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Università degli Studi di Torino

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Perché i cani scodinzolano? 

Uno studio della Sapienza Università di Roma indaga sulle risposte possibili a partire dal processo evolutivo

Vi siete mai chiesti perché i cani scodinzolano e perché agli esseri umani piace questo comportamento? I cani domestici sono definiti i “migliori amici dell’uomo”: un terzo di tutte le famiglie del mondo ne possiedono uno e la nostra convivenza è iniziata circa 35 000 anni fa. Molti dei loro comportamenti, tuttavia, rimangono un enigma scientifico. Un team di ricercatori di Torino, Vienna e Nimega, coordinati dal professor Andrea Ravignani della Sapienza ha condotto uno studio pubblicato sulla rivista Biology Letters che riassume i risultati dei lavori finora realizzati su meccanismi, ontogenesi, evoluzione e funzione dello scodinzolio nei cani domestici.

L‘addomesticamento – quello del cane probabilmente è iniziato durante il Paleolitico superiore – è un processo lungo che porta a una serie di cambiamenti fisiologici, morfologici e comportamentali derivanti da un’interazione ecologica: una specie gestisce attivamente la sopravvivenza e la riproduzione di un’altra, che garantisce risorse e servizi alla prima.

Nei cani e in alcuni altri mammiferi, questi cambiamenti possono riguardare la depigmentazione della pelliccia, la riduzione delle dimensioni dello scheletro facciale e dei denti, le dimensioni e le proporzioni generali del corpo, la comparsa di attributi fisici come le orecchie flosce e la coda arricciata, la riduzione dell’aggressività, l’aumento della docilità e la variazione dei livelli ormonali con conseguenti cambiamenti comportamentali, come una ridotta risposta allo stress. Inoltre, studi comparativi tra lupi e cani hanno dimostrato che il processo di addomesticamento ha plasmato la cognizione e la socievolezza dei cani sia nelle interazioni cane-cane sia in quelle cane-uomo.

Le diverse ipotesi che hanno cercato di spiegare come si siano verificati questi cambiamenti, sono riconducibili a due processi: le caratteristiche desiderabili nelle specie addomesticate sono principalmente il risultato dell’adattamento a un ambiente dominato dall’uomo, e cioè un sottoprodotto di selezione per altre caratteristiche, oppure essere frutto della selezione genetica operata dall’uomo in modo diretto. In particolare, lo scodinzolio potrebbe essere emerso durante il processo di addomesticamento seguendo due strade: o come sottoprodotto della selezione di altri tratti, come la docilità, o come tratto direttamente selezionato dall’uomo il quale è attratto dai movimenti ripetitivi e ritmici.

Nel primo caso, esisterebbe un legame genetico tra la docilità e l’anatomia della coda: le selezioni iniziali per la docilità possono aver determinato alterazioni delle cellule della cresta neurale durante lo sviluppo, con ripercussioni su vari tratti fenotipici, tra cui appunto l’anatomia della coda. Ciò è in linea con i risultati di un esperimento a lungo termine che ha cercato di replicare il processo di addomesticamento dei mammiferi e di seguire i cambiamenti nel comportamento, nella genetica e nello sviluppo. L’esperimento è stato condotto su volpi argentate (Vulpes vulpes) allevate per 40 generazioni e selezionate direttamente per addomesticabilità e docilità. La popolazione di volpi risultante mostrava tratti comportamentali, fisiologici e morfologici simili a quelli osservati nei cani: sebbene il comportamento scodinzolante non sia stato selezionato direttamente, le volpi addomesticate mostravano un comportamento scodinzolante simile a quello dei cani e avevano code più arricciate. Questo avvalorerebbe l’ipotesi che il processo di addomesticamento abbia portato a cambiamenti a livello comportamentale e anatomico che hanno alterato il comportamento scodinzolante dei cani, tanto che questi ultimi scodinzolano più spesso e in più contesti rispetto ai canidi non addomesticati.
La seconda ipotesi è invece quella dello “scodinzolio ritmico addomesticato”: il comportamento scodinzolante potrebbe essere stato uno degli obiettivi del processo di addomesticamento, con gli esseri umani che hanno (non) consapevolmente selezionato i cani che scodinzolavano più spesso e, potenzialmente, più ritmicamente. Infatti, prove multidisciplinari dimostrano che gli esseri umani hanno notevoli capacità di percepire e produrre sequenze ritmiche, in particolare schemi isocroni in cui gli eventi sono uniformemente distanziati nel tempo. Non è ancora chiaro come questa caratteristica comportamentale sia comparsa nell’uomo, ma le neuroscienze cognitive dimostrano che il cervello umano preferisce gli stimoli ritmici, che innescano risposte piacevoli e coinvolgono le reti cerebrali che fanno parte del sistema di ricompensa. Questa propensione per i ritmi isocroni potrebbe aver guidato la selezione umana per il vistoso scodinzolio ritmico nei cani e potrebbe spiegare perché i cani lo mostrano così spesso nelle interazioni uomo-cane.
Secondo entrambe le ipotesi, la selezione del comportamento scodinzolante potrebbe non essere stata uniforme tra le varie razze; ad esempio, i cani da caccia scodinzolano di più dei cani da pastore, e hanno subito pressioni selettive diverse nel corso dell’addomesticamento.
“La combinazione di tecniche di analisi comportamentale, di visione computerizzata e di fisiologia con le neuroscienze, potrà aiutare a distinguere tra i movimenti della coda sotto controllo, quindi sotto possibile selezione, da quelli derivanti da meri effetti meccanici come ad esempio, la punta della coda che si muoverebbe come conseguenza del fatto che più porzioni craniali della coda sono state sottoposte ad un’azione di selezione”
spiega Andrea Ravignani, professore ordinario di Psicologia generale
“Un’indagine più sistematica e approfondita sullo scodinzolio non solo permetterà di mappare meglio questa iconica manifestazione comportamentale del cane, ma fornirà anche indiretta sull’evoluzione dei tratti umani, come la percezione e la produzione di stimoli ritmici”.

Riferimenti:
Why do dogs wag their tails? Silvia Leonetti, Giulia Cimarelli, Taylor A. Hersh, Andrea Ravignani
Biology Letters – DOI: 
https://doi.org/10.1098/rsbl.2023.0407

 

cani scodinzolano
Foto di danielle828

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

 

PERCHÈ I CANI SCODINZOLANO? UNA RICERCA DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO INDAGA SULLE RAGIONI DI QUESTO COMPORTAMENTO ENIGMATICO

Lo studio, condotto in collaborazione con le Università di Roma, Vienna e il Max Planck Institute for Psycholinguistics, riassume le ricerche esistenti riguardo i meccanismi, l’evoluzione e la funzione dello scodinzolio dei cani domestici.

cane Coda

Oggimercoledì 17 gennaio, sulla rivista Biology Letters, è stata pubblicata la ricerca intitolata “Why do dogs wag their tails?”, condotta dalla Dott.ssa Silvia Leonetti del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino, in collaborazione con l’Università di Roma La Sapienza, l’Università di Medicina Veterinaria di Vienna e il Max Planck Institute for Psycholinguistics. In questo lavoro vengono riassunte le ricerche che hanno indagato i meccanismi, l’evoluzione e la funzione dello scodinzolio nei cani domestici e vengono inoltre avanzate due ipotesi evolutive per spiegare l’insorgenza di questo comportamento evidente ma scientificamente ancora poco chiaro.

I cani domestici sono i carnivori più diffusi al mondo. Con una popolazione stimata di un miliardo di individui sono presenti in quasi tutte le aree abitate dall’uomo, una convivenza iniziata circa 35mila anni. Molti dei loro comportamenti, tuttavia, rimangono un enigma scientifico, come ad esempio il loro scodinzolio. Le code sono comuni a tutti i vertebrati e si sono originariamente evolute per la locomozione; molti animali le usano anche per l’equilibrio e per scacciare i parassiti. Nei canidi, le code non sono più utilizzate per la locomozione, ma piuttosto per la comunicazione rituale.

La coda dei cani è un’estensione della colonna vertebrale, ma si sa poco di come i suoi movimenti siano controllati a livello neurofisiologico. Si tratta di un comportamento asimmetrico, con i cani che mostrano movimenti lateralizzati a seconda degli stimoli che incontrano. Ciò suggerisce una lateralizzazione cerebrale, con una tendenza a scodinzolare sul lato destro, determinata dall’attivazione dell’emisfero sinistro, per gli stimoli che hanno una valenza emotiva positiva (es: quando viene mostrato il padrone o una persona familiare). Al contrario, mostrano uno scodinzolio orientato a sinistra, quindi l’attivazione dell’emisfero destro, per gli stimoli che suscitano ritiro (es: quando viene mostrato un cane sconosciuto e dominante o in situazioni di aggressività).

Associare lo scodinzolio all’eccitazione, sia positiva che negativa, suggerisce una correlazione con gli ormoni e i neurotrasmettitori legati a questo tipo di reazione. Ad esempio, esistono prove indirette che collegano l’ossitocina allo scodinzolio, soprattutto quando i cani si riuniscono a un umano familiare. Tuttavia, le associazioni tra il comportamento scodinzolante e i livelli di cortisolo non sono coerenti tra gli studi. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che i livelli di cortisolo basale possono variare con molti altri parametri (sesso, razza, età e storia di vita del cane). In aggiunta, le incongruenze del passato possono essere dovute al fatto che lo scodinzolio viene tipicamente analizzato come un’unica categoria comportamentale, senza tener conto della sua natura multidimensionale e dei suoi parametri.

“Nessuno studio – dichiara Silvia Leonetti – ha seguito lo sviluppo del comportamento scodinzolante nello stesso individuo per tutta la vita. Solo in un caso, tuttavia, sono state quantificate diverse caratteristiche comportamentali dei cuccioli di cane e di lupo, compreso lo scodinzolio. I cuccioli di entrambe le specie sono stati allevati e poi testati per verificare la loro preferenza per l’uomo che li accudisce rispetto ad altri stimoli. I cuccioli di cane di quattro-cinque settimane hanno iniziato a scodinzolare frequentemente e a manifestare preferenze per la persona che li accudiva. I cuccioli di lupo, invece, scodinzolavano molto meno”.

Sia il movimento della coda che la sua posizione trasmettono informazioni nelle interazioni cane-cane, cane-uomo e cane-oggetto. Tra i canidi, lo scodinzolio con un portamento basso è spesso usato come segno visivo di acquiescenza, sottomissione o intento non aggressivo. La combinazione di scodinzolio e portamento della coda sembra un affidabile indicatore di status di sottomissione e subordinazione formale nelle interazioni cane-cane. Lo scodinzolio è usato anche come segnale di acquiescenza o di affiliazione nelle interazioni cane-uomo. Uno studio ha rilevato che durante le situazioni di rifiuto del cibo, i cani scodinzolavano di più quando era presente un umano rispetto a quando non lo era, suggerendo che lo scodinzolio può funzionare anche come segnale di richiesta.

Una chiave per comprendere meglio le ragioni dello scodinzolio canino potrebbe essere la domesticazione, un lungo processo che porta a una serie di cambiamenti fisiologici, morfologici e comportamentali nelle specie addomesticate.

“L’addomesticamento del cane – prosegue Leonetti – è probabilmente iniziato durante il Paleolitico superiore. I cambiamenti associati alla domesticazione includono: depigmentazione della pelliccia, riduzione delle dimensioni dello scheletro facciale e dei denti, cambiamenti nelle dimensioni e nelle proporzioni generali del corpo, comparsa di attributi fisici come le orecchie flosce e la coda arricciata, riduzione delle dimensioni del cervello, riduzione dell’aggressività, aumento della docilità e la variazione dei livelli ormonali con conseguenti cambiamenti comportamentali”.

Diverse ipotesi hanno cercato di spiegare come si siano verificati questi cambiamenti. Secondo l’ipotesi della “sindrome da domesticazione”, esso può portare all’emergere di tratti geneticamente collegati ma inaspettati, che sono sottoprodotti di una selezione per un altro tratto, come ad esempio la docilità o la socievolezza nei confronti dell’uomo. Ciò potrebbe essere dovuto a un legame genetico tra la selezione per la docilità e l’anatomia della coda. Ad esempio, le selezioni iniziali per la docilità potrebbero aver portato ad alterazioni delle cellule della cresta neurale durante lo sviluppo, con ripercussioni su vari tratti fenotipici, tra cui l’anatomia della coda.

In alternativa, il comportamento scodinzolante potrebbe essere stato un obiettivo del processo di domesticazione, con gli esseri umani che hanno selezionato i cani che scodinzolavano più spesso e, potenzialmente, in modo più ritmico. Questa è l’ipotesi dello “scodinzolio ritmico addomesticato”. Molti studi multidisciplinari dimostrano che gli esseri umani hanno notevoli capacità di percepire e produrre sequenze ritmiche, in particolare schemi isocroni in cui gli eventi sono equamente spaziati nel tempo. Questa propensione per i ritmi isocroni potrebbe aver guidato la selezione umana per il vistoso scodinzolio ritmico, spiegando perché i cani lo mostrano così spesso nelle interazioni uomo-cane.

Secondo entrambe le ipotesi, la selezione del comportamento scodinzolante potrebbe non essere stata uniforme tra le varie razze; ad esempio, i cani da caccia scodinzolano di più dei cani da pastore, e hanno anche subito una selezione diversa per quanto riguarda lo scodinzolio. Ciò dimostra che lo scodinzolio sia un tratto multidimensionale che può differire in base a vari parametri, tra cui il portamento della coda, la direzione e la velocità. In teoria, ogni parametro del movimento della coda potrebbe essere sottoposto a diversi livelli di controllo neurale, avere funzioni diverse e/o trasmettere informazioni diverse.

“Lo scodinzolio dei cani – conclude Leonetti – è un comportamento evidente ma scientificamente sfuggente. La sua unicità, complessità e ubiquità sono potenzialmente associate a molteplici funzioni, ma i suoi meccanismi e la sua ontogenesi sono ancora poco conosciuti. Queste lacune ci impediscono di comprendere appieno la storia evolutiva del moderno comportamento scodinzolante e il ruolo svolto dall’uomo in questo processo. Un’indagine più sistematica e approfondita sullo scodinzolio non solo permetterà di mappare meglio questa iconica manifestazione comportamentale del cane, ma fornirà anche informazioni indirette sull’evoluzione dei tratti umani, come la percezione e la produzione di stimoli ritmici”.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

RICERCATORI DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO IDENTIFICANO DUE PROTEINE COINVOLTE NELLA CACHESSIA NEOPLASTICA

I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Cell Reports Medicine, suggeriscono un nuovo approccio terapeutico per trattare una sindrome, associata a molte patologie croniche, che ancora rappresenta un’esigenza medica.

cachessia neoplastica UniTo graphical abstract due proteine

Gli scienziati del Dipartimento di eccellenza di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, che lavorano al Molecular Biotechnology Center di via Nizza 52, hanno identificato il ruolo chiave di due proteine nella promozione della cachessia neoplastica e dell’atrofia muscolare. I risultati dello studio, coordinato dal Prof. Paolo E. Porporato del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze della Salute e sostenuto da Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro, sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Cell Reports Medicine.

La cachessia è una sindrome associata a molte patologie croniche, caratterizzata da un forte calo del peso corporeo e da una crescente atrofia muscolare, che incide drasticamente sulla qualità di vita e sulla prognosi dei pazienti. In ambito oncologico questa condizione affligge la maggior parte dei pazienti con malattia in stadio avanzato e rappresenta la causa di morte in almeno il 20% dei casi. Anche a causa delle scarse conoscenze alla base della cachessia neoplastica, attualmente non esistono cure specifiche ed efficaci.

Le cellule che costituiscono i tessuti del nostro corpo rispondono a stimoli dell’ambiente circostante con flussi di proteine che si attivano e inattivano, lungo specifiche vie di segnalazione cellulare. La ridotta attività di una di queste vie di segnalazione, chiamata “BMP-Smad”, induce una diminuzione della forza e della massa muscolare ed è uno dei meccanismi biologici noti alla base della cachessia neoplastica.

I ricercatori dell’Università di Torino hanno aggiunto un tassello a questo quadro, identificando due proteine coinvolte nella riduzione di questa via di segnalazione: l’ormone eritroferrone (ERFE) e la proteina intracellulare FKBP12. Grazie a una stretta collaborazione con l’Università di Padova e l’Ospedale San Raffaele di Milano, gli scienziati hanno osservato l’aumento dell’ormone ERFE nei muscoli di pazienti oncologici. Inoltre, in modelli sperimentali di cachessia neoplastica hanno trovato che tale aumento è indotto da uno stato persistente di infiammazione.

Una volta identificato ERFE come ulteriore inibitore della segnalazione del BMP-Smad, i ricercatori hanno valutato un possibile approccio terapeutico per riattivare questa via. Il gruppo ha in particolare studiato l’effetto della molecola FK506, che a basso dosaggio lega e rimuove la proteina FKBP12. Allentando il freno rappresentato dalla proteina FKBP12, la molecola FK506 riattiva la via del segnale del BMP-Smad nel muscolo. In particolare la Dott.ssa Erica Mina, prima autrice dell’articolo, ha individuato gli effetti positivi della molecola FK506 sul muscolo. Basse dosi di FK506 sono in grado di ripristinare la sintesi proteica e prevenire l’atrofia di fibre muscolari in vitro e in modelli sperimentali di cachessia neoplastica. FK506 impedisce la perdita del peso corporeo, proteggendo anche dalle alterazioni dell’apparato neuromuscolare: una condizione chiave per il miglioramento della qualità di vita in caso di cachessia.

I dati raccolti con questa ricerca, sostenuta da Fondazione AIRC, sono un interessante punto di partenza per la comprensione dei meccanismi alla base della cachessia neoplastica. Ulteriori studi saranno necessari per una futura applicazione clinica. Sarà, infatti, necessario sviluppare un approccio farmacologico che colpisca solo il muscolo, per garantire un effetto specifico del trattamento.

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

NEGLI EX LOCALI DE “LA STAMPA” SI INAUGURA A TORINO LA NUOVA SEDE DELLA BIBLIOTECA FEDERATA DI MEDICINA “FERDINANDO ROSSI”

Oggi, mercoledì 8 novembre, in via Chiabrera 27 (Torino) si è tenuta la cerimonia d’inaugurazione della nuova sede della Biblioteca Federata di Medicina (BFM) “Ferdinando Rossi”. La Sede ha aperto al pubblico l’11 luglio 2023 ed è aperta dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 17. Il progetto ha preso il via nel 2021 in seguito allo spostamento delle attività didattiche del Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia presso l’edificio “ex La Stampa”.

Biblioteca Federata di Medicina Torino Taglio del nastro col Rettore Stefano Geuna
Taglio del nastro col Rettore Stefano Geuna

La nuova sede offre 38 posti a sedere, wi-fi, 2 postazioni informatiche e tutti i servizi BFM: consultazione, prestito libri, recupero di materiale bibliografico non disponibile nelle collezioni cartacee e digitali, informazioni e orientamento al bancone. Si erogano inoltre ricerche bibliografiche assistite su appuntamento, consulenze in materia di interrogazione delle risorse bibliografiche, gestione della bibliografia, bibliometria e open access.

I locali ospitano uno spazio di accoglienza, reference e consulenza bibliografica (44 mq) 2 postazioni per prestito/reference di base e 2 postazioni per consulenze bibliografiche/reference avanzato. Completa i servizi uno spazio di consultazione (137mq) con i posti di lettura, le postazioni informatiche e le collezioni cartacee disposte a scaffale aperto.

Oltre alle collezioni digitali, il patrimonio cartaceo consiste esclusivamente in libri e testi d’esame aggiornati e caratterizzati da ampie statistiche di circolazione/prestito. La sala di lettura è stata intitolata alla dott.ssa Annalisa Jourdan, bibliotecaria presso l’Università di Torino dal 2001 scomparsa improvvisamente per malattia il 14 febbraio 2023.

Nata nel 2016 come unione dei servizi bibliotecari di tutti i Dipartimenti di area medica dell’Università di Torino, la Biblioteca Federata di Medicina unifica le Aree Servizi Bibliotecari del Polo Medicina Torino e del Polo di Medicina Orbassano e Candiolo. È dedicata al compianto prof. Ferdinando Rossi, tra i più ferventi fautori della sua creazione. Eroga i propri servizi in 6 sedi, strategicamente collocate presso i luoghi in cui si esercita l’attività didattica, di ricerca e clinica della Scuola di Medicina sul territorio torinese e di Orbassano aperte al pubblico per un totale complessivo di 269 ore settimanali.

La BFM possiede un patrimonio cartaceo complessivo di 61.758 monografie e 54.246 annate di periodici. Oltre alle risorse bibliografiche digitali acquisite attraverso le licenze di Ateneo, sottoscrive su propri fondi l’accesso a 8 banche dati e 435 periodici elettronici. La sua mission si concretizza nei servizi erogati: offrire spazi di lettura e di studio, tutelare e valorizzare il patrimonio bibliografico, garantire l’accesso rapido e puntuale a contenuti bibliografici di qualità, fornire supporto di base, avanzato e formazione all’utenza su temi quali la valutazione critica dell’informazione, l’utilizzo delle fonti, le tecniche di ricerca bibliografica, la bibliometria e lo sviluppo di sintesi della letteratura, producendo – anche in ottica di terza missione – un impatto positivo sul territorio.

I servizi BFM mirano alla maggiore integrazione e crescita della qualità percepita da parte degli utenti nell’ambito del Sistema Bibliotecario di Ateneo.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

AL PROF. ALBERTO AREZZO L’ERC SYNERGY GRANT DA 10 MILIONI DI EURO – Con un finanziamento per i prossimi 6 anni si apre una nuova strada per la diagnosi precoce e la terapia mininvasiva per le neoplasie del colon-retto

Alberto Arezzo
Alberto Arezzo

Giovedì 26 Ottobre il  Consiglio europeo della ricerca (European Research Council – ERC), organismo dell’Unione Europea che attraverso finanziamenti altamente competitivi sostiene l’eccellenza scientifica, ha pubblicato la lista dei progetti vincitori dei Synergy Grant, che attribuiscono un finanziamento di 10 milioni di euro per i prossimi 6 anni. Tra le ricerche finanziate compare quella del Prof. Alberto Arezzo, docente del Dipartimento di Scienze Chirurgiche dell’Università di Torino, che ha presentato il progetto intitolato “EndoTheranostics: Multi-sensor Eversion Robot Towards Intelligent Endoscopic Diagnosis and Therapy. La ricerca permetterà di ridisegnare i modelli di diagnosi e trattamento in un unico tempo delle neoplasie del tubo digerente, con particolare riferimento al colon-retto.

Il cancro del colon-retto è uno dei tipi di cancro più comuni in tutto il mondo, con oltre 1,9 milioni di nuovi casi e 935.000 decessi registrati nel 2020. Nonostante i progressi nella tecnologia medica, gli interventi vengono spesso eseguiti durante le ultime fasi dello sviluppo della malattia, portando a bassi tassi di sopravvivenza dei pazienti o scarsa qualità della vita. Il progetto nasce dall’osservazione che i programmi di screening endoscopico sono purtroppo largamente disattesi. In particolare, la colonscopia è percepita come un esame invasivo, cui la maggioranza delle persone tende a sottoporsi con dispiacere o a non farlo affatto. La ricerca ha perciò immaginato di ridisegnare tutto il processo di diagnosi e terapia delle neoplasie del colon e retto, ridiscutendo dalla base quali dovessero essere le caratteristiche ideali per uno strumento in grado di offrire diagnosi e possibile terapia locale al tempo stesso.

“L’idea – dichiara il Prof. Arezzo – è di offrire un sistema che sostituisca l’attuale tecnologia per endoscopia flessibile (colonscopia), che è in realtà solo relativamente flessibile, con uno più tollerato perché costituito da materiali soffici, un cosiddetto soft-robot. Ciò fungerà anche da veicolo all’interno dell’intestino per un microrobot, che, operato dall’esterno, consentirà in una sorta di sala operatoria miniaturizzata, di asportare lesioni anche di ampie dimensioni in maniera appropriata. Grazie a programmi di screening sempre più diffusi ci aspettiamo di diagnosticare sempre più spesso lesioni anche non di piccole dimensioni, ma suscettibili di escissione locale curativa, senza dover ricorrere alla resezione chirurgica di tratti di intestino. Per farlo, il microrobot sarà dotato di sensori di nuova concezione, capaci di studiare e caratterizzare ampie aree di tessuto in poco tempo. Gli stessi sensori serviranno per controllare i gesti “chirurgici” durante la procedura per prevenire possibili errori e quindi complicanze, e al tempo stesso, operando in parziale autonomia, velocizzare la procedura stessa”.

 La competizione per gli ERC è estrema, solo l’8% dei progetti è stato finanziato. Il lavoro presentato dal Prof. Arezzo è uno dei 37 progetti internazionali, su un totale di 395 proposte presentate in tutta Europa, comprendenti tutte le discipline. I Synergy Grant finanziano gruppi composti da due a quattro ricercatori principali per affrontare congiuntamente problemi di ricerca ambiziosi e complessi che non potrebbero essere affrontati singolarmente. Il gruppo vincitore, che comprende i Proff. Kaspar Althoefer (Queen Mary University di Londra), Bruno Siciliano (Università Federico II di Napoli) e Sebastien Ourselin, (King’s College di Londra), riunisce competenze eccezionali e complementari per intraprendere una ricerca pionieristica nei prossimi 6 anni per migliorare lo screening e il trattamento del cancro del colon-retto.

Il gruppo mira a rivoluzionare lo screening e il trattamento del cancro del colon-retto attraverso lo sviluppo di un “eversion robot” con una struttura a manica soffice che si “srotola” dall’interno quando insufflato, evitando così pressioni e frizioni sulle pareti. Il robot sarà in grado di estendersi in profondità nel colon e di percepire l’ambiente attraverso l’imaging e il rilevamento dell’ambiente circostante mediante sensori multimodali. Fungerà anche da condotto per trasferire strumenti miniaturizzati al sito remoto all’interno del colon per la diagnosi e la terapia (teranostica). I dispositivi robotici attuali hanno una destrezza limitata e non sono adatti a svolgere compiti delicati in luoghi remoti, come nelle profondità del colon. Al contrario, i soft-robots dimostrano una maggiore flessibilità e adattabilità nell’esecuzione dei compiti, portando a una maggiore sicurezza quando si lavora intorno o all’interno del corpo umano.

La soft-robotics per diagnosi e terapia ha il potenziale per mitigare gli interventi chirurgici non necessariaumentare i tassi di sopravvivenza e migliorare la qualità e la durata della vita delle persone affette da cancro del colon-retto. Per ottenere traduzioni della ricerca nel settore sanitario è fondamentale lavorare in modo interdisciplinare e, attraverso il gruppo di ricerca internazionale guidato dal Prof. Arezzo, si riuniranno competenze in chirurgia, endoscopia, controllo del movimento, intelligenza artificiale, sensori e robotica per offrire i migliori risultati possibili ai pazienti.

“L’ottenimento di questo prestigioso finanziamento – conclude il Prof. Arezzo – riflette l’eccellenza scientifica che l’Università di Torino rappresenta. Il gruppo del Prof Mario Morino, del quale mi pregio di far parte ormai da molti anni, e che ringrazio per le opportunità che in questi anni mi ha concesso, è assai stimato grazie a lui in campo internazionale, essendo egli pioniere delle tecniche mini invasive chirurgiche ed endoscopiche. Questa ricerca nasce dalla mia formazione in Germania presso l’Università di Tuebingen, sotto il Prof Gerhard Buess, inventore della microchirurgia endoscopica transanale e della chirurgia robotica, che hanno rivoluzionato il nostro settore negli ultimi decenni. Questo progetto è solamente la naturale evoluzione dei concetti che lui ha proposto con successo ormai 40 anni orsono, e che io ed altri suoi allievi abbiamo cercato di raccogliere, dopo la sua prematura scomparsa. Voglio però concludere con un appello a tutti affinché si sottopongano agli accertamenti per screening delle neoplasie del colon-retto come di ogni altra patologia, perché è con la prevenzione che si ottengono i migliori risultati in campo oncologico, e già oggi si può fare davvero molto per molte patologie”.

Alberto Arezzo
il professor Alberto Arezzo, al quale va uno dei Synergy Grant ERC

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

NEUROSCIENZE: UTILIZZARE LA REALTÀ VIRTUALE IMMERSIVA PER ESAMINARE LE BASI NEUROCOGNITIVE PER LA RIDUZIONE DEI PREGIUDIZI RAZZIALI

Per la prima volta, integrando la tecnica della Realtà Virtuale Immersiva (RVI) e l’Elettroencefalogramma (EEG) ricercatori e ricercatrici dell’Università di Torino e Milano-Bicocca hanno esaminato le basi neurocognitive sottese alla riduzione dei pregiudizi razziali.

Sulla prestigiosa rivista iScience è stata recentemente pubblicata una ricerca  innovativa dal titolo “Behavioral and neurophysiological indices of the racial bias modulation after virtual embodiment in other-race body”. Lo studio, condotto dalla ricercatrice dell’Università di Torino Maria Pyasik e coordinato dai Proff. Lorenzo Pia (Università di Torino) e Alice Mado Proverbio (Università di Milano-Bicocca) ha, per la prima volta, integrato la tecnica della Realtà Virtuale Immersiva (RVI) e l’Elettroencefalogramma (EEG) allo scopo di esaminare le basi neurocognitive sottese la riduzione dei pregiudizi razziali.

I pregiudizi, che siano di genere, di religione o di razza, sono una delle questioni più problematiche nelle società moderne. Infatti, avendo una natura recondita ed inconsapevole, sono largamente immuni alla manipolazione e, quindi, vincolano presentemente il nostro comportamento diventando, de facto, il nucleo della discriminazione sociale. Tuttavia, recenti sviluppi nel campo delle neuroscienze cognitive hanno portato in auge un particolare fenomeno che è possibile ottenere tramite la Realtà Virtuale Immersiva (RVI). In dettaglio, tramite specifiche procedure è stato mostrato come sia possibile indurre l’illusione (Full Body Illusion) di ‘indossare’ un corpo virtuale (avatar) diverso dal proprio. Questo ‘diventare qualcun altro’ impatta radicalmente e automaticamente il comportamento al punto da cambiare atteggiamenti, credenze e attitudini implicite, come sono i pregiudizi.

pregiudizi razziali realtà virtuale immersiva

La ricerca ha indagato i marker comportamentali e neurofisiologici della riduzione di pregiudizi razziali determinati dal sentirsi in un corpo di etnia diversa. I partecipanti hanno embodizzato (indossato) un avatar appartenetene alla propria etnia (caucasica) o ad un gruppo etnico diverso (di colore) dopo la registrazione della attività cerebrale sottesa ad un compito che rileva i pregiudizi razziali. I risultati hanno mostrato che il pregiudizio razziale negativo risultava significativamente ridotto solo dopo l’embodiment dell’avatar di colore e che anche il marker elettrofisiologico del pregiudizio stesso (Onda N400 dei potenziali evocati dell’EEG) diminuiva, seppure in maniera non statisticamente significativa.

Nonostante la necessità di acquisire nuove evidenze, in particolare sull’aspetto neurale, lo studio arricchisce notevolmente gli orizzonti relativi al ruolo del corpo nel nostro comportamento. Inoltre, è forse ancor più rilevante il fatto che mostri come la manipolazione sperimentale nota come Full Body Illusion (FBI) possa essere uno strumento in grado di modificare plasticamente i pregiudizi impliciti negativi e, forse, di ridurli. In altre parole, questo modo di utilizzare la RVI potrebbe essere utilizzato per promuovere l’inclusività sociale.

“Questo studio è importante – dichiara la ricercatrice Maria Pyasik  perché è il primo che esamina i correlati neurocognitivi alla base della riduzione dei pregiudizi razziali determinati dalla Full Body Illusion. Lo studio ha permesso di comprendere il fenomeno più in profondità in modo da essere più informati nello sviluppare applicativi d’intervento in contesti sociali. Se si pensa che la RVI è oggi progressivamente più accessibile ed utilizzato, risulta evidente quale possa essere il suo enorme potenziale applicativo e il suo possibile valore sociale”.

“I prossimi passi – aggiunge il Prof. Lorenzo Pia – saranno la convalida dei dati neurofisiologici, ovvero identificare con maggiore certezza i possibili marker corticali (e non) della riduzione del pregiudizio nei confronti di una diversa etnia a seguito del ‘sentirsi’ in un corpo di quella etnia. Inoltre, sarebbe importante esaminare a fondo i meccanismi sottesi il pregiudizio analizzandone altri quali quello relativo al genere, all’età o alle credenze religiose. Ciò consentirebbe di immaginare procedure standardizzate e protocolli che co sentano la riduzione del pregiudizio e, quindi, la promozione della inclusione sociale”.

“La tecnica elettrofisiologica, ed in particolare l’osservazione della N400 – spiega la Prof.ssa Alice Mado Proverbio – viene usata nella Neuroscienze Sociali, oltre che per i pregiudizi etnici, nella misurazione dei pregiudizi di sesso e di genere impliciti. L’attività bioelettrica riflette la presenza di stereotipi inconsapevoli rappresentati nell’area cerebrale prefrontale mediale.  La possibilità di esperire un corpo virtuale diverso da sé nella realtà immersiva (VR) offre interessanti prospettive nel campo della sensibilizzazione alla disabilità, e a coloro che ci appaiono diversi”.

 

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca e dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

ANCHE I PINGUINI AFRICANI SI RICONOSCONO DAL “TIMBRO DELLA VOCE”

Uno studio dell’Università di Torino sulla comunicazione acustica dei pinguini africani descrive i meccanismi e le strutture anatomiche coinvolte nella produzione dei segnali vocali, evidenziando convergenze evolutive con i mammiferi e l’uomo.

Mercoledì 11 ottobre – Sulla rivista scientifica Proceedings of the Royal Society B, è stato pubblicato un nuovo articolo sulla comunicazione vocale nei pinguini. L’articolo è frutto di una collaborazione tra due dipartimenti dell’Università di Torino (DBIOS e Scienze Veterinarie), l’Università Jean-Monnet (Francia), l’Università UWC (Sudafrica) e la Fondazione SANCCOB.

Utilizzando una combinazione di tecniche di diagnostica per immagini, modellistica computazionale e registrazioni in vivo, un gruppo di ricercatori guidato dal Prof. UniTo Livio Favaro e dalla Dott.ssa Anna Zanoli ha scoperto che i pinguini africani utilizzano le risonanze dei condotti vocali per codificare nei segnali acustici le informazioni che permettono loro di riconoscersi individualmente. Un meccanismo evolutivamente analogo a quello che utilizzano i mammiferi e l’uomo stesso, per riconoscersi dal timbro della voce.

Tra i pinguini, il pinguino africano (Spheniscus demersus) è una specie modello ideale per studiare come le risonanze del tratto vocale codificano informazioni biologicamente rilevanti. Infatti, questa specie è monogama, fortemente territoriale e, a causa delle pressioni selettive e allo stile di vita coloniale, è stato riscontrato che i richiami di contatto e i canti riproduttivi (ecstatic display songs) variano significativamente tra gli individui, permettendo loro di riconoscersi tra “vicini di nido” e membri di una coppia.

I pinguini africani (Spheniscus demersus) si riconoscono dal timbro della voce. Gallery

Le vocalizzazioni dei pinguini sono prodotte da uno specifico organo chiamato “siringe”, al cui interno, delle membrane vengono messe in vibrazione al passaggio dell’aria, generando un segnale periodico caratterizzato dalla frequenza fondamentale (corrispondente alla velocità di vibrazione delle membrane) e dalle relative componenti armoniche. Tale segnale passa poi nella trachea e nella bocca, dove viene modificato in base alle frequenze di risonanza (dette formanti) di queste cavità anatomiche. 

Gli autori dello studio hanno registrato numerosi pinguini africani nell’aprile 2019 presso la Southern African Foundation for the Conservation of Coastal Birds (SANCCOB) di Città del Capo, in Sudafrica. Contestualmente, hanno studiato l’apparato vocale di altri individui adulti trovati morti lungo le coste della provincia sudafricana di Western Cape. In particolare, iniettando della gomma siliconica catalizzata, è stato ottenuto un calco preciso dell’intero apparato fonatorio. I calchi sono stati successivamente trasportati al Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Torino, dove sono stati sottoposti a Tomografia Assiale Computerizzata (TAC). Infine, presso il DBIOS e utilizzando il centro di calcolo interdipartimentale c3s UniTo, sono stati costruiti modelli computazionali a partire dai risultati della TAC e dalle registrazioni degli animali in vivo.

I ricercatori hanno dimostrato che, nel pinguino africano, leggere variazioni della lunghezza e della sezione trasversale delle regioni tracheali e della cavità laringofaringea causano un ampio spostamento nelle formanti delle vocalizzazioni. Tali regioni possono quindi svolgere un ruolo cruciale nel determinare il pattern formantico delle vocalizzazioni e, di conseguenza, nel determinare l’identità vocale degli individui, analogamente a quanto avviene nelle cavità nasali e nella cavità orale dei mammiferi e dell’uomo stesso.

“I nostri risultati – suggerisce il Prof. Livio Favaro, biologo marino e coordinatore della ricerca sui pinguini africani presso l’Università di Torino – sottolineano come le frequenze di risonanza dei condotti vocali possano essere utilizzate per riconoscersi tra individui in numerosi altri vertebrati oltre all’uomo e ai mammiferi.”

“Le tecniche di diagnostica per immagini – continua il Prof. Alberto Valazza, co-autore dello studio e docente di clinica chirurgica veterinaria – possono contribuire enormemente alla caratterizzazione dell’apparato fonatorio degli uccelli, finora largamente inesplorato.”

Infine, i ricercatori hanno notato una mancanza di correlazione tra le frequenze di risonanza del condotto vocale e la dimensione dei pinguini. 

“Per quanto ne sappiamo – aggiunge la Dott.ssa Anna Zanoli, etologa e prima autrice dello studio – la mancanza di correlazione tra frequenze formanti e dimensioni dello scheletro è stata riportata anche nei pinguini di Humboldt e di Magellano, il gabbiano reale e il re di quaglie.”

Nell’uomo, tale assenza di correlazione è frutto della discesa della laringe nel condotto vocale come prerequisito per lo sviluppo del linguaggio. 

“I risultati del nostro studio – sottolinea il Prof. Marco Gamba, zoologo ed esperto in bioacustica comparata – forniscono ulteriori evidenze che in altri tetrapodi oltre all’uomo ci si possa aspettare una debole relazione tra le formanti e le dimensioni del corpo.” 

“Questo è particolarmente evidente – continua il Prof. David Reby, docente di etologia presso l’Università Jean Monnet di Saint-Étienne – quando si esaminano individui dello stesso sesso e della stessa classe di età.”

Negli uccelli, questa condizione potrebbe essere ancestrale e diffusa al di là delle specie (es. cigni e gru) nelle quali è noto un allungamento “sproporzionato” della trachea rispetto alle dimensioni corporee.

 

“Le frequenze formanti e le dimensioni dello scheletro sono indipendenti nel pinguino africano – conclude la Prof.ssa Frine Scaglione, co-autrice e anatomo patologa veterinaria – perché lo scheletro non vincola anatomicamente la trachea.”

Lo studio della comunicazione vocale nel pinguino africano, infine, si auspica possa contribuire allo sviluppo di sistemi di monitoraggio acustico passivo delle colonie in natura. Questa specie, infatti, è fortemente minacciata di estinzione e la comunità scientifica internazionale è al lavoro per sviluppare sistemi di monitoraggio non invasivo, che possano contribuire alla sua gestione e conservazione.

Testi, video, audio e immagini dall’Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

L’Intelligenza Artificiale ora prevede il rischio di prognosi negativa nei pazienti colpiti dalla Sindrome del cuore infranto 

È stato sviluppato un modello di Intelligenza Artificiale basato sul machine learning per prevedere il rischio di prognosi negativa nei pazienti affetti da cardiomiopatia da stress acuto, detta anche Sindrome del cuore infranto

È stato appena pubblicato uno studio innovativo condotto dai medici cardiologi Ovidio De Filippo e Fabrizio D’Ascenzo della Cardiologia universitaria dell’ospedale Molinette della Città della Salute di Torino, in collaborazione con il dottor Corrado Pancotti ed altri esperti di Intelligenza Artificiale dell’Università degli Studi di Torino, sotto la direzione rispettivamente dei professori Gaetano Maria De Ferrari e Piero Fariselli. Questo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale European Journal of Heart Failure potrà rivoluzionare la comprensione e la gestione della sindrome tako-tsubo, una rara ma pericolosa condizione cardiaca, anche conosciuta come cardiomiopatia da stress acuto o sindrome del cuore infranto. Lo studio ha utilizzato un registro di pazienti coordinato dalla Cardiologia dell’ospedale Molinette con la cardiologia dell’Università di Zurigo, guidata dal professor Christian Templin.
Questa patologia, che colpisce soprattutto le donne ed è tipicamente scatenata da uno stress emotivo, era stata inizialmente considerata benigna, ma è in realtà associata a molti eventi avversi, compresa la mortalità a breve termine, che può arrivare ad essere simile a quella dell’infarto. Il nuovo studio ha sviluppato un modello di Intelligenza Artificiale basato sul machine learning per prevedere il rischio di prognosi negativa nei pazienti affetti da cardiomiopatia da stress acuto. Il modello è stato derivato dal registro europeo International Takotsubo Registry di quasi 4000 pazienti e validato in oltre 1000 pazienti italiani.
Il modello ottenuto ha una precisione senza precedenti nella predizione della prognosi. Questi risultati sono un grosso passo avanti nella gestione dei pazienti con TTS e nella comprensione dell’interazione tra le diverse variabili cliniche nel determinare la prognosi. Vista l’affidabilità del sistema, è stato messo a punto un calcolatore disponibile gratuitamente a tutti i medici (https://compbiomed.hpc4ai.unito.it/intertako/). Grazie a questo calcolatore i medici coinvolti nella gestione di questa condizione potranno stimare il rischio dei pazienti affetti da sindrome da tako-tsubo ed agire di conseguenza, per esempio intensificando precocemente il livello di cure nei pazienti a rischio più elevato.
“Per semplificare la comunicazione medico – paziente e la comprensione della propria condizione clinica anche ai pazienti stessi, l’algoritmo classifica anche il rischio in tre categorie Alto, Medio e Basso” dice il dottor De Filippo, primo autore dello studio.
“Questo studio si aggiunge a diverse altre dimostrazioni del nostro gruppo sulle enormi potenzialità dell’Intelligenza artificiale nell’aiutarci a definire la prognosi dei pazienti in condizioni come l’infarto miocardico o la fibrillazione atriale, e conferma in questo settore il ruolo di leadership della nostra Cardiologia a livello nazionale” commenta il professor De Ferrari.
Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

GJ 367 b, UN PIANETA DAL CUORE DI FERRO IN UN SISTEMA EXTRASOLARE

LA SCOPERTA DEI RICERCATORI DI UNITO ARRICCHISCE
IL PUZZLE SULLA FORMAZIONE DEI PIANETI

Insieme agli scienziati del Thüringer Landessternwarte, i ricercatori dell’Ateneo torinese hanno confermato che l’esopianeta GJ 367 b ha una densità altissima, quasi doppia rispetto a quella della Terra. Il team ha anche trovato altri due pianeti che orbitano attorno alla stessa stella.

GJ 367 b
– Illustrazione artistica del sistema planetario attorno alla stella GJ 367, con il pianeta più interno e ultra-denso GJ 367 b, e i due pianeti esterni (GJ 367 c e GJ 367 d) appena scoperti © Elisa Goffo

Negli ultimi decenni, gli astronomi hanno scoperto diverse migliaia di pianeti extrasolari. I pianeti extrasolari orbitano attorno a stelle al di fuori del nostro sistema solare. La nuova frontiera in questo campo di ricerca include lo studio della loro composizione e struttura interna, al fine di comprendere meglio il loro processo di formazione.

Elisa Goffo, dottoranda presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino e il Thüringer Landessternwarte (Germania), insieme a un team di ricerca internazionale, ha fatto una scoperta unica, relativamente al pianeta GJ 367 b, che solleva domande interessanti su come nascano i pianeti. È la prima autrice dell’articolo Company for the ultra-high density, ultra-short period sub-Earth GJ 367 b: discovery of two additional low-mass planets at 11.5 and 34 days pubblicato sulla rivista “The Astrophysical Journal Letters”.

La ricercatrice fa parte della collaborazione internazionale KESPRINT che ha confermato come l’esopianeta, che impiega sole 7.7 ore a compiere una rivoluzione attorno alla sua stella, sia anche ultra-denso. La densità di un pianeta viene determinata a partire dalla sua massa e dal suo raggio. Il pianeta GJ 367 b è denominato ultra-denso perché i ricercatori hanno scoperto che la sua densità è di 10,2 grammi per centimetro cubo. Si tratta di una densità quasi doppia rispetto a quella della Terra, il che suggerisce che questo pianeta extrasolare sia costituito quasi interamente di ferro.

Una composizione insolita

Una simile composizione per un pianeta è molto rara e pone diversi interrogativi sulla sua formazione.

Si potrebbe paragonare GJ 367 b a un pianeta simile alla Terra che ha però perso il suo mantello roccioso. Questo potrebbe avere importanti implicazioni sulla sua formazione. Ipotizziamo infatti che il pianeta possa essere stato inizialmente simile alla Terra, con un core denso di ferro circondato da uno spesso mantello ricco di silicati. Un evento catastrofico potrebbe aver stappato il mantello di GJ 367 b, scoprendo il denso core del pianeta. In alternativa GJ 367 b potrebbe essere nato in una regione del disco protoplanetario ricca di ferro“,

spiega Elisa Goffo. Durante l’osservazione di GJ 367 b, il team ha scoperto altri due pianeti di piccola massa che orbitano intorno alla stella GJ 367, rispettivamente in 11,5 e 34 giorni. Questi tre pianeti e la loro stella costituiscono un sistema planetario extrasolare.

GJ 367 b è stato individuato per la prima volta dal Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS), un telescopio spaziale della NASA. TESS utilizza il metodo dei transiti per misurare il raggio degli esopianeti – oltre ad altre proprietà. I ricercatori dell’Università di Torino e del Thüringer Landessternwarte hanno utilizzato misure di velocità radiale, ottenute con lo spettrografo HARPS dell’ESO, per determinare con precisione la sua massa e confermare che il pianeta ha una densità molto elevata. Lo spettrografo HARPS è uno strumento ad alta precisione installato presso il telescopio con uno specchio di 3,6 metri di diametro dell’European Southern Observatory (ESO) a La Silla, in Cile.

Il consorzio di ricerca KESPRINT, composto da oltre 40 membri di nove Paesi (Repubblica Ceca, Danimarca, Germania, Italia, Giappone, Spagna, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti), è specializzato nella conferma e nella caratterizzazione di esopianeti transitanti individuati da diversi telescopi spaziali. Per determinare la densità di GJ 367 b, il team ha ottenuto quasi 300 misure in due anni utilizzando lo spettrografo HARPS, nell’ambito di una campagna osservativa coordinata dal professor Davide Gandolfi, docente del Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino. Grazie a queste numerose osservazioni i ricercatori sono riusciti a misurare la densità con grande precisione.

Grazie all’intensa campagna osservativa con lo spettrografo HARPS abbiamo anche rivelato la presenza di altri due pianeti di piccola massa con periodi orbitali di 11,5 e 34 giorni. Questo riduce il numero di scenari possibili che potrebbero aver portato alla formazione di un pianeta così denso“, afferma Davide Gandolfi. “Mentre GJ 367 b potrebbe essersi formato in un ambiente ricco di ferro, non escludiamo uno scenario di formazione che coinvolga eventi violenti e catastrofici come la collisione tra pianeti“.

Artie Hatzes, direttore del Thüringer Landessternwarte, sottolinea l’importanza di questa scoperta: “GJ 367 b è un caso estremo. Prima di poter sviluppare valide teorie sulla sua formazione abbiamo dovuto misurare con elevata precisione la sua massa e il suo raggio. Ci aspettiamo che un sistema planetario sia composto da diversi pianeti, quindi era importante cercare e trovare altri pianeti in orbita nel sistema – studiare cioè la sua architettura“.

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SCHEDA TECNICA

ALLA SCOPERTA DI GJ 367 b

ULTERIORI INFORMAZIONI

KESPRINT. Il consorzio KESPRINT si occupa della conferma e della caratterizzazione di esopianeti transitanti individuati da missioni spaziali (ad esempio Kepler, K2, TESS) e, in particolare, della caratterizzazione dei pianeti più piccoli. È un team internazionale che include ricercatori del Dipartimento di Fisica, Università di Torino (Italia), del Thüringer Landessternwarte Tautenburg (Germania), dell’Institute of Planetary Research, German Aerospace Center (Germania), del Technische Universität Berlin (Germania), del Rheinisches Institut für Umweltforschung an der Universität zu Köln (Germania), dell’Astronomical Institute of the Czech Academy of Sciences (Repubblica Ceca), del Chalmers University of Technology (Svezia), Instituto de Astrofísica de Canarias (Spagna), del Mullard Space Science Laboratory, University College London (Regno Unito), dell’University of Oxford (Regno Unito), del Stellar Astrophysics Centre, Department of Physics and Astronomy, Aarhus University (Danimarca), dell’Astronomy Department and Van Vleck Observatory, Wesleyan University (USA), del McDonald Observatory, The University of Texas at Austin (USA), del The University of Tokyo (Giappone), dell’Astrobiology Center, National Institute of Natural Sciences (Giappone).

La nomenclatura del pianeta GJ 367 b. Solitamente i pianeti prendono il nome dalla stella attorno a cui orbitano. I pianeti che orbitano la stella GJ 367 sono stati chiamati usando il nome di questa seguito dalle lettere minuscole b, c, d, etc, seguendo l’ordine di scoperta. Tuttavia, al pianeta GJ 367 b e alla sua stella GJ 367 sono stati assegnati dei nomi particolari nell’ambito dell’iniziativa “NameExoWorlds” del 2022 coordinata dall’Unione Astronomica Internazionale. Il pianeta GJ 367 b si chiama Tahay e la sua stella Añañuca, dal nome di fiori selvatici cileni.

Tra le sue tante peculiarità, GJ 367 b si distingue da altri pianeti per il suo periodo orbitale estremamente breve di 7,7 ore. Un anno su questo pianeta dura solo 7,7 ore! La sua massa è pari al 60% di quella della Terra. Il suo raggio è pari al 70% di quello terrestre. Pertanto è più piccolo del nostro pianeta Terra e meno massiccio.

A causa della sua vicinanza alla stella, si stima che la superficie del pianeta rivolta a questa abbia una temperatura di quasi 1.100 gradi Celsius. La stella GJ 367 (Añañuca) si trova a circa 31 anni luce dalla Terra. Questo vuol dire che la luce della stella impiega 31 anni per raggiungere la Terra.

Come funziona il metodo dei transiti: Il telescopio TESS della NASA utilizza il metodo dei transiti per cercare pianeti intorno a stelle diverse dal Sole. Un transito avviene quando un pianeta si muove tra la sua stella e noi. Ogni volta che passa davanti alla sua stella, blocca una piccola parte della luce di questa. Il metodo dei transiti misura questa variazione di luce, da cui si ricavano il periodo e l’inclinazione orbitale, il raggio e altri parametri del pianeta.

Come funziona il metodo delle velocità radiali: Il team di KESPRINT osserva gli esopianeti utilizzando il metodo delle velocità radiali. Questo metodo rivela l’esistenza di un pianeta attorno alla sua stella sfruttando l’effetto Doppler. Nell’immaginario collettivo si pensa che i pianeti orbitino attorno alle loro stelle, ma non è del tutto vero! I pianeti e le stelle orbitano attorno al loro comune centro di massa. A causa del moto orbitale attorno a questo, la luce che riceviamo dalle stelle diventa “più blu” o “più rossa” a seconda che queste si avvicinino o si allontanino da noi. Combinato con il metodo dei transiti, il metodo delle velocità radiali consente di determinare la massa del pianeta.

Informazioni sul Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino. Da quasi 10 anni il gruppo di esopianeti del Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino si occupa dello studio e della caratterizzazione di esopianeti transitanti, combinando dati acquisiti con telescopi spaziali e spettrografi di elevata precisione. Il gruppo di Torino ha coordinato la campagna di osservazione di GJ 367 condotta con lo spettrografo HARPS.

 

Testi e immagine dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

RICERCA SUI TUMORI, PREMIATA L’ECCELLENZA DI UNITO: DAL MUR UN FINANZIAMENTO DI 8 MILIONI PER STUDIARE I MECCANISMI DI RESISTENZA AI FARMACI ANTI-NEOPLASTICI

Il Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino riconosciuto Dipartimento di Eccellenza dal Ministero dell’Università e della Ricerca. Martedì 5 settembre presentazione del Progetto “DIORAMA” per combattere la resistenza dei tumori ai farmaci anti-neoplastici con l’obiettivo di aumentare l’aspettativa e migliorare la qualità di vita dei pazienti oncologici.

Progetto DIORAMA: finanziamento di 8 milioni per studiare i meccanismi di resistenza ai farmaci anti-neoplastici messi in atto dai tumori

Il Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino è stato riconosciuto Dipartimento di Eccellenza dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) e ha ricevuto un finanziamento straordinario di circa 8 milioni di euro per il quinquennio 2023-2027 con l’obiettivo di rafforzare e valorizzare l’eccellenza della ricerca tramite investimenti in capitale umano, infrastrutture e attività didattiche di alta qualificazione.

Martedì 5 settembre, alle ore 10.00 presso l’Ospedale San Luigi Gonzaga di Orbassano in Aula Pescetti si terrà il kick-off meeting del Progetto Dipartimenti di Eccellenza intitolato “DIORAMA – Dinamiche evolutive in campioni vitali di pazienti Oncologici per Ricerche Avanzate sui Meccanismi di progressione metastatica e di resistenza alle terapie Antineoplastiche”.

Il progetto si propone di studiare i meccanismi di resistenza ai farmaci anti-neoplastici messi in atto dai tumori e in particolare la presenza di lesioni genetiche multiple che si sostituiscono al bersaglio della terapia mirata per sostenere la proliferazione tumorale e l’innesco di segnali adattativi di sopravvivenza che contrastano l’azione del trattamento. Per indagare queste due facce della resistenza alle terapie, il Dipartimento sfrutterà una risorsa caratterizzante: una collezione di centinaia di campioni tumorali da paziente, raccolti in forma vitale e coltivati sotto forma di organoidi tridimensionali che racchiudono tutte le caratteristiche dei tumori originali donati dai pazienti. Come il diorama è una rappresentazione in miniatura di un paesaggio, così l’organoide è una replica fedele, propagabile in laboratorio, di un tumore che cresce e si sviluppa in un essere umano. DIORAMA si concentra su tre tipi di tumore estremamente diffusi: il cancro del colon, il cancro del polmone e il cancro della prostata. Lavorando sugli organoidi, i ricercatori e i medici del Dipartimento di Oncologia esploreranno nuove strade per migliorare la risposta alle terapie esistenti e identificheranno nuove vulnerabilità da bersagliare con farmaci di ultima generazione, con ricadute dirette sulla aspettativa e qualità di vita dei pazienti oncologici.

meccanismi di resistenza ai farmaci anti-neoplastici finanziamento
Finanziamento di 8 milioni a UniTo per studiare i meccanismi di resistenza ai farmaci anti-neoplastici messi in atto dai tumori 

La giornata sarà aperta dal Direttore del Dipartimento, Prof. Federico Bussolino; proseguirà con interventi dedicati a illustrare il progetto DIORAMA, coordinato dal Prof. Livio Trusolino, e si chiuderà con un dibattito finale a cura dei Proff. Jan Paul Medema, Pasquale Rescigno e Gabriella Sozzi (componenti del comitato scientifico dei revisori) con la partecipazione di Federico Bussolino, Livio Trusolino e Silvia Novello (vice-direttore alla Ricerca del Dipartimento).

 

Testo e immagini dall’Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

È POSSIBILE EVITARE UNA TERAPIA COMPLESSA E TOSSICA A BASE DI MITOTANE DOPO L’ASPORTAZIONE DI UN TUMORE RARO, IL CARCINOMA SURRENALICO, IN PAZIENTI A BASSO RISCHIO DI RECIDIVA: LO STUDIO DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO

Soggetti affetti da tumore surrenalico, dopo l’operazione, vengono trattati con una cura a base di mitotane. Una terapia complessa e difficile da tollerare che può essere evitata se il rischio di recidiva è basso, come dimostrano i dati raccolti dallo studio internazionale ADIUVO.

Sul numero di agosto della prestigiosa rivista The Lancet Diabetes & Endocrinology sono stati pubblicati i risultati del trial ADIUVO, uno studio durato 10 anni, condotto in 23 Centri di 7 diversi Paesi e coordinato dal Prof. Massimo Terzolo del Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche dell’Università di Torino. Si tratta del primo studio prospettico e randomizzato che ha valutato una particolare tipologia di terapia, a base di mitotane, nei pazienti sottoposti all’asportazione radicale del carcinoma surrenalico, un tumore raro per il quale vi sono possibilità terapeutiche limitate.

I pazienti affetti da questa neoplasia sono solitamente avviati, dopo l’intervento chirurgico, alla terapia adiuvante con mitotane, un farmaco utilizzato per ridurre il rischio di recidiva della malattia. Il trattamento, seppur comunemente usato, rimane controverso, soprattutto se il rischio di recidiva non è elevato. L’obiettivo dello studio è stato valutare l’efficacia e la sicurezza del mitotane adiuvante, rispetto alla sola sorveglianza, dopo la resezione completa del tumore, in pazienti considerati a rischio di recidiva basso o intermedio.

Dopo asportazione radicale del tumore, un gruppo di pazienti, con malattia a diffusione locale e ridotta proliferazione tumorale, è stato randomizzato a trattamento adiuvante con mitotane, o in alternativa, a sorveglianza attiva senza alcun trattamento. Lo studio ha dimostrato che questa categoria di pazienti ha un rischio di recidiva molto minore dell’attesoIl tasso di sopravvivenza libera da malattia, a distanza di 5 anni, è risultato essere circa l’80%, senza significative differenze tra i pazienti trattati oppure no.

ADIUVO ha dimostrato come identificare i pazienti a ridotto rischio di recidiva che potranno evitare una terapia post-chirurgica complessa, tossica e della durata di anni, che può causare molteplici effetti indesiderati, con necessità di un’articolata terapia di supporto. I risultati del trial ADIUVO sono facilmente trasferibili alla pratica clinica e avranno un impatto positivo sul trattamento dei pazienti affetti da questo tipo di tumore, per i quali la gestione sarà semplificata, con conseguente miglioramento della loro qualità di vita e riduzione dei costi sanitari.

“ADIUVO dimostra che studi prospettici sono comunque fattibili nelle malattie rare, anche in assenza di supporto da parte dell’industria farmaceutica, grazie alla cooperazione di investigatori appassionati e dedicati a raggiungere un obiettivo comune. Questo tipo di studi è indispensabile per ottenere dati con un elevato livello di evidenza che possano essere utilizzati in clinica per migliorare il livello di cure offerte. Si tratta di un avanzamento terapeutico e un primo passo verso la personalizzazione della terapia di questo raro tumore”, dichiara il Prof. Massimo Terzolo.

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Foto di Parentingupstream

Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino