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QUANDO L’IA IMPARA PIÙ CHE SEMPLICI PAROLE: L’intelligenza artificiale sta iniziando a riconoscere anche le nostre risposte emotive

Le descrizioni testuali delle immagini utilizzate per addestrare i moderni modelli di IA generativa contengono non solo informazione sul contenuto semantico dell’immagine, ma anche sullo stato emotivo della persona che fornisce la descrizione: i risultati della ricerca pubblicata dal team padovano sulla rivista «Royal Society Open Science»

Zaira Romeo, Istituto di Neuroscienze del CNR, e Alberto Testolin, Dipartimento di Psicologia Generale e Dipartimento di Matematica dell’Università di Padova, hanno pubblicato sulla rivista «Royal Society Open Science» l’articolo dal titolo “Artificial Intelligence Can Emulate Human Normative Judgments on Emotional Visual Scenes”. In questo studio hanno testato vari modelli linguistici multimodali di grandi dimensioni per verificare se fossero in grado di emulare le reazioni emotive umane di fronte ad una varietà di scene visive. Le valutazioni fornite dall’IA hanno mostrato una sorprendente corrispondenza con quelle umane, nonostante questi sistemi non fossero stati addestrati specificamente per fornire giudizi emozionali sulle immagini. Questo studio non solo dimostra che il linguaggio può supportare lo sviluppo di concetti emotivi nei moderni sistemi di IA, ma solleva anche importanti interrogativi su come si potranno impiegare queste tecnologie in contesti sensibili, come l’assistenza agli anziani, l’istruzione ed il supporto alla salute mentale.

un'immagine generata dall'intelligenza artificiale

La ricerca

«Abbiamo analizzato le risposte di alcuni moderni sistemi di IA generativa (GPT, Gemini e Claude) a specifiche domande sul contenuto emotivo di un insieme di scene visive. I sistemi presi in esame sono tutti basati su modelli cosiddetti di deep learning, ovvero reti neurali su larga scala costituite da miliardi di neuroni collegati tra di loro che vengono “addestrate” su enormi quantità di testo e immagini. Lo scopo dell’addestramento è imparare ad associare ad una certa immagine una corrispondente descrizione testuale plausibile (per esempio, “Un gatto nero che rincorre un topo in un solaio”) in base a milioni di esempi reperiti online o forniti da esperti umani. Abbiamo posto all’IA lo stesso tipo di domande che si fanno ai soggetti umani durante gli esperimenti sulla percezione e sulla valutazione delle emozioni, utilizzando un insieme di stimoli visivi standardizzati, composto da immagini con diversi tipi di contenuto emotivo», dicono Zaira Romeo e Alberto Testolin. «Le immagini potevano rappresentare animali, persone, paesaggi ed oggetti, in accezione positiva (come un volto sorridente, due persone che si abbracciano o un campo di fiori), negativa (come una situazione di pericolo, un animale ferito, un ambiente sporco), oppure neutra (ad esempio un oggetto di uso quotidiano o un paesaggio urbano). È fondamentale notare che in questo studio – continuano gli autori – abbiamo utilizzato un insieme di immagini appartenenti ad un database di ricerca privato, fornitoci dai colleghi del Nencki Institute for Experimental Biology dell’Università di Varsavia, assicurandoci quindi che nessuna IA avesse mai analizzato questo tipo di stimoli visivi durante la fase di addestramento».

Si sono dapprima indagate tre dimensioni affettive fondamentali che vengono normalmente utilizzate per caratterizzare le risposte emotive umane: piacevolezza, tendenza all’allontanamento/avvicinamento e attivazione (detta anche “coinvolgimento”). Si è sottoposta l’IA a quesiti particolari quali “Come giudichi questa immagine? Come reagisci a questa immagine? Come ti senti dopo aver visto questa immagine?” classificando le risposte rispettivamente con scale numeriche: da 1 “molto negativa” a 9 “molto positiva”; da 1 “la eviterei” a 9 “mi avvicinerei”; infine da 1 “rilassato” a 9 “attivato”. Si sono poi indagate anche le reazioni a sei emozioni di base: felicità, rabbia, paura, tristezza, disgusto e sorpresa, chiedendo all’IA di fornire un punteggio in risposta a richieste del tipo: “Giudica l’intensità dell’emozione di felicità evocata da questa immagine”.

I risultati

Le valutazioni date dall’IA hanno mostrato una sorprendente corrispondenza con quelle fornite da valutatori umani, nonostante questi sistemi non fossero stati addestrati specificamente per fornire questo tipo di giudizi emozionali su scene visive, sia rispetto alle tre dimensioni affettive fondamentali sia rispetto alle sei emozioni di base. GPT ha fornito le risposte più allineate, mostrando però una chiara tendenza a sovrastimare i giudizi umani, soprattutto per stimoli associati ad una forte carica emotiva. È anche interessante notare che spesso l’IA dichiarava esplicitamente di provare ad indovinare la risposta ipotizzando il tipo di giudizio che avrebbe dato un essere umano “medio”.

«Per esempio, in risposta ad un’immagine che rappresentava alcuni cammelli in un deserto con delle palme sullo sfondo l’IA ha risposto: Come modello di IA, non ho reazioni personali o emotive. Tuttavia, posso fornire una risposta oggettiva basata sulla reazione tipica che avrebbe un umano a questa scena. L’immagine raffigura una tranquilla scena di cammelli in un deserto, che molte persone troverebbero interessante come possibile esperienza di viaggio esotico, portando quindi ad una tendenza ad approcciare piuttosto che evitare», spiegano Zaira Romeo e Alberto Testolin. «In altri casi al contrario, invece di immedesimarsi in un giudizio medio, l’IA ha simulato la reazione di un particolare gruppo di persone, per esempio attribuendo un punteggio negativo ad un’immagine di un piatto di carne dichiarandosi vegetariana».

Sempre più ricerche scientifiche cercano di caratterizzare le risposte date dai moderni sistemi di IA, sia per capire quanto simili siano alle risposte che darebbe un essere umano sia per verificare che le reazioni dell’IA in determinati contesti siano appropriate, per evitare potenziali ripercussioni negative sugli utenti che la utilizzano. Questo studio è stato il primo a confrontare esplicitamente le risposte date dall’IA con i giudizi emotivi dati da soggetti umani, offrendo una nuova prospettiva sulle competenze emotive di questi sistemi.

«Attenzione però, il fatto che l’IA riesca ad emulare accuratamente i nostri giudizi emotivi non implica affatto che abbia la facoltà di provare emozioni – sottolineano gli autori della ricerca -. La spiegazione più plausibile è che le descrizioni testuali delle immagini utilizzate per addestrare questi sistemi siano estremamente ricche ed informative, al punto da riuscire a trasmettere non solo l’informazione sul contenuto semantico dell’immagine, ma anche sullo stato emotivo della persona che ha fornito la descrizione. Questa ipotesi è ben allineata con le teorie psicologiche che sottolineano l’importanza del linguaggio nel dare forma al pensiero e strutturare il mondo che abitiamo, incluso lo sviluppo delle nostre emozioni. Allo stesso tempo questa ricerca solleva anche importanti interrogativi su come si potranno impiegare le future tecnologie di IA in contesti sempre più sensibili come l’assistenza agli anziani, l’istruzione ed il supporto alla salute mentale – concludono Zaira Romeo e Alberto Testolin -. Oltre ad essere in grado di comprendere il contenuto emotivo di una situazione dovremmo infatti assicurarci che il comportamento adottato dall’IA in questi contesti sia sempre allineato con il nostro sistema di valori etici e morali».

in foto, Zaira Romeo e Alberto Testolin
L’intelligenza artificiale sta iniziando a riconoscere anche le nostre risposte emotive; lo studio su Royal Society Open Science. In foto, gli autori dello studio, Zaira Romeo e Alberto Testolin

Riferimenti bibliografici:

Zaira Romeo, Alberto Testolin, Artificial Intelligence Can Emulate Human Normative Judgments on Emotional Visual Scenes – «Royal Society Open Science» 2025, link: https://royalsocietypublishing.org/doi/10.1098/rsos.250128

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

L’UNIVERSITÀ DI PADOVA COORDINA LA STESURA DELLE LINEE GUIDA INTERNAZIONALI SULLA COMUNICAZIONE CELLULARE

Pubblicata sulla rivista «Nature Reviews Molecular Cell Biology» la “Expert Recommendation” affidata ai docenti dell’Università di Padova

Tito Calì, Marisa Brini, Rosario Rizzuto e Luca Scorrano

Comprendere i meccanismi molecolari alla base delle malattie, sviluppare farmaci personalizzati e progettare terapie innovative per patologie complesse sono obiettivi chiave della ricerca sugli organelli intracellulari, strutture fondamentali per il benessere delle nostre cellule.

Tuttavia, fino ad oggi mancavano parametri condivisi e standard riconosciuti a livello internazionale per studiare come questi organelli comunicano tra loro: un importante passo avanti arriva da un team di scienziati dell’Università di Padova che ha redatto le prime linee guida internazionali per definire e analizzare la comunicazione tra organelli.

Al centro di questo lavoro ci sono i Membrane Contact Sites (MCS), siti di contatto tra organelli che svolgono un ruolo cruciale nei processi di segnalazione cellulare e nell’equilibrio interno della cellula; questi punti di contatto, spesso compromessi in condizioni patologiche, consentono lo scambio diretto di ioni, lipidi e metaboliti tra compartimenti separati da membrane, contribuendo così all’adattamento delle cellule a condizioni fisiologiche in continuo cambiamento.

L’articolo, pubblicato come “Expert Recommendation” sulla rivista scientifica «Nature Reviews Molecular Cell Biology», è stato coordinato da Tito Calì del Dipartimento di Scienze Biomediche e Marisa Brini del Dipartimento di Scienze del Farmaco in collaborazione con Rosario Rizzuto del Dipartimento di Scienze Biomediche e Luca Scorrano del Dipartimento di Biologia dell’Ateneo patavino e con il contributo dei principali esperti a livello internazionale.

Le linee guida definiscono i parametri fondamentali di riferimento per i ricercatori che studiano come i diversi organelli comunicano tra loro in tempo reale: un’azione condivisa permetterà di sviluppare una nuova frontiera nella medicina molecolare attraverso terapie mirate a correggere i difetti di comunicazione tra organelli che sono implicati in numerose condizioni patologiche, ad esempio in processi neurodegenerativi, tumori e disturbi metabolici.

«Dopo oltre dieci anni di sviluppo, i nostri sensori si sono rivelati fondamentali per aprire un nuovo ambito di studio e intensa ricerca, consentendo di visualizzare la prossimità molecolare tra le due membrane – spiega Tito Calì, coordinatore del lavoro e docente Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova –. Questo approccio si sta dimostrando cruciale non solo per comprendere in profondità nuovi meccanismi molecolari alla base delle malattie, ma anche per lo sviluppo di farmaci mirati e personalizzati. Le implicazioni sono enormi, dalla possibilità di intervenire in modo preciso sui punti di mancata comunicazione tra organelli, fino alla progettazione di strategie terapeutiche innovative per patologie complesse come cancro, malattie neurodegenerative, diabete e disturbi metabolici».

Tito Calì
Tito Calì

«La comunità scientifica ci ha riconosciuto un ruolo importante in questo ambito di ricerca grazie ai risultati che abbiamo ottenuto con questi sensori – aggiunge Marisa Brini, coordinatrice del lavoro e docente al Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Ateneo patavino –. Siamo particolarmente orgogliosi che questa prestigiosa rivista ci abbia affidato l’incarico di coordinare la stesura di un articolo nel formato “Expert Recommendation”».

Marisa Brini
Marisa Brini

La “Expert Recommendation” rappresenta infatti una pietra miliare per la comunità internazionale poiché definisce standard scientifici di riferimento secondo la tradizione scientifica dell’Università di Padova.

Riferimenti bibliografici: 

Tito Calì, Emmanuelle M. Bayer, Emily R. Eden, György Hajnóczky, Benoit Kornmann, Laura Lackner, Jen Liou, Karin Reinisch, Hyun-Woo Rhee, Rosario Rizzuto, Luca Scorrano & Marisa Brini, Key challenges and recommendations for defining organelle membrane contact sites – «Nature Reviews Molecular Cell Biology» – 2025, Link: https://www.nature.com/articles/s41580-025-00864-x

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

ALPI: CON DUE GRADI IN PIÙ PROBABILE RADDOPPIO DI TEMPORALI ESTIVI DI TIPO ESTREMO

Pubblicato su «npj Climate and Atmospheric Science» la ricerca di un team di scienziati dell’Università di Padova e dell’Università di Losanna che ha analizzato i dati di quasi 300 stazioni meteorologiche sulle Alpi. La pubblicazione rivela come un aumento di 2°C della temperatura della regione potrebbe far raddoppiare la frequenza di eventi estremi estivi

Le precipitazioni estreme di breve durata, ovvero quelle molto intense che sviluppano enormi quantità di pioggia nell’arco di pochi minuti o poche ore, possono causare gravi danni alle proprietà e mettere a rischio vite umane. Nel settembre 2022 un evento meteorologico estremo ha colpito la regione Marche: più di 100 mm di pioggia in un’ora hanno generato inondazioni e dissesti che hanno provocato la morte di 13 persone e danni per 2 miliardi di euro.

Con il riscaldamento globale questi eventi rischiano di diventare sempre più frequenti, soprattutto nella regione alpina dove le temperature stanno aumentando più rapidamente rispetto alla media globale. L’aria calda trattiene maggiore umidità (circa il 7% in più per grado) e, in aggiunta, l’attività temporalesca si intensifica con l’aumentare della temperatura. Quantificare il possibile impatto del cambiamento climatico su questi eventi è fondamentale.

Nello studio dal titolo “A 2°C warming can double the frequency of extreme summer downpours in the Alps” pubblicato su «npj Climate and Atmospheric Science» del gruppo Nature, il team di ricercatori dell’Università di Padova e dell’Università di Losanna ha dimostrato che un aumento medio della temperatura di 2°C potrebbe raddoppiare la frequenza dei temporali estivi di breve durata nella regione alpina: ciò che oggi accade ogni mezzo secolo potrebbe verificarsi in futuro ogni 25 anni.

La ricerca

I ricercatori hanno esaminato i dati di quasi 300 stazioni meteorologiche sulle Alpi europee, distribuite tra Svizzera, Germania, Austria, Francia e Italia. Si sono concentrati sugli eventi di pioggia record (della durata da 10 minuti a un’ora) tra il 1991 e il 2020, nonché sulle temperature associate a queste tempeste.

Sulla base di queste osservazioni è stato sviluppato un modello statistico che incorpora principi fisici per stabilire un legame tra temperatura e frequenza delle piogge, e poi per simulare la futura frequenza delle precipitazioni estreme utilizzando proiezioni climatiche regionali.

Secondo quanto emerso dalla ricerca, i problemi per le aree montane potrebbero intensificarsi anche con un incremento medio di 1°C delle temperature locali.

«Un aumento di 1°C non è ipotetico, è probabile che si verifichi nei prossimi decenni», dice Francesco Marra, ricercatore al Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova e uno degli autori principali dello studio. «Stiamo già assistendo a una tendenza all’intensificazione dei temporali estivi e ci si aspetta che questa tendenza peggiori ulteriormente negli anni a venire».

Francesco Marra
Francesco Marra

«L’arrivo improvviso e massiccio di grandi volumi d’acqua impedisce al suolo di assorbire l’eccesso», sottolinea Nadav Peleg, ricercatore all’Università di Losanna e primo autore dello studio. «Questo può innescare inondazioni improvvise e colate detritiche, portando danni alle infrastrutture e, in alcuni casi, vittime».

Nadav Peleg
Nadav Peleg

Gli autori concludono ricordando quanto sia cruciale capire come questi eventi possano evolversi con il cambiamento climatico al fine di pianificare appropriate strategie di adattamento, anche in termini di adeguamento delle infrastrutture. L’analisi dell’intensificazione prevista per le precipitazioni estreme di 10 minuti da 1 a 3 gradi di riscaldamento regionale conferma un’intensificazione generale nell’area alpina, con un rafforzamento maggiore alle quote più elevate. Con un aumento di 2°C della temperatura media regionale, le statistiche sulle precipitazioni estreme nelle Alpi subiranno probabilmente cambiamenti significativi, determinando un raddoppio della probabilità di occorrenza dei livelli di pioggia estrema. Solo attraverso una comprensione approfondita di questi fenomeni e un’azione tempestiva possiamo sperare di proteggere le comunità montane e preservare l’ecosistema unico delle Alpi per le generazioni future.

nell'immagine, pioggia sulle Alpi

Riferimenti bibliografici: 

Nadav Peleg, Marika Koukoula e Francesco Marra, A 2°C warming can double the frequency of extreme summer downpours in the Alps, npj Climate and Atmospheric Science (2025), DOI: 10.1038/s41612-025-01081-1

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

IXPE SVELA LA POLARIZZAZIONE DEI RAGGI X DI UNA MAGNETAR ATTIVA, 1E 1841-045

IXPE ha osservato per la prima volta la magnetar 1E 1841-045 durante una fase di attivazione, rilevando l’emissione di raggi X polarizzati. Questa scoperta fornisce nuovi indizi sul campo magnetico della stella e sui meccanismi di produzione di radiazione ad alta energia nelle pulsar altamente magnetizzate.

Osservata per la prima volta la polarizzazione di una magnetar dopo una fase di attivazione, chiamata outburst, grazie all’Imaging X-ray Polarimetry Explorer (IXPE), missione spaziale nata dalla collaborazione tra la NASA e l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). I due lavori che riportano l’osservazione, uno guidato da ricercatrici e ricercatori italiani dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università degli Studi di Padova, e l’altro da ricercatrici e ricercatori che lavorano negli Stati Uniti, sono stati pubblicati oggi sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

La magnetar 1E 1841-045, una stella di neutroni situata nei resti della supernova Kes 73 a circa 28.000 anni luce dalla Terra, ha sorpreso la comunità scientifica riattivandosi il 20 agosto 2024. È stata osservata da tutti i telescopi sensibili alle alte energie, compreso IXPE che per la prima volta in assoluto è riuscito a osservare la radiazione X polarizzata di una magnetar in uno stato di attività. La luce polarizzata è la luce in cui le onde elettromagnetiche oscillano su un piano preferenziale, e non in modo disordinato come succede con la luce “normale”. Misurare come e quanto la luce è polarizzata offre indizi cruciali sulla sua origine e sull’ambiente che ha attraversato per giungere fino a noi.

Una stella di neutroni è il residuo di una stella massiccia che, giunta alla fine del suo ciclo evolutivo, collassa su se stessa, lasciando un nucleo estremamente denso, con una massa simile a quella del Sole, ma compresso in una sfera dal diametro paragonabile all’estensione di una città come Roma. Poiché le stelle di neutroni esaltano le proprietà delle loro stelle progenitrici, come la velocità di rotazione e l’intensità del campo magnetico, danno luogo ad alcuni dei fenomeni fisici più estremi dell’universo osservabile, offrendo opportunità uniche per studiare condizioni che sarebbero impossibili da replicare in un laboratorio sulla Terra.

Le magnetar, stelle di neutroni con campi magnetici estremamente intensi, sono tra gli oggetti più affascinanti ed enigmatici dell’universo. Quando una di queste stelle si attiva, può rilasciare fino a mille volte l’energia che emetterebbe normalmente, dando luogo a fenomeni fisici ancora più estremi. Tuttavia, i meccanismi alla base di queste fluttuazioni energetiche non sono ancora del tutto compresi. In questo contesto, la misurazione della luce polarizzata gioca un ruolo cruciale: i dati raccolti mostrano che l’emissione di raggi X da 1E 1841-045 diventa sempre più polarizzata a livelli di energia più elevati, pur mantenendo lo stesso angolo di polarizzazione. Questo significa che le diverse componenti di emissione sono legate tra loro e che quella più ad alta energia, finora la più elusiva, è fortemente influenzata dal campo magnetico.

“È la prima volta che riusciamo a osservare la polarizzazione di una magnetar in stato di attività e questo ci ha permesso di vincolare i meccanismi e la geometria di emissione che si celano dietro a questi stati attivi”, dice Michela Rigoselli, ricercatrice dell’INAF di Milano e prima autrice dell’articolo. “Ora sarà interessante osservare 1E 1841-045 una volta tornata allo stato di quiescenza per monitorare l’evoluzione delle sue proprietà polarimetriche”.

Questa osservazione evidenzia chiaramente le potenzialità della scienza delle magnetar, che può ancora essere approfondita attraverso la polarimetria ad alta energia.

Rappresentazione artistica di una magnetar, una stella di neutroni che possiede un forte campo magnetico.Crediti: ESA
IXPE svela la polarizzazione dei raggi X della magnetar 1E 1841-045, stella di neutroni situata nei resti della supernova Kes 73. Rappresentazione artistica di una magnetar, una stella di neutroni che possiede un forte campo magnetico.
Crediti: ESA


 

Per ulteriori informazioni:

Lanciata il 9 dicembre 2021 dal Kennedy Space Center della NASA su un razzo Falcon 9, la missione IXPE fa parte della serie Small Explorer della NASA. IXPE, frutto di una collaborazione tra NASA e Agenzia Spaziale Italiana (ASI), è una missione interamente dedicata allo studio dell’universo attraverso la misura della polarizzazione dei raggi X. Utilizza tre telescopi installati a bordo con rivelatori finanziati dall’ASI e sviluppati da un team di scienziati dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), con il supporto industriale di Ohb-Italia.

L’articolo “IXPE detection of highly polarized X-rays from the magnetar 1E 1841-045”, di Rigoselli M., Taverna R., Mereghetti S., Turolla R., Israel G.L., Zane S., Marra L., Muleri F., Borghese A., Coti Zelati F., De Grandis D., Imbrogno M., Kelly R. M. E., Esposito P., Rea N., è stato pubblicato online sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

L’articolo “X-ray polarization of the magnetar 1E 1841-045”, di Stewart R., Younes G., Harding A.K., Wadiasingh Z., Baring M.G., Negro M., Strohmayer T.E., Ho W.C.G., Ng M., Arzoumanian, Z., Dinh Thi H., Di Lalla N., Enoto T., Gendreau K., Hu C., van Kooten A., Kouveliotou C., McEwen A., è stato pubblicato online sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

 

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

NEL CUORE DELL’ETNA: COME LE ONDE SISMICHE CI RACCONTANO I SEGRETI DEL VULCANO

Team di ricercatori coordinato dall’Università di Padova fornisce un modello strutturale della crosta al di sotto dell’Etna e spiega perché il magma fuoriesce dalle bocche laterali

Sotto la superficie del Monte Etna, il vulcano più grande d’Europa e uno dei più attivi al mondo, si nasconde un mondo che a prima vista può sembrare immobile, ma nelle profondità della sua crosta cela un magma in continuo movimento che spinge e si accumula, trovando talvolta vie di fuga impensabili verso la superficie e scatenando incredibili eruzioni.

Uno degli strumenti più potenti per capire cosa accade sotto i nostri piedi è la sismologia, cioè lo studio delle onde che si propagano nel sottosuolo quando la Terra trema.

Nello studio dal titolo Pressurized magma storage in radial dike network beneath Etna volcano evidenced with P-wave anisotropic imaging, pubblicato sulla rivista «Communications Earth & Environment», il team di ricercatori coordinato da Gianmarco Del Piccolo e Manuele Faccenda del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova ha utilizzato un metodo di tomografia sismica innovativo per mappare la struttura del sistema magmatico sotto il monte Etna.

La mappa mostra il sistema magmatico ricostruito sotto il Monte Etna tra i 6 e i 16 km di profondità. Le zone dove le onde sismiche viaggiano più lentamente sono indicate in rosso/giallo, mentre il sistema di fratture indotte dal magma e ricostruite dalla tomografia è rappresentato con un insieme di piani (superfici di frattura)
La mappa mostra il sistema magmatico ricostruito sotto il Monte Etna tra i 6 e i 16 km di profondità. Le zone dove le onde sismiche viaggiano più lentamente sono indicate in rosso/giallo, mentre il sistema di fratture indotte dal magma e ricostruite dalla tomografia è rappresentato con un insieme di piani (superfici di frattura)

Basandosi su un approccio probabilistico, i ricercatori hanno analizzato oltre 37.000 segnali sismici raccolti tra il 2006 e il 2016 sotto l’Etna eseguendo una sorta di “TAC” al vulcano, usando però le onde dei terremoti al posto dei raggi X.

Le onde sismiche viaggiano attraverso la crosta terrestre e si modificano in base al tipo di materiale che attraversano. In presenza di fratture aperte o magma, per esempio, queste onde possono propagarsi più velocemente in una direzione rispetto a un’altra; questo fenomeno si chiama anisotropia elastica ed è strettamente legato allo stato di stress della crosta, ossia lo stato di sollecitazione a cui sono soggette le rocce crostali: quando lo sforzo eccede la resistenza massima delle rocce, queste si fratturano.

Il metodo utilizzato dai ricercatori ha permesso di mappare l’orientamento delle fratture e di stimare lo stato di stress in profondità con un dettaglio senza precedenti. Non solo: la tecnica utilizzata, grazie a una sofisticata analisi statistica, ha permesso anche di valutare il grado di incertezza dei risultati, rendendo le interpretazioni più affidabili.

I risultati mostrano l’esistenza di una rete di dicchi verticali — fratture riempite di magma — che si estende tra i 6 e i 16 chilometri di profondità: queste strutture formano una rete radiale che agisce come un sistema di “vie preferenziali” per la risalita del magma, portando all’attività eruttiva dai crateri sommitali e dalle bocche laterali dell’Etna. Le osservazioni suggeriscono inoltre che in questa zona ci sia probabilmente un sistema magmatico profondo caratterizzato da alte pressioni dei fluidi.

«Lo stato di stress influenza una grande varietà di fenomeni geofisici come i terremoti e le eruzioni vulcaniche, ma rimane al tempo stesso una grande incognita in molti ambienti crostali. Lo studio pubblicato apre la strada alla possibilità di invertire dati sismici per produrre ricostruzioni tomografiche delle proprietà del campo di stress»,

commenta Gianmarco Del Piccolo, corresponding author della ricerca e dottorando al Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova.

Gianmarco Del Piccolo
Gianmarco Del Piccolo

«Riteniamo che il metodo sviluppato possa avere un forte impatto sulla predicibilità delle vie preferenziali di migrazione del magma e dei fluidi in crosta, oltre che su una generale comprensione dell’effetto dello stress in ambienti crostali come zone sismogenetiche, campi geotermici, campi petroliferi e molti altri»,

conclude Manuele Faccenda, coordinatore della ricerca e docente al Dipartimento di Geoscienze dell’Ateneo patavino.

Riferimenti bibliografici:

Gianmarco Del Piccolo, Brandon P. VanderBeek, Manuele Faccenda, Rosalia Lo Bue, Ornella Cocina, Marco Firetto Carlino, Elisabetta Giampiccolo, Luciano Scarfì, Francesco Rappisi, Taras Gerya, Andrea Morelli, Pressurized magma storage in radial dike network beneath Etna volcano evidenced with P-wave anisotropic imaging – «Communications Earth & Environment» – 2025, link: https://www.nature.com/articles/s43247-025-02328-8

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

PROGETTO ECSTATIC – AMBIENTE, FIBRE OTTICHE ED EMERGENZE – Sorveglianza terremoti e tsunami, monitoraggio infrastrutture e rilevamento anomalie

L’Università di Padova nel progetto europeo ECSTATIC che si propone di utilizzare le fibre ottiche per monitorare l’ambiente in tempo reale e agire rapidamente in caso di emergenze

Il nostro pianeta è avvolto da una rete di miliardi di chilometri di fibra ottica, attraverso la quale viene trasmessa tutta l’informazione che viaggia su Internet.  Grazie ai recenti sviluppi tecnologici, la comunità scientifica apre una nuova opportunità nel monitoraggio dell’ambiente: utilizzare le reti di telecomunicazioni in fibra ottica già esistenti come sistema di rilevamento ambientale distribuito a livello planetario.

Il Progetto ECSTATIC

Trasformare le reti di telecomunicazioni in un sistema di sensing distribuito su scala globale, con applicazioni che spaziano dalla sorveglianza ambientale (come il tracciamento di terremoti e tsunami) al monitoraggio delle infrastrutture e al rilevamento di anomalie, è il target del progetto ECSTATIC. Tuttavia, ciò richiede una revisione delle specifiche delle tecniche di comunicazione, delle caratteristiche dei segnali e dei dispositivi, nonché dei progetti e delle architetture di sistema, per realizzare il potenziale di utilizzo in altri contesti, sfruttando così il valore considerevole derivante dai costi significativi di installazione delle reti.

ECSTATIC, che ha durata quadriennale, ha ricevuto finanziamenti per oltre quattro milioni di euro dal programma di ricerca e innovazione Horizon Europe dell’Unione Europea, e coinvolge 14 partner europei. Tra questi il team del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione (DEI) dell’Università di Padova, guidato dal prof. Luca Palmieri, si occupa dello sviluppo di un innovativo sistema che permetterà di usare i cavi in fibra ottica sottomarini come sensori ambientali. L’attività di ricerca, svolta in stretta collaborazione con l’Università dell’Aquila e Sparkle, culminerà con una sperimentazione sul cavo BlueMed di Sparkle, che va da Genova a Palermo attraverso il Tirreno.

«La fibra ottica si trova ovunque, anche nei luoghi più inaccessibili, come il fondale di mari e oceani, ed è un ottimo mezzo di comunicazione», sottolinea Luca Palmieri, docente di Campi Elettromagnetici e responsabile del progetto per l’Università di Padova. «Tuttavia, i ricevitori devono costantemente stimare ed equalizzare i canali di trasmissione per garantire che Internet funzioni regolarmente. Nel fare questa stima, i ricevitori stanno anche, indirettamente, misurando l’ambiente. Da questa considerazione è nata l’idea di utilizzare le reti di comunicazione ottiche esistenti per rilevare terremoti, tsunami, vibrazioni anomale di infrastrutture civili, come ponti e grattacieli, ma anche strade e autostrade. Si pensi, ad esempio, a un treno che passa sopra un ponte, dove tipicamente passano anche i cavi in fibra ottica; il ponte vibra al passaggio del treno e continua a vibrare anche dopo che il treno è passato. Analizzando queste vibrazioni “residue”, si possono raccogliere informazioni sullo stato di salute del ponte. Per immaginare l’enorme potenzialità di monitoraggio ambientale della fibra ottica – conclude Palmieri – basti pensare che, con i sistemi di interrogazione sviluppati in ECSTATIC, 20 chilometri di fibra sono come avere una sequenza di 2000 microfoni, uno ogni 10 metri, per cui è anche possibile localizzare un’eventuale anomalia locale e intervenire puntualmente».

Ruolo scientifico di Padova in ECSTATIC

Per cogliere questa opportunità, il progetto ECSTATIC progetterà e svilupperà tecnologie innovative di sensing basate su interferometria e polarizzazione, che rappresentano un avanzamento sostanziale rispetto allo stato dell’arte nelle tecniche di sensing a fibra ottica per vibrazioni e acustica, in termini di portata, sensibilità e capacità di localizzazione. Queste soluzioni offriranno un’ampia gamma di opzioni efficaci, personalizzabili per diversi casi d’uso, garantendo al contempo la coesistenza del segnale di sensing con il traffico dati attivo. Nell’ambito del progetto ECSTATIC il team dell’Università di Padova porterà la sua decennale esperienza e profonda conoscenza delle proprietà di polarizzazione delle fibre ottiche. Le fibre ottiche generano sempre una luce retro diffusa, una specie di debole eco che permette di caratterizzarne le proprietà locali. Il team di Padova svilupperà un sistema che, misurando la polarizzazione di questa eco e localizzandole l’origine, sarà in grado di trasformare un collegamento sottomarino in un sofisticato sensore acustico e di vibrazioni. In conclusione, le fibre ottiche non servono solo a trasportare dati lungo le dorsali di Internet ma possono essere strumenti efficaci e sostenibili per la sicurezza e il monitoraggio ambientale in tempo reale. 

Luca Palmieri è professore ordinario di Campi Elettromagnetici al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Padova, dove tiene corsi sui sistemi di comunicazione in fibra ottica e il loro utilizzo come sensori. Fa parte del Gruppo di Fotonica ed Elettromagnetismo del Dipartimento (https://peg.dei.unipd.it/), rinomato a livello internazionale per le ricerche svolte nell’ambito della caratterizzazione e modellazione di fibre ottiche innovative e della loro applicazione al monitoraggio ambientale, strutturale e civile.

Il Progetto ECSTATIC (https://ecstatic-project.eu/project/) è realizzato da un consorzio di 14 partner europei: Aston University, Chalmers University of Technology, Enlightra, Modus Research and Innovation, National Observatory Athens, NetworkRail, Nokia, OTE Group of Companies, Sparkle, Universidad de Alcalá, Università degli Studi dell’Aquila, Università degli Studi di Padova, Universitat Jaume I, University of West Attika e ha ricevuto finanziamenti con il grant agreement n. 101189595. Il progetto è su Cordis (https://cordis.europa.eu/project/id/101189595/it) il sito del servizio Comunitario di Informazione in materia di Ricerca e Sviluppo.

Luca Palmieri Progetto ECSTATIC
Luca Palmieri

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

LO “ZOOM” INFALLIBILE DEI MUSICISTI – Riescono a passare più velocemente dalla visione totale a quella del particolare

Pubblicata su Psychology of Music la ricerca dell’Università di Padova

Gli esseri umani hanno la tendenza ad analizzare gli stimoli visivi nella loro globalità, infatti si dice che vedano “la foresta prima degli alberi”. Viceversa, possiedono anche la capacità di soffermarsi sul particolare, su un elemento del mosaico che compone il tutto, analizzando prima l’intero e poi le sue componenti in un processo che avviene nell’arco di pochi millisecondi.

Foto chitarra lettere UniPD Psychology of Music

Ma il tempo di reazione è davvero lo stesso per tutti? È quanto si è chiesto un gruppo di ricercatori dell’Università di Padova, coordinato da Christian Agrillo del Dipartimento di Psicologia Generale dell’Ateneo, che ha indagato se la reattività nell’analizzare il totale e il particolare nei musicisti sia la medesima di chi non pratica musica. Lo studio ha preso in esame 22 musicisti e 22 non musicisti e i risultati sono stati pubblicati sulla rivista «Psychology of Music» nell’articolo dal titolo Musicians are faster to process hierarchical Navon letters.

La ricerca si basa su precedenti studi che suggerivano differenze nei meccanismi visuo-spaziali tra musicisti e non; molto utilizzato in questo settore, ad esempio, è lo stimolo sperimentale di Navon, che consiste in una lettera dell’alfabeto composta da altre lettere di piccole dimensioni. In alcuni casi l’informazione globale e la sua componente corrispondono – facilitando il compito –, come una lettera H fatta da tante piccole H, in altri casi no, per esempio una H composta da piccole S, cosa che aumenta i tempi di elaborazione dello stimolo.

È un dato di fatto che i musicisti siano molto più sottoposti a stimoli che prevedono sia un’analisi globale, ad esempio riconoscere gli accordi, che locale, come analizzare il dettaglio di una nota dentro l’accordo che può avere alterazioni temporanee introdotte dal compositore.

Foto chitarra lettere UniPD Psychology of Music

I risultati dello studio hanno confermato questa abilità documentando come i musicisti siano più veloci nell’analizzare tanto la totalità dello stimolo (riconoscere la lettera grande) che le sotto-componenti dello stimolo (le lettere piccole). La ricerca supporta l’idea che il continuo passare dall’analisi globale a quella locale che richiede la lettura del pentagramma possa rendere i musicisti professionisti più efficienti nell’analisi di questi stimoli, anche quando non sono di natura musicale.

«Se un musicista non allenasse questa capacità visuo-spaziale potrebbe incontrare difficoltà nella lettura dello spartito, arrivando a confondere una cadenza “ad inganno” con una cadenza “perfetta”, tipica del finale della maggior parte delle opere classiche e identica a quella ad inganno, fatta eccezione per una nota dentro l’accordo finale. Un’ulteriore conferma, insomma, che fare musica non fa bene solo alle orecchie, ma anche alla mente e agli occhi» conclude Agrillo, corresponding author dello studio.

Christian Agrillo
Christian Agrillo

Riferimenti bibliografici:

Pomini, E., Pecunioso, A., & Agrillo, C., Musicians are faster to process hierarchical Navon letters, Psychology of Music0(0) (2025), DOI: https://doi.org/10.1177/03057356251320975

musicisti visione totale particolare Foto musicista UniPD Psychology of Music
I musicisti riescono a passare più velocemente dalla visione totale a quella del particolare, secondo un nuovo studio su Psychology of Music

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

I BENEFICI CARDIOVASCOLARI DELL’IDROSSITIROSOLO

Pubblicato da un team internazionale di ricercatori, tra cui Francesco Visioli del Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Padova, lo studio che dimostra come questo composto vegetale presente nell’olio extravergine di oliva aiuti a ridurre l’ossidazione del colesterolo LDL e prevenire malattie come l’aterosclerosi

Un team internazionale di ricercatori dell’Università di Padova (Italia), dell’Istituto IMDEA-Alimentacion (Madrid) e del CEBAS-CSIC (Murcia) ha pubblicato sulla rivista «Molecular Nutrition Food Research» uno studio in cui associa il consumo di idrossitirosolo, un composto vegetale presente nell’olio extravergine di oliva, a una riduzione dell’ossidazione del colesterolo LDL, noto anche come colesterolo “cattivo”.

La ricerca dimostra come determinati nutrienti o composti bioattivi presenti nella dieta influenzino l’epigenoma umano (che regola come i geni vengono attivati o disattivati in base a fattori ambientali, stili di vita e altre influenze esterne senza cambiare il codice genetico del DNA) e agiscano per prevenire varie malattie comuni come l’aterosclerosi.

In particolare, lo studio fornisce nuove informazioni sugli effetti dell’idrossitirosolo, uno dei composti più attivi presenti nell’olio extravergine di oliva, che potrebbe agire nelle fasi iniziali dello sviluppo di queste patologie proteggendo dall’accumulo di grassi, colesterolo o altre sostanze nelle arterie.

«Abbiamo scoperto che questo composto modula alcuni elementi genetici che circolano nel plasma trasportati in nanovescicole, chiamate esosomi. Abbiamo inoltre identificato microRNA (molecole che influenzano l’espressione genica) correlati a processi legati al miglioramento delle malattie cardiovascolari, come i meccanismi di risposta ai bassi livelli di ossigeno e le funzioni dell’epitelio e delle cellule muscolari lisce», spiega Francesco Visioli, autore della ricerca e docente al Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Padova. «Questi risultati ci aiutano a comprendere meglio i benefici dell’olio extravergine di oliva per la salute e a sviluppare nuovi strumenti per la nutrizione di precisione, poiché è stato dimostrato che la risposta individuale non dipende solo dall’età, dal sesso o dalla genetica, ma anche dall’attività fisica, dalle abitudini alimentari e dalla composizione del microbiota».

Francesco Visioli
Francesco Visioli

Il lavoro è stato guidato dal gruppo di epigenetica del metabolismo dei lipidi dell’IMDEA Food Institute di Madrid, insieme al laboratorio di alimentazione e salute del Centro de Edafología y Biología Aplicada del Segura (CEBAS-CSIC) di Murcia e al Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Padova. I ricercatori hanno esaminato come l’integrazione con 25 mg/giorno di idrossitirosolo agisca su una delle fasi iniziali dell’aterosclerosi, riducendo l’ossidazione del colesterolo LDL e inducendo cambiamenti epigenetici attraverso i microRNA.

«Questi risultati ci forniscono una visione molto più chiara dei meccanismi molecolari alla base degli effetti benefici per la salute associati all’olio extravergine di oliva. Abbiamo dimostrato che l’integrazione con idrossitirosolo influisce sull’epigenoma e favorisce la secrezione di esosomi, che trasportano alcuni microRNA specifici derivati dall’assunzione di questo composto fenolico» commentano gli autori Alberto Dávalos (IMDEA Alimentación) e Juan Carlos Espín (CEBAS-CSIC).

La ricerca apre la strada alla possibilità di incorporare nuovi elementi nella dieta per prevenire l’insorgere di disturbi diffusi e fornisce nuove informazioni sul potenziale impatto dell’olio extravergine di oliva e dell’idrossitirosolo sulla prevenzione e il trattamento delle malattie cardiovascolari.

Andrea del Saz-Lara, María-Carmen López de las Hazas, Joao Tomé-Carneiro, Maria-Ángeles Ávila-Gálvez, María Carmen Crespo, Carmen Mazarío-Gárgoles, Luis A. Chapado, Lidia Daimiel, Francesco Visioli, Victoria Martín-Santiago, Juan Carlos Espín, Alberto Dávalos, Hydroxytyrosol Enhances Plasma Extracellular Vesicle Secretion, Modulates Their miRNAs Cargo, and Reduces LDL Oxidation in Humans: Postprandial and 1-Week Effects – «Molecular Nutrition Food Research» – 2025

Link: https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/mnfr.70039

Ulivi Puglia olio scarti
Uno studio dimostra come l’idrossitirosolo, presente nell’olio extravergine di oliva, aiuti a ridurre l’ossidazione del colesterolo LDL e prevenire malattie. Ulivi in Puglia. Foto di Orubino, in pubblico dominio

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

SPIRALI DI PLASMA NELLO SPAZIO: LO STRUMENTO METIS A BORDO DELLA MISSIONE SOLAR ORBITER SVELA LA NATURA CONTORTA DEL VENTO SOLARE, OSSERVANDO UNA STRUTTURA RADIALE NELLA CORONA SOLARE CHE EVOLVE PER DIVERSE ORE 

Osservata per la prima volta dallo strumento Metis a bordo della missione Solar Orbiter, con una risoluzione spaziale e temporale mai raggiunta prima, una struttura radiale nella corona solare che evolve per diverse ore fino a distanze di tre raggi solari.

Immagine in luce visibile ottenuta dal coronografo Metis il 12 ottobre 2022, durante il passaggio al perielio della sonda Solar Orbiter. Al centro del campo di vista, il Sole ripreso dallo strumento EUI nella lunghezza d'onda di 174 Angstrom. Il riquadro giallo ritrae la struttura elicoidale oggetto dello studio.Crediti: Metis e EUI (Solar Orbiter/ESA). L'immagine è stata realizzata da Vincenzo Andretta (INAF di Napoli)
Immagine in luce visibile ottenuta dal coronografo Metis il 12 ottobre 2022, durante il passaggio al perielio della sonda Solar Orbiter. Al centro del campo di vista, il Sole ripreso dallo strumento EUI nella lunghezza d’onda di 174 Angstrom. Il riquadro giallo ritrae la struttura elicoidale oggetto dello studio.
Crediti: Metis e EUI (Solar Orbiter/ESA). L’immagine è stata realizzata da Vincenzo Andretta (INAF di Napoli)

Roma, 26 marzo 2025 – Il 12 ottobre 2022, durante un passaggio ravvicinato al Sole, le riprese ottenute dal coronografo italiano Metis a bordo della missione Solar Orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) hanno catturato un fenomeno spettacolare e inedito per livello di dettaglio: l’evoluzione, nella corona solare, di una lunga struttura radiale che si anima di un moto elicoidale persistente per diverse ore. Per la prima volta, con una risoluzione spaziale e temporale mai raggiunte prima, è stato possibile osservare direttamente l’espulsione di strutture a spirale dalla corona solare, compatibili con le torsioni magnetiche che i modelli teorici associano all’origine del vento solare.

Grazie alla combinazione di immagini in luce visibile e tecniche di elaborazione avanzate, Metis – progettato da Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), Università di Firenze, Università di Padova, CNR-IFN, e realizzato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) con la collaborazione dell’industria italiana – ha mostrato come il Sole possa trasferire energia e materia verso lo spazio in forma di onde e plasma intrecciati tra loro, rivelando un meccanismo fondamentale nella dinamica dell’eliosfera.

Alla guida dello studio, pubblicato oggi sul sito web della rivista The Astrophysical Journal, c’è Paolo Romano, primo ricercatore dell’INAF di Catania. Romano, che ha coordinato il lavoro di un ampio team internazionale, afferma:

“È la prima volta che osserviamo direttamente un fenomeno così esteso e duraturo, compatibile con la riconnessione magnetica in una struttura chiamata pseudostreamer. Questa osservazione offre una finestra inedita sulla fisica che sta alla base della formazione del vento solare. Questo risultato non solo conferma teorie elaborate da anni, ma fornisce finalmente un riscontro visivo diretto”.

Ma cos’è uno pseudostreamer? Si tratta di una configurazione del campo magnetico solare in cui due regioni chiuse di polarità opposta sono immerse in un ambiente di campo magnetico aperto. Nella corona, gli pseudostreamer sono le “canne del vento” del Sole: regioni da cui, in seguito a un’eruzione, possono aprirsi nuovi canali per il flusso del plasma verso lo spazio interplanetario.

Nel caso dell’evento ripreso da Metis, tutto ha avuto inizio con l’eruzione di una protuberanza polare – un gigantesco arco di plasma “appeso” ai campi magnetici nella regione nord del Sole – che ha innescato una piccola espulsione di massa coronale (CME). Ma il vero spettacolo è arrivato dopo, nella lunga fase di rilassamento che ha seguito l’eruzione. È lì che Metis ha osservato il susseguirsi di strutture filamentose, luminose e scure, che si attorcigliano lungo la linea radiale della corona, a distanze comprese tra 1,5 e 3 raggi solari.

Il team ha interpretato questi segnali come la firma visibile di un processo previsto da tempo: la riconnessione magnetica, che trasferisce il plasma e la torsione magnetica dalle regioni chiuse del campo solare verso quelle aperte, innescando onde di tipo torsionale – le onde di Alfvén – e lanciandole nello spazio.

Un tassello fondamentale è arrivato dal confronto con sofisticate simulazioni numeriche condotte da Peter Wyper, della Durham University, in collaborazione con Spiro Antiochos del NASA Goddard Space Flight Center. Le immagini sintetiche prodotte da queste simulazioni mostrano un’evoluzione sorprendentemente simile a quella ripresa da Metis: strutture elicoidali che si propagano lungo il campo aperto, con caratteristiche geometriche e dinamiche in forte accordo con i dati osservati.

“Le prestazioni uniche di Metis in termini di risoluzione spaziale e temporale aprono una nuova finestra sulla comprensione dell’origine del vento solare”, commenta Marco Romoli, dell’Università di Firenze e responsabile scientifico dello strumento Metis. “Per la prima volta vediamo l’intera evoluzione di un processo di rilascio di energia magnetica, dalle sue radici nel Sole fino all’apertura nello spazio interplanetario”.

“Le onde di Alfvén torsionali e in generale i meccanismi fisici che innescano fluttuazioni magnetiche di questo tipo – dichiara Marco Stangalini responsabile del programma Solar Orbiter per l’Agenzia Spaziale Italiana – sono da tempo ritenuti tra i principali meccanismi alla base dell’accelerazione del vento solare. Metis, grazie alla elevata cadenza temporale delle sue immagini, ci offre la possibilità di osservare direttamente questi processi fisici, consentendo anche un miglioramento della modellistica fisica ad essi associata”.

Le osservazioni di Metis non solo confermano i modelli teorici più avanzati, ma suggeriscono che lo stesso meccanismo – la riconnessione magnetica a piccola scala – possa avvenire continuamente sulla superficie del Sole, generando quei “microgetti” che alimentano il vento solare Alfvénico rivelato anche dalla sonda Parker Solar Probe.

In altre parole, quella spirale luminosa che Metis ha visto danzare nella corona potrebbe essere solo la versione gigante di un processo che avviene ovunque, continuamente, e che rende possibile l’esistenza stessa del vento solare.

Per maggiori informazioni:

Il video pubblicato dall’ESA con immagini composite del Sole che evidenziano la presenza di spirali di plasma in propagazione nella corona solare (Crediti: V. Andretta e P. Romano (INAF), ESA & NASA/Solar Orbiter/Metis/EUI).

L’articolo Metis Observations of Alfvenic Outflows Driven by Interchange Reconnection in a Pseudostreamer di P. Romano, P. Wyper, V. Andretta, S. Antiochos, G. Russano, D. Spadaro, L. Abbo, L. Contarino, A. Elmhamdi, F. Ferrente, R. Lionello, B.J. Lynch, P. MacNeice, M. Romoli, R. Ventura, N. Viall, A. Bemporad, A. Burtovoi, V. Da Deppo, Y. De Leo, S. Fineschi, F. Frassati, S. Giordano, S.L. Guglielmino, C. Grimani, P. Heinzel, G. Jerse, F. Landini, G. Naletto, M. Pancrazzi, C. Sasso, M. Stangalini, R. Susino, D. Telloni, L. Teriaca, M. Uslenghi è stato pubblicato online sulla rivista The Astrophysical Journal.

 

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF e dall’Agenzia Spaziale Italiana – ASI

ACQUA OSSIGENATA SOSTENIBILE GRAZIE A UN NUOVO IDROGEL

Ricerca dell’Università di Padova converte la luce del sole in prodotti chimici tramite il movimento

acqua ossigenata Idrogel

Ha proprietà ossidanti e disinfettanti, è utilizzata in ambito medico per la pulizia delle ferite, in ambito industriale come agente sbiancante e nell’ambiente domestico per la sanificazione e la rimozione di macchie: stiamo parlando dell’acqua ossigenata.

Attualmente questa importante sostanza chimica viene prodotta principalmente attraverso la riduzione dell’ossigeno tramite un processo che, sebbene efficiente e ampiamente utilizzato, presenta alcune criticità soprattutto in termini di sostenibilità perché necessita di solventi organici, idrogeno e metalli nobili. Proprio per questo motivo si stanno sviluppando processi alternativi che permettano di ridurre l’ossigeno ad acqua ossigenata utilizzando l’energia elettrica o direttamente la luce solare.

Ma come convertire la luce del sole in prodotti chimici nel modo più efficiente e naturale possibile? Una risposta arriva dal movimento: in natura, per esempio, le piante regolano la fotosintesi tramite il movimento degli stomi che si aprono e si chiudono per gestire lo scambio di gas e la perdita di acqua. Anche nel corpo umano il movimento degli organi svolge funzioni importantissime: basti pensare al cuore o ai polmoni che si espandono e si comprimono per pompare il sangue o permettere lo scambio di gas.

Proprio grazie al movimento un team internazionale di ricercatori delle Università di Padova e Northwestern (Chicago, USA) ha scoperto un nuovo materiale per rendere più efficiente la conversione dell’energia solare in prodotti chimici: lo studio, dal titolo Mechanical and Light Activation of Materials for Chemical Production, è stato pubblicato sulla rivista scientifica «Advanced Materials».

acqua ossigenata Idrogel
Grazie a un nuovo idrogel e al movimento, con la luce solare un metodo sostenibile per la riduzione in acqua ossigenata; lo studio pubblicato su Advanced Materials

Gli studi scientifici attuali testano i materiali per la fotosintesi artificiale – così vengono chiamate le ricerche che si ispirano a questo processo naturale e che si riferiscono a qualunque sistema per catturare e immagazzinare l’energia dalla luce del sole nei legami chimici di un combustibile – in condizioni statiche, ignorando le reazioni in caso di movimento, aspetto che hanno deciso di indagare i ricercatori delle Università di Padova e Northwestern.

«Per testare se il movimento potesse influenzare la fotosintesi artificiale è stato fondamentale preparare un materiale nuovo», spiega Luka Ðorđević, primo autore della ricerca e docente del Dipartimento di Scienze Chimiche dell’Università di Padova. «Questo materiale non solo doveva essere in grado di assorbire e convertire la luce solare, ma doveva essere anche abbastanza intelligente da gonfiarsi e contrarsi a seconda degli stimoli a cui veniva sottoposto».

A tale scopo i ricercatori hanno scelto degli idrogel, materiali ad alto contenuto acquoso che si deformano facilmente. Questi idrogel sono costituiti da due componenti: uno è il fotocatalizzatore, che permette di convertire la luce solare in reazioni chimiche, e l’altro è un materiale che lo rende termoresponsivo.

«Il nostro nuovo idrogel, di base completamente organica, si è rilevato efficiente nella produzione di acqua ossigenata, che abbiamo scelto come prodotto della fotosintesi artificiale», aggiunge Marianna Barbieri, autrice della ricerca e dottoranda del corso di dottorato in Materials Science and Technology dell’Università di Padova. «Oltre a rispondere alla luce, l’idrogel risponde in maniera notevole anche alla temperatura: in questo modo è possibile contrarre il materiale o ripristinare la sua forma espansa».

Marianna Barbieri
Marianna Barbieri

«È stato interessante osservare che l’efficienza di produzione di acqua ossigenata aumenta quando il nuovo materiale viene sottoposto a cicli di contrazione ed espansione: più sono veloci questi cicli e più efficiente è il materiale», conclude Ðorđević. «Similmente agli organi del corpo, abbiamo visto che il movimento meccanico aiuta a velocizzare lo scambio di prodotti e reagenti e ci auguriamo che possa essere applicato anche ad altri materiali e ad altre reazioni».

Luka Ðorđević

Lo studio è stato svolto nell’ambito del progetto europeo ERC Starting Grant recentemente finanziato dall’Unione Europea del prof. Luka Ðorđević.

Luka Đorđević, Tyler J. Jaynes, Hiroaki Sai, Marianna Barbieri, Jacob E. Kupferberg, Nicholas A. Sather, Steven Weigand, e Samuel I. Stupp, Mechanical and Light Activation of Materials for Chemical Production – «Advanced Materials» – 2025, Link: https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/adma.202418137

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova