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SCOPERTO IL GETTO OSCILLANTE DI M87

Un gruppo di ricercatori guidati dallo Zhejiang Laboratory (Cina), a cui partecipa anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Università di Bologna, ha recentemente scoperto che la vicina radiogalassia Messier 87 (M87), situata a 55 milioni di anni luce dalla Terra, presenta un getto oscillante. Questo getto ha origine da un buco nero 6,5 miliardi di volte più massiccio del Sole: esattamente quello la cui immagine è stata ottenuta nel 2019 con l’Event Horizon Telescope (EHT). Dai dati raccolti negli ultimi 23 anni con la tecnica Very Long Baseline Interferometry (VLBI), gli esperti hanno osservato che il getto oscilla con un’ampiezza di circa 10 gradi (il fenomeno è conosciuto con il nome di precessione). Come si legge nell’articolo pubblicato oggi su Nature, gli esperti hanno svelato un ciclo ricorrente di 11 anni nel movimento di precessione della base del getto, come previsto dalla teoria della relatività generale di Einstein nel caso di un buco nero rotante attorno al suo asse. Questo lavoro ha quindi collegato con successo la dinamica del getto con il buco nero supermassiccio centrale, offrendo la prova dell’esistenza della rotazione del buco nero di M87.

Rappresentazione schematica del modello del disco di accrescimento inclinato. Si presume che l’asse di rotazione del buco nero sia allineato verticalmente. La direzione del getto è quasi perpendicolare al disco. Il disallineamento tra l’asse di rotazione del buco nero e l’asse di rotazione del disco innescherà la precessione del disco e del getto. Crediti: Yuzhu Cui et al. 2023, Intouchable Lab@Openverse e Zhejiang Lab
Scoperto il getto oscillante di M87: rappresentazione schematica del modello del disco di accrescimento inclinato. Si presume che l’asse di rotazione del buco nero sia allineato verticalmente. La direzione del getto è quasi perpendicolare al disco. Il disallineamento tra l’asse di rotazione del buco nero e l’asse di rotazione del disco innescherà la precessione del disco e del getto. Crediti: Yuzhu Cui et al. 2023, Intouchable Lab@Openverse e Zhejiang Lab

I buchi neri supermassicci al centro delle galassie attive sono gli oggetti celesti più potenti dell’universo, in quanto in grado di accumulare enormi quantità di materiali a causa della straordinaria forza gravitazionale e allo stesso tempo alimentare getti che si allontanano a velocità vicina a quella della luce. Il meccanismo di trasferimento di energia tra i buchi neri supermassicci, il disco tramite il quale la materia cade sul buco nero e i getti relativistici rimane però un enigma ancora irrisolto. Una teoria prevalente suggerisce che l’energia può essere estratta da un buco nero in rotazione, che grazie alla energia gravitazionale ottenuta dalla materia in caduta su di esso è in grado di espellere getti di plasma a velocità vicine a quella della luce. Tuttavia, la rotazione dei buchi neri supermassicci non è ancora stata provata con certezza.

Marcello Giroletti, ricercatore presso l’INAF di Bologna e tra gli autori dell’articolo, spiega:

“Questa scoperta è molto importante, perché prova che il buco nero supermassccio al centro di M87 è in rotazione su sé stesso con grandissima velocità. Questa possibilità era stata ipotizzata proprio sulla base delle immagini ottenute con EHT ma ora ne abbiamo una dimostrazione inequivocabile”

Infatti quale forza nell’universo può alterare la direzione di un getto così potente? La risposta potrebbe nascondersi nel comportamento del disco di accrescimento, la struttura a forma di disco nella quale il materiale spiraleggia gradualmente verso l’interno finché non viene fatalmente attratto dal buco nero. E se il buco nero è in rotazione su sé stesso, ne segue un impatto significativo sullo spazio-tempo circostante, causando il trascinamento degli oggetti vicini, ovvero il “frame-dragging” previsto dalla Relatività Generale di Einstein.

 Pannello superiore: struttura del getto M87 a 43 GHz osservata nel periodo 2013-2018. Le frecce bianche indicano l'angolo di posizione del getto in ciascuna sottotrama. Pannello inferiore: risultati basati sull'immagine impilata annualmente dal 2000 al 2022. I punti verde e blu sono ottenuti da osservazioni rispettivamente a 22 GHz e 43 GHz. La linea rossa rappresenta la soluzione migliore secondo il modello di precessione. Crediti: Yuzhu Cui et al. 2023
Pannello superiore: struttura del getto M87 a 43 GHz osservata nel periodo 2013-2018. Le frecce bianche indicano l’angolo di posizione del getto in ciascuna sottotrama. Pannello inferiore: risultati basati sull’immagine impilata annualmente dal 2000 al 2022. I punti verde e blu sono ottenuti da osservazioni rispettivamente a 22 GHz e 43 GHz. La linea rossa rappresenta la soluzione migliore secondo il modello di precessione. Crediti: Yuzhu Cui et al. 2023

Gabriele Giovannini, professore dell’Università di Bologna e tra gli autori dell’articolo, aggiunge:

“La galassia M87 (Virgo A) non cessa di stupirci. Dopo averci regalato la prima immagine del suo supermassiccio buco nero centrale, ora ci rivela che il potente getto emesso grazie alla trasformazione di massa in energia non è stabile ma fa registrare una regolare oscillazione. Questo risultato mostra un non perfetto allineamento tra la rotazione del buco nero centrale ed il disco di materia che lo circonda ed in caduta su di esso. L’oscillazione del getto influenza notevolmente la materia e lo spazio tempo circostante in accordo con le leggi relativistiche”.

Dall’analisi dei dati si evince che l’asse di rotazione del disco di accrescimento si disallinea con l’asse di rotazione del buco nero, portando alla precessione del getto. Il rilevamento di questa precessione rappresenta un supporto convincente per concludere inequivocabilmente che il buco nero supermassiccio all’interno di M87 stia ruotando, aprendo nuove dimensioni nella nostra comprensione della natura dei buchi neri supermassicci.

“La precessione – dice Giroletti – è la variazione della direzione del getto emesso dal buco nero al centro di M87.  Per l’esattezza è una variazione regolare e ciclica per cui l’asse del getto nel corso degli anni descrive un cono attorno ad un asse immaginario. Guardando questa precessione proiettata nel piano del cielo noi vediamo il getto oscillare in modo regolare”.

Questo lavoro ha utilizzato un totale di 170 epoche di osservazioni ottenute dalla rete East Asian VLBI Network (EAVN), dal Very Long Baseline Array (VLBA), dal KVN e VERA (KaVA), e dalla rete East Asia to Italy Nearly Global VLBI (EATING). In totale, più di 20 telescopi in tutto il mondo hanno contribuito a questo studio, tra cui anche il Sardinia Radio Telescope (SRT) e la Stazione Radioastronomica di Medicina dell’INAF.

