meccanismi di adattamento degli orsi in letargo potrebbero fornire preziose indicazioni per lo sviluppo di interventi mirati a preservare la funzionalità muscolare in condizioni di disuso o senescenza”.

La proteomica condotta sulle singole fibre e le analisi immunoistochimiche hanno rivelato un importante rimodellamento del proteoma mitocondriale durante il letargo. Utilizzando approcci bioinformatici e biochimici, i ricercatori hanno scoperto che la catena leggera della miosina fosforilata, noto stimolatore dell’attività ATPasica della miosina nel muscolo a riposo, diminuisce nei muscoli in letargo. Questa scoperta fornisce ulteriori dettagli sul meccanismo molecolare alla base del risparmio energetico e della preservazione muscolare durante l’inattività invernale degli orsi bruni.

Lo studio è stato finanziato dal programma STARS Grants per la ricerca individuale dell’Università di Padova e da AFM Telethon.

Bert Blaauw ha avviato il suo laboratorio indipendente nel 2012 e attualmente ricopre il ruolo di Professore Ordinario al Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova ed è Principal investigator all’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM). Nel corso della sua carriera, Blaauw ha dato un contributo significativo al campo della ricerca sulla fisiologia muscolare. Ha pubblicato numerosi articoli di ricerca peer-reviewed, collaborato come autore senior in pubblicazioni dove membri del suo team figuravano come primi autori, e partecipato complessivamente a oltre 100 articoli scientifici incentrati sulla fisiologia muscolare, il signaling e l’approfondimento delle conoscenze sul muscolo scheletrico. Negli ultimi dieci anni, il team guidato dal professor Blaauw ha ottenuto notevoli riconoscimenti a livello internazionale per i suoi studi innovativi sulla determinazione della funzione muscolare adulta, sia in condizioni fisiologiche che patologiche. Questi successi testimoniano l’importanza e l’impatto del lavoro svolto dal suo gruppo di ricerca nel campo della biologia muscolare.

Bert Blaauw
Bert Blaauw

Riferimenti bibliografici:

Autori: Cosimo De Napoli, Luisa Schmidt, Mauro Montesel, Laura Cussonneau, Samuele Sanniti, Lorenzo Marcucci,Elena Germinario, Jonas Kindberg, Alina Lynn Evans, Guillemette Gauquelin-Koch, Marco Narici, Fabrice Bertile, Etienne Lefai, Marcus Krüger, Leonardo Nogara, Bert Blaauw*,  “Reduced ATP turnover during hibernation in relaxed skeletal muscle”  «Nature Communications» 2025, DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-024-55565-4

L’orso bruno in letargo conserva la massa muscolare: questi animali non sviluppano l’atrofia muscolare tipicamente associata al disuso prolungato. Un orso bruno (Ursus arctos), da Viiksimo, nella regione finlandese di Kainuu. Foto Flickr di , CC BY 2.0

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

LE CAPSULE CHE “CATTURANO” GLI INQUINANTI: poliedri supramolecolari artificiali con la geometria del cubo simo, capsule in grado di immagazzinare sostanze (anche inquinanti)

Pubblicato su «Nature» lo studio di un team internazionale di ricercatori delle Università di Padova e Hong-Kong che svela un nuovo materiale “intelligente” di dimensioni nanoscopiche per immagazzinare e rilasciare sostanze in modo controllato

 Studiare materiali innovativi che individuino e catturino sostanze inquinanti per aria e acqua è oggi di fondamentale importanza: un aiuto nella preparazione di questi nuovi materiali arriva dalle capsule proteiche artificiali. In biologia le capsule proteiche svolgono funzioni essenziali in diversi processi, tra cui il trasporto e l’immagazzinamento di sostanze che spaziano dal fragile materiale genetico dei virus al ferro contenuto nelle ferritine.

Luka Ðorđević

Un team internazionale di ricercatori delle Università di Padova e Hong-Kong, con la collaborazione di università statunitensi (Duke, Northwestern, South Florida, California Institute of Technology) e cinesi (Tianjin, Anhui, Zhejiang), ha scoperto un nuovo materiale con caratteristiche simili alle capsule biologiche: lo studio, dal titolo Dynamic supramolecular snub cubes e pubblicato sulla rivista scientifica «Nature», è stato coordinato da Sir James Fraser Stoddart, premio Nobel per la chimica nel 2016 venuto a mancare il 30 dicembre 2024.

Le capsule biologiche sono dei poliedri supramolecolari, cioè subunità proteiche che si auto-assemblano attraverso numerosi legami deboli per creare delle strutture ben definite e simmetriche. Gli scienziati hanno provato a lungo a replicare queste strutture naturali e dopo molti tentativi sono riusciti a preparare poliedri supramolecolari artificiali e produrre capsule con caratteristiche simili a quelle biologiche che possano immagazzinare sostanze e rilasciarle in modo intelligente e controllato.

La scoperta del processo che porta dal riconoscimento delle molecole alla preparazione di capsule artificiali ha reso possibile lo studio di due caratteristiche fondamentali di questi nuovi materiali, che trovano una similitudine con le proprietà delle capsule biologiche: le proprietà dinamiche e la capacità di incapsulare altre sostanze, doti essenziali per lo sviluppo di questa classe di sistemi altamente “intelligenti” dal momento che consentono una cattura e un rilascio controllato delle sostanze utilizzando la luce come stimolo. Tra le numerose applicazioni possibili c’è, ad esempio, la purificazione dell’aria o dell’acqua attraverso l’immagazzinamento di idrocarburi.

«Per la preparazione di questo nuovo materiale è stato fondamentale sfruttare delle molecole chirali – spiega Luka Ðorđević, autore della ricerca e docente al Dipartimento di Scienze Chimiche dell’Università di Padova –. La chiralità è una proprietà di oggetti che sono immagini speculari l’uno dell’altro ma non sono sovrapponibili, come le nostre mani destra e sinistra. Questa proprietà è universale in natura e si manifesta ovunque, dal DNA alle proteine. Nel nostro studio abbiamo osservato come delle molecole chirali possano riconoscersi e auto-assemblarsi in capsule sintetiche dalle dimensioni di solo un paio di nanometri. La dimensione della capsula determina ciò che questa riesce a immagazzinare: creare poliedri da oggetti macroscopici risulta molto facile, ma produrne di dimensioni nanoscopiche è estremamente complicato. Il nostro studio dimostra che le dimensioni di un paio di nanometri sono sufficienti per consentire di immagazzinare idrocarburi come il benzene e il cicloesano, inquinanti di aria e acqua».

Luka Ðorđević
Luka Ðorđević

La geometria di un materiale ne influenza le proprietà e quindi le sue possibili applicazioni: questo nuovo poliedro sintetico è interessante perché riproduce la geometria del cubo simo (snub cube), uno dei 15 poliedri archimedei con 60 spigoli, 24 vertici e 38 facce. Inoltre, anche il cubo simo è chirale e quindi si presenta in due forme speculari.

Riferimenti bibliografici: Huang Wu, Yu Wang, Luka Đorđević, Pramita Kundu, Surojit Bhunia, Aspen X.-Y. Chen, Liang Feng, Dengke Shen, Wenqi Liu, Long Zhang, Bo Song, Guangcheng Wu, Bai-Tong Liu, Moon Young Yang, Yong Yang, Charlotte L. Stern, Samuel I. Stupp, William A. Goddard III, Wenping Hu & J. Fraser Stoddart, Dynamic supramolecular snub cubes – «Nature» – 2025, link: https://www.nature.com/articles/s41586-024-08266-3

Luka Ðorđević
Poliedri supramolecolari artificiali con la geometria del cubo simo, capsule in grado di immagazzinare sostanze (anche inquinanti)

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

TERREMOTI | Lo studio sul ruolo delle acque accumulate negli acquiferi carsici offre nuovi spunti per l’analisi dell’attività sismica di un team di ricercatori di INGV, UNIPD, FEDERICO II e Acquedotto Pugliese ha investigato le relazioni tra effetti idrologici e processi crostali che rivelano le caratteristiche meccaniche delle rocce di faglia responsabili dei terremoti in Appennino

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista scientifica ‘Nature Communications’, intitolato “Non-linear elasticity, earthquake triggering and seasonal hydrological forcing along the Irpinia fault, Southern Italy” fornisce approfondimenti innovativi sui processi che collegano la variazione stagionale delle masse d’acqua, l’elasticità delle rocce crostali e l’attività sismica in Irpinia.

La ricerca, condotta nell’ambito del progetto multidisciplinare Pianeta Dinamico-MYBURP (Modulation of hYdrology on stress BUildup on the IRPinia Fault), è stata realizzata da un team di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), dell’Università degli Studi di Padova, dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e della società Acquedotto Pugliese.

“Il nostro studio ha rivelato come gli effetti idrologici influenzino le caratteristiche meccaniche del sistema di faglie in Irpinia e la distribuzione temporale della sua sismicità”, spiega Nicola D’Agostino, ricercatore dell’INGV e coordinatore del team di ricerca. “Per scoprirlo, abbiamo analizzato le variazioni stagionali di velocità delle onde sismiche nella crosta terrestre e le serie temporali di deformazione provenienti da una rete avanzata di stazioni sismiche e GNSS dell’Irpinia Near Fault Observatory e della Rete GNSS RING”.

 Analisi della sensitività (β) delle variazioni di velocità delle onde sismiche (δv/v) in funzione della deformazione orizzontale (strain). δv/v è stato misurato attraverso l'analisi temporale delle variazioni del rumore sismico ambientale mentre la deformazione è stata calcolata attraverso i dati delle stazioni della rete GNSS RING. β è un parametro significativo per definire la non-linearità delle proprietà elastiche della crosta terrestre e delle modalità di accumulo e rilascio della deformazione sismica nelle zone di faglia. In a) e b) sono mostrati i valori di δv/v e deformazione in funzione della fase annuale (a) e della velocità di deformazione (b). In c-h sono mostrate le variazioni di δv/v e deformazione per singole annualità
Analisi della sensitività (β) delle variazioni di velocità delle onde sismiche (δv/v) in funzione della deformazione orizzontale (strain). δv/v è stato misurato attraverso l’analisi temporale delle variazioni del rumore sismico ambientale mentre la deformazione è stata calcolata attraverso i dati delle stazioni della rete GNSS RING. β è un parametro significativo per definire la non-linearità delle proprietà elastiche della crosta terrestre e delle modalità di accumulo e rilascio della deformazione sismica nelle zone di faglia. In a) e b) sono mostrati i valori di δv/v e deformazione in funzione della fase annuale (a) e della velocità di deformazione (b). In c-h sono mostrate le variazioni di δv/v e deformazione per singole annualità

I ricercatori hanno infatti scoperto che la ricarica idrologica degli acquiferi carsici dell’Appennino genera deformazioni naturali che modulano la velocità delle onde sismiche e la sismicità locale. Attraverso una tecnica innovativa di analisi del rumore sismico ambientale è stato possibile misurare le variazioni stagionali di velocità delle onde sismiche che attraversano la crosta terrestre e confrontarle con le misure di deformazione crostale indotte dagli effetti idrologici.

“Queste due informazioni ci hanno permesso di misurare le variazioni di velocità delle onde sismiche in funzione della deformazione crostale, parametro importante per quantificare la non-linearità delle proprietà elastiche delle rocce”, sottolinea Stefania Tarantino, assegnista di ricerca dell’INGV e prima autrice dell’articolo.

Piero Poli, Professore dell’Università degli Studi di Padova e coautore dell’articolo aggiunge, infatti, che “osservazioni di laboratorio mostrano come le proprietà elastiche varino in funzione dello stato di deformazione dei materiali (elasticità non-lineare), con significative implicazioni sulle caratteristiche meccaniche con cui le rocce di faglia rispondono all’accumulo di deformazione che precede i terremoti. La sensitività osservata è risultata simile ai valori misurati in laboratorio, confermando la validità dell’approccio scientifico adottato.

“Le nostre osservazioni mostrano inoltre un aumento degli eventi sismici di bassa magnitudo (M < 3.7) in primavera-estate, quando il carico idrologico è maggiore, suggerendo che l’elasticità non-lineare possa giocare un ruolo chiave non solo nei fenomeni sismici minori, ma anche nella preparazione di terremoti di grande magnitudo, come quello che colpì l’Irpinia nel 1980″, sottolinea Aldo Zollo, Professore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e coautore dell’articolo.

Gaetano Festa, Professore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e coautore dell’articolo, aggiunge che “l’area geografica oggetto dello studio è oggi monitorata da un’infrastruttura multiparametrica avanzata denominata ‘Irpinia Near Fault Observatory’ e costituita da stazioni sismiche, geodetiche e geochimiche, nonché da un sistema di rilevamento sismico mediante fibra ottica (DAS), gestiti dall’INGV e dall’Università Federico II“.

Aspetto importante del lavoro è stata la sinergia con la società Acquedotto Pugliese, importante infrastruttura pubblica di approvvigionamento idrico-potabile della regione Puglia e gestore della Sorgente Sanità di Caposele, che ha fornito dati indispensabili per la comprensione della relazione tra effetti idrologici e processi crostali. “Siamo particolarmente soddisfatti di aver offerto il nostro contribuito alla realizzazione dello studio. Un contributo reso possibile dall’approfondita conoscenza della materia e dalla vasta esperienza sul campo, come testimoniato, tra l’altro, nel corso del convegno sul tema, organizzato con INGV nel nostro palazzo nel maggio scorso”, dichiara Domenico Laforgia, presidente di Acquedotto Pugliese.

I risultati di questo studio offrono nuove prospettive per comprendere e monitorare sempre meglio i processi di accumulo e rilascio della deformazione sismica, con l’obiettivo di migliorare le tecniche di mitigazione del rischio sismico.

a) Distribuzione dell'intensità della deformazione tettonica (scala cromatica e vettori di velocità) misurati dalle stazioni GNSS della rete RING. Le aree in verde mostrano la distribuzione degli acquiferi carsici responsabili delle deformazioni idrologiche osservate. b) sismicità nell'area irpina, segmenti attivati e meccanismo focale del terremoto Ms 6.9 del 23 novembre 1980. c) Serie temporali delle osservabili usate nello studio: portate della sorgente di Caposele (blu), variazioni di velocità δv/v (verde) e di spostamento alle stazioni MCRV e CAFE (in rosso). Osservare la stretta correlazione tra effetti idrologici, variazioni di velocità e di spostamento alla stazione MCRV (posta in prossimità degli acquiferi carsici) e la mancanza di correlazione a CAFE (posta in posizione più distante). d) rappresentazione schematica delle deformazioni idrologiche e loro relazione con le fasi di ricarica degli acquiferi carsici
a) Distribuzione dell’intensità della deformazione tettonica (scala cromatica e vettori di velocità) misurati dalle stazioni GNSS della rete RING. Le aree in verde mostrano la distribuzione degli acquiferi carsici responsabili delle deformazioni idrologiche osservate. b) sismicità nell’area irpina, segmenti attivati e meccanismo focale del terremoto Ms 6.9 del 23 novembre 1980. c) Serie temporali delle osservabili usate nello studio: portate della sorgente di Caposele (blu), variazioni di velocità δv/v (verde) e di spostamento alle stazioni MCRV e CAFE (in rosso). Osservare la stretta correlazione tra effetti idrologici, variazioni di velocità e di spostamento alla stazione MCRV (posta in prossimità degli acquiferi carsici) e la mancanza di correlazione a CAFE (posta in posizione più distante). d) rappresentazione schematica delle deformazioni idrologiche e loro relazione con le fasi di ricarica degli acquiferi carsici

Riferimenti bibliografici: 

Tarantino, S., Poli, P., D’Agostino, N. et al. Non-linear elasticity, earthquake triggering and seasonal hydrological forcing along the Irpinia fault, Southern Italy, Nat Commun 15, 9821 (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-024-54094-4

Link utili:

Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV)

Università degli Studi di Padova

Università degli Studi di Napoli Federico II

Acquedotto Pugliese

Progetto Pianeta Dinamico-MYBURP

Irpinia Near Fault Observatory

Rete GNSS RING

 

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Rettorato Università degli Studi di Napoli Federico II.

L’ATTIVITÀ CEREBRALE A RIPOSO DEI BAMBINI CAMBIA IN BASE AL SESSO

Ricerca dell’Università di Padova, in collaborazione con IRCCS “E. Medea” di Conegliano e Università di Cambridge, scopre relazione tra il funzionamento neurale in condizioni di riposo e il funzionamento cognitivo quotidiano in bambini di età prescolare

L’attività cerebrale dei bambini a riposo cambia in base al sesso biologico e all’età? È possibile prevedere eventuali problemi comportamentali, emotivi o legati alle funzioni esecutive attraverso questa attività?

La risposta arriva dalla ricerca dal titolo Dynamic transient brain states in preschoolers mirror parental report of behavior and emotion regulation, pubblicata sulla rivista «Human Brain Mapping», guidata da Lisa Toffoli e Giovanni Mento del Dipartimento di Psicologia Generale dall’Università di Padova in collaborazione con Gian Marco Duma dell’IRCCS “E. Medea” di Conegliano e Duncan Astle dell’Università di Cambridge.

La ricerca dimostra che esiste una relazione tra il funzionamento neurale in condizioni di riposo (chiamato resting state, stato in cui il cervello non è impegnato in attività cognitive attive o compiti specifici) e il funzionamento cognitivo quotidiano in bambini di età prescolare (4-6 anni). I ricercatori hanno evidenziato che la stabilità, la durata e la direzione delle comunicazioni cerebrali – il modo in cui le informazioni vengono trasmesse ed elaborate all’interno di una singola area o tra diverse aree del cervello – in assenza di richieste cognitive non cambiano all’interno della fascia di età considerata ma differiscono in base al sesso biologico.

Le richieste cognitive si riferiscono alle sollecitazioni e alle sfide che il nostro cervello deve affrontare per elaborare informazioni, risolvere problemi, prendere decisioni e svolgere attività che richiedono attenzione e concentrazione; possono variare in intensità e complessità e sono fondamentali nello sviluppo delle abilità cognitive, specialmente nei bambini.

In particolare, i maschi mostrano un’attività cerebrale più variabile e meno prevedibile, caratterizzata inoltre da una maggiore attivazione del Default-Mode Network, il circuito associato alla “testa tra le nuvole” (mind wandering). Al contrario, le femmine attivano più spesso le aree prefrontali, maggiormente associate alla capacità di concentrazione e attivazione cognitiva.

I ricercatori hanno inoltre osservato, sulla base dei questionari compilati dai genitori, che i bambini e le bambine che attivano di più le aree prefrontali mostrano una migliore regolazione comportamentale ed emotiva, mentre chi attiva più spesso il Default-Mode Network riporta maggiori difficoltà.

«Questo studio aveva due obiettivi principali: il primo era capire se e come l’attività cerebrale a riposo dei bambini differisce in base al sesso biologico e all’età. Il secondo era esaminare se questa attività fosse in grado di prevedere eventuali problemi comportamentali, emotivi o legati alle funzioni esecutive, cioè quelle abilità mentali che ci aiutano a pianificare e portare a termine azioni» afferma Lisa Toffoli, prima autrice dello studio e ricercatrice dell’Università di Padova.

«Per la prima volta in questa fascia d’età è stata utilizzata una tecnica innovativa di machine learning chiamata “Hidden Markov Models” (HMM) applicata a dati di elettroencefalografia ad alta risoluzione spaziale, che ha permesso di identificare quali aree del cervello comunicano tra loro e come queste comunicazioni cambiano in tempi rapidissimi, nell’ordine di millisecondi» spiega Gian Marco Duma, che ha supervisionato la collaborazione con l’IRCCS E. Medea.

«Questi risultati potrebbero avere significative implicazioni per popolazioni cliniche, in particolare per i disturbi del neurosviluppo come autismo e ADHD, identificando potenziali target neurali nei processi riabilitativi. Questo potrebbe facilitare approcci terapeutici personalizzati soprattutto in età prescolare, una fase cruciale per lo sviluppo cognitivo» conclude Giovanni Mento, corresponding author dello studio e docente al Dipartimento di Psicologia Generale dall’Ateneo patavino.

Link alla ricerca: https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/hbm.70011

Titolo: Dynamic transient brain states in preschoolers mirror parental report of behavior and emotion regulation – «Human Brain Mapping» – 2024

Autori: Lisa Toffoli, Natalia Zdorovtsova, Gabriela Epihova, Gian Marco Duma, Fiorella Del Popolo Cristaldi, Massimiliano Pastore, Duncan E. Astle, Giovanni Mento

Da sinistra: Giovanni Mento, Lisa Toffoli, Gian Marco Duma
Da sinistra: Giovanni Mento, Lisa Toffoli, Gian Marco Duma

Testo e foto dagli Uffici Stampa dell’Università di Padova e dell’Associazione La Nostra Famiglia – IRCCS E. Medea

ALTERAZIONE DEI RITMI CIRCADIANI, ISOLAMENTO E STRESS PSICOFISICO: L’UNIVERSITÀ DI PADOVA TESTA I LIMITI DI CORPO E MENTE IN AMBIENTI ESTREMI

Pubblicata su «European Journal of Applied Physiology» la ricerca dell’Ateneo patavino che studia gli effetti dell’esposizione a condizioni difficili sul corpo umano

In che modo l’esposizione a condizioni ambientali estreme, simili a quelle spaziali, può influenzare il corpo umano? Come reagisce il corpo allo stress dell’isolamento e del distacco dalle condizioni abituali terrestri? L’esplorazione spaziale non è più un sogno lontano ma una realtà tangibile: capire come questi fattori interagiscono con i processi biologici è fondamentale non solo per preparare gli astronauti a missioni future, ma anche per applicare tali conoscenze al miglioramento della sicurezza e della salute in ambienti estremi sulla Terra come quelli affrontati da subacquei, aviatori, alpinisti e persino lavoratori in ambienti industriali difficili.

Questo è stato argomento di studio del gruppo di ricerca dell’Università di Padova all’interno del programma EMMPOL (Euro Moon Mars POLand analog mission) che offre una piattaforma sperimentale di simulazione di missioni spaziali in ambienti che ne mimano i possibili habitat e che offrono una prospettiva unica su come lo stress, l’isolamento e l’esposizione a condizioni difficili possano influenzare il corpo umano studiando gli effetti di tali condizioni su stress ossidativo, infiammazione e invecchiamento biologico.

Le missioni EMMPOL, coordinate da Sofia Pavanello del Dipartimento di Scienze Cardio-Toraco-Vascolari e Sanità Pubblica dell’Università di Padova, e responsabile del BioAgingLab – che ha l’obiettivo di esplorare il tema dell’invecchiamento biologico –, hanno prodotto preziosi dati scientifici che avvicinano non solo alla comprensione delle sfide legate ai voli spaziali, ma offrono anche soluzioni per migliorare la salute in condizioni estreme sulla Terra.

Durante una di queste missioni simulate Tommaso Antonio Giacon, medico specializzando dell’Università di Padova, insieme ad altri quattro studenti di diverse nazionalità e università, ha trascorso una settimana di missione come astronauta analogo in isolamento nel Centro di Addestramento per Astronauti Analoghi (AATC) in Polonia. All’interno di un habitat che riproduce le condizioni di un insediamento lunare, gli studenti hanno affrontato sfide complesse come l’alterazione dei ritmi circadiani, l’isolamento, gli alti carichi di lavoro e lo stress psicofisico, esplorando i limiti del corpo e della mente umana.

I risultati di questa missione, pubblicati nello studio dal titolo “Environmental study and stress-related biomarkers modifications in a crew during analog astronaut mission EMMPOL 6” sulla rivista scientifica «European Journal of Applied Physiology», rivelano un aumento significativo dello stress ossidativo e dei livelli di cortisolo, segno che anche brevi periodi di isolamento e stress psicofisico possono alterare parametri biologici chiave. La ricerca vede come primo autore Tommaso Antonio Giacon, medico specializzando dell’Università di Padova, e come coordinatrice Sofia Pavanello, docente del Dipartimento di Scienze Cardio-Toraco-Vascolari e Sanità Pubblica dell’Università di Padova con la partecipazione di Gerardo Bosco, docente del dipartimento di Scienze biomediche dell’Ateneo patavino e di Simona Mrakic-Sposta del CNR di Milano, entrambi coautori.

La riduzione delle ore di sonno e la compromissione della qualità del riposo hanno ulteriormente evidenziato l’impatto profondo che queste condizioni hanno sul benessere psicofisico.

«La simulazione di una missione spaziale ci permette di comprendere come il corpo umano si adatti a condizioni estreme. Questi risultati non si limitano ai futuri astronauti, ma offrono preziose informazioni per migliorare la salute e la sicurezza di chi vive o lavora in ambienti estremi, come alpinisti, subacquei e lavoratori in contesti industriali complessi» spiega Sofia Pavanello, coordinatrice dello studio.

Sofia Pavanello
Sofia Pavanello

Le missioni EMMPOL rappresentano un esempio brillante di ricerca multidisciplinare: la collaborazione tra diversi settori – dalla biomedicina, alla fisiologia, fino all’ingegneria e architettura spaziale – ha permesso di raccogliere dati che arricchiscono la conoscenza scientifica e hanno ricadute pratiche per molteplici ambiti della vita quotidiana.

La partecipazione degli studenti dell’Università di Padova a queste missioni analoghe va oltre il semplice traguardo accademico: queste esperienze, presentate anche durante il festival Science4All dell’Università di Padova e supportate dal Rotary Club Padova, evidenziano il ruolo centrale dell’ateneo nel formare i ricercatori del futuro e dimostrano come la ricerca spaziale non sia confinata al cosmo, ma abbia un impatto concreto e diretto sulla nostra vita quotidiana. Attraverso l’esplorazione dei confini della scienza, i giovani ricercatori aprono nuove prospettive per un futuro più sicuro e sostenibile, gettando le basi per migliorare il benessere umano anche in condizioni ambientali estreme.

Link alla ricerca: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/39320485/

Titolo: Environmental study and stress-related biomarkers modifications in a crew during analog astronaut mission EMMPOL 6 – «European Journal of Applied Physiology» – 2024

Autori: T. A. Giacon, S. Mrakic-Sposta, G. Bosco, A. Vezzoli, C. Dellanoce, M. Campisi, M. Narici, M. Paganini, B. Foing, A. Kołodziejczyk, M. Martinelli & S. Pavanello

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

METIS OSSERVA COME SI PROPAGA LA TURBOLENZA NEL VENTO SOLARE

Grazie alle riprese del coronografo Metis a bordo della missione europea Solar Orbiter, un gruppo internazionale coordinato da ricercatori INAF è riuscito ad osservare la propagazione dei moti turbolenti del vento solare dalle zone più interne della corona del Sole fino allo spazio. La conoscenza dei meccanismi che guidano l’evoluzione e la propagazione di questi fenomeni nel vento solare aiuterà a migliorare le previsioni sul potenziale impatto che esso può avere nel nostro Sistema planetario e soprattutto sulla Terra. Lo studio a cui hanno collaborato anche ricercatori e ricercatrici di ASI, CNR e delle Università di Firenze, Padova, Urbino, Genova, Catania, Palermo e della Calabria, è stato pubblicato oggi sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

Il vento solare è un flusso incessante di particelle cariche provenienti dal Sole, il cui andamento è tutt’altro che costante. Nel loro moto nello spazio, le particelle del vento solare interagiscono con il campo magnetico variabile del Sole, seguendo traiettorie caotiche e fluttuanti, un fenomeno che prende il nome di turbolenza.

Le riprese ottenute dalla missione Solar Orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea grazie al coronografo Metis progettato da Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), Università di Firenze, Università di Padova, CNR-Ifn, e realizzato dall’Agenzia Spaziale Italiana con la collaborazione dell’industria italiana, confermano qualcosa che si sospettava da tempo: il moto turbolento del vento solare inizia molto vicino al Sole, all’interno della porzione di atmosfera solare nota come corona. Piccoli disturbi che influenzano il vento solare nella corona vengono trasportati verso l’esterno e si espandono, generando un flusso turbolento più lontano nello spazio.

“Questo risultato ha aperto una nuova finestra sulla fisica del vento solare grazie a Metis, il coronografo di nuova concezione – tutta italiana – a bordo del Solar Orbiter, che ha permesso acquisizioni ad alta cadenza di immagini coronali con un contrasto senza precedenti tra segnale coronale e background”

commenta Silvano Fineschi dell’INAF e Responsabile Scientifico del contributo italiano alla missione. Bloccando la luce diretta proveniente dal Sole, il coronografo Metis è in grado di catturare la luce visibile e ultravioletta più debole proveniente dalla corona solare. Le sue immagini ad alta risoluzione e ad alta cadenza mostrano la struttura dettagliata e il movimento all’interno della corona, rivelando come il movimento del vento solare diventi già turbolento alle sue radici. Le riprese utilizzate dal team di ricerca per osservare in dettaglio la propagazione della turbolenza sono state ottenute il 12 ottobre 2022 e messe in sequenza per realizzare una animazione video. In particolare, l’anello color rosso nel video mostra le osservazioni di Metis. A quella data, la sonda si trovava a soli 43,4 milioni di km dal Sole, meno di un terzo della distanza Sole-Terra. L’immagine del Sole al centro del video è stata scattata dall’Extreme Ultraviolet Imager (EUI) di Solar Orbiter, lo stesso giorno delle osservazioni di Metis.

“L’elevata risoluzione spaziale e temporale di Metis sta gettando nuova luce sui meccanismi fisici che regolano il vento solare e la sua propagazione, consentendo una migliore comprensione dei processi attraverso i quali il Sole determina le condizioni fisiche dello spazio interplanetario con effetti anche a Terra” dice Marco Stangalini, ricercatore e Responsabile di Programma ASI della missione Solar Orbiter. “Questo significativo risultato è solo l’ultimo di una lunga serie di successi e offre grandi speranze per il futuro. Nei prossimi anni, infatti, Solar Orbiter inclinerà la sua orbita, permettendoci di osservare il Sole da una prospettiva completamente nuova per la prima volta”.

La turbolenza influenza il modo in cui il vento solare viene riscaldato, il modo in cui si muove attraverso il Sistema solare e il modo in cui interagisce con i campi magnetici dei pianeti e delle lune che attraversa. Comprendere la turbolenza del vento solare è fondamentale per prevedere la meteorologia spaziale e i suoi effetti sulla Terra.

L’articolo “Metis observation of the onset of fully developed turbulence in the solar corona” di Daniele Telloni, Luca Sorriso-Valvo, Gary P. Zank, Marco Velli , Vincenzo Andretta, Denise Perrone, Raffaele Marino, Francesco Carbone, Antonio Vecchio, Laxman Adhikari, Lingling Zhao, Sabrina Guastavino, Fabiana Camattari, Chen Shi, Nikos Sioulas, Zesen Huang, Marco Romoli, Ester Antonucci, Vania Da Deppo, Silvano Fineschi, Catia Grimani, Petr Heinzel, John D. Moses, Giampiero Naletto, Gianalfredo Nicolini, Daniele Spadaro, Marco Stangalini, Luca Teriaca, Michela Uslenghi, Lucia Abbo, Frederic Auchere, Regina Aznar Cuadrado, Arkadiusz Berlicki, Roberto Bruno, Aleksandr Burtovoi, Gerardo Capobianco, Chiara Casini, Marta Casti,  Paolo Chioetto, Alain J. Corso, Raffaella D’Amicis, Yara De Leo, Michele Fabi, Federica Frassati, Fabio Frassetto, Silvio Giordano, Salvo L. Guglielmino, Giovanna Jerse, Federico Landini, Alessandro Liberatore, Enrico Magli, Giuseppe Massone, Giuseppe Nisticò, Maurizio Pancrazzi, Maria G. Pelizzo, Hardi Peter, Christina Plainaki, Luca Poletto, Fabio Reale, Paolo Romano, Giuliana Russano, Clementina Sasso, Udo Schuhle, Sami K. Solanki, Leonard Strachan, Thomas Straus, Roberto Susino, Rita Ventura, Cosimo A. Volpicelli, Joachim Woch, Luca Zangrilli, Gaetano Zimbardo e Paola Zuppella è stato pubblicato oggi sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

Immagine satellitare dal Solar Dynamics Observatory - SDO della NASA. Foto di Amy Moran
questa immagine satellitare dal Solar Dynamics Observatory – SDO della NASA mostra la luce ultravioletta in marrone chiaro. Foto NASA di Amy Moran, in pubblico dominio

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

GRANDE GENOMA, PICCOLI SPERMATOZOI: Un gruppo di ricercatori dell’Università di Padova ha analizzato la dimensione degli spermatozoi in 1.400 specie di tetrapodi

Nonostante le differenze di dimensioni corporee – da frazioni di grammo a molte tonnellate – che si osserva nei tetrapodi, vertebrati con quattro arti che comprendono anfibi, rettili, uccelli e mammiferi, la dimensione delle cellule che li compongono varia generalmente molto meno. Con un’eccezione: quella degli spermatozoi che, sebbene svolgano tutti la medesima funzione di trasporto del genoma paterno all’interno dell’uovo, possono misurare da pochi micron a oltre 3 mm.

L’interesse nel comprendere queste differenze da un punto di vista evolutivo è aumentato negli ultimi due decenni circa, ma le metodologie statistiche applicate non permettevano di investigarlo ad una scala tassonomica ed evolutiva ampia; questo è stato poi possibile solo grazie all’abbondante disponibilità di dati riguardanti determinate specie e allo sviluppo di nuove metodologie soprattutto per il controllo filogenetico.

Relazione tra lunghezza degli spermatozoi e massa corporea nei tetrapodi

Utilizzando un approccio innovativo per questo tipo di studi – la multi-ottimizzazione di Pareto –, un gruppo di ricercatori del dipartimento di Fisica dell’Università di Padova diretto da Amos Maritan e composto da Flavio Seno e Loren Koçillari, esperti di fisica statistica, e un gruppo di biologi evoluzionisti del dipartimento di Biologia composto da Maria Berica Rasotto, Silvia Cattelan e Andrea Pilastrosono riusciti per la prima volta a esplorare come si è evoluta la dimensione degli spermatozoi in relazione alla massa corporea nei tetrapodi basandosi sull’analisi di quasi 1.400 specie tra cui rane, piccoli uccelli come il luí, piccoli mammiferi come il toporagno e alcuni pipistrelli, ma anche il capodoglio, l’elefante, la giraffa, l’orso e l’uomo stesso.

Lo studio dal titolo “Tetrapod sperm length evolution in relation to body mass is shaped by multiple trade-offs” e pubblicato sulla rivista Nature Communications dimostra che l’evoluzione della lunghezza degli spermatozoi (o spermi) nei tetrapodi, negli ultimi 350 milioni di anni, è stata influenzata dagli stessi vincoli in gruppi di animali molto diversi per fisiologia (omeotermi, come uccelli e mammiferi, ed eterotermi, come rettili e anfibi), biologia riproduttiva (fecondazione interna o esterna), e relazioni filogenetiche, suggerendo che per tutti valgano le medesime costrizioni evolutive.

I ricercatori hanno inoltre dimostrato che i fattori associati all’evoluzione di spermatozoi “giganti” nei tetrapodi sono in parte legati, come prevedibile, alle strategie riproduttive – ad esempio il grado di competizione spermatica (quando una femmina si accoppia con molti maschi e gli spermi rivali entrano in competizione per fecondare le uova disponibili) e il numero di uova da fecondare –, ma anche, sorprendentemente, alle dimensioni del genoma, un aspetto finora quasi inesplorato.

Se l’aspettativa iniziale era, infatti, trovare una proporzione diretta tra la dimensione del genoma e quella degli spermatozoi, lo studio dimostra esattamente il contrario: le specie con spermi lunghi hanno un genoma più piccolo rispetto alle specie con spermi più corti.

«I tratti riproduttivi sono spesso difficili da studiare in quanto influenzati da tantissimi fattori diversi»,

spiega Silvia Cattelan, corresponding author dello studio e, al tempo della ricerca, postdoc al dipartimento di Biologia dell’Università di Padova.

«Il concetto di ottimalità di Pareto e il metodo statistico che abbiamo usato in questo studio ci hanno aiutato a sbrogliare questa matassa, permettendoci di dimostrare come la lunghezza degli spermatozoi sia associata in maniera complessa e non lineare alla massa corporea delle specie e quali siano stati i fattori che hanno principalmente influenzato l’evoluzione della lunghezza degli spermatozoi nei tetrapodi. Con questo risultato speriamo di stimolare ricerche future al fine di indagare, per esempio, se l’evoluzione di un genoma grande possa essere stato limitato in specie ad alta competizione spermatica».

Silvia Cattelan
Silvia Cattelan

«Questo studio apre nuove prospettive nella comprensione di uno dei fenomeni più affascinanti ed enigmatici della biodiversità animale, ossia quello dell’enorme variabilità interspecifica della dimensione dei gameti maschili in questo importante gruppo di vertebrati» concludono Maria Berica Rasotto e Andrea Pilastro, biologi evoluzionisti dell’Ateneo e membri, col collega Maritan, del National Biodiversity Future Center.

Link alla ricerca: https://www.nature.com/articles/s41467-024-50391-0

Titolo: Tetrapod sperm length evolution in relation to body mass is shaped by multiple trade-offs Nature Communications – 2024

Autori: Loren Koçillari, Silvia Cattelan, Maria Berica Rasotto, Flavio Seno, Amos Maritan e Andrea Pilastro

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova