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Università di Napoli Federico II

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Osservati per la prima volta neutrini prodotti da una collisione di particelle. Pubblicati i primi dati dell’esperimento SND@LHC che coinvolge 180 scienziati di 14 Paesi del mondo coordinati dal professore Giovanni De Lellis della Federico II.

Osservati per la prima volta neutrini muonici di alta energia, emessi a seguito di collisione tra protoni all’interno del Large Hadron Collider. Immagine dal CERN

Sfruttare il Large Hadron Collider del CERN come sorgente per lo studio di neutrini, particelle elementari elusive, caratterizzate da una scarsissima interazione con la materia, emessi a seguito delle collisioni tra protoni all’interno del super acceleratore. Questo l’obiettivo della collaborazione internazionale SND@LHC, che coinvolge 180 scienziati di 14 Paesi del mondo coordinati dal professore Giovanni De Lellis dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Dopo aver portato a termine la realizzazione del proprio apparato sperimentale nel marzo dello scorso anno, le ricercatrici e i ricercatori di SND@LHC, insieme ai colleghi della collaborazione FASER, altro esperimento al CERN che studia neutrini, hanno pubblicato sulla rivista Physical Review Letters, i primi risultati dell’analisi dei dati acquisiti nel corso del 2022, da cui emerge la prima osservazione di neutrini muonici di alta energia prodotti da LHC. Oltre ad aprire una nuova finestra utile a indagare le proprietà dei neutrini, la misura, la prima del suo genere, rappresenta un’importante successo tecnologico, confermando la capacità del sistema di rivelazione adottato da SND@LHC di individuare particelle tanto elusive. Il risultato è stato indicato come “Editors’s suggestions” da Physical Review Letters.

Approvato nel marzo del 2021, l’esperimento Scattering and Neutrino Detector (SND@LHC) è stato installato a 480 metri dall’esperimento ATLAS in un in un tunnel in disuso che collega LHC all’SPS e ha come scopo l’individuazione e lo studio dell’elevato numero di neutrini di tutti e tre i sapori (elettronico, muonico e tauonico) che un collisore come LHC è in grado di produrre, finora sfuggiti a un’osservazione diretta a causa della loro bassa probabilità di interazione e della loro traiettoria parallela all’asse di collisione, che rende questi neutrini “invisibili” agli altri esperimenti di LHC.

“Gli esperimenti a LHC hanno sinora associato la presenza di neutrini alla rivelazione di energia mancante nella ricostruzione dei prodotti delle interazioni”, spiega il responsabile Giovanni De LellisOrdinario di Fisica Sperimentale all’Ateneo federiciano . “SND@LHC è stato progettato con l’obiettivo di rivelare queste particelle, di grande interesse per la fisica in quanto caratterizzate da energie molto elevate e non ancora esplorate, estendendo il potenziale scientifico degli altri esperimenti di LHC”.

Il professor Giovanni De Lellis al CERN
Il professor Giovanni De Lellis al CERN

SND@LHC presenta dimensioni ridotte rispetto alle altre tipologie di esperimenti dedicati allo studio dei neutrini attualmente in corso. Esso è costituito da due regioni. In quella più a monte ci sono lastre di tungsteno, per un peso complessivo di circa 800 kg, intervallate da film di emulsioni nucleari, in grado rivelare con estrema precisione l’interazione dei neutrini, e da sistemi traccianti elettronici basati su fibre scintillanti per la misura dell’instante in cui avvengono gli eventi di interazione e della loro energia elettromagnetica. La regione più a valle dell’apparato è invece dotata di un calorimetro adronico e un sistema di riconoscimento dei muoni.

“Il motivo che ha consentito la realizzazione di un apparato sperimentale di dimensioni contenute è legato all’elevato numero di collisioni di LHC, che si traducono in un altrettanto elevato flusso di neutrini nella direzione in avanti. L’ingente numero di neutrini, insieme alle loro alte energie, alla cui crescita corrisponde una maggiore probabilità di interazione, rendono possibile la loro rivelazione anche con apparati più compatti di quelli oggi impiegati nell’indagine sui neutrini grazie anche alla relativa vicinanza dell’apparato alla sorgente”, prosegue il professor De Lellis.

Grazie alle sue caratteristiche, SND@LHC è stato in grado isolare gli eventi dovuti all’interazione tra l’apparato sperimentale e i neutrini prodotti dall’acceleratore nel vasto campione di dati acquisiti nel 2022, costituito da diversi miliardi di muoni che attraversano l’apparato. SND@LHC ha osservato 8 eventi candidati interazioni di neutrino muonico, con una significatività statistica superiore a quella necessaria in fisica per confermare un’osservazione.

“Con questi primi risultati dell’analisi dei dati raccolti nel 2022, l’esperimento SND@LHC ha aperto una nuova frontiera nello studio dei neutrini e nella ricerca di materia oscura”, aggiunge Giovanni De Lellis. “Abbiamo osservato neutrini dal collider con una significatività superiore alle 5 sigma. Alla luce del fatto che una buona parte dei neutrini è originata dai decadimenti di quark pesanti, essi costituiscono un modo unico per studiare la produzione di questi quark, inaccessibile ad altri esperimenti. Queste misure sono anche rilevanti per predire il flusso di neutrini di altissime energie prodotti nei raggi cosmici, sicché l’esperimento fa da ponte tra la fisica degli acceleratori e quella delle astro-particelle”.

L’Università Federico II svolge un ruolo centrale all’interno della collaborazione insieme all’Istituto di Fisica Nucleare.

“Questo è il primo risultato pubblicato: l’indagine proseguirà con lo studio di neutrini muonici a più alta statistica e con la rivelazione di neutrini elettronici e del tau, nonché con la ricerca di materia oscura, grazie alle caratteristiche uniche dell’apparato sperimentale. Il coinvolgimento di gruppi di ricerca multidisciplinari della Federico II è anche il frutto del lavoro della Task Force d’Ateneo SHiP-Fed in cui sono coinvolti dieci Dipartimenti. Questo risultato apre una nuova era, quella della fisica dei neutrini da collisore di particelle, un nuovo filone di ricerca a cui contribuiscono i saperi federiciani in modo trasversale”, conclude De Lellis.

 

Riferimenti bibliografici:

R. Albanese et al. (SND@LHC Collaboration), Phys. Rev. Lett. 131, 031802 (19 Luglio 2023)

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Rettorato Università degli Studi di Napoli Federico II.

 

Tumori pediatrici, identificati i fattori genetici che predispongono al neuroblastoma

Colpisce bambini e adolescenti fino ai 15 anni. Circa 15.000 ogni anno nel mondo, 130 in Italia. Il Neuroblastoma è un tumore maligno che ha origine dai neuroblasti, cellule presenti nel sistema nervoso simpatico ed è considerato la prima causa di morte e la terza neoplasia per frequenza dopo le leucemie e i tumori cerebrali dell’infanzia.

Tumori pediatrici: identificati i fattori genetici che predispongono al neuroblastoma
Tumori pediatrici: identificati i fattori genetici che predispongono al neuroblastoma che colpisce bambini e adolescenti fino ai 15 anni. Da sinistra, Ferdinando Bonfiglio, Achille Iolascon e Mario Capasso

Oggi, grazie ad una promettente scoperta dei ricercatori napoletani, c’è una speranza in più per la diagnosi precoce e la cura di una delle malattie rare più temibili. Gli studiosi, guidati da Mario Capasso e Achille Iolascon, Principal Investigator del CEINGE e rispettivamente, professore associato e ordinario di Genetica Medica dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, hanno infatti identificato i fattori genetici che predispongono al neuroblastoma. E lo hanno fatto investigando su un bagaglio di dati tra i più ampi mai utilizzati al mondo.

«Abbiamo analizzato il DNA di quasi 700 bambini affetti da neuroblastoma e più di 800 controlli mediante sequenziamento avanzato, una tecnica innovativa che riesce a decodificare tutti i geni finora conosciuti in modo affidabile e veloce -spiega il professor Capasso – Questa è la più alta casistica mai studiata fin ad oggi grazie alla quale abbiamo scoperto che il 12% dei bambini con neuroblastoma ha almeno una mutazione genetica ereditata che aumenta il rischio di sviluppare un tumore».

La realizzazione di questo lavoro scientifico è stata resa possibile grazie ad analisi computazionali avanzate del team di esperti del prof. Capasso che lavorano nella facility di Bioinformatica per Next Generation Sequencing del CEINGE. In particolare, si tratta di indagini condotte dall’esperto bioinformatico Ferdinando Bonfiglio, primo autore del lavoro.

«Con predisposizione genetica ci si riferisce alla maggiore probabilità, rispetto alla media, che un bambino ha di sviluppare un tumore – chiarisce Iolascon –. Quindi i risultati di questa ricerca hanno rilevanti implicazioni cliniche; infatti sono utili a migliorare la diagnosi redendola sempre più precoce e certa e a migliorare la gestione clinica del paziente indirizzando il medico verso l’utilizzo di trattamenti personalizzati».

I risultati della ricerca, finanziata dalla OPEN Onlus, Fondazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma e Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro, sono stati pubblicati su una autorevole rivista scientifica, eBioMedicine del gruppo editoriale “The Lancet”. Inoltre, tutti i dati genetici sono stati resi disponibili in un database online che altri studiosi potranno liberamente consultare per sviluppare nuove ricerche.

E non è tutto. Lo studio ha investito anche altre patologie, come l’autismo. «Un altro dato interessante che emerso da questa ricerca è che alcune delle mutazioni trovate in questi bambini sono associate anche allo sviluppo di malattie del neurosviluppo, ad esempio i disturbi dello spettro autistico. I risultati raggiunti sono utili anche a meglio comprendere i meccanismi molecolari che sono alla base dello sviluppo di malattie non oncologiche», conclude Mario Capasso.

https://www.thelancet.com/journals/ebiom/article/PIIS2352-3964(22)00577-1/fulltext

Da sinistra, Ferdinando Bonfiglio, Mario Capasso e Achille Iolascon

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli

I computer quantistici potranno “ragionare” più velocemente dei calcolatori classici. È quanto dimostrato dal team di ricerca federiciano coordinato dal professore Giovanni Acampora, del Dipartimento di Fisica ‘Ettore Pancini’ dell’Università Federico II, che ha realizzato un algoritmo quantistico in grado di eseguire i cosiddetti motori inferenziali, le componenti principali di alcune metodologie di intelligenza artificiale, sfruttando meno risorse computazionali dei calcolatori elettronici.

I computer quantistici potranno “ragionare” più velocemente dei calcolatori classici. Quantum Computing e Intelligenza artificiale: il professor Giovanni Acampora con Roberto Schiattarella e Autilia Vitiello

Lo studio, condotto con il dottorando Roberto Schiattarella e la dottoressa Autilia Vitiello, intitolato “On the Implementation of Fuzzy Inference Engines on Quantum Computers”, è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista IEEE Transactions on Fuzzy Systems.

Oltre al vantaggio computazionale, l’algoritmo offre un ulteriore vantaggio: esso consente di programmare computer quantistici usando l’approccio linguistico tipico del ragionamento umano, semplificando l’interazione con questi strumenti particolarmente complessi da gestire.

Il risultato raggiunto da Acampora, Schiattarella e Vitiello potrà avere importanti ripercussioni nella progettazione dei metodi di intelligenza artificiale del futuro che dovranno avere significative capacità di elaborazione e una estrema semplicità di programmazione per poter gestire la sempre crescente quantità di dati messa a disposizione dalla interconnessione e dalla interazione di diversi sistemi collegati tra loro dalle moderne tecnologie di comunicazione cablati come la fibra ottica, e quelle per dispositivi mobili come 5G e 6G.

I motori inferenziali sono algoritmi che simulano le modalità con cui la mente umana trae delle conclusioni logiche attraverso il ragionamento e sono usati in molte applicazioni dell’intelligenza artificiale riguardanti diverse sfere del quotidiano come, ad esempio, sistemi di diagnosi medica, sistemi di controllo industriale, automotive, e sistemi di automazione e di supporto alle decisioni in genere. I motori inferenziali su cui si basa lo studio condotto da Acampora, Schiattarella e Vitiello sono quelli che utilizzano le cosiddette regole linguistiche fuzzy. Tali regole implementano uno schema di ragionamento in grado di creare un legame tra le variabili di ingresso e quelle di uscita di un sistema, usando un approccio di tipo linguistico, cioè usando espressioni testuali tipiche del pensiero umano. Questo è reso possibile dall’utilizzo della fuzzy logic, uno strumento matematico in grado di modellare il ragionamento umano e abilitare il calcolo basato su parole e costrutti del linguaggio naturale. Seppur ampiamente utilizzate in diverse tipologie di sistemi, i motori inferenziali possono soffrire di una significativa problematica computazionale: il numero di regole che modellano il comportamento di un sistema può crescere esponenzialmente con il numero di variabili di ingresso del sistema stesso rendendo il motore inferenziale poco efficiente nel trarre conclusioni logiche. Di conseguenza c’è la forte necessità di pensare a metodi di calcolo inferenziale in grado di valutare le regole in maniera efficiente anche al crescere del numero delle variabili di ingresso.

I computer quantistici, strumenti di calcolo che sfruttano principi della meccanica quantistica come superposition, entanglement e interferenza, possono rappresentare una possibile soluzione al suddetto problema. Infatti, questi innovativi strumenti informatici abilitano un parallelismo massivo nel calcolo che, come dimostrato dal gruppo del professor Acampora, offre le potenzialità per il raggiungimento di un vantaggio di tipo esponenziale nella esecuzione dei motori inferenziali. Ciò significa che, anche in presenza di sistemi di grandi dimensioni, i motori inferenziali quantistici potranno essere eseguiti efficientemente, ovvero con un tempo di esecuzione inferiore rispetto ai motori inferenziali eseguiti sui classici calcolatori elettronici.

Il risultato raggiunto dal professor Acampora e dal suo gruppo arriva a seguito di numerosi riconoscimenti e premi internazionali ottenuti per i risultati ottenuti nell’ambito della attività di ricerca svolte nell’area della intelligenza artificiale quantistica. Tra tali riconoscimenti si evidenziano il 2019 Canada-Italy Innovation Award ottenuto dal professore Acampora e rilasciato dalla ambasciata canadese in Italia, il Best Paper Award@Fuzz-IEEE 2021 conseguito dal profesore Acampora e dalla dottoressa Vitiello, l’IEEE Computer Society Award on Emerging Technologies ottenuto dal professore Acampora e dalla dottoressa Vitiello, e il 2022 IEEE CIS Graduate Student Research Grant conseguito da Roberto Schiattarella e che gli consentirà di testare il motore inferenziale quantistico sui sistemi di controllo degli acceleratori di particelle del CERN di Ginevra.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli sui computer quantistici che potranno “ragionare” più velocemente dei calcolatori classici.

I pipistrelli imitano i calabroni per tenere alla larga i predatori e salvarsi la vita. La scoperta è dei ricercatori federiciani Danilo Russo e Leonardo Ancillotto insieme a colleghi dell’Università di Torino, di Firenze e di Costa Rica. Lo studio pubblicato sulla rivista Current Biology.

pipistrelli calabroni
Vespertilio maggiore. Photo credits: Marco Scalisi

I pipistrelli imitano i calabroni per tenere alla larga i predatori e salvarsi la vita. La scoperta è dei federiciani Danilo Russo e Leonardo Ancillotto, del Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, che hanno condotto lo studio insieme ai colleghi Donatella Pafundi e Marco Gamba dell’Università di TorinoFederico Cappa e Rita Cervo dell’Università di Firenze, e Gloriana Chaverri dell’Universidad de Costa Rica.
I risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Current Biology.

Vespa crabro. Credits: Andrea Aiello

Si tratta di “mimetismo Batesiano”, ossia di una specie indifesa che ne imita una pericolosa o tossica per scoraggiare un predatoreMimetismo acustico, in questo caso, perché basato sui suoni e non sui colori, quindi relativamente raro in natura.

La potenziale preda indifesa, in tale circostanza un pipistrello, il vespertilio maggiore Myotis myotis, imita un’altra specie che rappresenta un pericolo per il predatore, come, appunto, un calabrone. Quando il pipistrello viene catturato da un uccello rapace, emette un ronzio che sconcerta il predatore e lo disorienta così può approfittare di questa frazione di secondo per fuggire.
Si tratta del primo caso conosciuto di un mammifero che imita un insetto e costituisce un elegante esempio di come l’evoluzione esprima adattamenti che spesso sono il frutto dell’interazione tra specie anche molto diverse, come, appunto, pipistrelli, gufi e insetti imenotteri.

Danilo Russo ebbe i primi sospetti già oltre vent’anni fa, quando per il suo lavoro di dottorato si trovò tra le mani uno di questi pipistrelli, e, dopo lungo tempo, il team internazionale ha potuto verificare che il suono prodotto dal pipistrello è effettivamente simile a quello emesso da questi insetti “armati”, soprattutto se si escludono le frequenze che un tipico predatore di pipistrelli come un barbagianni o un allocco non è in grado di udire.
Il passo successivo è stato verificare, usando proprio questi uccelli in cattività, quale effetto sortisse l’ascolto dei ronzii di pipistrelli, api e calabroni. Il risultato è stato sorprendente: allocchi e barbagianni si allontanano dagli altoparlanti che emettono ronzii di insetti come di pipistrelli, mentre sono attratti da altri suoni di pipistrelli, probabilmente considerati un indizio della presenza della preda.

I pipistrelli in questione non sono gli unici a emettere ronzii di questo tipo: lo fanno certi roditori, uccelli, e anche insetti totalmente indifesi. È perciò probabile che la strategia di imitazione di un insetto pericoloso come un calabrone sia molto più diffusa in natura di quanto si possa credere. La ricerca apre quindi una nuova, importante finestra sul comportamento animale e sui fenomeni di imitazione tra specie.

“Gli adattamenti espressi dagli animali in risposta alle forze della selezione naturale non smettono mai di sorprenderci”, commenta il professore Russo.

La notizia ha fatto il giro del mondo, è stata ripresa dalle più prestigiose testate internazionali, tra cui Nature, Science, New Scientist, il New York Times, il Telegraph, the Independent, The Economist, BBC, Sky News e National Geographic.

Per approfondire: Ancillotto, L., Pafundi, D., Cappa, F., Chaverri, G., Gamba, M., Cervo, R., & Russo, D. (2022). Bats mimic hymenopteran insect sounds to deter predators. Current Biology 32, PR408-R409

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Rettorato Università degli Studi di Napoli Federico II

Come la vita e il nostro Pianeta sono evoluti insieme

Parte il progetto CoEvolve: indaga la coevoluzione della vita con la Terra

CoEvolve indaga la coevoluzione della vita con la Terra

CoEvolve, il progetto finanziato dal Consiglio Europeo delle Ricerche, guidato dal microbiologo della Federico II di Napoli, Donato Giovannelli, è ufficialmente decollato. Il progetto condurrà il team del Giovannelli-Lab dall’Artico ai deserti delle Ande cilene, e poi dal Costa Rica all’Islanda, alla ricerca di microrganismi che verranno raccolti negli ambienti estremi del nostro pianeta per capire come la Terra e la vita si sono mutualmente influenzati, in una sorta di coevoluzione tra la geosfera e la biosfera terrestre.

‘Quando guardiamo il nostro pianeta tendiamo a pensare che la geologia sia una forza inarrestabile che modella i continenti e gli oceani, e che la vita si adatti a questi cambiamenti ed evolva per tenere il passo. Questo è vero per la maggior parte del tempo, ma ci sono state diverse occasioni durante la storia della Terra in cui l’evoluzione di alcuni processi biologici hanno influenzato notevolmente la geologia, la mineralogia e quindi la traiettoria evolutiva della Terra’ – spiega il coordinator Donato Giovannelli. La realtà è che il nostro pianeta e la vita si sono coevoluti nel tempo, influenzandosi a vicenda per oltre 4 miliardi di anni. ‘È come una delicata danza in cui la vita e il pianeta Terra lavorano insieme per mantenere l’abitabilità del pianeta e sostenere la vita stessa’, dice Donato Giovannelli. Nonostante questo, l’estensione della coevoluzione e le sue forze motrici sono in gran parte sconosciute’.

Il progetto CoEvolve mira a capire come la vita, in particolare i microrganismi, e il pianeta si sono coevoluti nel tempo, concentrandosi sul ruolo dei metalli. Il progetto è finanziato con una sovvenzione di 2,1 milioni di euro dal Consiglio Europeo della Ricerca (ERC Starting Grant 2020).

I microrganismi sono fondamentali per il funzionamento del pianeta e sono stati la forza trainante nel ciclo dei nutrienti e degli elementi dall’origine della vita su questo pianeta. Per controllare il ciclo dei nutrienti e degli elementi, i microrganismi utilizzano un insieme di proteine che contengono metalli nel loro nucleo, utilizzati per controllare efficacemente le reazioni chimiche. A causa di questa relazione, il ruolo dei metalli è importante per la vita (basti pensare solo a cosa comporta un calo di ferro nel sangue).

‘Le conoscenze degli ultimi decenni sulla evoluzione della vita terrestre ci ha fatto comprendere che la disponibilità di metalli è cambiato drammaticamente nel tempo, in gran parte a causa del cambiamento delle concentrazioni di ossigeno nell’atmosfera – sottolinea Giovannelli -. In sintesi, metalli potrebbero aver controllato in una certa misura l’evoluzione della vita microbica stessa’.

Il progetto CoEvolve utilizza microrganismi raccolti in ambienti estremi, dai poli ai deserti, che sono una sorta di modello di antichi tempi geologici, per capire la relazione tra disponibilità di metallo e metabolismo microbico. Una selezione di ambienti diversi, da sorgenti termali negli altipiani del Cile all’Artico norvegese, saranno campionati nei prossimi 5 anni in una serie di missioni la cui delicata logistica richiede una lunga e attenta pianificazione.

CoEvolve coevoluzione
CoEvolve indaga la coevoluzione della vita con la Terra

Donato Giovannelli, dunque, sta raccogliendo nel Giovannelli-Lab un team di scienziati e scienziate con diversi background per affrontare la natura multidisciplinare del progetto CoEvolve, che richiede competenze in microbiologia, biologia molecolare, geochimica, geologia, astrobiologia e big data. La prima fase del progetto è attualmente in corso, con l’allestimento di un nuovo laboratorio geo-bio presso l’Università di Napoli Federico II, e a partire dal 20 febbraio 2022, il team comincia con la prima tappa delle missioni: presso la base artica Dirigibile Italia del CNR (Isole Svalbard, Norvegia) a Ny-Ålesund  (78°55′ N, 11°56′ E). La prima spedizione, i cui dati contribuiranno al CoEvolve, è finanziata con un Progetto di Ricerca in Artico del MUR.

“La mia speranza è che il progetto cambierà il modo in cui comprendiamo e interagiamo con il mondo microbico, aprendo nuove strade in diversi campi come la bioremediation, le biotecnologie e la ricerca sul microbioma umano e potrebbe anche cambiare il modo in cui cerchiamo la vita nell’Universo”, conclude Donato Giovannelli.

 

CoEvolve in breve:

–        Al via il progetto CoEvolve del Dipartimento di Biologia della Federico II di Napoli. Durerà 5 anni, beneficia di un finanziamento ERC europeo di 2.1 milioni di euro. Alla sua guida il microbiologo Donato Giovannelli.

–        Studierà organismi di ambienti estremi, raccolti in Cile, Islanda, Norvegia, Russia, Italia, Costa Rica, per comprendere come la geologia terrestre ha influenzato la vita, e come la vita, a modo suo, abbia a sua volta influenzato la geologia.

–        La prima tappa, in atto in questo momento, alle Isole Svalbard, in Norvegia, presso la base artica del CNR Dirigibile Italia. Il team di microbiologi raccoglierà microorganismi adattati ad un ambiente estremamente freddo.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli.

Neuroblastoma: scoperte nel DNA “non codificante” le regioni che attivano i geni responsabili della malattia grave

Per questo studio i ricercatori hanno utilizzato tecniche avanzate di ingegneria genetica, sequenziamento e bioinformatica. I risultati aiuteranno a capire le cause dei tumori più aggressivi.

neuroblastoma DNA non codificante malattia grave
Neuroblastoma: scoperte nel DNA “non codificante” le regioni che attivano i geni responsabili della malattia grave. Foto 1. Da sinistra Annalaura Montella, Vito Alessandro Lasorsa, Achille Iolascon, Mario Capasso, Matilde Tirelli, Sueva Cantalupo

Un altro traguardo verso la comprensione del neuroblastoma è stato raggiunto al CEINGE-Biotecnologie avanzate di Napoli. Grazie a tecniche avanzatissime di ingegneria genetica, di sequenziamento e di bioinformatica, i ricercatori hanno individuato le regioni regolatrici che indirizzano i geni la cui funzionalità alterata è responsabile della maggiore aggressività di uno dei tumori del sistema nervoso dei bambini.

Foto 2. Servizio Bioinformatica per NGS, da sinistra V. Aievola, F. Bonfiglio, Mario Capasso, Vito Alessandro Lasorsa, G. D’Alterio

Gli studiosi, guidati da Mario Capasso e Achille Iolascon, professori di Genetica Medica del Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche – Università degli Studi di Napoli Federico II e Principal Investigator del CEINGE, si sono soffermati questa volta sul cosiddetto DNA “non codificante”, in passato indicato erroneamente con lo sprezzante soprannome di “DNA spazzatura”: è una porzione enorme del genoma (circa il 99% del totale) contenente particolari sequenze il cui ruolo nel determinare le malattie rimane da ancora scoprire.

«Abbiamo studiato in particolare le regioni del DNA che regolano la trascrizione dei geni, in gergo detti “intensificatori” o “enhancer” – spiega Capasso – che possono essere immaginati come la manopola del volume di una radio con la quale possiamo aumentare o diminuire l’intensità di produzione di specifici geni. Abbiamo analizzato 25 linee cellulari di neuroblastoma mediante la tecnica di sequenziamento ChiP-seq e abbiamo scovato le regioni regolatrici del genoma di questo tumore pediatrico che per molti bambini rimane incurabile. Una volta individuate e localizzate, siamo andati a vedere se in esse erano presenti mutazioni, stavolta analizzando oltre 200 campioni, un numero importante trattandosi di una malattia rara. Ed effettivamente ne abbiamo trovate, in quantità superiore rispetto al restante parte del DNA».

Foto 3. Mario Capasso

I ricercatori hanno anche dimostrato che l’insieme di questi intensificatori del genoma del neuroblastoma, quando mutati, sono tra le cause di una prognosi sfavorevole per i piccoli pazienti.

neuroblastoma DNA non codificante malattia grave
Foto 4. Interazioni tra intensificatori e restanti regioni del DNA mediante HIC Seq

Il viaggio attraverso il DNA non codificante non è terminato qui. Utilizzando un’ulteriore tecnica di sequenziamento integrata con analisi bioinformatiche avanzate (HiC data analysis), eseguite dal dott. Alessandro Vito Lasorsa (esperto bioinformatico del CEINGE), i ricercatori hanno valutato tutte le possibili interazioni delle regioni regolatrici individuate con tutti i geni fin ad oggi conosciuti e hanno scoperto che esse interagiscono proprio con tre geni noti avere un ruolo chiave nello sviluppo dei tumori. E lo hanno dimostrato con studi in-vitro, creando in laboratorio una linea cellulare ingegnerizzata:

«Grazie a una tecnica di genome editing di ultima generazione detta CRISPR-Cas9 –, chiarisce Achille Iolascon – abbiamo confermato che le mutazioni che colpiscono le regioni intensificatrici individuate regolano proprio i tre geni che insieme ad altri sono coinvolti nello sviluppo embrionale e nella risposta del sistema immunitario. Molti di questi geni inoltre sono classificati o come bersagli terapeutici del cancro o come marcatori di una prognosi nefasta della malattia».

neuroblastoma DNA non codificante malattia grave
Neuroblastoma: scoperte nel DNA “non codificante” le regioni che attivano i geni responsabili della malattia grave. Foto 1. Da sinistra Da sinistra Annalaura Montella, Vito Alessandro Lasorsa, Achille Iolascon, Mario Capasso, Matilde Tirelli, Sueva Cantalupo

La ricerca è stata finanziata dalla Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro, OPEN Onlus, Fondazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma ed è stata pubblicata sulla rivista internazionale di alto impatto Cancer Research*.

*Cancer Research  – Somatic mutations enriched in cis-regulatory elements affect genes involved in embryonic development and immune system response in neuroblastoma – Vito Alessandro Lasorsa, Annalaura Montella, Sueva Cantalupo, Matilde Tirelli, Carmen de Torres, Sanja Aveic, Gian Paolo Tonini, Achille Iolascon and Mario Capasso

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli.

Da Napoli lo studio dell’equipe della Diabetologia della Federico II pubblicato su “Advances in Nutrition”

Mangiare pesce fa bene al cuore? Sì, ma solo se è grasso!

Il consumo di pesce azzurro, anche detto pesce grasso, riduce il rischio di malattie cardiovascolari e di mortalità precoce, mentre il pesce bianco, identificato come pesce magro, non ha lo stesso potenziale.

Importante l’impatto che la ricerca avrà sulle scelte alimentari della popolazione adulta e sull’ecosistema marino.

acciughe pesce cuore
Mangiare pesce fa bene al cuore? Acciuga europea o alice (Engraulis encrasicolus). Acciughe fotografate nel Mar Ligure. Foto di Alessandro Duci, caricata da Massimiliano Marcelli, in pubblico dominio

Chi di noi, rivolgendosi ad un esperto, non ha ricevuto l’indicazione di consumare pesce almeno tre volte a settimana? Ebbene, da oggi qualcosa potrebbe cambiare.

Se, infatti, numerosi studi hanno dimostrato che il consumo di pesce si associa alla riduzione del rischio di malattie cardiovascolari ischemiche, come l’infarto del miocardio, sino ad ora nessuno aveva chiarito se i tipi di pesce fossero intercambiabili o se fosse meglio preferire le alici alla spigola, le sardine ai gamberi, in sintesi se fosse meglio il pesce azzurro, anche detto pesce grasso o il pesce bianco, noto come pesce magro.

La risposta è arrivata dallo studio dell’equipe della Diabetologia del Policlinico Federico II, guidata dalla professoressa Olga Vaccaro, che ha analizzato tutti i dati disponibili in letteratura sulla relazione tra il consumo di pesce e le malattie cardiovascolari.

Utilizzando una metodologia basata sulla sistematicità della ricerca, grazie a procedure statistiche in grado di combinare tutti i dati disponibili, abbiamo analizzato una popolazione di 1,320,509 individui, seguiti per un periodo di tempo che va dai 4 ai 40 anni. I risultati hanno mostrato, con estrema chiarezza, che il consumo di 1-2 porzioni di pesce grasso a settimana si associa ad una riduzione significativa del rischio di infarto e di altre patologie cardiache che, per i casi fatali, si colloca intorno al 17%. Al contrario, il consumo abituale di pesce magro, pur non aumentando il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, non si associa a questi benefici”, spiega la professoressa Vaccaro.

Vale a dire che il consumo di pesce grasso, come sardine, sgombri ed altri pesci azzurri, riduce il rischio di malattie cardiovascolari e di mortalità precoce, mentre il pesce magro, come merluzzo, spigola, crostacei, molluschinon ha lo stesso potenziale.

I risultati di questo studio mettono in luce, per la prima volta, che l’effetto benefico sulla salute cardiovascolare attribuito finora al consumo di pesce in generale è in realtà limitato esclusivamente al pesce grasso. Questo ha una sua logica: il pesce grasso contiene, infatti, quantità fino a 10 volte più elevate di grassi cosiddetti omega-3, benefici per la salute, rispetto al pesce magro, inoltre, il pesce grasso è più ricco di molte altre sostanze salutari come calcio, potassio, ferro e Vitamina D, che possono contribuire all’impatto benefico del pesce azzurro sul cuore”, sottolinea il professore Gabriele Riccardi, già direttore della Diabetologia Federiciana.

Le conclusioni dello studio avranno implicazioni rilevanti per le scelte alimentari della popolazione adulta e per la preservazione dell’ecosistema marino.

La consapevolezza che bastano una o due porzioni di pesce azzurro a settimana per ridurre marcatamente il rischio di malattie cardiache facilita l’adesione alle raccomandazioni nutrizionali in confronto al generico consiglio di consumare ogni tipo di prodotto della pesca con una frequenza maggiore. Guardando agli aspetti ambientali, la scelta preferenziale di pesce azzurro di piccola taglia, e con un breve ciclo di vita come alici, sardine, sgombri, aringhe e molti altri pesci meno noti ma molto diffusi nel mar Mediterraneo, ha un impatto rilevante sull’ecosistema marino ed è molto più sostenibile dell’utilizzo di specie, ritenute più pregiate, che arrivano sulla nostra tavola grazie all’acquacultura o alla pesca intensiva”, conclude la professoressa Vaccaro.

All’innovativo studio, insieme ai professori Vaccaro e Riccardi, hanno preso parte le nutrizioniste Marilena Vitale e Ilaria Calabrese, la dottoranda di ricerca in “Nutraceuticals Functional Foods and Human Health” Annalisa Giosuè e la diabetologa Roberta Lupoli.

Testo dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli.

Convergenza evolutiva: la dieta come fattore determinante? Sì, ma solo in alcune specie

Un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza ha pubblicato sulla rivista Evolution uno studio sulla convergenza evolutiva tra le specie. La ricerca si interroga su quanto sia comune la convergenza morfologica nei carnivori e sulle possibili cause, con il risultato, inatteso, che essa derivi da interazioni complesse tra morfologia, ecologia e biomeccanica.

convergenza evolutiva dieta specie
Convergenza evolutiva: la dieta come fattore determinante? Sì, ma solo in alcune specie. Panda rosso (Ailurus fulgens), Aachen. Foto di Brunswyk, CC BY-SA 3.0

La convergenza evolutiva è un fenomeno per cui specie diverse, che vivono e si sono adattate ad ambienti simili, evolvono caratteristiche morfologiche e funzionali analoghe che li portano a somigliarsi moltissimo pur non avendo parentela in comune.

Una delle questioni più dibattute tra gli studiosi è quella di determinare in maniera affidabile quali siano i tratti maggiormente predisposti a convergere tra le specie, e quali le cause. Numerose le ipotesi ancora inesplorate, non solo ecologiche, ma anche comportamentali e filogenetiche. Il fattore ecologico che più frequentemente si presume abbia prodotto convergenza morfologica nei carnivori, e più specificamente nel loro complesso cranio-mandibolare, è la dieta.

Perché è importante fare chiarezza su questo aspetto? Perché se diete simili producessero morfologie dentali convergenti, i paleoecologi potrebbero arrivare a definire le condizioni ecologiche di una specifica area geografica del passato.

Se finora il numero di casi documentati di convergenza evolutiva è stato più basso di quanto ci si aspettasse, numerosi invece i casi basati su considerazioni unicamente qualitative che però non hanno consentito di comprendere la frequenza del fenomeno, rendendo difficile individuare delle tendenze evolutive ricorrenti, sia tra i vari gruppi tassonomici che al loro interno.

Oggi un nuovo studio pubblicato sulla rivista Evolution e coordinato da Luigi Maiorano del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, in collaborazione con il Museo di Zoologia dell’Ateneo, l’Università John Moores di Liverpool e l’Università di Napoli Federico II presenta la più vasta valutazione quantitativa mai realizzata, riguardante la convergenza evolutiva cranio-mandibolare nell’ordine Carnivora dei mammiferi.

“Questo studio – spiega Davide Tamagnini del Dipartimento di Biologia ambientale, primo nome dello studio – si inserisce in un trend crescente di ricerca, che impiega metodi innovativi (phylogenetic comparative method) per indagare fenomeni tradizionalmente descritti solo in maniera qualitativa. Nel lavoro si impiegano anche semplici dati morfologici, estratti da un gran numero di taxa dell’ordine Carnivora, per chiarire se la dieta causi convergenza nel loro complesso cranio-mandibolare”.

Le evidenze ottenute sostengono la rarità della convergenza evolutiva all’interno di vaste categorie ecologiche, ma mostrano invece una maggior frequenza di questo fenomeno evolutivo in casi isolati di specie che, pur non essendo imparentate tra loro, hanno lo stesso ruolo nell’ambiente in cui vivono.

È il caso del panda gigante e del panda rosso che appartengono a due famiglie diverse: il primo a quella degli ursidi (come gli orsi), mentre il secondo alla famiglia ailuridae (come i procioni) accomunati dall’alimentazione a base di bambù, dalle tipiche macchie nere intorno agli occhi e dal cosiddetto “falso pollice”.

Se per i panda, dunque, la convergenza si trova in due specie che vivono nello stesso habitat e nella stessa regione, tra i carnivori, invece, si trovano frequenti esempi di adattamenti morfologici convergenti anche in specie evolute in continenti diversi. Queste coppie di specie sono comunemente ritenute “ecologicamente equivalenti”, perché vivono in diverse regioni geografiche ma occupano nicchie ecologiche simili.

“In questa ricerca abbiamo studiato la convergenza morfologica, raggruppando le specie in base al tipo di cibo prevalente nella loro dieta. Poi, abbiamo considerato diversi casi di potenziale convergenza morfologica concentrandoci su specie ecologicamente equivalenti di dimensioni corporee simili, oppure taxa molto affini rispetto a dieta e habitat, ma con grandi differenze di taglia”.

“I nostri risultati – dichiara Luigi Maiorano, coordinatore del lavoro – non supportano quasi mai il verificarsi di un’evoluzione convergente nelle categorie alimentari dei carnivori viventi: l’evoluzione convergente in questo clade sembra essere un fenomeno raro”.

Il fenomeno della convergenza, dunque, è meno frequente di quanto atteso e tale risultato è probabilmente dovuto a interazioni complesse tra morfologia, ecologia e biomeccanica.

Questa ricerca sottolinea inoltre l’importanza della scala tassonomica considerata negli studi macroevolutivi.

Riferimenti:

Testing the occurrence of convergence in the craniomandibular shape evolution of living carnivorans – Davide Tamagnini, Carlo Meloro, Pasquale Raia, Luigi Maiorano – Evolution, 75(7): 1738-1752. DOI: https://doi.org/10.1111/evo.14229

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma sulla dieta come fattore determinante di convergenza evolutiva.

Svelato il motivo per cui i bambini si ammalano molto meno di Covid-19: una molecola “chiave” che apre le porte al virus è meno attiva

Lo hanno scoperto i ricercatori del CEINGE-Biotecnologie Avanzate di Napoli, studiando i meccanismi di attacco del virus all’interno delle prime vie respiratorie in soggetti di età inferiore o superiore ai 20 anni

Fin dall’inizio della pandemia medici e ricercatori si sono interrogati riguardo i motivi della differente espressività clinica dell’infezione da SARS-CoV-2 in età pediatrica.  I bambini ed i giovani di età inferiore ai 20 anni hanno infatti una suscettibilità a contrarre l’infezione pari a circa la metà rispetto agli adulti e, oltre ad essere molto spesso asintomatici, presentano quadri clinici comunque molto meno severi (e più spesso a carico del tratto gastrointestinale) con una prognosi nettamente migliore ed una letalità decisamente inferiore rispetto agli adulti.

bambini COVID-19
Svelato il motivo per cui i bambini si ammalano molto meno di Covid-19. Foto di Alexandra_Koch

Il gruppo di ricercatori coordinati da Roberto Berni Canani, professore di Pediatria dell’Ateneo Federico II e Principal Investigator del CEINGE-Biotecnologie Avanzate, ha finalmente svelato la causa di queste differenze.

Gli studiosi hanno analizzato i campioni biologici ottenuti dalle alte vie del respiro e dall’intestino (le due principali vie di ingresso del Coronavirus nel nostro organismo) di bambini e adulti sani ed hanno dimostrato che una molecola, denominata Neuropilina 1, nel tessuto epiteliale nasale dei bambini è molto meno espressa.  Si tratta di un recettore in grado di potenziare l’entrata del virus SARS-CoV2 nelle cellule e la diffusione nell’organismo. La Neuropilina1 ha un ruolo cruciale nel consentire l’attacco al recettore ACE-2 con cui la proteina spike del Coronavirus si lega per entrare nelle cellule dell’ospite.

Lo studio, che sarà pubblicato sul prossimo numero della prestigiosa rivista Frontiers in Pediatrics*, è frutto di una collaborazione tra gruppi di ricerca operanti presso il CEINGE-Biotecnologie Avanzate e guidati rispettivamente da Roberto Berni Canani (tra l’altro membro della Task Force per gli studi del Microbioma dell’Università di Napoli Federico II) e Giuseppe Castaldo (professore dell’Università Federico II, Principal Investigator e coordinatore della Diagnostica CEINGE), con i gruppi di ricerca dell’Università degli Studi Federico II, guidati da Elena Cantone e Nicola Gennarelli e dell’Università Vanvitelli, guidati da Caterina Strisciuglio.

«Abbiamo identificato un importante fattore in grado di conferire protezione contro SARS-CoV-2 nei bambini – afferma Roberto Berni Canani – che si aggiunge ad altri fattori immunologici che stiamo studiando. La definizione di questi co-fattori sarà molto utile per la creazione di nuove strategie per la prevenzione ed il trattamento del COVID-19».

 

* Frontiers in Pediatrics 2021 – Age-related differences in the expression of most relevant mediators of SARS-CoV-2 infection in human respiratory and gastrointestinal tract– Roberto Berni Canani, Marika Comegna, Lorella Paparo, Gustavo Bruno, Cristina Bruno, Caterina Strisciuglio, Immacolata Zollo, Antonietta G Gravina, Erasmo Miele, Elena Cantone, Nicola Gennarelli, Rita Nocerino, Laura Carucci, Veronica Giglio, Felice Amato Giuseppe Castaldo.

 

 

Il CEINGE-Biotecnologie avanzate è un centro di ricerca e di diagnostica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II e dell’Ateneo Federico II, che opera nel campo delle malattie onco-ematologiche (prevenzione, diagnosi e terapie dei tumori solidi e non), delle malattie genetiche ereditarie (prenatali e postnatali) e acquisite, delle malattie congenite del metabolismo, delle malattie rare e delle malattie neurodegenerative.

 

Testo dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli

Nuovi Scienziati del Microbioma alla Federico II grazie a ‘CRESCENDO’, progetto di mobilità internazionale finanziato con più di 800 mila euro dall’Azione Marie Sklodowska-Curie Cofund

Oltre 800mila euro per il progetto di mobilità internazionale ‘CRESCENDOL’Azione Cofund Marie Sklodowska-Curie finanzia l’idea presentata dalla Federico II attraverso la Task Force di Ateneo per gli studi sul microbioma, diretta dal professore Danilo Ercolini.

CRESCENDO microbioma
Danilo Ercolini. Foto copyright: Andreas Heddergott /TUM

‘CRESCENDO’ sovvenzionerà borse di studio per Ricercatori Internazionali da coinvolgere in formazione e ricerca nel campo del microbioma. Giovani talentuosi residenti al di fuori dell’Italia saranno selezionati per svolgere un programma di Dottorato di Ricerca presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Il filo conduttore del processo di formazione e ricerca sarà il microbioma, ma la tematica sarà affrontata sviluppando progetti di ricerca nell’ambito di diversi corsi di Dottorato afferenti a Dipartimenti di Agraria, Biologia, Medicina, Chimica, Farmacia, Ingegneria e Veterinaria.

Il microbioma è la comunità di microrganismi che abitano un ecosistema insieme a tutti i loro geni e gioca un ruolo fondamentale per la vita sul nostro pianeta e il benessere di tutti gli organismi viventi.

I dottorandi ‘CRESCENDO’ saranno Scienziati del microbioma con esperienza intersettoriale e internazionale e con un background tecnico-scientifico multidisciplinare che fornirà loro un know-how spendibile nelle aziende, nella ricerca o negli ambienti accademici in cui sono previste le infinite applicazioni sulla scienza legata al microbioma.

Sul tema esistono grandi progetti e iniziative dell’UE ed internazionali. Inoltre, diverse start-up innovative sono nate negli ultimi anni con interessi sul microbioma con particolare attenzione allo studio della salute degli esseri umani, degli animali e dell’ambiente e per la promozione dell’utilizzo delle risorse microbiche per scopi industriali e biotecnologici.

Le applicazioni degli studi sul microbioma nel prossimo decennio saranno fondamentali per la medicina, l’industria agro-alimentare, la produzione di biomateriali, il biorisanamento ambientale e la realizzazione di importanti infrastrutture di ricerca.

‘CRESCENDO’ rappresenta uno dei primi tentativi europei di attuare un programma di dottorato in Microbiome Science.

Il progetto beneficerà della partecipazione di 21 organizzazioni partner presso le quali i ricercatori si recheranno a svolgere alcune delle loro attività per potenziare le loro competenzeTra i partner alcune società internazionali che sono stakeholder della ricerca sul microbioma come Kraft-Heinz, Roche, Sanofi, Novamont ed eccellenti centri di ricerca, su tutti ’APC Microbiome e Teagasc’.

‘CRESCENDO’ prevede un cofinanziamento dell’Università ed è stato presentato dalla Task Force di Ateneo per gli Studi sul Microbioma (www.tfm.unina.it), un polo di competenze su innovazione, ricerca e sviluppo in questo campo che include 150 scienziati provenienti da 14 diversi Dipartimenti dell’Ateneo federiciano.

‘Il progetto rappresenta un’occasione importante – spiega Danilo ErcoliniResponsabile Scientifico della Task Force e Direttore del Dipartimento di Agraria della Federico II – che ci consentirà di integrare giovani studiosi di talento provenienti da altri paesi, consolidare il valore del nostro Ateneo nella ricerca scientifica e nella formazione nell’ambito degli studi sul Microbioma e contribuire al fondamentale processo di internazionalizzazione’.

‘CRESCENDO’ è uno dei 3 progetti italiani finanziati dall’azione Marie Sklodowska-Curie Cofund che distribuirà circa 100 milioni di euro in borse di studio di dottorato e post doc. Oltre a quello della Federico II, sono stati selezionati i progetti presentati dalle Università di Padova e di Genova.

 

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli.