Cambiamento climatico: il ritiro dei ghiacciai indebolisce le interazioni tra piante e impollinatori, la biodiversità, l’ecosistema
Con il ritiro dei ghiacciai le interazioni tra piante e impollinatori diventano più fragili, rischiando di rendere l’intero ecosistema più vulnerabile ai cambiamenti ambientali in atto e meno resiliente.
È il risultato della ricerca di un’equipe internazionale di scienziati coordinato dall’Università Statale di Milano, effettuata nell’area del ghiacciaio del Monte Miné nelle Alpi Svizzere e pubblicata su Ecography.
Milano, 12 novembre 2024 – I ghiacciai si stanno ritirando, questo ormai è noto. Ma che cosa succede alla terra una volta libera dal ghiaccio? Che tipo di nuovo ecosistema si viene a formare?
Per capire l’impatto del ritiro dei ghiacciai su biodiversità e funzionamento dei sistemi ecologici, un’équipe internazionale di scienziati dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con l’Università di Losanna, con l’Università Sapienza di Roma e con l’Università di Modena e Reggio Emilia, ha preso in esame le interazioni tra piante e impollinatori e ha scoperto che il ritiro dei ghiacciai mette a rischio la stabilità delle relazioni tra piante e impollinatori, fondamentali per la biodiversità.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Ecography è stato effettuato nell’area del ghiacciaio del Monte Miné nelle Alpi Svizzere, un luogo in cui i ghiacciai si sono costantemente ritirati a causa dell’aumento delle temperature globali.
Utilizzando una modellazione ecologica avanzata basata sulla teoria delle reti che analizza l’ecosistema sulla base delle interazioni tra molte specie diverse, i ricercatori hanno identificato i meccanismi chiave nell’evoluzione di queste interazioni su un arco temporale di 140 anni. È così emerso che le specie di piante in una prima fase formano connessioni altamente specializzate con i loro impollinatori, creano relazioni di mutua dipendenza e “mutua assistenza”. Ad esempio, piante pioniere come l’epilobio (Epilobium fleischeri) sono risultate avere relazioni forti e uniche con impollinatori specifici, assicurando il successo riproduttivo alla pianta e risorse alimentari agli impollinatori.
Tuttavia, con l’arretramento dei ghiacciai e l’aumento della colonizzazione da parte della foresta, hanno iniziato a dominare piante come il rododendro (Rhododendron ferrugineum), una pianta “super-generalista” che interagisce con una più ampia varietà di impollinatori, indebolendo la solidità della rete complessiva.
“Nelle prime fasi del ritiro del ghiacciaio, abbiamo riscontrato che molte specie vegetali formavano interazioni specializzate con gli impollinatori, creando una rete molto fitta e robusta. Ma con l’avanzare del ritiro e la maturazione dell’ecosistema, in particolare con l’arrivo della foresta e la scomparsa delle praterie, abbiamo assistito a uno spostamento verso specie più generaliste. Se da un lato queste specie generaliste possono adattarsi a una gamma più ampia di partner, dall’altro formano con loro connessioni più deboli, che potrebbero rendere l’intero ecosistema più vulnerabile ad ulteriori cambiamenti ambientali” spiega Gianalberto Losapio, ricercatore del Dipartimento di Bioscienze dell’Università Statale di Milano e coordinatore della ricerca.
Il team ha utilizzato un approccio interdisciplinare unico, concentrandosi sui “motivi di rete”, piccoli schemi di interazione all’interno di una rete più ampia. Si è visto così che con l’arretramento dei ghiacciai e il cambiamento degli ecosistemi, questi piccoli motivi passano dall’essere altamente connessi a diventare più frammentati, il che è un indicatore critico di ridotta resilienza.
“Questo studio è stato condotto sulla fronte di un ghiacciaio subalpino, ma il ritiro dei ghiacciai avviene in tutto il mondo. Per comprendere appieno gli impatti globali, abbiamo bisogno di studi simili in altre regioni” conclude Losapio.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.
L’elettronica ricavata dagli scarti della frutta nei laboratori della Libera Università di Bolzano: nuove strategie per il riciclo dei dispositivi
Anche l’elettronica diventa “circolare”, grazie a un progetto che nasce all’intersezione delle competenze di varie Facoltà della Libera Università di Bolzano. Nei laboratori dell’università al NOI Techpark è stata testata una nuova tecnologia sostenibile ed ecologica che utilizza la carta prodotta con gli scarti della frutta (mele, kiwi e uva) come substrato per dispositivi stampati flessibili. Alcune possibili applicazioni: come biosensori per il monitoraggio di funzioni corporee oppure nell’agricoltura di precisione.
Il continuo incremento dell’uso di dispositivi elettronici nelle società avanzate, assieme agli ovvi vantaggi, suscita preoccupazioni giustificate anche dal punto di vista ecologico e sociale, sa per quanto riguarda il reperimento dei materiali rari necessari a produrli, che per il loro corretto smaltimento e riciclo. Si pone quindi la necessità di ripensarne la produzione per renderla sostenibile e di riutilizzare i componenti tecnologici in un’ottica circolare.
L’équipe di ricerca del Sensing Technologies Lab, il laboratorio di nanotecnologie e sensoristica di unibz al NOI Techpark di Bolzano, diretta dai proff. Paolo Lugli e Luisa Petti, ha sviluppato assieme a partner interni e internazionali una nuova tecnologia che utilizza la carta realizzata a partire dagli scarti della frutta per produrre circuiti elettronici stampati. Lo spunto iniziale è venuto da un progetto interno di unibz tra i gruppi del prof. Lugli e del prof. Nitzan Cohen, preside della Facoltà di Design e Arti. Ad essi si sono aggiunti altri ricercatori e ricercatrici della Facoltà di Ingegneria (Prof. Niko Münzenrieder) e di quella di Scienze ambientali, agrarie e alimentari (Prof. Stefano Cesco, prof.ssa Tanja Mimmo e il ricercatore Andrea Polo) oltre che delle Università di Trento, Padova e del Sussex. Finanziamenti sono arrivati anche da un progetto bilaterale della Provincia Autonoma di Bolzano nell’ambito della cooperazione tra Sudtirolo e Svizzera, coordinato dal ricercatore Giuseppe Cantarella.
L’équipe transdisciplinare ha spiegato i test effettuati e i risultati ottenuti in laboratorio nell’articolo scientifico Laser-Induced, Green and Biocompatible Paper-Based Devices for Circular Electronics, pubblicato su una delle migliori riviste internazionali nel campo dei materiali innovativi “Advanced Functional Materials” (la cui copertina riporta un’immagine ispirata al progetto). Il testo descrive una tecnologia sostenibile e biocompatibile, a rifiuti zero.
L’innovazione? Nella produzione e nello smaltimento
Il processo produttivo prevede l’utilizzo della stampa laser per carbonizzare la superficie del substrato di cellulosa ricavata dai processi di lavorazione di mele, kiwi e uva. I substrati di carta sono realizzati con sottoprodotti della lavorazione di mele, uva e kiwi e rimpiazzano l’uso di polpa di legno vergine tipicamente usata per realizzare substrati di carta, riducendo così l’utilizzo di risorse naturali e privilegiando il riutilizzo di prodotti alimentari di scarto. Ottimizzando i parametri del laser, i ricercatori sono stati in grado di realizzare dispositivi elettronici come condensatori, biosensori ed elettrodi per il monitoraggio degli alimenti (es. per il controllo della maturazione della frutta) e per la misurazione della frequenza cardiaca e dell’attività respiratoria. La cellulosa a base di frutta e completamente priva di plastica si è rivelata sicura anche per l’uso sulla pelle umana. L’impiego di sostanze naturali permette infatti ai componenti elettronici di essere biocompatibili con i fibroblasti dermici umani, potenzialmente nei wearables e nei sistemi a contatto con la pelle.
L’uso di un substrato naturale consente di attuare due strategie per il riciclo dell’elettronica. Nella prima, i dispositivi possono dissolversi a temperatura ambiente in un arco 40 giorni senza rilasciare residui nocivi: i componenti elettronici a base di carta si dissolvono in succo di limone (acido citrico), una soluzione naturale molto diffusa e a basso costo. Nella seconda, vengono reintrodotti in natura come supporto per la crescita delle piante o per l’ammendamento del suolo. Grazie a queste sue caratteristiche, questa tecnologia elettronica a basso costo può trovare applicazione per applicazioni nel mercato alimentare, nella diagnostica medica e nell’agricoltura intelligente e nell’Internet delle cose, con un impatto nullo o addirittura positivo sull’ecosistema.
“Una tecnologia sostenibile e attenta ai consumi energetici per la fabbricazione di dispositivi elettronici richiede caratteristiche speciali come la lavorabilità su grandi superfici, un consumo energetico limitato e il basso costo di fabbricazione. La tecnica che abbiamo sperimentato è completamente sostenibile, verde e circolare perché utilizza substrati di carta ottenuti dalla lavorazione degli scarti della frutta e una tecnologia di stampa, basata sulla carbonizzazione creata per mezzo di un semplice laser. Potrebbe rappresentare un importante passo avanti per la commercializzazione dell’elettronica”,
spiega il prof. Paolo Lugli, rettore della Libera Università di Bolzano e responsabile del Sensing Technologies Lab.
Il ricercatore Giuseppe Cantarella, ex unibz trasferitosi recentemente alla Università di Modena e Reggio Emilia, primo autore dell’articolo, aggiunge:
“La sostenibilità è un argomento che tocca la nostra società e la nostra vita sotto diversi punti di vista. Anche nel mondo della ricerca, è necessario affrontare questa sfida globale, con nuove tecnologie che possano ridurre il loro impatto ambientale per salvaguardare il nostro pianeta e le risorse naturali a disposizione. I risultati del nostro studio dimostrano una nuova linea di ricerca, nella quale dispositivi elettronici possono essere sviluppati con una drastica riduzione dei rifiuti generati e con l’uso di nuove tecniche di fabbricazione a bassa emissione di carbonio. Auspico che il nostro sia il primo di una lunga serie di studi sullo sviluppo sostenibile di sistemi intelligenti e nuove tecnologie in ambito elettronico”.
Testo, video e foto dall’Ufficio Staff stampa e organizzazione eventi Libera Università di Bolzano – Freie Universität Bozen, sull’elettronica ricavata dagli scarti della frutta e nuove strategie per il riciclo dei dispositivi.
Materiali per la vita di Devis Bellucci, edito da Bollati Boringhieri, è un libro che ci parla di biomateriali, da un lato raccontandone la storia, dall’altra facendo un po’ il punto della situazione [Vai all’antefatto].
Non sono storie lontane anni luce da noi, ma ci raccontano scoperte di biomateriali che sono ormai parte della vita quotidiana. Ci raccontano di come siamo arrivati ad avere le lenti a contatto, i cristallini artificiali, le protesi dell’anca, l’amalgama dei denti, a usare acido ialuronico e collagene, ecc. Insomma, invenzioni delle quali ci auguriamo di non aver mai bisogno, ma che per molti di noi sono invece realtà (e per fortuna, perché l’alternativa sarebbe sicuramente peggiore).
È un libro che – plausibilmente – pare destinato a invecchiare bene, perché le storie raccontate non sono focalizzate tanto sulle ultimissime scoperte, quanto sul percorso che da decenni, quando non secoli, stiamo percorrendo. Certo, non c’è tantissimo spazio per l’archeologia, ma l’autore fa ben intendere che da sempre siamo sul cammino dell’invenzione dei biomateriali.
È un libro che parla di una scienza fatta di persone, di tanto studio e fatica, di abnegazione, di meccanismi economici non sempre facili, di errori e direzioni che si rivelano sbagliate, di colpi di fortuna, di finali tragici come di riconoscimenti meritati.
Le storie dei biomateriali sono spesso storie di gente dotata di una “buona dose di saggia irragionevolezza” (p. 69), grazie alla quale riescono a portare avanti dei principî nuovi, rivoluzionando il loro campo, nonostante la diffidenza circostante.
Questa diffidenza non appare però mai del tutto immotivata, e proprio nelle ultime pagine del libro, Devis Bellucci ci lascia con un finale tragico, quello dello scandalo STAP, che fa intendere come per cambiare una concezione sia sempre necessario portare solide prove a sostegno delle proprie tesi. Anche al di là di questo, come si diceva, la storia dei biomateriali non è sempre una storia di successi, ma appare costellata di fallimenti, di ciarlatani, di pratiche esecrabili.
Scopriremo anche le storie di alcuni italiani, nessuno dei quali otterrà i riconoscimenti che avrebbe meritato. Viste le premesse, non mi sono sorpreso.
Dall’altra parte, anche se finora abbiamo parlato soprattutto di storie, nel saggio di Devis Bellucci troviamo anche i principî, che permettono al lettore di avvicinarsi in maniera non del tutto passiva alla materia, ma lasciando la piacevole sensazione di iniziare a capire.
Scopriremo così come la chimica del carbonio dialoga chimicamente con la materia inorganica, scopriremo principî come quelli di biocompatibilità, di bioattività, di osteointegrazione, oltre che la differenza tra biomateriali di prima, seconda e terza generazione.
Tornando a quanto in antefatto, quello di Devis Bellucci è anche un libro che sostiene un rapporto sano con la scienza, piacevolmente equidistante dagli estremi, da eccessi che spesso avvelenano la discussione pubblica. Non troveremo quindi il “non ce lo dicono”, né “gli oscuri moventi di Big Pharma”, e neppure “la Scienza con la S maiuscola, che non sbaglia mai”.
Ringraziamo Devis Bellucci per aver risposto alle domande di ScientifiCult:
Episodi come quello dello scandalo STAP sarebbero ancora possibili oggi? E in Italia?
Certo che possono succedere, in Italia e ovunque. Come racconto più volte nel libro, la scienza è fatta, prima di tutto, di persone. Col loro vissuto e le loro aspirazioni. Il rischio di una frode, o comunque di comportamenti eticamente discutibili, va messo in conto.
In altri casi, invece, il ricercatore di turno sbaglia in buona fede, arrivando perfino a interpretare inconsciamente i risultati in funzione delle proprie aspettative, scartando quel che non gli torna ed esaltando i dati che confermano le sue idee.
Ma per fortuna, non si fa scienza da soli. C’è un’intera comunità di addetti ai lavori che vaglia le novità, cerca di riprodurre i risultati, discute, critica e corregge. Nel caso delle STAP, furono proprio gli esperti in materia a sollevare dubbi sulla solidità della scoperta, visto che quei risultati non erano riproducibili in altri laboratori. La magagna è venuta presto a galla e gli articoli sono stati ritirati.
Gli errori – frodi incluse – possono sfuggire sul momento, ma di solito non hanno vita lunga. E tanto più la scoperta è eclatante, quanto più la comunità scientifica si attiva per “fare le pulci” ai risultati pubblicati.
In queste settimane si parla sempre più insistentemente di interfacce che possano ampliare le possibilità umane. Pensa accetteremo mai una simile prospettiva, da un punto di vista culturale? I rischi e i vantaggi ai quali andremmo incontro sarebbero diversi da quelli che vediamo nei futuri distopici della fantascienza?
Penso che, come in ogni avventura dell’umanità, ci sarà spazio per tutto: qualcuno ambirà ad avere un corpo performante, in grado di correre veloce come il vento o, che so io, di vedere nell’infrarosso, e qualcuno si accontenterà di quel che madre natura ci ha donato, puntando sostanzialmente ad avere un corpo in buona salute e che mantenga le proprie funzionalità, nonostante l’invecchiamento, le malattie o eventuali incidenti di percorso che possono capitare.
Nel libro racconto il caso emblematico di Neil Harbisson, il primo ragazzo cyborg, in grado di percepire i colori in forma di suoni, anche quelli al di là delle possibilità della visione umana. Ha fatto bene a farsi impiantare in testa un’antenna per trasformare il mondo che ci circonda in una sinfonia? Non saprei. Mi auguro solo che possa spegnere l’impianto quando desidera il buio, cioè un po’ di silenzio.
Quali potrebbero essere le grandi scoperte in ambito biomateriali che ci aspettano nei prossimi decenni? Saranno inaspettate?
Riguardo all’inaspettato, quando fai ricerca è sempre lì che ti aspetta! A parte gli scherzi, sono tanti i campi di indagine da cui avremo – credo – delle belle sorprese. Impareremo sempre meglio a sfruttare i biomateriali per coadiuvare i processi autoriparativi dei nostri tessuti. Proprio al Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Modena e Reggio Emilia stiamo cercando di sviluppare degli speciali biovetri in polvere, con effetto antibatterico e cicatrizzante, per metterli su cerotti e garze da impiegare laddove una ferita fatichi a guarire.
Penso, ad esempio, alle piaghe da decubito o a quelle che affliggono i pazienti diabetici. Ancora, impareremo a sfruttare sempre meglio la stampa e la biostampa 3D, così da realizzare in laboratorio parti di ricambio per i nostri corpi, fatte su misura per ognuno di noi. Infatti, il punto di partenza sono le cellule del corpo del paziente, prelevate tramite biopsia. In questo modo, il tessuto e chissà, in futuro l’organo che andiamo a impiantare non verrà rigettato dall’organismo: spariranno quindi le lunghe lista di attesa per i trapianti e anche i farmaci anti-rigetto diventeranno solo un brutto ricordo.
Un altro ambito interessante è quello dei biomateriali per drug-delivery, ossia il rilascio controllato di farmaci. In questo caso, il biomateriale, ad esempio sottoforma di nanoparticelle, viene caricato con un farmaco, e funge da vettore per condurre la molecola direttamente al bersaglio, ad esempio una massa tumorale. In ultimo, c’è tutto quello che arriverà grazie all’impiego dell’elettronica. Personalmente, sono molto curioso e fiducioso.
Le ultime parole del libro mi hanno incuriosito. Riusciremo superare il limite di Hayflick, a raggiungere l’immortalità? Sarebbe poi auspicabile o no?
Il limite di Hayflick ci racconta che, in un certo senso, è scritto nella trama stessa della vita che essa debba esaurirsi e spegnersi. Non so se riusciremo a modificare questo straordinario racconto, di cui facciamo parte e che si svolge ogni giorno attorno a noi. A livello di impressione, mi sembra più probabile che impareremo a riparare sempre meglio i nostri corpi, fino a rigenerarne alcune parti, più che a renderli immortali.
Riprendendo una suggestione del libro, nella scienza oggi servirebbe più gente ragionevole o irragionevole?
Serve gente innamorata di quello che fa: stare continuamente in bilico ai confini, seminare con fiducia senza veder crescere nulla per molto tempo, sentire di far parte di un grande gioco di squadra di cui non conosci appieno né le regole, né gli avversari. E non nascondiamolo: sono necessari grandi sacrifici. Spesso non hai orari, la precarietà è all’ordine del giorno e la tua mente è sempre un pochino da un’altra parte. Ci vogliono quindi passione e amore. L’amore deve essere ragionevole o irragionevole per continuare ad ardere e rinnovarsi, nonostante tutto? Me lo dica lei…
Devis Bellucci
Devis Bellucci (Vignola, 1977) ha conseguito una laurea e un dottorato di ricerca in fisica all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, dove oggi è ricercatore in Scienza e Tecnologia dei Materiali presso il Dipartimento di Ingegneria “Enzo Ferrari”. Si occupa di materiali compositi per il settore automotive e di biomateriali per ortopedia, odontoiatria e ingegneria dei tessuti. Scrittore, giornalista e divulgatore scientifico, ha pubblicato: “Perché la forchetta non sa di niente? E altre domande curiose per capire la scienza senza uscire di casa” (Rizzoli); “Materiali per la vita. Le incredibili storie dei biomateriali che riparano il nostro corpo” (Bollati Boringhieri) e “Guida ai luoghi geniali. Le mete più curiose in Italia tra scienza, tecnologia e natura per piccoli e grandi esploratori” (Ediciclo).
Antefatto
Prima di incontrare l’autore del saggio Materiali per la vita, Devis Bellucci, mi stavo arrovellando su una questione. Nel tentativo di questa testata di comunicare gli avanzamenti scientifici (quindi, un fatto intrinsecamente positivo), notavo una risposta assai negativa dal pubblico.
Se si scopriva qualcosa a livello di astronomia, era uno spreco perché quei soldi era meglio spenderli per curare i tumori.
Se si raccontava un’iniziativa in ambito medico, si ipotizzavano chissà quali oscuri moventi.
Se si spiegavano gli avanzamenti nell’intelligenza artificiale, il pubblico si ribellava, ritenendola inutile e ipotizzando futuri distopici nei quali le macchine superano l’uomo, dimenticando completamente le attuali, ubique applicazioni dell’IA.
Non oso neppure accennare alle reazioni sul COVID-19.
La risposta mi era chiara, che non si può pretendere di avere una scienza “on demand”, ma che per raggiungere un obiettivo tanti piccoli passi intermedi sono necessari, che gli studi legati alle missioni spaziali hanno contributo alle nostre conoscenze in tante direzioni, ecc.
Sentivo però che non era una risposta di quelle che lasciano sazio l’interlocutore.
Arrivarono così i giorni del Food&Science Festival di Mantova e dell’intervento di Devis Bellucci, ricercatore in Scienza e Tecnologia dei Materiali, Università di Modena e Reggio Emilia. Il tema era quello dei materiali che incontrano il cibo, e rimasi piacevolmente colpito tanto dall’eloquio spigliato e acuto, come dalle storie raccontate.
Storie di scienza che spiegavano il mondo attorno, ma davano anche una risposta alle mie domande. Dai materiali utilizzati nello spazio che trovano applicazione sulla terra, a quelli scoperti decenni prima e ritenuti inutili, che diventano d’un tratto utilissimi nel contesto giusto.
È il concetto di serendipità (p. 88), che spesso trova applicazione in campo scientifico, e che in questo libro, oltre a mostrarsi con alcuni splendidi esempi, diventa anche un invito a non essere superficiali e a osservare con grande attenzione (p. 117).
Le storie raccontate in Materiali per la vita non mi sono parse troppo diverse da quelle dell’intervento, e pur nella forma scritta, conservano lo stesso spirito del racconto dal vivo, e così le pagine scorrono veloci [Torna all’inizio].
Un coccodrillo marino pasto indigesto del Giurassico
Un coccodrillo marino del Giurassico Superiore era un pasto indigesto per i grandi predatori, è quanto è emerso dallo studio del dott. Giovanni Serafini di Unimore e dal prof. Luca Giusberti dell’Università di Padova. I due geologi hanno studiato dei resti fossili presenti nel Museo di Geologia e Paleontologia dell’università patavina per scoprire che sono appartenuti ad un giovane esemplare di rettile marino che è stato rigurgitato 150 milioni di anni fa. Il reperto è il primo segnalato tra i suoi simili ed il terzo in una rigurgitalite in tutto il mondo.
Un nuovo studio guidato dalle Università di Modena-Reggio Emilia e Padova ha rivelato la natura sorprendente di un fossile proveniente dal Giurassico bellunese. Lo studio, a cura del Dr. Giovanni Serafini (Unimore) e del Prof. Luca Giusberti (UniPd) è frutto di una collaborazione con l’Università di Pavia, il National Museum of Scotland e l’Università di Yale. La scoperta è stata pubblicato su «Papers in Palaeontology» in un articolo dal titolo “Tough to digest: first record of Teleosauroidea (Thalattosuchia) in a regurgitalite from the Upper Jurassic of north-eastern Italy”.
Nel 1980 il geologo feltrino Danilo Giordano scoprì presso Ponte Serra, in provincia di Belluno, i resti scheletrici di un piccolo rettile teleosauroide (gruppo di animali marini prossimi ai coccodrilli) in una lastra di Rosso Ammonitico Veronese, formazione geologica celebre per l’attività estrattiva in Veneto. Nonostante il reperto fosse esposto da alcuni anni al Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Padova, questo aveva ricevuto poca attenzione fino al 2021.
Durante una revisione dei rettili marini del museo da parte degli autori, si è notato infatti che il reperto presenta diverse caratteristiche inusuali: le piccole vertebre, gli elementi del bacino e gli osteodermi (“scudi” ossei tipici dei coccodrillomorfi) dell’esemplare appaiono infatti raggruppati in un’unica massa e sono molto sovrapposti tra loro. Questa particolare conformazione è altamente improbabile che sia il risultato di processi fisici nell’ambiente in cui si è fossilizzato (un mare abbastanza profondo con un fondale non interessato da correnti) mentre invece è molto più plausibile con un’origine biologica: il reperto è infatti molto simile ad un pellet gastrico, ossia una massa di elementi scheletrici passati dal canale alimentare di un altro animale. Analisi geochimiche e microstrutturali condotte al microscopio elettronico su campioni di matrice e osso estratti dall’esemplare confermano questa ipotesi: il tessuto scheletrico si presenta microscopicamente corroso e il sedimento registra bassi livelli di fosforo persi dall’osso. Queste particolari caratteristiche indicano un attacco piuttosto rapido e limitato da parte degli acidi gastrici, aspetto che permette di identificare il reperto come una regurgitalite, una massa rigurgitata da un predatore o da uno spazzino.
Questo resto fossile rappresenta il primo teleosauroide rinvenuto in una regurgitalite. L’esemplare è stato ascritto agli Aeolodontinae (il primo in Italia), un gruppo di teleosauroidi particolarmente adattato alla vita in mare aperto tipico del Giurassico Superiore; la datazione del sedimento per mezzo dei microfossili ha confermato questa assunzione, collocando il reperto nel Giurassico Superiore, intorno ai 150 milioni di anni fa.
La testimonianza di Ponte Serra è quindi di grande interesse, in quanto documenta un’interazione trofica estremamente rara in ambiente marino. Il predatore che può essersi nutrito del piccolo teleosauroide per poi rigurgitarlo non è facilmente identificabile: può essere stato un pliosauro, un ittiosauro, uno squalo oppure un’altra categoria di “coccodrilli” marini tipica dei mari giurassici, i metriorinchidi.
“Apparentemente sembrerebbe un insignificante mucchietto di ossa fossili conservato da 40 anni al Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Padova, invece grazie al nostro studio ha svelato un “segreto” avvenuto nei mari giurassici di 150 milioni di anni fa. Il fossile è stato interpretato come regurgitalite – dice Luca Giusberti del Dipartimento di Geoscienze dell’Ateneo patavino –. Le ossa della vittima che costituiscono tale rigurgito appartengono ad un esemplare giovanile di Aeolodontinae, un coccodrillo marino particolarmente adattato alla vita in mare aperto, segnalato per la prima volta in Italia. Il reperto sarà prossimamente esposto nel Museo della Natura e dell’Uomo dell’Università di Padova di prossima apertura a Palazzo Cavalli”.
“Dalla prima analisi del fossile bellunese ci siamo presto resi conto che qualcosa non tornava nell’organizzazione degli elementi scheletrici: vertebre e scudi dermici erano raggruppati in un’unica massa, in modo del tutto diverso dai normali resti disarticolati in ambiente profondo. Abbiamo optato– afferma il dott. Giovanni Serafini Dipartimento di Scienze Chimiche e Geologiche di Unimore – quindi per una spiegazione biologica e ogni analisi successiva sembrava confermare la nostra ipotesi: il piccolo coccodrillomorfo era stato rigurgitato da un predatore.Inoltre la particolare ornamentazione degli scudi dermici ci ha permesso di attribuire il reperto alla sottofamiglia di teleosauroidi detta Aeolodontinae tipica del Giurassico Superiore (150 milioni di anni fa).Il reperto di Ponte Serra si è quindi dimostrato estremamente interessante, dal momento che rappresenta un’interazione predatore-preda in ambiente marino, estremamente rara nel record fossile. Di fatto questo piccolo rettile marino è solamente il terzo segnalato in una regurgitalite in tutto il mondo, e in assoluto il primo tra i suoi simili“.
Titolo: “Tough to digest: first record of Teleosauroidea (Thalattosuchia) in a regurgitalite from the Upper Jurassic of north-eastern Italy” – «Papers in Palaeontology» 2022
Autori: Giovanni Serafini, Caleb M. Gordon, Davide Foffa, Miriam Cobianchi, Luca Giusberti
Modena/Padova, 6 dicembre 2022
Testo e immagine dagli Uffici Stampa Unimore e Università di Padova.