“Questo importante risultato nasce grazie a un’ampia collaborazione che ha coinvolto 79 ricercatori di 17 diversi osservatori, università ed enti ricerca sparsi in 10 Paesi”, dice ancora Giovannini. “”Di cruciale importanza, in particolare, è stata la sinergia tra studiosi italiani e dell’Asia Orientale (Cina, Giappone, Corea). La collaborazione è in continuo sviluppo, infatti nelle antenne italiane utilizzate per le osservazioni sono infatti stati installati alcuni ricevitori coreani che permetteranno di migliorare la collaborazione nelle osservazioni ad alta frequenza (alta energia) ed elevata risoluzione angolare”.

Giroletti aggiunge: “INAF ha fornito un contributo fondamentale tramite la partecipazione dei propri radiotelescopi che si trovano a grandissima distanza (circa 10 mila km) da quelli dell’Asia Orientale che costituivano il nucleo della rete osservativa.  Poiché i dettagli delle immagini dipendono dall’estensione della rete, l’aggiunta delle antenne INAF ha migliorato di quasi 10 volte il dettaglio delle immagini. Questo ha facilitato grandemente la rivelazione delle oscillazioni del getto. Inoltre INAF ha contribuito anche con la partecipazione del proprio personale di ricerca per l’interpretazione dei risultati”.

E conclude: “La collaborazione fra Italia ed estremo oriente sta crescendo anno dopo anno sia in ambito scientifico che tecnologico e questo risultato ci dà grande fiducia per i lavori che stiamo portando avanti nei due continenti”.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Precessing jet nozzle connecting to a spinning black hole in M87”, di Yuzhu Cui et al., è stato pubblicato sulla rivista Nature.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

I fondi PNRR per la ricerca sulle zanzare promuovono la scienza partecipata attraverso l’app Mosquito Alert

Mosquito Alert è un’app gratuita per il tracciamento delle zanzare invasive attraverso le segnalazioni fotografiche dei cittadini. Dopo gli ottimi risultati del 2022, il progetto si accresce grazie a fondi Next Generation EU.

Arriva la primavera e con essa tornano le zanzare. Dopo un inverno così mite e le pioggie di questi ultimi giorni si teme che nei prossimi mesi la loro presenza possa essere maggiore degli anni scorsi. Ma non si tratta solo di un fastidio: le zanzare infatti possono trasmettere virus – come quelli del West Nile, del Chikungunya e del Dengue – capaci di causare gravi malattie all’uomo. Per questo è importante sapere dove, quando e quante specie abbiamo sul nostro territorio, dove si raggiungono maggiori densità e maggiori rischi e dove è più opportuno concentrare gli interventi di disinfestazione. A tal fine, già dal 2021 la task force di Mosquito Alert Italia – capitanata dal Dipartimento di Sanità pubblica e malattie infettive di Sapienza con il contributo dell’Istituto Superiore di Sanità, dell’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie, di Muse – Museo delle Scienze di Trento e dell’Università  di Bologna – ha puntato sulle segnalazioni fotografiche dei cittadini per ottenere dati a livello nazionale.

Culex Pipiens Zanzare che trasmettono virus: tracciarle è importante con l’app Mosquito Alert, i cittadini aiutano i ricercatori
I fondi PNRR per la ricerca sulle zanzare promuovono la scienza partecipata attraverso l’app Mosquito Alert. Culex Pipiens. Foto di David BARILLET-PORTAL, CC BY-SA 3.0

In due anni, l’app Mosquito Alert è stata scaricata da oltre 18.000 utenti, che hanno inviato oltre 8.000 foto da 103 su 107 province italiane. La maggior parte di queste appartengono alla specie più diffusa in Italia – la zanzara comune Culex pipiens – e alla specie invasiva Aedes albopictus, la famosa zanzara tigre che è approdata in Italia ormai da oltre 30 anni e diffusa in tutto il territorio condizionando la possibilità di godere appieno delle attività all’aperto da maggio a ottobre. Ma i cittadini hanno anche inviato fotografie anche di specie più rare, come la zanzara coreana (Aedes koreicus) e quella giapponese (Aedes japonicus) – specie invasive giunte più recentemente nel nostro paese e in espansione soprattutto nel nord Italia.

Grazie alle segnalazioni dei cittadini effettuate all’interno delle loro abitazioni, si è cominciato a capire quali specie pungono maggiormente all’aperto e quali al chiuso, un dato che può sembrare banale per chi di noi è frequentemente vittima delle punture, ma che finora non era stato possibile valutare scientificamente per la difficoltà di fare campionamenti e posizionare trappole negli ambienti domestici.

Il successo dell’iniziativa ha portato i ricercatori a un salto di qualità nel 2023, anche grazie ai finanziamenti ricevuti da gruppi di ricerca di 10 Università, dell’Istituto Superiore di Sanità, dell’Associazione degli Istituti zooprofilattici sperimentali e della Fondazione Bruno Kessler grazie al progetto “INF-ACT – One Health Basic and Translational Research Actions addressing Unmet Needs on Emerging Infectious Diseases” finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca su fondi PNRR Next Generation EU.

Da oggi e per tutti i prossimi mesi dell’anno, verranno avviate attività di promozione dell’app Mosquito Alert nelle università, nei musei, nelle scuole e nei comuni con alcuni dei quali è già iniziata una proficua collaborazione. L’obiettivo è quello di ottenere un maggior numero di segnalazioni attraverso l’ulteriore sensibilizzazione dei cittadini al progetto, ma anche quello di sfruttare questa occasione per creare una maggior consapevolezza sui rischi sanitari associati alle punture di zanzare, sulla necessità di sorvegliare la possibile introduzione della specie più pericolosa – la Aedes aegypti, non presente in Italia ma segnalata l’anno scorso per la prima volta da molto tempo nel Mediterraneo, nell’isola di Cipro – e, infine, sul ruolo essenziale di ognuno di noi nell’evitare di fornire alle zanzare luoghi per la riproduzione. È importante sottolineare che le larve di zanzara vivono e si sviluppano in acqua, e che molte volte, specialmente in caso di stagioni poco piovose, sono le stesse persone a mettere a disposizione siti idonei per la loro riproduzione, dalle vasche ai bidoni ai sottovasi e una miriade di altri piccoli contenitori spesso pieni d’acqua, non di origine piovana, utilizzati per le attività di innaffiamento e irrigazione.

Riferimenti:

www.mosquitoalertitalia.it

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

“SIGNIFICATIVE CRITICITÀ DELL’ITALIA” – RICERCATORI DI UNITO LANCIANO ALLARME SU RISCHI CHIMICI, BIOLOGICI E RADIO-NUCLEARI

I risultati del progetto di ricerca “Cbrn-Italy”, a cui UniTo ha partecipato insieme alle Università di Firenze e Bologna con il coordinamento della Scuola Superiore Sant’Anna

Un team di ricerca dell’Università di Torino guidato da Ludovica Poli, docente di Diritto internazionale del Dipartimento di Giurisprudenza, con il contributo del dott. Gustavo Minervini, ha partecipato assieme alle Università di Firenze e Bologna alla realizzazione del progetto Cbrn–Italy, coordinato dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

rischi agenti chimici, biologici, radio–nucleari
Possibili scenari con rischi chimici, biologici, radio-nucleari. Immagine di DeSa81

Il progetto, finanziato dai fondi del bando Prin 2017 (Progetti di rilevante interesse nazionale”) del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, è stato diretto da Andrea de Guttry, professore ordinario di Diritto internazionale dell’Istituto Dirpolis (Diritto, Politica, Sviluppo) della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

Tra gli scenari presi in esame negli anni di sviluppo del progetto sono stati inclusi il rischio di terrorismo con agenti chimici, biologiciradio–nucleari, il verificarsi di incidenti industriali o di eventi naturali che portino al loro rilascio e, infine, l’utilizzo di armi chimichebiologiche, radio–nucleari.

In una prima fase, il progetto ha realizzato una mappatura di obblighi e raccomandazioni internazionali relativi alla protezione da eventi chimici, biologici, radio-nucleari e, in un secondo momento, ha analizzato in quale misura lItalia stia dando attuazione a obblighi e raccomandazioni internazionali.

Infatti, la mancata adozione di misure specifiche può avere conseguenze catastrofiche sulla salute delle persone e sulleconomia di un Paese. Lappello delle ricercatrici e dei ricercatori che hanno partecipato al progetto Cbrn Italy è che obblighi e raccomandazioni internazionali non siano più tralasciati dai decisori politici” e che le principali criticità evidenziate siano affrontate in via prioritaria

Stando alle rilevazioni della ricerca, lItalia presenta delle significative criticità” sul fronte della prevenzione delle situazioni di emergenza.

Prevenire una crisi sanitaria globale, prepararsi ad affrontare le conseguenze catastrofiche di unesplosione nucleare, avere un piano per il post-emergenza e il ritorno alla normalità: il diritto internazionale – ha spiegato Andrea de Guttry – stabilisce che, per ognuna di queste situazioni, è necessario adottare misure specificheI ripetuti bombardamenti nelle immediate vicinanze della centrale nucleare di Zaporizhzhia, in Ucraina, sollevano in maniera drammatica, come ha confermato in questi giorni dal direttore generale dellAiea (Agenzia internazionale per lenergia atomica), il pericolo reale di una esplosione nucleare le cui conseguenze si propagherebbero ben oltre i confini dellUcraina. La guerra in Ucraina espone anche il nostro Paese a rischi enormi, mentre il caso del Covid- 19 ha messo in luce lacune evidenti. Ci appelliamo a policy e decision makers italiani – conclude il docente – perché queste lacune vengano presto colmate”.

Le significative criticità del sistema Italia” descritte nel rapporto finale del progetto Cbrn-Italy interessano diversi ambiti.

La prevenzione e la pianificazione delle emergenze dovrebbero essere sostenute da una strategia olistica e multi-rischio per la riduzione del rischio di disastri, che, come previsto dal Sendai Framework (il principale documento di riferimento internazionale sulla riduzione del rischio di disastri adottato nel 2015 e successivamente approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite) avrebbe dovuto essere adottata entro il 2020.

La strategia dovrebbe essere sostenuta da una Piattaforma nazionale per la riduzione del rischio (che non appare a oggi. operativa) e dovrebbe prevedere un coordinamento con altri strumenti, come la Strategia di adattamento al cambiamento climatico, o la Strategia nazionale per la cybersicurezza, o la Strategia per la protezione delle entità critiche (che sarà obbligatoria dopo l’adozione della nuova Direttiva UE sulle entità critiche, prevista per la fine del 2022 o al più tardi inizio 2023).

Il nuovo Codice della Protezione Civile adottato nel 2018 introduce importanti novità in tema di prevenzione e pianificazione. Tra le principali lacune le ricercatrici e i ricercatori hanno notato, tuttavia, uno scarso coinvolgimento del pubblico nella valutazione del rischio e delle vulnerabilità locali; una scarsa attenzione alle necessità dei gruppi più vulnerabili che, in genere, sono colpiti in maniera significativa durante una situazione di emergenza: bambini, anziani, persone con disabilità, migranti. Importante è poi garantire – si legge nel rapporto finale – unadeguata catena di comando anche nel caso di emergenze ibride che possano interessare più settori.

Il rapporto finale segnala anche la necessità di aggiornare e di dare maggiore visibilità al Piano di difesa contro il terrorismo Cbrn, come è stato fatto per altri piani operativi (come quello contro le emergenze radiologiche e nucleari aggiornato al 2022, oppure il piano pandemico al 2021). Maggiore attenzione in questambito dovrebbe essere data, si legge nel rapporto, alla cooperazione di polizia transfrontaliera per la prevenzione dei reati, alla formazione di operatori. specializzati, ad esempio i risk manager di infrastrutture critiche, e alla comunicazione alla popolazione in situazione di emergenza.

Sempre il rapporto finale evidenzia la necessità di rivedere la normativa interna sulla prevenzione delle gravi malattie a carattere transfrontaliero, per aggiornare la normativa di adattamento ai Regolamenti Sanitari Internazionali, e alla nuova legislazione europea.

La pandemia di Covid-19 ha messo a dura prova la tenuta di un impianto normativo troppo precario e datato; la nuova normativa dovrebbe integrare le lezioni apprese durante il Covid, che dovrebbero essere oggetto di analisi post-emergenza, eventualmente anche tramite lutilizzo di strumenti messi a disposizione dallOrganizzazione Mondiale della Sanità, e dovrebbe prevedere adeguate risorse per il rafforzamento del sistema sanitario nazionale. È importante prevedere anche un rafforzamento delle attività di collaborazione, cooperazione e coordinamento con altri Stati e in sede di Unione Europea, anche per ridurre i costi impliciti nella prevenzione, preparazione, risposta e recupero da emergenze con bassa probabilità ma alto impatto.

Sul versante dellassistenza, soprattutto socio-psicologica alle vittime di eventi Cbrn (siano essi intenzionali, accidentali o naturali) e del reintegro ambientale, durante il progetto sono stati notati divari significativi con le raccomandazioni internazionali. Un codice delle ricostruzioni – o più in generale un codice della ripresa – potrebbe essere adottato per coprire alcune lacune importanti della fase post- emergenza, che resta la più trascurata di tutto il ciclo di gestione.

 

* Il rapporto finale è disponibile qui: http://www.cbrn-italy.it/en/final-report-and-recommendations

Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino sui possibili scenari con rischi chimici, biologici, radio-nucleari.

LOFAR “FOTOGRAFA” IL GIGANTESCO BAGLIORE RADIO ATTORNO A UN AMMASSO DI GALASSIE, ABELL 2255

I dati sono stati raccolti durante 18 notti osservative con le migliaia di antenne che formano il radiotelescopio LOFAR.  L’origine dell’emissione radio attorno ad Abell 2255 sembra sia legata all’enorme energia rilasciata durante il processo di formazione dell’ammasso stesso. L’emissione sarebbe grande almeno 16 milioni di anni luce.

Sfruttando la potenza del radiotelescopio europeo Low Frequency Array (LOFAR), la più estesa rete al mondo attualmente operativa per osservazioni radioastronomiche a bassa frequenza, un team europeo di astronomi in Italia, Olanda e Germania ha osservato l’enorme emissione di onde radio diffusa intorno all’ammasso di galassie Abell 2255. Per 18 notti, le sensibili  antenne LOFAR hanno “ascoltato” un’area di cielo delle dimensioni apparenti di quattro lune piene, distante circa un miliardo di anni luce dalla Terra (in direzione della costellazione del Dragone). Per la prima volta gli astronomi hanno studiato un ammasso di galassie con osservazioni così profonde. Gli astrofisici, coordinati da Andrea Botteon, dell’Osservatorio di Leida, nei Paesi Bassi, recentemente trasferito al Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna in qualità di assegnista di ricerca e associato presso l’INAF di Bologna, hanno pubblicato oggi i dati delle loro osservazioni sulla rivista Science Advances.

Abell 2255 LOFAR "fotografa" il gigantesco bagliore radio attorno all'ammasso di galassie Abell 2255
Immagine composita dell’ammasso di galassie Abell 2255. In blu sono evidenziati i dati a raggi X di ROSAT, che mostrano il gas caldo tra le galassie. In arancione e viola sono descritti i dati radio di LOFAR, che mostrano particelle in rapido movimento nei campi magnetici dell’ammasso. Il bagliore viola è l’emissione radio che circonda l’intero cluster. L’immagine ottica di sfondo è stata scattata con l’SDSS. L’immagine composita misura circa 18 milioni per 18 milioni di anni luce, e il campo visivo copre una regione del cielo corrispondente a circa quattro lune piene. Crediti: ROSAT/LOFAR/SDSS/Botteon et al., immagine creata da Frits Sweijen

Oggetti molto interessanti per gli astrofisici, gli ammassi di galassie si trovano nelle regioni più dense dell’Universo e contengono da centinaia a migliaia di galassie. Il volume tra le galassie è permeato da un gas estremamente rarefatto di particelle ad alta energia mescolate a campi magnetici. La loro origine è ancora avvolta da molti interrogativi: da dove vengono le particelle più energetiche in questo gas? E come interagiscono con i campi magnetici degli ammassi?

“Abbiamo scoperto che Abell 2255 è avvolto da un debole bagliore di emissione radio che incorpora migliaia di galassie presenti nell’ammasso e si estende su grandi scale come mai fino ad ora osservato, ovvero almeno 16 milioni di anni luce”, afferma Botteon, autore principale dello studio. “Questa emissione è generata da particelle ad alta energia che si muovono a velocità prossime a quella della luce in deboli campi magnetici – un milione di volte più deboli del campo terrestre – che riempiono l’intero volume dell’ammasso, anche nelle sue regioni più periferiche”.

Il ricercatore spiega, che “è la prima volta che abbiamo informazioni dettagliate sulla distribuzione e le proprietà di questi componenti su così vaste estensioni e che possiamo studiare i processi fisici che si verificano a grandi distanze dal centro dell’ammasso, nelle regioni più rarefatte dell’Universo. Riteniamo che l’origine dell’emissione radio in Abell 2255 sia legata all’enorme energia rilasciata durante il processo di formazione dell’ammasso”.

Le immagini ottenute dal gruppo di ricerca sono 25 volte più nitide e hanno un rumore 60 volte inferiore rispetto ai dati ottenuti in passato con altri strumenti. Nel corso degli ultimi due anni, il team ha dovuto sviluppare nuove e avanzate tecniche di analisi per elaborare il grande volume di dati.

“La sfida dell’analisi delle osservazioni di Abell 2255 – aggiunge Botteon – sta nel fatto che è la prima volta che osserviamo un oggetto esteso così a lungo (le osservazioni LOFAR tipicamente durano 8 ore). Questo richiede da un lato di correggere le distorsioni introdotte dalla ionosfera terrestre distribuite in un’area di cielo molto grande e dall’altro di ricostruire l’emissione diffusa e debole dell’ammasso con molta attenzione. Dato che le nostre osservazioni si spingono fino a frequenza molto bassa (50 MHz), dove le distorsioni della ionosfera si manifestano in maniera più evidente, le tecniche che abbiamo sviluppato hanno dovuto risolvere questi problemi in condizioni particolarmente complesse. Queste tecniche però hanno dato i loro frutti: l’immagine di Abell 2255 che abbiamo ottenuto a 50 MHz è l’immagine più profonda mai realizzata finora a questa frequenza”.

“Teoricamente credevamo che le regioni nelle periferie degli ammassi di galassie fossero molto attive e che la turbolenza e gli shock generati in questi ambienti potessero accelerare le particelle ad altissima energia e amplificare i campi magnetici locali. Grazie alle nostre osservazioni, ora siamo in grado di studiare questi processi in territori inesplorati”,

sottolinea Gianfranco Brunetti, dell’INAF di Bologna, il quale da alcuni anni guida a livello internazionale le ricerche LOFAR nell’ambito degli ammassi di galassie ed è coordinatore nazionale della collaborazione LOFAR.

Svelare le proprietà di regioni inesplorate delle strutture su larga scala del nostro Universo è l’obiettivo dei prossimi anni per gli astronomi che operano in questo campo. Per tale motivo, i ricercatori utilizzeranno LOFAR 2.0 e il futuro radiotelescopio SKA (così come altri strumenti) per andare oltre gli ammassi stessi, tracciando la rete di filamenti che collega gli ammassi di galassie nell’Universo: la famosa ragnatela cosmica.


 

Per ulteriori informazioni:

L’INAF ha aderito all’International LOFAR Telescope nel 2018. Con oltre 25 mila antenne raggruppate in 51 stazioni distribuite in 7 stati europei, il Low Frequency Array (LOFAR), gestito da ASTRON, è la più estesa rete per osservazioni radioastronomiche in bassa frequenza attualmente operativa. Con la firma del contratto per la realizzazione di una nuova stazione presso Medicina, in provincia di Bologna, LOFAR diventerà ancora più esteso e aumenteranno di conseguenza le sue capacità osservative. L’INAF guida un consorzio nazionale, di cui fa parte anche il dipartimento di fisica dell’Università di Torino, e parteciperà allo sviluppo della nuova generazione di dispositivi elettronici che equipaggeranno questo radiotelescopio diffuso sul territorio europeo. Il consorzio ha l’obiettivo di fornire agli scienziati italiani le condizioni per l’accesso e l’analisi dei dati di LOFAR, massimizzando l’impatto scientifico della ricerca. L’INAF gestisce, inoltre, l’infrastruttura computazionale nazionale per l’analisi dei dati LOFAR, distribuita in tre siti: Bologna, Trieste e Catania.

 

L’articolo “Magnetic fields and relativistic electrons fill entire galaxy cluster”, di Andrea Botteon,  Reinout J. van Weeren, Gianfranco Brunetti, Franco Vazza, Timothy W. Shimwell, Marcus Brüggen, Huub J. A. Röttgering, Francesco de Gasperin, Hiroki Akamatsu, Annalisa Bonafede, Rossella Cassano, Virginia Cuciti, Daniele Dallacasa, Gabriella Di Gennaro, Fabio Gastaldello, è stato pubblicato sulla rivista Science Advances.

Testo, video e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

Parte a Bologna il reclutamento per il progetto ESCAPE

Il reclutamento1 per l’ambizioso progetto di ricerca europeo coinvolgerà pazienti anziani dell’Ospedale Bellaria con scompenso cardiaco ed altre patologie coesistenti

L’Ospedale Bellaria a Bologna. Foto di Ceppicone, CC BY-SA 4.0

Il 9 settembre 2022, presso l’UOC Cardiologia dell’Ospedale Bellaria di Bologna e con la collaborazione del Dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna, ha avuto inizio il reclutamento di pazienti con diagnosi di scompenso cardiaco cronico e altre patologie compresenti per il progetto di ricerca internazionale “ESCAPE”.

Il progetto di ricerca, finanziato con fondi europei, si propone di cambiare consistentemente il percorso di cure di pazienti anziani con più patologie croniche e dei loro familiari.

progetto ESCAPE

Il modello oggetto di studio cerca infatti di rispondere alla domanda di cura particolarmente frammentata di questi pazienti, che devono fare ricorso a numerosi medici, specialisti e piani di trattamento molto differenziati nella gestione delle loro patologie. A fronte di tale complessità viene proposta la figura del Care Manager: attraverso l’uso di tecnologie informatiche per la salute e la collaborazione con numerosi professionisti sanitari, il Care Manager si occuperà di assistere il paziente nel coordinamento delle cure e nella gestione delle sue necessità psicofisiche specifiche.

All’interno del progetto di ricerca sono coinvolti 16 partner distribuiti in 8 nazioni diverse, con il gruppo italiano guidato dalla Prof.ssa Chiara Rafanelli, professoressa ordinaria di Psicologia Clinica presso il Dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna, e dal Dr. Stefano Urbinati, Direttore dell’UOC Cardiologia dell’Ospedale Bellaria di Bologna.

Lo studio, iniziato nel 2021, terminerà nel 2025, con un investimento di risorse previsto pari a 6,1 milioni di euro, stanziati integralmente dall’Unione europea.

Più informazioni sul progetto, la sua struttura e i suoi obiettivi sono reperibili sul sito ufficiale https://escape-project.org/ .

Bologna reclutamento progetto ESCAPE
Foto di Claudia Peters

 

Post Instagram del dott. Graziano Gigante, assegnista di ricerca per il progetto ESCAPE al dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna.

 

Testo dal progetto ESCAPE – Università di Bologna

Nota: Per reclutamento si intende la procedura tipica della ricerca in cui sono identificati, invitati a partecipare, valutati ed eventualmente inseriti nello studio soggetti che presentano criteri per prendervi parte.

UE Unione EuropeaThis project has received funding from the European Union’s Horizon 2020 research and innovation programme under grant agreement No 945377 (ESCAPE). This output reflects the views of the authors and the European Commission is not responsible for any use that may be made of the information contained therein.

 

LOFAR SI SINTONIZZA SUI “MEGAHALO”, STERMINATE REGIONI DI SPAZIO CHE EMETTONO DEBOLI SEGNALI RADIO

Un gruppo internazionale di ricercatrici e ricercatori, tra cui alcuni dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università di Bologna, ha individuato per la prima volta attorno a quattro ammassi di galassie delle gigantesche regioni che emettono onde radio e si estendono anche per 10 milioni di anni luce. Lo studio viene pubblicato oggi sulla rivista Nature.

Megahalo

Un gruppo di ricerca internazionale ha individuato quattro differenti ammassi di galassie interamente avvolti da una debole emissione radio che si estende fino alle loro estreme periferie. Queste sorgenti radio –  denominate “Megahalo” – raggiungono i 10 milioni di anni luce e coprono un volume 30 volte più grande rispetto alle sorgenti radio finora note rilevate in ambienti simili. La ricerca – pubblicata oggi sul sito web della rivista Nature – è stata realizzata utilizzando dati raccolti dal radiotelescopio LOFAR (LOw Frequency ARray), costituito da una rete di antenne distribuite in vari Paesi europei.

I risultati ottenuti suggeriscono che i “Megahalo”, alimentati dall’energia gravitazionale che modella la struttura dell’universo, potrebbero essere un fenomeno comune in molte parti dell’universo.

“Abbiamo scoperto un acceleratore di particelle di proporzioni cosmologiche e questo studio suggerisce che molti altri ammassi di galassie potrebbero mostrare emissioni su scale così grandi”,

commenta Virginia Cuciti, prima autrice dell’articolo, Alexander von Humboldt fellow all’Università di Amburgo e associata INAF. Virginia Cuciti ha ottenuto il dottorato in Astrofisica dall’Università di Bologna, lavorando presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

“Questa scoperta potrebbe essere solo la punta dell’iceberg: con osservazioni più dettagliate, come quelle che potremo avere con il nuovo LOFAR 2.0 e con il radiotelescopio SKA, potremmo essere in grado di individuare un numero maggiore di ammassi di galassie che presentano queste caratteristiche”, aggiunge Francesco De Gasperin, ricercatore dell’INAF, secondo autore dello studio.

La materia nell’universo è distribuita lungo una complessa rete di filamenti che gli astronomi chiamano “ragnatela cosmica” (“cosmic web”). In corrispondenza dei nodi di questa ragnatela, si concentrano ammassi galattici formati da centinaia o anche migliaia di galassie.

Quando due di questi ammassi di galassie collidono per fondersi in un unico ammasso, si generano eventi tra i più potenti mai avvenuti nell’universo dopo il Big Bang, che rilasciano enormi quantità di energia. In questi casi, gli elettroni vengono accelerati a velocità prossime a quella della luce, ed emettono così onde radio che possono essere rilevate dai radiotelescopi.

LOFAR
LOFAR

Analizzando le emissioni registrate dal radiotelescopio LOFAR per 310 ammassi di galassie, gli studiosi hanno così individuato quattro ammassi completamente avvolti da una debole emissione radio, con dimensioni e caratteristiche uniche rispetto alle sorgenti radio conosciute finora, che hanno ribattezzato “Megahalo”.

I “Megahalo” mostrano come gli elettroni accelerati a velocità prossime a quella della luce e i campi magnetici possono estendersi ben oltre l’emissione radio osservata comunemente negli ammassi di galassie, e le loro proprietà indicano che le condizioni fisiche delle regioni più esterne degli ammassi di galassie sono molto differenti rispetto a quelle centrali.

 “I risultati ottenuti ci aiutano a capire in che modo l’energia viene dissipata durante la formazione di strutture cosmologiche su larga scala e come le particelle vengono accelerate nel plasma a bassa densità”,

aggiunge Franco Vazza, professore al Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna e associato INAF, tra gli autori dello studio.

 

LOFAR è un telescopio realizzato per esplorare l’Universo alle basse frequenze radio (10-240 MHz). È composto da un network di antenne radio pan-europeo, guidato da ASTRON, l’Istituto di Radioastronomia dei Paesi Bassi. All’iniziativa partecipano Italia, Francia, Germania, Irlanda, Lettonia, Paesi Bassi, Polonia, Svezia, Regno Unito e Bulgaria. Dal 2018 l’Istituto Nazionale di Astrofisica guida un consorzio nazionale, partecipando con il suo personale anche allo sviluppo della nuova generazione di dispositivi elettronici allo stato dell’arte che equipaggeranno il radiotelescopio e al software che regola il funzionamento del telescopio. Lo studio degli ammassi di galassie è uno fra i campi di maggiore interesse della collaborazione LOFAR e vede un coinvolgimento molto importante del personale INAF.

 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Galaxy clusters enveloped by vast volumes of relativistic electrons” di V. Cuciti, F. de Gasperin, M. Brüggen, F. Vazza, G. Brunetti, T. W. Shimwell, H. W. Edler, R. J. van Weeren, A. Botteon, R. Cassano, G. Di Gennaro, F. Gastaldello, A. Drabent, H. J. A. Röttgering, e C. Tasse è stato pubblicato online sulla rivista Nature.

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

Disturbo dell’orientamento: chi colpisce e come prevenirlo
Un nuovo studio del Dipartimento di Psicologia della Sapienza rivela che sono più gli uomini che le donne a soffrire di disorientamento topografico evolutivo, un disturbo specifico dello sviluppo che colpisce la capacità di orientarsi. I risultati della ricerca, condotta su un campione di giovani italiani e pubblicata sulla rivista PLoS One, aprono la strada a possibili strategie di prevenzione

Il disorientamento topografico evolutivo (DTD) è un disturbo dello sviluppo neuropsicologico che colpisce la capacità di orientamento. Immagine di PIRO

Nell’ultimo decennio sono stati riscontrati diversi casi di individui affetti da disorientamento topografico evolutivo (DTD), un disturbo dello sviluppo neuropsicologico che colpisce la capacità di orientarsi.

Le persone che soffrono di questo disturbo hanno un livello intellettivo generale nella norma, non mostrano altri deficit cognitivi o disordini neurologici o psichiatrici e, solitamente, non presentano patologie o alterazioni cerebrali, ma solo difficoltà nelle capacità navigazionali, che vanno dai deficit di memoria topografica all’incapacità di riconoscere elementi dell’ambiente come punti di riferimento. Tutti i casi sono accomunati dall’incapacità di avere una rappresentazione mentale dell’ambiente per orientarsi nello spazio in modo adeguato.

Una nuova ricerca, condotta da Cecilia Guariglia, Laura Piccardi e Maddalena Boccia del Dipartimento di Psicologia della Sapienza, ha indagato la presenza del DTD in 1.698 giovani italiani riscontrando questo disturbo nel 3 % del campione.
Lo studio dimostra come il senso dell’orientamento sia strettamente correlato alla conoscenza dell’ambiente di residenza e alle strategie di navigazione adottate, ma anche al genere. Infatti, sebbene in generale gli uomini usino strategie navigazionali più complesse di quelle utilizzate dalle donne, il DTD risulta più diffuso negli uomini, in linea con quanto descritto dalla letteratura.

I risultati, frutto della collaborazione della Sapienza con l’IRCCS San Raffaele di Roma, l’Università dell’Aquila, l’Itaf di Pratica di Mare, l’IRCCS Fondazione Santa Lucia, l’Università di Catanzaro e l’Università di Bologna, sono stati pubblicati sulla rivista PLoS One.

“Abbiamo deciso – chiarisce Cecilia Guariglia, coordinatrice dello studio – di includere nel nostro campione solo individui di età compresa tra i 18 ei 35 anni, escludendo le persone che potrebbero manifestare la perdita delle capacità navigazionali a causa di un declino cognitivo dovuto all’età. I dati sono stati raccolti tra il 2016 e il 2019 utilizzando la piattaforma Qualtrics, attraverso la quale sono stati somministrati un questionario anamnestico e la scala Familiarity and Spatial Cognitive Style”.

Lo studio si focalizza anche sugli interventi per prevenire i disturbi della navigazione. Tra questi, potrebbero risultare utili un addestramento all’orientamento spaziale a partire dall’età prescolare, attività di formazione volte a migliorare la metacognizione, ma anche la pratica quotidiana del videogioco Tetris.

“Sebbene ci sia molto ancora da studiare – conclude Cecilia Guariglia – il nostro auspicio è che in futuro si possano realizzare protocolli di prevenzione dello sviluppo dei disturbi della navigazione e promuovere queste capacità riducendo il divario di genere”.

Riferimenti:
“Where am I?” A snapshot of the developmental topographical disorientation among young Italian adults – Laura Piccardi, Massimiliano Palmiero, Vincenza Cofini, Paola Verde, Maddalena Boccia, Liana Palermo, Cecilia Guariglia, Raffaella Nori – Plos One (2022) https://doi.org/10.1371/journal.pone.0271334

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Zanzare che trasmettono virus: tracciarle è importante: con l’app Mosquito Alert, i cittadini aiutano i ricercatori
Monitorare le zanzare e i patogeni che possono trasmettere, come il virus West Nile, è importante per la salute pubblica e per la sanità animale. Un aiuto arriva anche da Mosquito Alert, l’app con cui i cittadini aiutano i ricercatori a tracciare le specie di zanzara presenti sul territorio.

L’Italia è sempre al centro della ricerca scientifica sulle zanzare, che mai come ora vanno studiate con attenzione anche nel nostro paese. Con le loro fastidiose punture, infatti, le zanzare possono anche trasmettere malattie a uomo e animali. Questo succede prevalentemente in regioni tropicali dove oltre 700.000 morti all’anno sono attribuite a malattie trasmesse da zanzare. Si stima che circa metà della popolazione mondiale viva in aree dove è possibile contrarre un’infezione dalla puntura di una zanzara.

Quest’estate, l’Italia sta vivendo un forte aumento di casi del virus di West Nile rispetto agli anni precedenti. Questo virus viene normalmente trasmesso da zanzare a uccelli (e viceversa), e occasionalmente alcuni mammiferi come cavalli ed esseri umani possono essere infettati attraverso la puntura di una zanzara che a sua volta si è infettata pungendo un uccello malato. La maggior parte delle persone infette non mostra alcun sintomo, mentre circa il 20% presenta sintomi leggeri: febbre, mal di testa, nausea, vomito, linfonodi ingrossati, sfoghi cutanei. Solo in rari casi, e prevalentemente nelle persone anziane, il virus produce seri problemi neurologici e può essere letale. Dalla sua prima segnalazione nel 1937 in Uganda nell’omonimo distretto, il virus West Nile è ormai presente in Medio Oriente, Nord America, Asia Occidentale ed Europa, dove è comparso nel 1958 e in Italia dal 2008.

“A differenza del cavallo, nell’essere umano non esiste ancora un vaccino per la malattia di West Nile e la prevenzione consiste solo nel difendersi dalle punture di zanzara, per esempio con repellenti e zanzariere – chiarisce Alessandra della Torre, coordinatrice del gruppo di ricerca di entomologia medica di Sapienza. La prevenzione va effettuata soprattutto a livello individuale, ma tanto i cittadini quanto le amministrazioni pubbliche devono vigilare: l’obiettivo è quello di eliminare, quando possibile, i siti dove maturano le larve (raccolte d’acqua, canali di irrigazione, vasche ornamentali, caditoie stradali) delle zanzare che trasmettono il virus, o di trattare tali siti con insetticidi a basso impatto ambientale, in modo da ridurre infine il numero delle zanzare adulte”.

West Nile in Italia, ecco un po’ di numeri: dall’inizio di giugno al 30 agosto 2022, il bollettino periodico dell’Istituto Superiore di Sanità, del Ministero della salute, riporta 386 casi umani di infezione confermata, con 22 decessi; il primo caso è stato in Veneto e prevalgono le segnalazioni al nord, ma se ne registrano anche più a sud come in Toscana ed Emilia-Romagna, nonché in Sardegna. La sorveglianza veterinaria su cavalli, zanzare e uccelli (selvatici e stanziali) al 30 agosto conferma la circolazione del virus West Nile in Piemonte, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Lombardia e Sardegna. E tra tutte le infezioni umane West Nile segnalate all’ECDC (European Centre for Disease Prevention and Control) dai paesi dell’Unione europea e dello Spazio economico europeo, dall’inizio della stagione di trasmissione al 31 agosto 2022, la maggior parte arriva proprio dall’Italia.

Mosquito Alert Italia, a cui partecipano l’Istituto Superiore di Sanità, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, MUSE- Museo delle Scienze di Trento e Università di Bologna, con il coordinamento del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive di Sapienza, è un progetto di scienza partecipata (Citizen Science), che coinvolge cioè i cittadini nel monitoraggio delle zanzare.Basta avere uno smartphone, scaricare l’app gratuita Mosquito Alert e inviare ai ricercatori foto di zanzare e di possibili siti riproduttivi dell’insetto (es., tombini), ma anche segnalazioni delle punture ricevute.

Culex Pipiens Zanzare che trasmettono virus: tracciarle è importante con l’app Mosquito Alert, i cittadini aiutano i ricercatori
Zanzare che trasmettono virus: tracciarle è importante: con l’app Mosquito Alert, i cittadini aiutano i ricercatori. Culex Pipiens. Foto di David BARILLET-PORTAL, CC BY-SA 3.0

Ma è inviando fotografie di zanzare che si potrà davvero fare la differenza, permettendo alla task force di Mosquito Alert Italia di identificarne le specie; si potranno anche inviare fisicamente interi esemplari dell’insetto ai ricercatori di Sapienza. Il tracciamento sarà indirizzato a tutte le specie di zanzara: sia quelle che hanno ampliato la loro distribuzione a seguito di fenomeni quali cambiamento climatico, globalizzazione e aumento degli spostamenti internazionali (specie invasive), sia quelle già presenti in origine sul territorio (autoctone), come la cosiddetta “zanzara comune” o “zanzara notturna” (Culex pipiens), responsabile della trasmissione del virus West Nile in Italia.

“Tracciare le specie di zanzara e le variazioni dei loro areali è importante – dichiara Beniamino Caputo di Sapienza, coordinatore di Mosquito Alert Italia – anche nel Piano Nazionale di prevenzione, sorveglianza e risposta alle Arbovirosi (PNA) 2020-2025 del Ministero della salute, si contempla la collaborazione attiva dei cittadini con i ricercatori (Citizen Science), tra le azioni rilevanti ai fini della gestione delle malattie trasmesse da vettori. Mosquito Alert consente di farlo con un minimo sforzo”.

Riferimenti:

www.mosquitoalert.it

https://www.epicentro.iss.it/westNile/bollettino

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Lotta alle zanzare: approda in Italia MosquitoAlert, l’app che permette ai cittadini di contribuire con un click 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Abitare con i nonni rende più bilanciata la divisione del lavoro domestico all’interno della coppia

Un’indagine su dati ISTAT realizzata da due studiosi dell’Università di Bologna e dell’Università di Padova mostra come la presenza in casa dei nonni aiuti ad alleggerire il peso dei lavori domestici più routinari, che ancora oggi gravano spesso sulle spalle delle donne.

Quando i nonni vivono sotto lo stesso tetto con genitori e nipoti, la divisione delle faccende domestiche all’interno della coppia è più egualitaria e quindi meno sbilanciata a sfavore delle donne. È la conclusione di uno studio pubblicato sulla rivista GENUS e firmato da Marco Albertini (Università di Bologna) e Marco Tosi (Università di Padova).

Abitare con i nonni rende più bilanciata la divisione del lavoro domestico all’interno della coppia
Abitare con i nonni rende più bilanciata la divisione del lavoro domestico all’interno della coppia. Foto di tookapic

Gli studiosi hanno analizzato la distribuzione asimmetrica dei compiti domestici all’interno delle coppie di genitori italiani in relazione ai rapporti tra nonni, genitori e nipoti. Una distribuzione che non viene alterata da incontri faccia a faccia più o meno frequenti con i nonni non conviventi, ma diventa invece più bilanciata all’interno della coppia quando i nonni sono parte stabile del nucleo familiare.

“In termini di equità nella divisione del lavoro domestico, avere dei nonni che vivono in casa ha un effetto comparabile a quello di pagare un aiutante domestico e maggiore di quello di una baby sitter assunta”, spiega Marco Albertini. “Esternalizzare il lavoro domestico tende dunque a favorire l’equità di genere all’interno delle coppie”.

Negli ultimi anni, il ruolo dei nonni è diventato sempre più centrale, sia nell’influenzare le scelte riproduttive delle coppie, sia nel favorire la conciliazione tra vita familiare e vita lavorativa. Diversi studi hanno mostrato, ad esempio, come la presenza dei nonni in famiglia favorisca la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, o anche come vada ad incentivare il benessere sia dei nipoti e che dei nonni stessi. Un’attenzione minore è stata però dedicata a come i rapporti tra nonni, genitori e nipoti possano influenzare la divisione del lavoro domestico all’interno delle coppie.

Nell’ambito dei compiti familiari, negli ultimi decenni si è assistito infatti ad una distribuzione progressivamente più equa rispetto alla cura dei figli, in particolare tra le coppie con un alto livello di istruzione. Lo stesso non è però accaduto per quanto riguarda la distribuzione dei compiti domestici più routinari come cucinare, pulire la casa, fare il bucato e occuparsi della spesa: compiti che ancora oggi, in genere, vengono portati avanti in larga parte dalle donne.

Per capire se questo fenomeno possa essere influenzato dalla presenza dei nonni in famiglia, gli studiosi hanno quindi realizzato un’analisi a partire dai dati del rapporto ISTAT “Famiglie e Soggetti sociali”. Lo studio ha mostrato che la presenza dei nonni nell’ambito domestico aiuta le coppie ad esternalizzare i compiti più intensi e routinari, che gravano spesso sulle spalle delle donne. E se l’ammontare di lavoro domestico diminuisce, le coppie hanno meno necessità di negoziare la suddivisione dei compiti e meno possibilità di suddividerli in modo disuguale.

“In un contesto come quello italiano, in cui la convivenza estesa tra generazioni è parte di una cultura di legami familiari forti e tradizionalismo, le famiglie composte da tre generazioni conviventi hanno una divisione dei compiti domestici più egualitaria, dovuta al supporto che i nonni forniscono all’interno del nucleo familiare”, conferma Marco Tosi. “In questo senso, una più equa divisione del lavoro domestico è dovuta al fatto che le madri tendono a beneficiare in modo maggiore del vivere in casa con i nonni”.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista GENUS con il titolo “Grandparents, family solidarity and the division of housework: evidence from the Italian case”. Gli autori sono Marco Albertini, professore al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, e Marco Tosi, ricercatore al Dipartimento di Scienze Statistche dell’Università di Padova.

 

Testo dall’Università degli Studi di Padova

LINFOMA B DEL CANE, STUDIO DI UNITO SCOPRE NUOVE MUTAZIONI GENETICHE E IDENTIFICA NUOVI TARGET TERAPEUTICI APRENDO A NUOVE POSSIBILITÀ DI CURA ANCHE PER L’UOMO

 

Il linfoma a grandi cellule B è uno dei tumori più frequenti nel cane ed è considerato un buon modello per lo studio della stessa patologia nell’uomo. Lo studio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature, Lab Animal

Linfoma B del cane
Foto di Daniela Jakob

 

Ricercatori e ricercatrici di un team europeo coordinato dal Prof. Luca Aresu del Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Torino, hanno identificato per la prima volta le mutazioni genetiche presenti nel Linfoma a grandi cellule B (DLBCL) del cane. Tale risultato rappresenta la prima descrizione del profilo genetico di questo tumore del cane.

Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista di Nature, Lab Animal (https://www.nature.com/articles/s41684-022-00998-x), in collaborazione con l’Università di Bologna (Prof.ssa Laura Marconato) e l’Institute of Oncology Research di Bellinzona (Prof. Francesco Bertoni) rappresenta un enorme passo avanti nella comprensione dei meccanismi patogenetici del DLBCL e identifica nuovi marker prognostici e terapeutici per il monitoraggio della malattia.

Il DLBCL infatti è uno dei tumori più frequenti nel cane, ma soprattutto da anni viene considerato anche come un buon modello per studiare la stessa patologia nell’uomo. Proprio in questo senso i risultati ottenuti dal team di ricerca potrebbero portare a vantaggi che riguardano sia il cane sia l’uomo.

Purtroppo, nonostante i grossi passi avanti nelle terapie del cane, tra cui la possibilità di usare un vaccino autologo in associazione al protocollo chemioterapico standard, il DLBCL rimane ancora troppo spesso non curabile. La malattia umana e quella canina sono molto simili e infatti diverse molecole, approvate da agenzie regolatorie per il trattamento dei linfomi umani, sono state provate prima in cani affetti da linfomi, dando ottimi risultati ma, fino ad oggi, mancava una analisi più approfondita dei meccanismi patogenetici alla base dello sviluppo del DLBCL del cane e un confronto con la controparte umana.

Da anni il Prof. Aresu dirige il “Canine Comparative Oncology Lab” al Dipartimento di Scienze Veterinarie conducendo studi nel campo della genetica, trascrittomica ed epigenetica dei tumori più frequenti e aggressivi nel cane. La ricerca si focalizza, in particolare, su caratteristiche istologiche, fenotipiche, molecolari e genetiche che sono alla base della predisposizione tumorale e patogenesi delle principali neoplasie del cane. Inoltre, i bersagli molecolari delle neoplasie più frequenti ed aggressive sono studiati per ricercare terapie target.

Nel suo studio il gruppo di ricerca ha applicato tecniche di Next Generation Sequencing per studiare la parte codificante del DNA dei cani con tumore. Tale approccio è alquanto nuovo in medicina veterinaria ed ha permesso di evidenziare come esistano delle similitudini con il DLBCL umano, tra cui alcuni pathway di attivazione di NFκ-B e B-cell receptor e del rimodellamento della cromatina. Ma sono state messe in evidenza anche delle differenze, tra cui le mutazioni più frequenti che caratterizzano questo tumore. Infatti, i geni più frequentemente mutati nel cane (TRAF3, SETD2, POT1, TP53, FBXW7) sono alterati meno frequentemente nel DLBCL umano, come evidenziato in diversi studi degli ultimi anni in medicina umana.

Attraverso la stretta collaborazione di ricercatori di fama internazionale nel campo della patologia comparata, del sequenziamento, dell’oncologia veterinaria e della medicina umana è stato possibile associare alcune mutazioni a caratteristiche biologiche e andamenti clinici diversi. Nello specifico le mutazioni del gene TP53 sono state associate ad una prognosi peggiore indipendentemente dal trattamento. Il gene TP53 viene definito “il guardiano del genoma” proprio per la sua funzione di identificare danni al DNA e successivamente impedire che i difetti vengano trasmessi nel processo di replicazione. Nel DLBCL del cane, le mutazioni del TP53 hanno un effetto deleterio tale da impedire la sua funzione protettiva e potenzialmente portare allo sviluppo di un tumore. Nello studio, tutti i cani erano stati trattati e seguiti dalla Prof.ssa Marconato.

Proprio la disponibilità dei dati clinici e di follow-up ha permesso lo sviluppo di un modello predittivo da parte del Prof. Piero Fariselli del Dipartimento di Scienze Mediche di UniTo che è oggi disponibile online (https://compbiomed.hpc4ai.unito.it/canine-dlbcl/). Tale modello permetterà in futuro a veterinari e proprietari di cani con DLBCL di indirizzare la scelta terapeutica e potenzialmente avere una predizione sulla prognosi. A partire dall’autunno, infatti, lo screening genetico del TP53 sarà disponibile a livello diagnostico e rappresenterà il primo test genetico disponibili in oncologia veterinaria in grado di predire prognosi e guidare la terapia.

Il gruppo del Prof. Bertoni a Bellinzona è attivo nello sviluppo di nuovi farmaci e combinazioni per pazienti affetti da linfomi. Già da anni, gli screenings, in collaborazione con il Prof. Aresu, comprendono un modello di DLBCL canino. I risultati dello studio appena pubblicato permetteranno di scegliere nel modo migliore quali nuovi approcci terapeutici siano più appropriati per studi sui cani.

 

Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino