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Università di Milano-Bicocca

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Dal 14 marzo al 12 maggio 2023
Università di Milano-Bicocca
Spazio espositivo della Biblioteca di Ateneo
Edificio U6 “Agorà” – 2° piano
Piazza dell’Ateneo Nuovo 1, Milano

Medici in guerra. Testimonianze del primo conflitto mondiale
dagli archivi storici dell’Università di Milano-Bicocca

Medici in guerra. Testimonianze del primo conflitto mondiale
In occasione del Venticinquesimo anniversario della nascita dell’Università di Milano-Bicocca, il Polo di Archivio Storico (PAST) della Biblioteca di Ateneo e il Centro Aspi – Archivio storico della psicologia italiana mettono in mostra – in un percorso articolato in 10 sezioni – fotografie, oggetti e documenti conservati nei propri archivi.
Si tratta di materiali appartenuti a medici, neurologi, psichiatri e psicologi italiani che parteciparono in gioventù al primo conflitto mondiale, alcuni ancora studenti in medicina, altri appena laureati, altri ancora già avviati alla professione. Una tragica esperienza che influenzò le loro vite, lasciando un segno anche nei loro percorsi professionali.
Gli scatti fotografici, i diari, le corrispondenze, gli opuscoli, i cimeli, le onorificenze di questi ufficiali medici aprono una finestra sull’esperienza bellica, mostrandoci i suoi mutevoli volti e le sue tragiche ricadute sulla vita dei soldati e dei civili.
La mostra sui “Medici in guerra”, è curata da Barbara Bracco, docente di Storia Contemporanea presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano-Bicocca e da Dario De Santis, storico della scienza presso il Centro di ricerca Aspi – Archivio Storico della Psicologia Italiana dell’Università di Milano-Bicocca.
L’inaugurazione della mostra si terrà martedì 14 marzo alle ore 15, presso la sede centrale della Biblioteca di Ateneo (Edificio U6 “Agorà”, piazza dell’Ateneo Nuovo 1, Milano). Sarà l’occasione per parlarne con i due curatori, Barbara Bracco e Dario De Santis, e con Carlo Stiaccini, docente di Storia contemporanea dell’Università di Genova. Per tutti i dettagli, questo è il sito di riferimento.
Sarà possibile visitare la mostra presso la sede centrale della Biblioteca di Ateneo dal 14 marzo al 12 maggio 2023 nei seguenti giorni e orari:
  • dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 21:30
  • il sabato dalle 9.00 alle 13.30

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca

INAUGURATO QUBIC: UN MODO NUOVO DI STUDIARE L’UNIVERSO PRIMORDIALE

 
Oggi, mercoledì 23 novembre, viene ufficialmente inaugurato in Argentina il telescopio QUBIC (Q-U Bolometric Interferometer for Cosmology), uno strumento innovativo che osserverà il fondo cosmico a microonde, l’eco residua del Big Bang, da un sito desertico di alta quota (5000 m) sulle Ande argentine, vicino alla località San Antonio de Los Cobres.
Alla cerimonia, che prevede una visita al telescopio, partecipano i rappresentanti degli Istituti finanziatori del progetto e del team scientifico internazionale.

Il progetto vede l’Italia protagonista grazie ai contributi scientifici e tecnologici forniti dall’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) e dalle Università degli Studi di Milano, Università di Milano-Bicocca, Università di Roma “Tor Vergata” e Sapienza Università di Roma.

QUBIC si concentrerà sulla misura del segnale causato dall’interazione delle onde gravitazionali primordiali con la radiazione elettromagnetica che permea l’universo.
Dopo il suo sviluppo e l’integrazione avvenuta presso i laboratori europei delle Università e degli enti di ricerca coinvolti nella collaborazione, QUBIC è arrivato in Argentina, nella città di Salta, nel luglio 2021, dove è stato calibrato e testato in laboratorio.
Inaugurato QUBIC
I risultati di queste attività sono riportati in otto articoli apparsi sul “Journal of Cosmology and Astroparticle Physics” ad aprile di quest’anno e hanno confermato il corretto funzionamento dello strumento e dell’interferometria bolometrica, ossia la tecnica di nuova concezione su cui si baseranno le osservazioni di QUBIC, che combina l’elevatissima sensibilità dei rivelatori bolometrici raffreddati quasi allo zero assoluto (-273 °C) con la precisione degli strumenti interferometrici.
L’obiettivo di osservare i debolissimi effetti di polarizzazione nelle microonde originatesi nelle primissime fasi dell’espansione dell’universo dopo il Big Bang, ovvero la direzione in cui il campo elettricomagnetico a esse associato oscilla mentre si propaga, ha reso necessario sviluppare e realizzare uno strumento complesso e unico nel suo genere. Oggi QUBIC rappresenta infatti una risorsa unica nel panorama mondiale delle misure sull’universo primordiale.

“Non c’è altro modo di investigare sperimentalmente con esperimenti a terra quei fenomeni che si pensa siano avvenuti durante la cosiddetta ‘inflazione cosmica’, quando l’energia in gioco era spaventosamente grande. QUBIC è quindi importante sia per la cosmologia sia per la fisica fondamentale”, spiega Silvia Masi, docente presso Sapienza Università di Roma e ricercatrice INFN, che coordina la partecipazione italiana all’esperimento.

“QUBIC – aggiunge Oliviero Cremonesi, presidente della Commissione Scientifica Nazionale per le ricerche di Fisica Astroparticelare dell’INFN – mira a misurare la polarizzazione del fondo cosmico a microonde con una possibilità unica di individuare i segni lasciati dalle onde gravitazionali liberate nei primi istanti di vita dell’universo”.
L’efficacia di QUBIC e del metodo di misura impiegato per studiare l’universo primordiale sono state verificate dalla collaborazione nel corso del lungo periodo compreso tra i primi test condotti in laboratorio, a Parigi, e l’arrivo dello strumento in Argentina, nel laboratorio di Salta, dove sono state effettuate le prime osservazioni del cielo. L’installazione dell’esperimento a San Antonio de Los Cobres, avvenuta durante il mese di ottobre, sancisce quindi un successo che giunge al termine un periodo di lunga preparazione e che consentirà, grazie alla straordinaria trasparenza e stabilità dell’atmosfera del sito di osservazione, di iniziare misure ultrasensibili.
“Il team responsabile dell’installazione di QUBIC, al quale ha partecipato anche Francesco Cavaliere, responsabile dell’officina della Statale di Milano, ha svolto un lavoro eccellente in pochissimo tempo, in condizioni particolarmente impegnative a causa dell’altitudine e del forte vento in quota. Le prime misure dimostreranno ‘sul campo’ l’efficacia dell’interferometria bolometrica osservando sorgenti astronomiche. Approssimativamente fra un anno, lo strumento verrà inoltre reso ancora più competitivo, aumentando il numero di antenne e rivelatori, in modo da poter eseguire le misure di interesse cosmologico entro tre anni”, illustra Aniello Mennella, docente all’Università Statale di Milano e ricercatore INFN.
“La misura di un segnale così debole – specifica Mario Zannoni, docente all’Università di Milano-Bicocca e ricercatore INFN – verrà ritenuta esente da errori sistematici solo se si avranno risultati consistenti provenienti da strumenti molto diversi. Proprio per questo motivo QUBIC, unico interferometro bolometrico, rappresenta una risorsa insostituibile nello studio dei primi attimi di vita dell’universo”.
“Grazie alle capacità multispettrali e di autocalibrazione, QUBIC produrrà dati del tutto originali e complementari a quelli degli altri esperimenti, offrendo ai ricercatori innumerevoli possibilità di controllo incrociato e quindi una robustezza senza pari dei risultati”, conclude Giancarlo De Gasperis, ricercatore presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Roma “Tor Vergata” e INFN.
QUBIC è il risultato della collaborazione di 130 ricercatori, ingegneri e tecnici in Francia, Italia, Argentina, Irlanda e Regno Unito. Lo strumento è stato integrato a Parigi presso i laboratori APC nel 2018 e calibrato durante il 2019-2021.
Il contributo italiano è stato fondamentale per lo sviluppo dello strumento, e continuerà ad esserlo nelle fasi successive dell’esperimento. Lo strumento è ospitato in un criostato, realizzato nei laboratori della Sapienza e della Sezione di Roma dell’INFN, capace di raffreddare vicino allo zero assoluto non solo i rivelatori, ma anche tutto il sistema ottico dell’interferometro. Lo stesso gruppo ha realizzato anche il sistema crio-meccanico che permette di misurare lo stato di polarizzazione della radiazione. Italiane sono anche altre componenti criogeniche, che lavorano a una temperatura inferiore a -270 °C, come le avanzatissime antenne corrugate che raccolgono la radiazione dal cielo, realizzate nei laboratori dell’Università e della Sezione INFN di Milano Statale, mentre le ottiche che la focalizzano sui rivelatori e il sistema di otturatori che permette di variare la configurazione dell’interferometro e di autocalibrarlo sono realizzate dall’Università e dalla Sezione INFN di Milano Bicocca.
“L’inizio della presa dati di QUBIC è un segno tangibile dell’interesse dell’INFN per le ricerche sulla radiazione cosmica di fondo ed è stato reso possibile anche grazie a un significativo contributo dell’INFN”, conclude Marco Pallavicini, membro della Giunta Esecutiva dell’INFN.
Inaugurato QUBIC
Inaugurato QUBIC: un modo nuovo di studiare l’universo primordiale
RIFERIMENTI
● Pagina web di QUBIC: http://qubic.in2p3.fr/wordpress/
● Numero speciale di JCAP (Journal of Cosmology and Astroparticle Physics):
https://iopscience.iop.org/journal/1475-7516/page/Special%20Issues
Articoli correlati:
https://scientificult.it/2022/04/21/qubic-un-modo-nuovo-di-studiare-luniverso-primordiale/
Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

L’enzima che elimina monossido di carbonio dall’aria, scoperto il segreto del suo funzionamento

Alcuni batteri che si nascondono nel suolo potrebbero essere dei validi alleati nella lotta al cambiamento climatico. Lo studio condotto dall’Università di Milano-Bicocca in collaborazione con altri atenei europei
inquinamento enzima monossido di carbonio
Foto di Steve Buissinne
Milano, 9 giugno 2022 – Scoperto il meccanismo che consente agli enzimi presenti nel suolo in alcuni batteri di eliminare monossido di carbonio (CO) dall’atmosfera. Lo studio condotto dai ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca in collaborazione con i colleghi dell’Università della Calabria e dell’Università di Lund, in Svezia, ha consentito di comprendere nel dettaglio in che modo questi enzimi trasformino il CO in biossido di carbonio (CO2). Un risultato che apre nuove prospettive per quanto riguarda la mitigazione delle emissioni di monossido di carbonio, con effetti benefici sia sulla qualità dell’aria che sul clima dato che questo gas, altamente tossico, contribuisce ad aumentare l’effetto serra.

 

Negli ultimi vent’anni, diversi studi sperimentali e teorici sono stati dedicati alla comprensione del processo di ossidazione del CO da parte di un particolare enzima contenente molibdeno e rame, chiamato MoCu CO deidrogenasi. I meccanismi fin qui ipotizzati, tuttavia, riportavano alcune difficoltà nell’evoluzione del prodotto. Grazie all’esperienza maturata in precedenti attività di studio del sistema mediante modelli computazionali, il gruppo di ricercatori formato dal professor Claudio Greco, vicedirettore del Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra, dal professor Ugo Consentino e dalla ricercatrice Anna Rovaletti dello stesso Dipartimento, dal professor Giorgio Moro del Dipartimento di Biotecnologie e Bioscienze, nonché dalla professoressa Emilia Sicilia e dalla dottoressa Alessandra Gilda Ritacca del Dipartimento di Chimica e Tecnologie Chimiche dell’Università della Calabria e dal professor Ulf Ryde del Dipartimento di Chimica Teorica dell’Università della Lund University, è riuscito a riprodurre per la prima volta un meccanismo di reazione che concorda con i dati sperimentali riportati ad oggi. In particolare, è stato spiegato in che modo l’enzima MoCu CO deidrogenasi trasferisce dall’acqua un atomo di ossigeno trasformando il monossido in biossido di carbonio. La CO2 prodotta viene utilizzata dagli stessi batteri e, quindi, non viene rilasciata nell’atmosfera.

 

Lo studio, dal titolo “Unraveling the Reaction Mechanism of Mo/Cu CO Dehydrogenase Using QM/MM Calculations” è stato pubblicato su ACS Catalysis (DOI: 10.1021/acscatal.2c01408)

 «L’atmosfera contiene, in piccole proporzioni, vari gas dovuti sia a fonti naturali che a emissioni antropiche, come ad esempio proprio il CO – spiega il professor Greco –. Gli enzimi in grado di trasformare CO in CO2 sono presenti in diversi microrganismi del suolo e riescono a “consumare” circa il 15% del monossido di carbonio dell’atmosfera. La scoperta di dettagli fondamentali del funzionamento di questi enzimi segna il passaggio verso la possibilità di progettare composti che funzionano nello stesso modo e che potrebbero essere impiegati sia in sensori di nuova generazione per la rilevazione del CO sia per la riduzione delle emissioni di questo gas in processi industriali».

 

Testo dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca

Adolescenti sempre connessi: ai ragazzi i consigli dei loro coetanei per il benessere digitale
Dalle esperienze sul campo e da un confronto tra studenti e ricercatori, all’Università di Milano-Bicocca nasce un decalogo per genitori e figli

Milano, 6 maggio 2022 – Gestire il tempo trascorso sui social, disconnettersi per riconnettersi con la realtà, non usare lo smartphone prima di andare a letto, fare attenzione alle regole della privacy delle App: sono i ragazzi ad indicare poche e semplici regole ai loro coetanei per evitare di essere travolti dalle insidie reali che si nascondono nella connessione continua con il mondo virtuale. Il decalogo è stato messo a punto al termine della tavola rotonda cui hanno preso parte studenti delle scuole superiori e universitari, esperti, docenti e ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca e rappresentanti delle istituzioni locali. Il momento di confronto ha chiuso il convegno “Il benessere digitale tra gli adolescenti: dalla teoria alle buone pratiche“, organizzato dall’Università in collaborazione con l’Associazione Psyché Onlus, in vista della Giornata internazionale del digital wellness che ricorre oggi.
Nel corso dei lavori sono stati presentati i risultati di progetti di ricerca, attività di laboratorio ed esperienze pratiche sul tema del benessere digitale. Fondamentale il contributo degli stessi ragazzi: gli studenti dell’Istituto professionale di Stato “Cavalieri” di Milano hanno preso parte ad esperienze di disconnessione, quelli dell’Istituto Europeo di Design hanno realizzato spot sul corretto uso della rete, dando sfogo ad ironia e creatività per catturare l’attenzione dei loro coetanei.
Tutto ha contribuito a far emergere aspetti problematici come la gestione del tempo e dell’attenzione, l’alterazione del ciclo sonno-veglia e la limitazione dei contenuti tra cui scegliere dovuta all’invadenza degli algoritmi. E, partendo da questo, è stato possibile definire le indicazioni pratiche per i ragazzi. Si parte con l’avvertenza di usare motori di ricerca che non registrano i dati di navigazione per evitare che gli algoritmi offrano suggerimenti uniformati sulla base dei gusti dell’utente. Si consiglia, poi, di essere se stessi, senza inseguire quanto proposto da profili irrealistici e di dare priorità all’osservazione del mondo che si ha intorno per fare nuove esperienze e socializzare con più facilità.
Il testo non contiene divieti, ma un “no” deciso viene detto al multitasking che abitua a passare rapidamente da un’attività all’altra, facendo assumere un comportamento che diviene un’abitudine anche nella vita quotidiana
L’ultimo punto del decalogo è riservato ai genitori, invitati ad avere un atteggiamento dialogante con i figli per scoprire con loro le potenzialità della Rete e, nel contempo, guidarli ad un uso prudente delle sue risorse.

 

«Il nostro convegno credo sia stato un bell’esempio di come sia possibile creare un confronto proficuo tra realtà apparentemente distanti come quelle dell’Università, del mondo no profit e della scuola. Abbiamo ascoltato la voce di psicologi, psicoterapeuti, sociologi, ingegneri, insegnanti, ma il contributo più efficace – rimarca Chiara Ripamonti, ricercatrice di Psicologia clinica dell’Università di Milano-Bicocca – è stato, a mio parere, quello degli studenti di scuola superiore che hanno raccontato le loro esperienze di disconnessione. A Milano hanno dovuto orientarsi nello spazio senza l’uso di Google map e raccogliere informazioni su un quartiere intervistando le persone per strada. Inoltre, si sono disconnessi per 20 ore consecutive in un rifugio montano. Al convegno ci hanno trasmesso il loro entusiasmo e la loro sorpresa nell’avere scoperto che senza il telefonino ci si può ugualmente divertire, si possono fare nuove conoscenze e, soprattutto, si può stare bene insieme».
Adolescenti sempre connessi
Adolescenti sempre connessi. Foto StartupStockPhotos
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca sugli adolescenti sempre connessi.

L’urbanizzazione e le api. Uno studio sull’area metropolitana di Milano

La ricerca del dipartimento di Biotecnologie e Bioscienze dell’Università di Milano-Bicocca, pubblicata sul Journal of Applied Ecology, indica come la maggiore o minore cementificazione incida sugli impollinatori e sull’ecosistema di impollinazione
urbanizzazione api Milano
L’urbanizzazione e le api. Uno studio sull’area metropolitana di Milano

 

Milano, 5 maggio 2022 – L’urbanizzazione del paesaggio e del clima influisce sulla presenza di impollinatori e sull’entità di nettare e polline da essi trasportato. Così, le città e i dintorni diventano laboratori di transizioni ambientali in grado di restituire informazioni sul servizio ecosistemico di impollinazione di una data area utili per la pianificazione e gestione di paesaggi urbani più attenti all’ambiente.
Sono i temi al centro di uno studio di un gruppo di ricerca del dipartimento di Biotecnologie e Bioscienze dell’Università di Milano-Bicocca, dal titolo “City climate and landscape structure shape pollinators, nectar and transported pollen along a gradient of urbanization”, appena pubblicato sul ”Journal of Applied Ecology“ (DOI: 10.1111/1365-2664.14168). La ricerca, col supporto di Regione Lombardia nell’ambito del progetto “Pignoletto”, dimostra che «la variazione della cementificazione del paesaggio in una regione – come spiega Paolo Biella, ricercatore di Ecologia dell’ateneo milanese – crea un gradiente di trasformazione del paesaggio dovuto all’urbanizzazione».
Paolo Biella
Paolo Biella
Gli scienziati di Milano-Bicocca si sono focalizzati sull’effetto dell’urbanizzazione del paesaggio e del clima su due gruppi di impollinatori (api selvatiche e sirfidi), sulle risorse floreali a loro disposizione (il nettare utilizzato per l’alimentazione) e anche sul polline trasportato sui loro corpi che serve per impollinare le piante.
«Lo abbiamo fatto in un insieme di 40 siti collocati principalmente nella città metropolitana di Milano, da aree seminaturali a basso impatto ad aree con diversi livelli di edificato». Con campionamenti svolti da maggio a luglio del 2019.
Gli effetti dell’urbanizzazione sono risultati in generale negativi per la presenza di impollinatori. «Le aree suburbane erano le più ricche – spiega Biella –: le abbondanze di impollinatori hanno raggiunto il picco quando il paesaggio era occupato dal 22 per cento di superfici cementate, con la rilevazione di oltre 100 individui in 24 ore, e sono poi diminuite con la crescente urbanizzazione. Inoltre, la presenza era influenzata dalla distanza tra le aree verdi e dall’ampiezza del parco urbano: più erano distanti le aree o più era grande il parco, meno erano le api selvatiche e i sirfidi rilevati».
urbanizzazione api Milano
Bombus argillaceus (foto di Paolo Biella)
Siti particolarmente ricchi di impollinatori si sono rivelati, nella cintura periurbana di Milano, Cesano Boscone, Cuggiono, San Bovio e Vimodrone. Nella città di Milano, invece, siti particolarmente friendly per api e sirfidi sono risultati il parco Nord, il parco Segantini e la Collina dei Ciliegi, in zona Bicocca.
I tre ambienti principali che sono stati campionati: superfici di parchi urbani circondati da abitati
A influire negativamente sulla minore presenza di impollinatori non è stata solo la mancanza di verde e di risorse floreali, ma anche il clima locale.
«Gli impollinatori sono diminuiti nelle aree più urbane – prosegue il ricercatore – che hanno infatti minime variazioni di temperatura tra la primavera e l’estate, che si mantiene alta più a lungo rispetto a aree semiurbane o agricole».
I tre ambienti principali che sono stati campionati: margini di campi agricoli con varie superfici impervie nelle vicinanze
Altro aspetto rilevato: il nettare disponibile – la massa zuccherina di cui si nutrono gli impollinatori quando si posano sui fiori – aumentava proporzionalmente alla copertura cementata e anche alle precipitazioni.

«I nettari delle città erano meno consumati dagli impollinatori, meno presenti, e le piante erano più produttive, forse avvantaggiate dalle più copiose precipitazioni».

Infine, l’urbanizzazione incide anche sul servizio ecosistemico di impollinazione. «Nel polline trasportato dagli impollinatori abbiamo trovato progressivamente meno specie di piante al crescere delle aree cementificate e il polline di città conteneva un’elevata incidenza di piante esotiche e ornamentali, suggerendo comunità vegetali molto antropizzate», aggiunge Biella. Arbusti come la deutzia, la rosa ornamentale, il filadelfo e fiori come le campanule, l’arnica, il nasturzio e il garofano.
I tre ambienti principali che sono stati campionati: prati seminaturali in prossimità di boschi (1 km) con poca urbanizzazione nelle vicinanze
Ora l’equipe di ricercatori del dipartimento di Biotecnologie e Bioscienze sta portando avanti altri campionamenti.
«Le città e i dintorni offrono una grande opportunità per capire come piante e impollinatori reagiscono alle transizioni ambientali. Questi due gruppi di esseri viventi sono la chiave di molti processi direttamente e indirettamente connessi con le società umane e con il funzionamento della natura», conclude Biella.
File per approfondire (pdf): Rilevamenti – I sitiRilevamenti – La mappa
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca

“Climada”, il clima degli ultimi 1000 anni svelato dai ghiacci dell’Adamello

È cominciata la fase di studio dei 224 metri di ghiaccio estratti nel 2021, per ricostruire le condizioni climatiche ed ambientali della parte centrale delle Alpi e monitorare il movimento del ghiacciaio.

 

ClimAda
“Climada”, il clima degli ultimi 1000 anni svelato dai ghiacci dell’Adamello

 

Milano, 28 aprile 2022 – Parte ClimADA, seconda fase del progetto che nell’aprile 2021 ha permesso l’estrazione di 224 metri di ghiacci dal Ghiacciaio dell’Adamello, grazie ad un’operazione mai riuscita prima nell’intero arco alpino. Nei laboratori dell’EuroCOLD della Bicocca è iniziata, infatti, la serie di analisi finalizzate a ricostruire le condizioni climatiche ed ambientali della parte centrale delle Alpi, che permetterà di andare indietro di 1000 anni circa.
All’indomani del sopralluogo sul Ghiacciaio per verificare lo stato della fibra e della raccolta dati, Fabrizio Piccarolo, Direttore di Fondazione Lombardia per l’Ambiente, annuncia questa nuova fase dell’attività che vede partner pubblici e privati raccolti attorno all’obiettivo di studiare il ghiacciaio per capire i cambiamenti climatici sull’arco alpino e sui territori circostanti.
«Sono particolarmente grato a Fondazione Cariplo – sottolinea Piccarolo – e a Regione Lombardia che insieme all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Politecnico di Milano, Università di Brescia e Comunità Montana di Valle Camonica-Parco dell’Adamello, e con il supporto attivo di Edison e Bayer, ci dà modo di entrare nella seconda fase del progetto iniziato nel 2021 con l’estrazione dei 224 metri di ghiaccio dall’Adamello».

Mentre il ghiaccio estratto è custodito presso l’EuroCOLD Lab di Milano-Bicocca (che arriva a -50°C di temperatura e che, insieme a due “camere bianche” a bassissimi livelli di contaminazione, permette di simulare le condizioni presenti in alta montagna e nelle regioni polari), è proseguita la raccolta di dati provenienti dalla fibra ottica installata lungo la verticale di estrazione del ghiaccio: dalla loro posa si misurano spostamento e temperatura lungo tutta la verticale di sondaggio, dando informazioni preziose per comprendere come si muove il ghiacciaio dell’Adamello e quale sarà il suo futuro.
«Investire sullo studio dei cambiamenti climatici significa investire sul futuro del nostro ecosistema e su tutti gli aspetti ad esso collegati: vivibilità dei territori, salute delle persone, economia locale – spiega Giovanni Fosti, Presidente di Fondazione Cariplo. Per questo Fondazione Cariplo continua a sostenere il progetto ClimADA: grazie a questa seconda fase di ricerca sarà possibile avere nuovi elementi per capire quale è stato l’impatto dell’uomo sull’ambiente e quali sono le misure per ridurlo».

Insieme a Regione Lombardia per studiare il cambiamento climatico
«Regione Lombardia ha voluto sostenere fin dall’inizio questo progetto scientifico che è in linea con la politica ambientale del governo regionale – commenta Raffaele Cattaneo, assessore all’Ambiente e Clima di Regione Lombardia. I 224 metri di ghiaccio estratti e studiati permetteranno di leggere la storia del ghiacciaio e dei cambiamenti climatici, così come la fibra ottica sta fornendo informazioni preziose. Un risultato per la nostra Regione, per l’ambiente e per gli studi sulle evoluzioni dei ghiacciai.
Questo ci fa proseguire convintamente, attraverso la Fondazione, nel sostenere questo progetto con un importante stanziamento per i prossimi due anni, a favore dell’attività di ricerca per la ricostruzione climatica e ambientale dell’area dell’Adamello. A conferma della necessità di un lavoro continuo, che Regione Lombardia sta portando avanti sui temi ambientali, sul cambiamento climatico, sullo studio della biodiversità. Sempre in un’ottica di sviluppo sostenibile, guardando al futuro e alle tecnologie innovative».
ClimAda
La segmentazione della carota di ghiaccio
«Ora – spiega Valter Maggi, responsabile dell’EuroCOLD Lab, dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra – stiamo definendo un piano di taglio della “carota”. Saranno campionate sezioni di ghiaccio destinate alle misure degli isotopi stabili, necessarie per ricostruire l’origine delle masse d’aria che provocano le precipitazioni nevose sull’Adamello. In parallelo verranno effettuati campionamenti per le misure delle polveri fini atmosferiche, dei pollini e dei macroresti vegetali e per le misure dei black carbons di origine antropica. Sono previste anche datazioni di differente tipo (come radiocarbonio e Argon) necessarie per meglio capire la sequenza temporale degli eventi».

ClimAda

I 4 periodi analizzati, fino a 1000 anni di storia
Queste misurazioni sono fondamentali per comprendere l’evoluzione del Ghiacciaio dell’Adamello negli ultimi secoli, ricostruire le condizioni climatiche ed ambientali che si sono succedute fino ad ora, e fornire dati per gli scenari futuri sia sul ghiacciaio stesso che nelle Alpi centrali. In particolare la ricostruzione degli eventi climatici ed ambientali si concentrerà su 4 periodi specifici:
  • il periodo industriale
  • la Prima Guerra Mondiale, combattuta in modo molto cruento sull’Adamello, rappresenta un periodo di particolare importanza per valutare l’impatto delle situazioni belliche in aree montane;
  • la parte della Piccola Età Glaciale, del periodo pre-industriale;
  • la parte basale della carota (indicativamente gli ultimi 30 metri di carota) consentiranno infine di comprendere l’evoluzione climatico-ambientale di un periodo stimato intorno a 1000 anni dal presente.

 

Il movimento del Ghiacciaio seguito dalla fibra ottica
L’inserimento di 4 cavi in fibra ottica all’interno della perforazione – progettato ed eseguito dal team del prof. Mario Martinelli del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria del Politecnico di Milano – ha permesso di monitorare l’evoluzione temporale del profilo termico e deformativo del ghiacciaio lungo la verticale fino alla profondità di 225 metri, con un elevato dettaglio spaziale. «Un sistema di monitoraggio di questo tipo – spiega Martinelli – non è mai stato applicato a un ghiacciaio alpino prima d’ora e potrà fornire anche in futuro preziosissime informazioni, che saranno utili a geologi e glaciologi per prevedere la futura evoluzione del più grande e profondo ghiacciaio d’Italia. Le misure del sensore a fibra ottica saranno successivamente integrate da dati satellitari, per seguire anche lo spostamento superficiale del ghiacciaio. L’integrazione di questi dati permetterà di stimare i parametri del modello termofluidodinamico (messo a punto dal prof. Ranzi e dalla prof.sa Grossi dell’Università di Brescia) e quindi di ottenere una descrizione più affidabile del ghiacciaio, simulandone il comportamento».

 

«Dalle valutazioni preliminari condotte dal team dell’Università di Brescia – ricorda Roberto Ranzi, professore di Costruzioni idrauliche e di Monitoraggio e sistemazione dei bacini idrografici in questo ateneo –  era risultato che difficilmente  il Ghiacciaio dell’Adamello sopravviverà  fino alla fine del secolo. Le misure effettuate nel progetto ClimADA potranno ridurre le incertezze delle nostre stime e gettare maggior luce sugli impatti del riscaldamento globale sulla criosfera e il regime dei deflussi nei bacini alpini glacializzati».

 

Una conoscenza diffusa sul territorio e nelle scuole

 

«Il ghiacciaio porta dentro di sé e restituisce eventi ed elementi preziosi per ricostruire la storia dei secoli trascorsi – osserva Alessandro Bonomelli, Presidente della Comunità Montana di Valle Camonica-Parco dell’Adamello. Nella lettura delle pagine ghiacciate del passato cerchiamo interpretazioni del presente e soluzioni efficaci per garantire un futuro al Pianeta e all’Umanità: da qui vengono gli obiettivi delle azioni progettuali in capo alla Comunità Montana di Valle Camonica-Parco dell’Adamello: informare e sensibilizzare i cittadini – con particolare riferimento ai bambini e ai ragazzi – sulle conseguenze che le nostre azioni e scelte quotidiane determinano sull’ambiente che ci ospita e ci dà la vita».

 

«Rinnoviamo con piacere il nostro impegno nella prosecuzione del progetto ClimADA, in coerenza con la nostra politica di sostenibilità che tra i suoi cardini ha la lotta al cambiamento climatico e la salvaguardia degli ecosistemi – dichiara Marco Stangalino, Vice Presidente Esecutivo Power Asset di Edison. Anche quest’anno, grazie alla collaborazione con i partner di progetto, consolidiamo la collaborazione con le scuole delle valli che ospitano i nostri impianti di energia rinnovabile, rendendo protagonisti gli stessi studenti, che avranno la possibilità di analizzare le “carote” estratte sull’Adamello».

 

«Come azienda che opera nel settore delle Life Sciences, abbiamo manifestato fin da subito il nostro interesse a supportare questo progetto. Contribuire allo sviluppo sostenibile, alla crescita inclusiva e alla consapevolezza di istituzioni e cittadini sul cambiamento climatico è un elemento centrale della nostra strategia aziendale. Il progetto ClimADA sposa perfettamente la nostra visione e l’attenzione che riserviamo verso attività concrete locali che si prestano a trovare soluzioni per la protezione dell’ambiente» – commenta Fabio Minoli, Direttore della Comunicazione, Relazioni Esterne e Sostenibilità di Bayer Italia.

 

«Comprendere: una semplice parola ma con un’importante densità etimologica» – sottolinea Oliviero Valzelli, Presidente del Consorzio Servizi Valle Camonica, spiegando come «comprendere quale sia lo stato di salute del nostro pianeta partendo dallo studio del clima grazie ai ghiacciai è un’azione ardua ma importantissima. Proprio sul tema della sostenibilità il Gruppo Valle Camonica Servizi dimostra la massima attenzione nei progetti che sta attuando a favore degli abitanti della Valle Camonica e in particolare per i giovani. Se tutti comprendiamo l’importanza dell’interconnessione tra l’uomo e le condizioni climatiche, le giuste azioni sono più fattibili, perché ricche di significato».
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca

QUBIC, un modo nuovo di studiare l’universo primordiale

Escono oggi, giovedì 21 aprile, su un numero speciale della rivista “Journal of Cosmology and Astroparticle Physics”, otto articoli a firma della collaborazione internazionale QUBIC (Q&U Bolometric Interferometer for Cosmology), che sta realizzando in Argentina un telescopio per lo studio dell’universo appena nato che si avvarrà di una tecnica innovativa.

QUBIC, infatti, osserverà e mapperà le proprietà del fondo cosmico a microonde, l’eco residua del Big Bang, concentrandosi sulla misura di particolari componenti dell’orientamento dell’oscillazione delle microonde della radiazione cosmica di fondo sul piano del cielo (polarizzazione), denominate modi-B, indicative delle possibili perturbazioni indotte dalle onde gravitazionali generate nei primi istanti di vita dell’universo.

Il progetto vede l’Italia protagonista grazie ai contributi scientifici e tecnologici forniti dall’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) e dalle Università di Milano Statale, Milano-Bicocca, Università di Roma “Tor Vergata” e Sapienza Università di Roma. QUBIC osserverà il cielo a partire dalla fine del 2022, da un sito desertico di alta quota (5000 m) in Argentina, vicino alla località San Antonio de Los Cobres.

QUBIC
Rotatore criogenico. Crediti: archivio fotografico QUBIC

Dopo il suo sviluppo e l’integrazione avvenuta presso i laboratori europei delle Università e degli enti di ricerca coinvolti nella collaborazione, QUBIC è arrivato in Argentina, nella città di Salta, nel luglio 2021, dove si sta procedendo alle fasi finali di calibrazione e di test in laboratorio. I risultati di queste attività, presentati negli otto articoli apparsi su ‘Journal of Cosmology and Astroparticle Physics, hanno confermato il corretto funzionamento dello strumento e dell’’interferometria bolometrica’, ossia la tecnica di nuova concezione su cui si baseranno le osservazioni di QUBIC, che combina l’elevatissima sensibilità dei rivelatori raffreddati quasi allo zero assoluto (-273 °C) e capaci di misurare l’energia della radiazione del fondo cosmico trasformandola in calore (bolometri), con la precisione degli strumenti interferometrici.

“QUBIC è uno strumento originale ed estremamente complesso: per questo era necessario pubblicare in anticipo tutti i dettagli del suo hardware e delle nuove metodologie di sfruttamento dei dati raccolti. Inoltre, con queste lunghe ed esaustive calibrazioni abbiamo dimostrato in laboratorio l’efficienza di QUBIC come interferometro bolometrico. È un passo essenziale per le successive misure di interesse per la cosmologia e la fisica fondamentale”, spiega Silvia Masi, docente presso Sapienza Università di Roma e ricercatrice INFN, che coordina la partecipazione italiana all’esperimento.

Grazie alla sua estrema sensibilità, che consentirà di distinguere i dettagli di ciascuno dei ‘pixel’ in cui sarà suddivisa la mappa celeste, QUBIC potrà discriminare i modi-B dai segnali generati dalle altre sorgenti del cielo, fornendo una prova diretta della teoria dell’inflazione. Questa è oggi la teoria di riferimento per la descrizione di ciò che sarebbe avvenuto nei primi istanti dell’universo, sviluppata negli anni ‘80 per spiegare alcune caratteristiche dell’universo, fra cui la ‘piattezza’ e l’estrema omogeneità dello spaziotempo.

QUBIC
Criostato. Crediti: archivio fotografico QUBIC

Secondo la teoria dell’inflazione, la rapidissima fase di espansione dell’universo subito dopo il Big Bang, durata meno di un centomillesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo (circa 10-32 secondi), avrebbe lasciato un debole fondo di onde gravitazionali, che a loro volta avrebbero prodotto particolari debolissime tracce, detti modi-B, nella polarizzazione del fondo cosmico di microonde. In pratica, le onde elettromagnetiche del fondo cosmico non oscillerebbero in direzioni casuali. Sarebbero invece leggermente preferite direzioni che in cielo formano un disegno vorticoso.

Alla precisione delle misure che saranno effettuate da QUBIC contribuiranno inoltre la limpidezza e l’assenza di umidità che contraddistinguono l’aria del sito di Alto Chorrillo in cui sarà istallato il telescopio, a circa 5000 metri sul livello del mare, sul plateau La Puna nell’Argentina settentrionale, vicino alla cittadina di San Antonio de los Cobres, nella provincia di Salta.

“QUBIC verrà portato nel sito di Alto Chorrillo entro pochi mesi. Le prime misure dimostreranno l’efficienza del nuovo metodo dell’interferometria bolometrica per la prima volta osservando sorgenti astronomiche. Lo strumento verrà poi completato inserendo un maggiore numero di rivelatori, in modo da poter eseguire le misure di interesse cosmologico entro tre anni. La strada è lunga, e QUBIC si presenta come estremamente originale e complementare a tutti gli altri che cercano di misurare questo elusivo segnale primordiale”, illustra Aniello Mennella, ricercatore INFN e docente all’Università di Milano.

La ricerca dei modi-B rappresenta una sfida formidabile e centrale per fisici e astrofisici. Il segnale da misurare è così debole da richiedere rivelatori ultrasensibili e telescopi di grande precisione, anche per rimuovere, durante l’analisi dati, altri segnali polarizzati di origine locale che potrebbero confondere la misura. Le misure di QUBIC saranno perciò contemporanee a quelle di una mezza dozzina di altri esperimenti nel mondo che hanno lo stesso obiettivo scientifico. A differenza di questi ultimi, che producono immagini direttamente tramite telescopi a singola apertura, QUBIC sarà l’unico strumento a effettuare osservazioni raccogliendo le microonde da molte aperture e facendole interferire.

“La misura di un segnale così debole”, dice Mario Zannoni, ricercatore INFN e docente all’Università di Milano-Bicocca, “verrà ritenuta esente da errori sistematici solo se si avranno risultati consistenti provenienti da strumenti molto diversi. Proprio per questo motivo QUBIC, unico interferometro bolometrico, rappresenta una risorsa insostituibile nella ricerca dei modi-B e nello studio dei primi attimi dell’universo”. Grazie alle capacità multispettrali e di autocalibrazione, “QUBIC produrrà dati del tutto originali e complementari a quelli degli altri esperimenti, offrendo agli analisti innumerevoli possibilità di controllo incrociato e quindi una robustezza ineguagliabile dei risultati”, conclude Giancarlo De Gasperis, ricercatore INFN e docente all’Università di Roma “Tor Vergata”.

QUBIC è il risultato della collaborazione di 130 ricercatori, ingegneri e tecnici in Francia, Italia, Argentina, Irlanda e Regno Unito. Lo strumento è stato integrato a Parigi presso i laboratori APC nel 2018 e calibrato durante il 2019-2021.

Il contributo italiano è stato fondamentale per lo sviluppo dello strumento, e continuerà ad esserlo nelle fasi successive dell’esperimento. Lo strumento è ospitato in un criostato, progettato e costruito nei laboratori della Sapienza e della Sezione di Roma dell’INFN, capace di raffreddare vicino allo zero assoluto non solo i rivelatori ma anche tutto il sistema ottico dell’interferometro. Lo stesso gruppo ha realizzato anche il sistema crio-meccanico che permette di ruotare i componenti ottici all’interno del criostato per misurare lo stato di polarizzazione della radiazione. Italiane sono anche altre componenti criogeniche, che lavorano a una temperatura inferiore a -270 °C, come le avanzatissime antenne corrugate che selezionano i fotoni da far interferire, realizzate nei laboratori dell’Università e della Sezione INFN di Milano Statale, mentre le ottiche che focalizzano i fotoni sui rivelatori e il sistema di otturatori che permette di variare la configurazione dell’interferometro e di autocalibrarlo sono realizzate dall’Università e dalla Sezione di Milano Bicocca. L’Università di Roma “Tor Vergata” e la Sezione INFN di Roma2 contribuisce invece allo sviluppo del complesso software di analisi dei dati.

Per maggiori informazioni:

 

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Testo dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca e dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma, immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma.

Burnout, quando lo stress diventa cronico – Il fenomeno nei medici lombardi durante la quarta ondata

L’indagine realizzata da Università degli Studi Milano-Bicocca per ANAAO-ASSOMED Lombardia porta in luce come il 71,6% dei medici sospetti di aver sofferto di burnout

Milano, 20 aprile 2022 – Ansia, depressione, stress; quindi la pandemia, ad influenzare lo stato psicologico del personale medico. È quanto emerge dall’indagine condotta dall’Università degli Studi di Milano-Bicocca per ANAAO-ASSOMED Lombardia. Un fenomeno, quello del burnout – recentemente riconosciuto dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) come una sindrome in grado di influenzare lo stato di salute – che nei medici lombardi, una tra le categorie occupazionali maggiormente soggette a stressor lavorativi cronici, è stato rilevato in misura significativa. A risentirne non è solamente lo stato di salute dei soggetti coinvolti nella ricerca, bensì anche le prestazioni lavorative, le quali risultano essere nient’altro che “camera dell’eco” del malessere psicofisico indagato.
L’indagine eseguita tra novembre 2021 e marzo 2022, si propone di stimare la prevalenza, nei medici lombardi, di sintomi riconducibili al fenomeno del burnout; di indagarne le possibili connessioni con variabili demografiche e occupazionali; di valutare l’impatto della pandemia sulla sintomatologia presente nei medici, nell’ottica del rafforzamento e dell’implementazione di strategie atte alla tutela della salute psicofisica del personale.

I RISULTATI
L’indagine, svolta tramite la somministrazione di un questionario online a 958 medici lombardi, mostra come il 71,6% dei medici indagati sospetta di aver sofferto di burnout, mentre il 59,5% teme di poterne soffrire in futuro. Il rilievo psicometrico illustra inoltre come la prevalenza effettiva di una sintomatologia di rilievo clinico riconducibile al burnout sia pari a 18,5%, mentre quella riconducibile a disturbi dello spettro ansioso e depressivo è pari a 31,9% e 38,7%. A soffrire maggiormente della condizione di burnout è il sesso femminile, unito ad ansia, depressione e a una percezione bassa di autoefficacia – quest’ultimo elemento è condiviso con gli specializzandi; una maggior anzianità di servizio risulta essere un fattore protettivo, a cui vengono associati livelli più bassi di burnout, ansia e depressione. Non da ultimo, l’87,4% dei medici lombardi dichiara come la pandemia e l’avvento della quarta ondata pandemica abbia avuto effetti di media o grave entità sul proprio benessere lavorativo, nonostante il servizio in area COVID-19 non sia un fattore di per sé associabile a maggiori livelli di burnout, ansia o depressione. Ad impattare maggiormente sono invece le variabili soggettive percepite, quali la vicinanza di cari/colleghi aventi avuto gravi complicazioni legate all’infezione.

“Lo studio fornisce informazioni utili alla pianificazione di interventi preventivi e gestionali finalizzati alla tutela della salute psicologica dei medici. Emerge inoltre una forte corrispondenza tra ciò che rilevano gli strumenti psicometrici oggettivi e il vissuto soggettivo dei medici che hanno preso parte alla ricerca” sottolinea Edoardo Nicolò Aiello, Psicologo, e Dottorando in Neuroscienze all’Università di Milano-Bicocca.

“Quasi il 20% dei medici lombardi accusa sintomi riconducibili al burnout, mentre più del 30% ansia e depressione di significato clinico. È un dato allarmante. – dichiara Stefano Magnone, Segretario Regionale di ANAAO-ASSOMED Lombardia – Le problematiche causate dall’espansione a macchia d’olio di questo fenomeno sono state largamente discusse negli ultimi tempi, aumentando l’awareness anche tra chi non è direttamente coinvolto nell’ambito sanitario. Lo stress lavorativo cronico, o sindrome del burnout, insorge quando le richieste del lavoro superano le capacità del lavoratore di affrontarle, intaccando la salute psicofisica dell’individuo. I medici sono i professionisti maggiormente a rischio di burnout, specialmente il sesso femminile. A peggiorare le condizioni lavorative, oltre alla carenza di risorse e ai ritmi lavorativi isterici in cui siamo costretti, è stata la pandemia: l’87.4% dei medici lombardi dichiara come la pandemia abbia avuto effetti di media o grave entità sul proprio benessere lavorativo.”

“I risultati dello studio, condotto con rigore metodologico, indicano la necessità di pensare, strutturare e promuovere programmi di valutazione accurata del disagio lavorativo per tutti gli operatori e segnatamente per il genere femminile e le persone con minore anzianità di servizio. Il progetto rappresenta una sfida importante alla quale non è possibile sottrarsi se si intende contenere il burnout con tutti i suoi correlati di perdita di salute, professionalità, efficacia lavorativa e soddisfazione dei pazienti. Bisognerebbe affrontare la cultura del prendersi cura di sé come operatori sanitari già durante il percorso di studi e metter a disposizione nelle aziende sanitarie specifici setting di supporto. Parallelamente, studi mirati a comprendere come attivare le risorse di resilienza, insieme alla verifica degli esiti di eventuali interventi, rappresenterebbero una buona sinergia fra Organizzazioni Sanitarie ed Università” conclude Ines Giorgi, Psicologa, e Psicoterapeuta.

Testo dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca

CUORE METTE NUOVI LIMITI ALL’INSOLITO COMPORTAMENTO DEI NEUTRINI

CUORE neutrini Nature INFN

Le ricercatrici e i ricercatori dell’esperimento CUORE (Cryogenic Underground Observatory for Rare Events) situato ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) hanno pubblicato oggi, 6 aprile, su Nature i nuovi risultati sulla natura del neutrino, che dimostrano inoltre l’eccezionalità della tecnologia sviluppata, in grado di mantenere un rivelatore di oltre 700 kg a temperature vicine allo zero assoluto, per più di tre anni.

CUORE, che opera nel silenzio cosmico delle sale sperimentali sotterranee dei Laboratori del Gran Sasso, protetto da 1.400 metri di roccia, è tra gli esperimenti più sensibili al mondo per lo studio di un processo nucleare, chiamato doppio decadimento beta senza emissione di neutrini, possibile solo se neutrino e antineutrino sono la stessa particella. Questo decadimento, se osservato, chiarirebbe per la prima volta il mistero della natura di Majorana del neutrino. I risultati di CUORE si basano su una quantità di dati, raccolta negli ultimi tre anni, dieci volte più grande di qualsiasi altra ricerca con tecnica sperimentale simile. Nonostante la sua fenomenale sensibilità, l’esperimento non ha ancora osservato prove di eventi di questo tipo. Da questo risultato è possibile stabilire che un atomo di tellurio impiega più di 22 milioni di miliardi di miliardi di anni per decadere. I nuovi limiti di CUORE sul comportamento dei neutrini sono cruciali nella ricerca di una possibile nuova scoperta della fisica delle particelle, che sarebbe rivoluzionaria perché aiuterebbe a comprendere le nostre stesse origini.

L’obiettivo è capire come ha avuto origine la materia”, spiega Carlo Bucci, ricercatore dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso e responsabile internazionale dell’esperimento CUORE.

“Stiamo cercando un processo che violi una simmetria fondamentale della natura”, aggiunge Roger Huang, giovane ricercatore del Lawrence Berkeley National Laboratory del Department of Energy degli Stati Uniti e uno degli autori del nuovo studio. “L’asimmetria tra materia e antimateria nell’universo è ancora un rebus”, dice Huang. “Se i neutrini sono le loro stesse antiparticelle, questo potrebbe aiutare a risolverlo”.

CUORE neutrini Nature INFN

“Il doppio decadimento beta senza emissione di neutrini, se sarà misurato, sarà il processo più raro mai osservato in natura, con un tempo di decadimento di oltre un milione di miliardi di volte superiore all’età dell’universo”, afferma Danielle Speller, professoressa alla Johns Hopkins University e componente del Physics Board di CUORE.

CUORE è un vero trionfo scientifico e tecnologico, non solo per i suoi nuovi risultati, ma anche per aver dimostrato con successo il funzionamento del suo criostato in condizioni veramente estreme, alla temperatura di 10 millesimi di grado sopra lo zero assoluto (10 milliKelvin). La temperatura nel rivelatore CUORE viene attentamente monitorata con sensori in grado di rilevare una variazione di appena un decimillesimo di grado Celsius. Il doppio decadimento beta senza emissione di neutrini ha una firma energetica specifica e aumenterebbe la temperatura di un singolo cristallo di una quantità ben definita e riconoscibile.

“È il più grande refrigeratore del suo genere al mondo”, sottolinea Paolo Gorla, ricercatore dei Laboratori del Gran Sasso e Technical Coordinator di CUORE. “Capace di mantenere la temperatura di 10 milliKelvin ininterrottamente per circa tre anni”. Una tale tecnologia ha applicazioni ben oltre la fisica delle particelle fondamentali. In particolare, può trovare impiego nella realizzazione dei computer quantistici, dove una delle principali difficoltà dal punto di vista tecnologico è mantenerli sufficientemente freddi e schermati dalle radiazioni ambientali.

Lo straordinario funzionamento del criostato di CUORE è il coronamento di una lunga sfida tecnologica iniziata a metà degli anni ‘80 dal gruppo di Ettore Fiorini a Milano, che ha visto l’evoluzione dei rivelatori criogenici, da cristalli di pochi grammi agli oltre 700 kg degli attuali”, aggiunge Oliviero Cremonesi, Presidente della Commissione Scientifica Nazionale per la fisica astroparticellare dell’INFN.

“La sensibilità del rivelatore è davvero fenomenale,” afferma Laura Marini, ricercatrice presso il Gran Sasso Science Institute e Run Coordinator di CUORE, “al punto che osserviamo segnali generati da vibrazioni microscopiche della crosta terrestre.” “Abbiamo visto effetti dovuti a terremoti in Cile e Nuova Zelanda”, continua Marini “misuriamo costantemente il segnale delle onde che si infrangono sulla riva del mare Adriatico, a 60 chilometri di distanza, che diventa più forte in inverno, quando c’è tempesta”.

CUORE sta facendo da apripista per la prossima generazione di esperimenti: il suo successore, CUPID (CUORE Upgrade with Particle Identification), è già in avanzata fase di sviluppo e sarà oltre dieci volte più sensibile di CUORE. Nel frattempo, CUORE non ha ancora finito.

“Saremo operativi fino al 2024 – aggiunge Bucci – e sono impaziente di vedere che cosa troveremo”.

CUORE è gestito da una collaborazione di ricerca internazionale, guidata dall’INFN in Italia e dal Berkeley National Laboratory negli Stati Uniti.

CUORE neutrini Nature INFN

APPROFONDIMENTI

Particelle particolari

I neutrini sono ovunque: ci sono quasi mille miliardi di neutrini che passano attraverso l’unghia di un tuo dito mentre leggi questa frase. Non sentono l’effetto delle due forze più intense dell’universo, l’elettromagnetismo e la forza nucleare forte, e questo consente loro di passare attraverso la materia, quindi anche attraverso tutta la Terra, senza interagire. Nonostante il numero enorme, la loro natura così elusiva li rende molto difficili da studiare, sono un vero grattacapo per i fisici. L’esistenza di queste particelle è stata postulata per la prima volta oltre 90 anni fa, ma fino alla fine degli anni ’90 non si sapeva nemmeno se i neutrini avessero una massa, ora sappiamo di sì ma è davvero molto piccola.

Una delle tante domande ancore aperte sui neutrini è se siano le loro stesse antiparticelle. Tutte le altre particelle hanno delle corrispondenti antiparticelle, la loro controparte di antimateria: agli elettroni corrispondono gli antielettroni (positroni), ai quark gli antiquark, ai neutroni e ai protoni (che sono i costituenti dei nuclei atomici) gli antineutroni e gli antiprotoni. A differenza di tutte le altre particelle, è possibile che i neutrini siano le loro stesse antiparticelle. Un tale scenario è stato teorizzato per la prima volta dal fisico Ettore Majorana nel 1937 e le particelle che mostrano questa proprietà sono conosciute come fermioni di Majorana.

Se i neutrini fossero davvero fermioni di Majorana potremmo forse rispondere a una domanda che è alla base della nostra stessa esistenza: perché c’è così tanta più materia che antimateria nell’universo?

Un dispositivo raro per decadimenti rari

Determinare se i neutrini siano le loro stesse antiparticelle è difficile, proprio perché essi non interagiscono molto spesso. Il miglior strumento dei fisici per cercare i neutrini di Majorana è un ipotetico tipo di decadimento naturale radioattivo chiamato decadimento doppio beta senza neutrini. Il decadimento beta è una forma abbastanza comune di decadimento in alcuni atomi, che trasforma un neutrone di un nucleo atomico in un protone, mutando l’elemento chimico dell’atomo ed emettendo un elettrone e un antineutrino come conseguenza del processo. Il doppio decadimento beta è più raro: invece di un solo neutrone, due di essi si trasformano in due protoni allo stesso tempo, emettendo due elettroni e due antineutrini. Ma se il neutrino è un fermione di Majorana, allora teoricamente un singolo neutrino “virtuale”, che funge da antiparticella di sé stesso, potrebbe prendere il posto di entrambi gli antineutrini e solo i due elettroni sarebbero emessi dal nucleo atomico, da qui il nome del processo. Il decadimento doppio beta senza neutrini è stato teorizzato per decenni, ma non è mai stato osservato.

L’esperimento CUORE è impegnato a rivelare negli atomi di tellurio un decadimento doppio beta senza neutrini. L’esperimento utilizza quasi mille cristalli di ossido di tellurio purissimo, del peso complessivo di oltre 700 kg. Questa grande quantità di tellurio è necessaria perché, in media, ci vuole più di un miliardo di volte l’età dell’Universo perché un singolo atomo instabile di tellurio subisca un normale doppio decadimento beta. Ma ci sono milioni di miliardi di miliardi di atomi di tellurio in ciascuno dei cristalli utilizzati da CUORE, il che significa che il doppio decadimento beta standard (con emissione di due neutrini) avviene abbastanza regolarmente nel rivelatore, circa alcune volte al giorno in ciascun cristallo. Il doppio decadimento beta senza neutrini, ammesso che si verifichi, è estremamente più raro, e quindi la Collaborazione di CUORE deve impegnarsi per rimuovere quante più fonti di interferenza possibile che potrebbero nascondere l’evento cercato. Per schermare il rivelatore dai raggi cosmici, l’intero sistema si trova nelle sale sperimentali sotterranee dei Laboratori del Gran Sasso, dove i 1400 metri di roccia sovrastanti proteggono gli esperimenti dai raggi cosmici che piovono incessantemente sulla Terra. Una ulteriore schermatura è fornita da diverse tonnellate di piombo. Il piombo appena prodotto è leggermente radioattivo a causa della contaminazione naturale da uranio e altri elementi. Questo livello di radioattività è assolutamente trascurabile per qualsiasi tipo di utilizzo del piombo, eccetto per un rivelatore così sensibile come CUORE. Poiché la radioattività diminuisce nel tempo, il piombo utilizzato per circondare i rivelatori di CUORE è principalmente piombo recuperato da un’antica nave romana affondata quasi 2000 anni fa al largo delle coste della Sardegna.

CUORE è finanziato negli Stati Uniti dal Department of Energy (DoE) e dalla National Science Foundation (NSF) e in Italia dall’INFN, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. La Collaborazione CUORE include in Italia i Laboratori Nazionali del Gran Sasso, i Laboratori Nazionali di Frascati e i Laboratori Nazionali di Legnaro dell’INFN e le Sezioni INFN e Università di Bologna, Università di Genova, Università di Milano Bicocca, Sapienza Università di Roma e il Gran Sasso Science Institute; negli Stati Uniti: California Polytechnic State University, San Luis Obispo; Lawrence Berkeley National Laboratory; Johns Hopkins University; Lawrence Livermore National Laboratory; Massachusetts Institute of Technology; University of California, Berkeley; University of California, Los Angeles; University of South Carolina; Virginia Polytechnic Institute and State University; Yale University; in Francia: Saclay Nuclear Research Center (CEA) e Irène Joliot-Curie Laboratory (CNRS/IN2P3, Paris Saclay University); in Cina: Fudan University e Shanghai Jiao Tong University.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa INFN Istituto Nazionale di Fisica Nucleare

 

Ricerca medica, nuovi risultati in Epatologia con l’intelligenza artificiale

 

Grazie ad uno studio sui dati clinici di 12mila pazienti di tutto il mondo identificati quattro sottogruppi di Colangite Biliare Primitiva, classificati in ordine di gravità crescente.
Colangite Biliare Primitiva epatologia intelligenza artificiale
Foto di Gerd Altmann

 

Milano, 16 marzo 2022 – L’intelligenza artificiale al servizio della ricerca medica in Epatologia. Una ricerca condotta dal Centro delle Malattie Autoimmuni del Fegato dell’Università di Milano-Bicocca presso l’Ospedale San Gerardo di Monza, e dal team di Data Science di Rulex a Genova, ha permesso di individuare quattro nuovi sottotipi di Colangite Biliare Primitiva (CBP) basandosi sui dati clinici di più di 12mila soggetti provenienti da tutto il mondo. Il nuovo algoritmo si unisce agli esistenti score prognostici e consente di migliorare la valutazione prognostica dei pazienti già al momento della diagnosi.
«Per noi pazienti questo studio è molto importante considerato il grande numero di pazienti italiani inclusi e le potenzialità di innovazione portate dall’intelligenza artificiale – commenta Davide Salvioni, presidente di AMAF Onlus, l’associazione italiana di pazienti dedicata alle malattie autoimmuni del fegato –. Una migliore conoscenza di queste patologie avrà sicuramente delle ricadute positive sulla capacità dei medici di gestirle in modo più efficace».

La CBP è una malattia del fegato che, benché rara, in Italia colpisce più di 10.000 persone, soprattutto donne oltre i 40 anni di età. Nell’ultimo decennio vi è stato un progressivo miglioramento della stratificazione prognostica dei pazienti con CBP, grazie anche allo sviluppo di score e calcolatori.

 

Di recente l’intelligenza artificiale e il machine learning sono stati applicati con beneficio nello studio di malattie comuni, dalle infezioni alle malattie cardiovascolari, dal tumore alla mammella a quello del colon-retto. Nel contesto delle malattie rare, e della CBP nello specifico, mancavano tuttavia evidenze sperimentali in relazione a queste nuove tecnologie e alle loro applicazioni.

 

Il team del Centro Malattie Autoimmuni del Fegato di Monza guidato dal professor Pietro Invernizzi, ha utilizzato Rulex, uno strumento innovativo di analisi dati che impiega un sofisticato algoritmo di intelligenza artificiale sviluppato dal team di ricerca e sviluppo di Rulex, coordinato dall’amministratore delegato Marco Muselli, e basato su un modello teorico messo a punto all’interno dell’Istituto di Elettronica, di Ingegneria dell’Informazione e delle Telecomunicazioni del CNR di Genova.

 

Lo studio, pubblicato sulla rivista Liver International, ha raccolto la più grande coorte mai esplorata di pazienti con CBP a livello internazionale, includendo pazienti dall’Europa, dal Giappone e dal Nord America (DOI: 10.1111/liv.15141). L’obiettivo del lavoro è stato quello di sfruttare questa enorme mole di dati al fine di migliorare la stratificazione del rischio in questa patologia rara. Sono stati identificati quattro sottogruppi di malattia, in ordine di gravità clinica crescente, basandosi solamente su tre valori di laboratorio: albumina, bilirubina e fosfatasi alcalina.


«Il team di Rulex guidato da Damiano Verda ha raggruppato i pazienti affetti con CBP in modo completamente nuovo e ha creato delle regole molto facili da applicare in clinica per classificare i nuovi pazienti già alla diagnosi», spiega il dottor Alessio Gerussi, primo nome dello studio e ricercatore presso il Centro Malattie Autoimmuni del Fegato di Monza.

 

«Il nostro lavoro non finisce qui: gli studi futuri saranno mirati alla integrazione dei dati clinici con i dati provenienti dal sequenziamento genetico, dalle tecniche di imaging radiologiche e dalle scansioni digitali dei vetrini dei campioni istologici – sottolinea Gerussi –. Lo scopo finale è descrivere la eterogeneità della malattia in modo più raffinato di quanto fatto fino ad ora per offrire cure personalizzate ai pazienti, scopo ultimo della Medicina di Precisione».
Testo dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca