Un potenziale alleato per il trattamento dell’encefalopatia epatica, la buccia dell’arancia rossa
Una ricerca coordinata dall’Istituto per la bioeconomia del CNR e dall’Università degli Studi di Milano ha messo in evidenza le proprietà dell’estratto di arancia rossa nel mitigare gli effetti della patologia. Lo studio, pubblicato su Biomedicines, consente un’ulteriore valorizzazione di questi agrumi, attraverso l’utilizzo dei sottoprodotti per le terapie in ambito neurologico.
Roma/Milano, 17 aprile 2025 – Scarti di arance rosse siciliane elaborati e utilizzabili come supporto nella cura dell’encefalopatia epatica (o MHE), patologia neurologica che può verificarsi in caso di insufficienza epatica. È quanto rivela uno studio in vivo coordinato dall’Istituto per la bioeconomia del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Firenze (CNR-IBE) assieme all’Università degli Studi di Milano, a cui hanno partecipato altri partner italiani e cinesi. I risultati della ricerca, finanziata dall’azienda Alfasigma, sono stati pubblicati sulla rivista Biomedicines.
L’encefalopatia epatica è una sindrome neurologica, associata a patologie epatiche croniche come la cirrosi, che è causata dall’accumulo di sostanze tossiche nel sangue – in particolare ammoniaca – in conseguenza della ridotta capacità del fegato di metabolizzarle. Queste tossine, una volta raggiunto il cervello, provocano l’alterazione delle funzioni cognitive e motorie ed è importante trattare la MHE tempestivamente, per evitare l’insorgere di problematiche più gravi.
“Nel nostro studio abbiamo verificato che l’estratto derivato dai sottoprodotti delle arance rosse, grazie alle sue proprietà antiossidanti e antinfiammatorie, influisce su queste funzionalità. Mediante la cavitazione idrodinamica – una tecnica di estrazione a bassa temperatura che utilizza l’acqua come solvente – in pochi minuti abbiamo sviluppato un fitocomplesso stabile che riesce a raggiungere fegato e cervello e che, attraverso la pectina, svolge anche una funzione prebiotica fornendo quindi nutrimento alla flora batterica intestinale”, spiega Francesco Meneguzzo, primo ricercatore del CNR-IBE tra i coordinatori dello studio.
La buccia di arancia rossa è nota per essere ricca di importanti composti bioattivi, quali polifenoli (principalmente esperidina), polisaccaridi (pectina) e oli essenziali (limonene), che hanno effetti positivi sulla salute, ma per la prima volta ne è stata dimostrata l’efficacia nei confronti dell’MHE attraverso test in vivo.
“Viste le risultanze delle attività terapeutiche effettuate a dosaggio ridotto, questo studio apre la strada alle prove cliniche del prodotto: si tratta di una prospettiva molto importante e che auspichiamo possa essere concretizzata al più presto, per ampliare le possibilità di prevenzione e cura di una malattia così seria e invalidante”,
conclude Mario Dell’Agli, docente del Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari Rodolfo Paoletti e responsabile del Laboratorio di Farmacognosia dell’Università degli Studi di Milano.
Un potenziale alleato per il trattamento dell’encefalopatia epatica dalla buccia di arancia rossa, nota la ricchezza di composti bioattivi. Particolare del pastazzo di arancia rossa, sottoprodotto della lavorazione degli agrumi. Crediti per la foto: Francesco Meneguzzo
Riferimenti bibliografici:
Vesci, Loredana, Giulia Martinelli, Yongqiang Liu, Luca Tagliavento, Mario Dell’Agli, Yunfei Wu, Sara Soldi, Valeria Sagheddu, Stefano Piazza, Enrico Sangiovanni, and et al., The New Phytocomplex AL0042 Extracted from Red Orange By-Products Inhibits the Minimal Hepatic Encephalopathy in Mice Induced by Thioacetamide, Biomedicines 13, no. 3: 686 (2025), DOI: https://doi.org/10.3390/biomedicines13030686
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano
Cambiamento climatico: rondini più piccole ma non per selezione naturale
Un gruppo di ricercatori dell’Università di Milano ha esaminato le dimensioni corporee di 9000 rondini nidificanti in Pianura Padana dal 1993 al 2023, evidenziando una riduzione della massa corporea e della lunghezza di ali e sterno negli ultimi anni. Lo studio, pubblicato su Journal of Animal Ecology, ipotizza come causa di questa alterazione i cambiamenti ambientali.
Milano, 3 aprile 2025 – Più piccole e forse più a rischio. Con l’aumento delle temperature, la dimensione delle rondini è diminuita. Tuttavia, non si tratta di un adattamento evolutivo che garantirebbe un miglior adattamento al clima sempre più caldo in cui si riproducono, mapotrebbe essere una conseguenza di condizioni ambientali peggiorate e compromettere la loro sopravvivenza a lungo termine.
È questa la conclusione a cui è giunto un team di ricercatori del Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano e pubblicato su Journal of Animal Ecology.
La ricerca, condotta sulla popolazione italiana di rondini (Hirundo rustica) nidificanti in Pianura Padana nell’arco di 31 anni (1993-2023) ha evidenziato come in questi decenni si sia verificato un calo significativo nella massa corporea, nella lunghezza dello sterno e delle ali, mentre il becco e le zampe non hanno subito variazioni altrettanto evidenti.
Iricercatori si sono quindi domandati se questa alterazione fosse dovuta a un adattamento evolutivo o se la causa risiedesse in altro. Da un lato, questo cambiamento è in linea con le regole ecogeografiche di Bergmann (dal biologo tedesco Christian Bergmann) e di Allen (Joel Asaph Allen, zoologo e ornitologo statunitense) che mettono in relazione le dimensioni degli animali e delle loro appendici (ad esempio code, zampe, orecchie, becchi) con le condizioni termiche dell’ambiente in cui vivono: nelle regioni calde sono più comuni animali di piccole dimensioni (regola di Bergmann) con appendici corporee estese (regola di Allen), rispetto agli ecosistemi freddi. Gli animali di taglia piccola hanno infatti un rapporto tra superficie e volume maggiore rispetto agli animali più grossi. Questa caratteristica, amplificata dalla presenza di appendici corporee estese, consente una più efficiente dissipazione del calore, un chiaro vantaggio per gli organismi che vivono in ambienti caldi. Il rimpicciolimento del corpo delle rondini, unito alla minima variazione di becco e zampe, sembrerebbe quindi coerente con un adattamento evolutivo all’aumento delle temperature primaverili-estive verificatesi nell’area di studio.
Tuttavia, analizzando i dati relativi all’intera vita di quasi 9000 individui diversi (catturati e misurati in anni successivi), i risultati hanno mostrato che la selezione naturale non favorisce gli individui più piccoli, né in termini di sopravvivenza annuale né di numero di figli prodotti in ciascuna stagione riproduttiva. Al contrario, gli individui più grandi sembrano godere di un vantaggio riproduttivo maggiore, contraddicendo l’idea che la selezione favorisca una riduzione delle dimensioni corporee.
“È pertanto probabile che tale fenomeno sia dovuto a una risposta fenotipica plastica (ovvero non causata da cambiamenti genetici come avverrebbe nel caso in cui si trattasse di un processo evolutivo) forse mediata dal deterioramento delle condizioni ecologiche nei luoghi di riproduzione e/o di svernamento, piuttosto che a una selezione naturale diretta verso individui più piccoli” spiega Andrea Romano, professore associato presso il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano e primo firmatario dello studio.
I ricercatori sono quindi giunti all’ipotesi che i cambiamenti ambientali,come la diminuzione delle risorse alimentari e l’aumento delle temperature estive durante lo sviluppo dei pulcini,possano influenzare significativamente la morfologia delle rondini. Questa ipotesi troverebbe riscontro in altri studi recenti su diverse specie, che mostrano come un aumento significativo della temperatura nel nido porti a dimensioni corporee minori e becchi relativamente più grandi, senza però migliorare la sopravvivenza.
“Questi risultati sollevano interrogativi sulla capacità delle specie migratrici di adattarsi ai cambiamenti climatici. Se la diminuzione è una risposta plastica a condizioni ambientali peggiorate, la sopravvivenza a lungo termine delle rondini potrebbe essere compromessa. Lo studio invita quindi alla cautela nell’interpretare sistematicamente la riduzione delle dimensioni corporee degli animali come un adattamento evolutivo al riscaldamento globale. In generale, questi risultati sottolineano l’importanza di monitorare le risposte delle specie ai cambiamenti climatici e di considerare più fattori ambientali quando si analizzano le variazioni fenotipiche nel tempo” conclude Romano.
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano
Mediterraneo: precipitazioni stabili dalla fine dell’Ottocento, ma in futuro è prevista una diminuzione
Un team di ricercatori di cui fa parte l’Università Statale di Milano ha tracciato l’evoluzione delle precipitazioni nel Mediterraneo a partire dalla fine del diciannovesimo secolo. I dati mostrano una sostanziale stabilità nel passato e confermano l’affidabilità delle recenti simulazioni modellistiche nel prevedere una diminuzione nel XXI secolo. Lo studio è stato pubblicato su Nature.
Milano, 21 marzo 2025 – L’evoluzione delle precipitazioni ha importanti implicazioni per le politiche sociali, economiche e ambientali nella regione del Mediterraneo.
Ora uno studio, condotto da un gruppo internazionale di ricercatori, coordinato da Sergio Vicente Serrano del Pyrenean Institute of Ecology e Yves Tramblay dell’Istituto Francese di Ricerca e Sviluppo (French Institute of Research for Development) e con un importante contributo dell’Università Statale di Milano, dell’Università del Salento e del CNR-ISAC (Consiglio Nazionale Delle Ricerche, Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima), ha rilevato che dal 1871 al 2020 le precipitazioni in quest’area sono rimaste sostanzialmente stabili anche se distribuite irregolarmente; tuttavia nel XXI secolo si prevede una diminuzione.
La ricerca, pubblicata su Nature, si basa su dati provenienti da 23.000 stazioni in 27 Paesi e colma una lacuna di conoscenza causata dalla mancanza di dati meteo completi, dovuta a politiche di alcuni Paesi del Mediterraneo non favorevoli a mettere in comune le serie osservative del passato. Questo problema è stato risolto sviluppando un metodo di lavoro innovativo che ha permesso elaborazioni svolte in modo distribuito, ma basate su un unico pacchetto di codici di analisi dati, senza che i singoli Paesi coinvolti dovessero condividere i dati originali.
Lo studio mostra che nel passato le precipitazioni nella regione sono state caratterizzate da una forte variabilità spaziale e temporale, ma sono rimaste fino ad ora in gran parte stabili nel lungo termine. Secondo i ricercatori, le tendenze che possono essere identificate per alcune aree e periodi sono attribuibili alle dinamiche collegate alla variabilità interna del clima. Inoltre evidenziano come le più recenti simulazioni modellistiche (prodotte nel Progetto internazionale CMIP 6) trovino conferma nelle osservazioni. Pertanto, i risultati del progetto attestano l’affidabilità dei modelli e dell’attesa futura diminuzionedelle precipitazioni per la regione mediterranea.
“Questo accordo tra le simulazioni modellistiche e le osservazioni sulla stabilità delle precipitazioni nel passato rafforza l’affidabilità delle previsioni di una futura riduzione delle piogge. Questa riduzione è molto preoccupante perché la regione del Mediterraneo sta già attraversando un periodo di crescente aridità climatica, causata dall’aumento dell’evaporazione dovuto al forte incremento delle temperature. Temiamo quindi che nei prossimi decenni si aggraverà la scarsità delle risorse idriche e l’aridità nella regione”,
conclude Maurizio Maugeri, docente del Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università Statale di Milano e tra i primi firmatari dello studio insieme al professor Piero Lionello del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali dell’Università del Salento.
Riferimenti bibliografici:
Vicente-Serrano, S.M., Tramblay, Y., Reig, F. et al. High temporal variability not trend dominates Mediterranean precipitation, Nature639, 658–666 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-024-08576-6
Tumori: per il 2025 si stima una diminuzione dei tassi di mortalità.
Per il cancro alla mammella è previsto un calo generale, ma un aumento tra le pazienti più anziane
Le previsioni dei decessi per tumori indicano una diminuzione dei tassi di mortalità del 3,5% circa nell’Unione Europea negli uomini e dell’1,2% nelle donne. Un andamento positivo è stimato anche per il tumore della mammella, tranne nelle donne ultraottantenni, probabilmente per mancanza di screening regolari, diagnosi tempestive e utilizzo di terapie innovative.I risultati dello studio, coordinato dall’Università degli Studi di Milano in collaborazione con l’Università di Bologna e sostenuto dalla Fondazione AIRC, sono stati pubblicati sulla rivista “Annals of Oncology”.
Milano, 12 marzo 2025 – Nel 2025 i tassi di mortalità per tumore della mammella dovrebbero diminuire in tutte le fasce d’età nell’Unione Europea (UE), a eccezione delle pazienti ultraottantenni. Per queste ultime si prevede infatti un aumento del 7% circa rispetto ai tassi osservati nel periodo 2015-2019.
Questi risultati provengono da uno studio in cui si sono stimati i tassi di mortalità per tumore nell’UE [1] e nel Regno Unito per il 2025. I risultati dello studio, condotto da ricercatori dell’Università degli Studi di Milano in collaborazione con l’Università di Bologna, sono stati pubblicati oggi sulla rivista Annals of Oncology[2].
Gli epidemiologi coordinati da Carlo La Vecchia, professore di statistica medica ed epidemiologia all’Università Statale di Milano, ritengono che un motivo per l’aumento dei tassi di mortalità per tumore della mammella tra le pazienti più anzianenell’UE possa essere dovuto alla mancanza di screening regolari e di diagnosi tempestiveper le donne ultraottantenni, che hanno anche minore probabilità di ricevere i trattamenti più innovativi.
“Le donne anziane non sono incluse nei programmi di screening e probabilmente, rispetto alle donne più giovani, hanno minore giovamento dagli importanti progressi nella diagnosi e nella gestione del tumore della mammella, compresi i miglioramenti nella chemioterapia, nella terapia ormonale e nell’immunoterapia che include il trastuzumab e i farmaci similari, ma anche nella radioterapia e nella chirurgia” ha dichiarato La Vecchia.
L’aumento della prevalenza di sovrappeso e obesità osservato negli ultimi decenni nella maggior parte dell’Europa settentrionale e centrale ha portato a un aumento del rischio di tumore della mammella. Questo fenomeno, però, non è stato controbilanciato da un miglioramento della diagnosi e della gestione della malattia nelle donne anziane e, di conseguenza, potrebbe spiegare l’aumento della mortalità stimato.
Il gruppo di ricercatori prevede una diminuzione dei tassi di mortalità per tumore della mammella a tutte le età pari al 3,6% nell’UE e allo 0,8%in Italia nel 2025 rispetto al 2020. Il tasso di mortalità standardizzato per età è 13,3 per 100.000 donne nell’UE (per un totale di 90.100 decessi) e di 14,0 per 100.000 donne in Italia (per un totale di 13.660 decessi).
“Stimiamo che tra il 1989 e il 2025 siano stati evitati 373.000 decessi per tumore della mammella nell’UE. La maggior parte di questi decessi evitati è dovuta al miglioramento della gestione della malattia e all’introduzione di innovazioni terapeutiche, ma il 25-30% è probabilmente attribuibile auna maggiore diffusione della diagnosi precoce e del programma di screening. Poiché oggi il tumore della mammella può essere curato efficacemente grazie ad approcci innovativi, è essenziale che tutte le pazienti alle quali viene diagnosticato vengano indirizzate a centri oncologici in grado di offrire tutte le terapie necessarie. Inoltre, come indicato dagli andamenti sfavorevoli per le donne ultraottantenni, il controllo del sovrappeso e dell’obesità rimane una priorità, non solo per le malattie cardiovascolari, ma anche per i tumori, compreso il quello della mammella” ha aggiunto il professor La Vecchia.
I ricercatori hanno analizzato, per il quindicesimo anno consecutivo, i tassi di mortalità per tumore nell’UE [3] e nel Regno Unito, esaminando separatamente i tassi di mortalità per tumore dello stomaco, colon-retto, pancreas, polmone, mammella, utero (compresa la cervice), ovaio, prostata e vescica, nonché i tassi di mortalità per leucemie, per entrambi i sessi [4]. Sono stati raccolti i dati di mortalità dai database dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e delle Nazioni Unite, relativi al periodo 1970-2020. Tali stime si sono dimostrate affidabili nel corso degli anni.
Tutti i tumori:
Nei Paesi dell’UE si prevede un calo del 3,5% circa dei tassi di mortalità per tutti i tumori: si passerà da 125/100.000 nel 2020 a 121/100.000 nel 2025 per gli uomini, e da 80/100.000 a 79/100.000 per le donne. In totale si stima che nel 2025 circa 1.280.000 persone moriranno di tumore nell’UE e circa 176.000 in Italia. In Italia il tasso di mortalità per tutti i tumori diminuirà per gli uomini, passando da 112 nel 2020 a 96/100.000 nel 2025, e per le donne, passando da 75 a 71/100.000.
Secondo le stime dei ricercatori, dal 1988 al 2025 nell’UE si sono evitati 6,8 milioni di decessi per tutti i tipi di tumore (4,7 milioni negli uomini e 2,1 milioni nelle donne), ipotizzando che i tassi di mortalità rimanessero costanti rispetto a quelli del 1988.
Tuttavia, a causa del crescente numero di anziani nella popolazione, il numero di decessi per tumore aumenterà da 671.963 nel 2020 a 709.400 nel 2025 tra gli uomini nell’UE e da 537.866 a 570.500 tra le donne. In Italia, invece, il numero di decessi passerà da 97.866 a 94.740 per gli uomini e da 79.991 a 81.740 per le donne.
Si prevede che i tassi di mortalità perla maggior parte dei tumori diminuiranno quest’anno nell’UE, a eccezione del tumore del pancreas, che mostrerà un aumento del 2% negli uomini e del 3% nelle donne. Per le donne si prevede un aumento del 4% del tumore del polmone e del 2% del tumore della vescica.
In Italia gli unici tassi di mortalità previsti in lieve aumento sono quelli per il tumore del pancreas e della vescica nelle donne. I tassi di mortalità per tutti gli altri tipi di tumore sono in calo per entrambi i sessi.
“Il fumo rimane di gran lunga la principale causa nota di tumore del pancreas, causando dal 20 al 35% dei casi in varie fasce di età, a seconda delle diverse abitudini di fumo. Il diabete, il sovrappeso che portano allo sviluppo della sindrome metabolica sono responsabili di circa il 5% dei tumori al pancreas in Europa. Questo aspetto sta diventando sempre più importante a causa della crescente prevalenza dell’obesità, ma il controllo e la prevenzione del fumo rimangono la priorità per il controllo anche del tumore del pancreas” ha spiegato la professoressa Eva Negri, docente di epidemiologia ambientale e medicina del lavoro dell’Università di Bologna e co-leader della ricerca.
Il tumore del polmonerappresenta la principale causa di morte per tumore tra gli uomini nell’UE (151.000 casi) e in Italia (19.600 casi). Nel nostro Paese il tumore della mammella è la prima causa di morte per cancro fra le donne italiane (13.660 casi). Anche nell’UE, il tumore della mammella rappresenta la principale causa di morte per tumore tra le donne; tuttavia, si stima che il tasso di mortalità per il tumore del polmone supererà quello della mammella nel 2025. Infatti, l’andamento della mortalità per tumore del polmone è ancora in aumento tra le donne (+3,8% rispetto al 2020).
Conclude Carlo La Vecchia: “Gli andamenti di mortalità per tumore continuano a essere favorevoli in tutta Europa. Tuttavia vi sono anche aspetti negativi: uno di questi sono i decessi per tumore del colon-retto nelle persone di età inferiore ai 50 anni, che hanno iniziato ad aumentare nel Regno Unito e in diversi Paesi dell’Europa centrale e settentrionale, a causa dell’aumento della prevalenza del sovrappeso e dell’obesità nei giovani che, per età, non sono coperti dallo screening del tumore colorettale. Inoltre i tassi di mortalità per il tumore del pancreas non sono in diminuzione nell’UE ed è ora la quarta causa di morte per tumore dopo il cancro del polmone, del colon-retto e della mammella. I tassi di mortalità per tumore del polmone stanno iniziando a stabilizzarsi, ma non ancora a diminuire nelle donne dell’UE. Le tendenze del tumore del pancreas e del polmone nelle donne sottolineano l’urgenza di attuare un controllo ancora più rigoroso del tabacco in tutta Europa”.
Il progetto è stato sostenuto dalla Fondazione AIRC; Claudia Santucci e Carlo La Vecchia hanno ricevuto sostegno dall’iniziativa Next Generation EU-MUR PNRR Extended Partnership Inf-Act.
NOTE
[1] Al momento di questa analisi, l’UE contava 27 Stati membri, con l’uscita del Regno Unito nel 2020. Cipro è stato escluso dall’analisi perché non erano disponibili sufficienti dati a lungo termine, necessari per prevedere le tendenze, soprattutto nei piccoli Paesi. Tutti gli altri Paesi avevano dati che risalivano almeno al 1970.
[2] “European cancer mortality predictions for the year 2025 with focus on breast cancer”, by C. Santucci et al. Annals of Oncology, doi: 10.1016/j.annonc.2025.01.014.
[3] I tassi standardizzati per età per 100.000 abitanti riflettono la probabilità annuale di morire aggiustata per riflettere la distribuzione per età di una popolazione.
[4] Il documento contiene tabelle individuali dei tassi di mortalità per tumore per ciascuno dei sei massimi Paesi Europei.
Tumori: per il 2025 si stima una diminuzione dei tassi di mortalità. Foto di Konstantin Kolosov
Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano e dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Bologna.
SOLARIS: LE PRIME IMMAGINI IN BANDA RADIO DEL SOLE DAL NUOVO OSSERVATORIO ITALIANO IN ANTARTIDE
Da oggi, l’osservazione del Sole alle alte frequenze radio si arricchisce dei dati di Solaris, progetto scientifico coordinato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica nell’ambito del Piano Nazionale di Ricerca in Antartide (PNRA). Partendo dal Polo Sud, Solaris punta a espandersi anche nell’emisfero settentrionale, creando una rete globale per un monitoraggio continuo del Sole, con importanti applicazioni per la meteorologia dello spazio.
Prima immagine del Sole in banda radio, osservato alla frequenza di 95 GHz in Antartide il 27 dicembre 2024. Crediti: Team Solaris
Milano, 3 marzo 2025 – L’osservatorio Solaris è un innovativo progetto scientifico e tecnologico – frutto di una collaborazione tra diverse istituzioni scientifiche nazionali coordinate dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), dall’Università degli Studi di Milano e dall’Università di Milano-Bicocca nell’ambito del PNRA (Piano Nazionale di Ricerca in Antartide) – finalizzato allo sviluppo di un sistema di monitoraggio continuo del Sole alle alte frequenze radio, per studi di fisica fondamentale, climatologia spaziale e interazioni Terra-Sole.
Nonostante sia attivo da pochissimo tempo e ancora nelle fasi iniziali di sviluppo (è infatti passato poco più di un anno dalla sua costituzione), Solaris ha già prodotto dati interessanti dal punto di vista scientifico per applicazioni di climatologia spaziale, in particolare mappe solari che consentono di studiare in banda radio a 95 gigahertz l’evoluzione della regione attiva che ha prodotto le tempeste solari responsabili dell’aurora di capodanno, visibile anche alle nostre latitudini. Le immagini sono state ottenute nelle scorse settimane, e sono tuttora in fase di analisi e interpretazione da parte di un team multidisciplinare di esperti.
“La possibilità di monitorare, comprendere e prevedere la mutevole fenomenologia solare e il suo notevole impatto con l’ambiente spaziale e il nostro pianeta è una sfida che acquista sempre più importanza” dice Alberto Pellizzoni, astrofisico INAF e responsabile scientifico del progetto Solaris, che prosegue: “Per affrontare questa sfida è necessario investire per trasformare e potenziare strumenti già esistenti o crearne di nuovi in una efficiente rete solare internazionale, anche nel contesto degli accordi in essere tra diversi Enti in Italia (INAF, INGV, ASI, Aeronautica Militare e varie Università) per sviluppare servizi dedicati allo Space Weather, e capire come il Sole influisca sulle nostre tecnologie e la nostra vita sulla Terra”.
Il progetto Solaris prevede l’implementazione di ricevitori radioastronomici dedicati e intercambiabili su piccoli radiotelescopi della classe di 2.6 metri di diametro, già presenti in Antartide nelle basi italiane Mario Zucchelli e Concordia e adattati per osservazioni solari ad alta frequenza, dell’ordine delle decine di giga hertz (Ghz). Ciò consente di ricevere onde radio emesse dal Sole, la cui lunghezza d’onda varia da qualche centimetro a qualche millimetro. Con questo tipo di osservazioni è possibile avere una nuova “finestra” in cui studiare il Sole e i suoi fenomeni, rilevando con precisione la temperatura e i brillamenti della corona solare e fare previsioni sulle possibili tempeste geomagnetiche. Al progetto, oltre alle sedi INAF di Cagliari, Bologna, Trieste, Milano e alle Università degli Studi di Milano e Milano-Bicocca, partecipano le Università di Roma Sapienza, Tor Vergata e Roma Tre, l’Agenzia Spaziale Italiana, l’Aeronautica Militare Italiana, l’Università Cà Foscari di Venezia, il Consiglio Nazionale delle Ricerche.
Francesco Cavaliere e Marco Potenza, del Dipartimento di Fisica dell’Università di Milano, affermano: “Vediamo finalmente venire alla luce i primi risultati di un lungo progetto a cui abbiamo lavorato per quasi dieci anni, dopo che il PNRA ci aveva chiesto di prenderci carico delle infrastrutture nelle due basi. Il lavoro da fare è ancora moltissimo, ma i primi risultati sono di grande soddisfazione anche in funzione delle scarsissime risorse che abbiamo avuto a disposizione. La riuscita di questa prima fase è anche una valorizzazione delle attività svolte proprio a Milano, dove abbiamo un telescopio prototipo con cui validare tutte le procedure e risolvere gran parte dei problemi prima di arrivare a lavorare al Polo”.
“Solaris rappresenta uno dei progetti di punta del PNRA in campo astrofisico ed uno tra i più promettenti programmi astrofisici che operano nelle aree polari a livello internazionale – sostiene Massimo Gervasi, docente dell’Università di Milano-Bicocca e membro del Physical Science Group dello SCAR (Scientific Committee on Antarctic Research) -. L’analisi delle immagini di Solaris, correlata con le immagini fornite dai satelliti a più alte energie da un lato e i dati sulle particelle energetiche solari dall’altro, aiuterà a comprendere meglio i fenomeni fisici che stanno alla base delle emissioni solari energetiche”.
Gallery, crediti per le foto: Luca Teruzzi – Università di Milano
In presenza di condizioni di visibilità del cielo ottimali come quelle antartiche, Solaris sarà l’unica installazione a offrire un monitoraggio continuo del Sole ad alte frequenze radio permettendo di osservare le variazioni che avvengono nella cromosfera solare, uno strato dell’atmosfera della nostra stella in cui si formano fenomeni altamente energetici come brillamenti ed espulsioni di massa coronale. Monitorare le variazioni in questa banda radio permette di identificare segnali precursori di tempeste geomagnetiche, che potrebbero interferire con le nostre tecnologie nello spazio e a terra.
Gallery, crediti per le foto: Francesco Cavaliere – Università di Milano
La scelta di posizionare a una latitudine così meridionale Solaris non è dovuta solo alla limpidezza dell’atmosfera, garantita dalla bassa umidità che altrimenti assorbirebbe i segnali radio ad alta frequenza, ma anche e soprattutto alla lunga persistenza del Sole nel cielo durante l’estate antartica (che corrisponde al nostro periodo invernale), seppure molto basso rispetto all’orizzonte. Nei pressi dei poli terrestri, infatti, è possibile – durante i rispettivi periodi estivi – osservare la nostra stella per oltre 20 ore al giorno.
Per poter offrire un monitoraggio solare costante durante tutto l’anno, il progetto Solaris sarà dunque implementato anche nell’emisfero settentrionale con lo sviluppo di una stazione sulle Alpi (presso l’Osservatorio climatico Testa Grigia del CNR, a 3500 metri s.l.m., in Valle D’Aosta) e altre in Scandinavia e regioni Artiche, grazie all’interesse internazionale destato da queste prospettive.
Il Sito web del progetto Solaris: https://sites.google.com/inaf.it/solaris
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano e dagli Uffici Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca
Conchiglie fossili: testimoni che raccontano i cambiamenti climatici del tempo profondo; conchiglie fossili di brachiopodi dall’Iran permettono di studiare i cambiamenti climatici dopo l’estinzione di fine Permiano Medio
Un team di ricercatori dell’Università Statale di Milano ha analizzato dal punto di vista geochimico conchiglie fossili di brachiopodi provenienti dall’Iran, che si sono dimostrate preziosi archivi di dati per aiutare a ricostruire le temperature delle acque marine nel Paleozoico. Questo studio, pubblicato su Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology, ci può fornire importanti strumenti per comprendere gli attuali cambiamenti climatici e le loro conseguenze.
Milano, 6 febbraio 2025 – Com’era il clima nel passato remoto? Quali cambiamenti si sono verificati e con quali conseguenze ambientali?
Le risposte a queste domande sono state trovate in quelli che si possono definire veri e propri bioarchivi fossili: le conchiglie dei brachiopodi. A dimostrarne l’efficacia come strumento per comprendere le variazioni climatiche del passato è uno studio multidisciplinare condotto da un team di ricercatori dell’Università Statale di Milano, dell’Università degli Studi di Ferrara, dell’Università di St. Andrews in Scozia e dell’Università Ludwig Maximilian di Monaco pubblicato su “Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology”.
Gli scienziati hanno analizzato alcune conchiglie fossili di brachiopodi provenienti dall’Iran, e in questo modo sono riusciti a ricostruire le variazioni stagionali di temperatura delle acque marine avvenute 260 milioni di anni fa, durante il Paleozoico. Un’era geologica (570-245 milioni di anni fa) che ha registrato drammatici cambiamenti ambientali e climatici e alcune delle più letali estinzioni di massa e per questo motivo di fondamentale importanza per gli studi paleoclimatici.
Conchiglie fossili di brachiopodi dall’Iran permettono di studiare i cambiamenti climatici dopo l’estinzione di fine Permiano Medio. Gallery
Microstrutture di conchiglie di brachiopode ben preservate che hanno registrato momenti freddi (blu, caratterizzati da alta oscillazione nei valori isotopici e quindi grande variazione stagionale di temperature) e momenti caldi (rosso, caratterizzati da bassa oscillazione nei valori isotopici e quindi minima variazione stagionale di temperature)
A) I brachiopodi fossili utilizzati nello studio, appartenenti alla specie Araxilevis intermedius. B) Schema di crescita di una conchiglia di brachiopode. I punti rossi mostrano i campioni di polveri analizzati
Ricercatori sul campo in Iran centrale, impegnati nella raccolta dei fossili utilizzati nello studio
In particolare lo scopo della ricerca è stato quello di studiare la durata della fase fredda avvenuta dopo l’estinzione di fine Permiano Medio (circa 260 milioni di anni fa), causata da intensa attività vulcanica nell’attuale Cina meridionale, e di analizzare la risposta dei brachiopodi al raffreddamento climatico.
“I brachiopodi, oggi rappresentati da qualche centinaio di specie, ma particolarmente diffusi e abbondanti nel Paleozoico, producono una conchiglia incorporando gli elementi chimici presenti nell’acqua del mare. Questi elementi possono quindi essere analizzati per ricostruire le condizioni ambientali e climatiche in cui questi animali hanno vissuto” spiega Marco Viaretti ricercatore presso il Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università Statale di Milano e primo autore dello studio.
Attraverso un approccio multidisciplinare volto a verificare lo stato di conservazione delle conchiglie e mediante la raccolta di polveri attraverso un campionamento ad alta risoluzione lungo le linee di accrescimento delle conchiglie, il team ha misurato i rapporti isotopici dell’ossigeno e del carbonio registrato dalle conchiglie. Gli isotopi dell’ossigeno, infatti, forniscono importanti informazioni per ricostruire le temperature dei mari del passato. Grazie all’approccio utilizzato in questo studio, è stato possibile ricostruire i cambiamenti stagionali di temperatura dell’acqua marina registrati dalle conchiglie su scala annuale.
Le analisi isotopiche hanno permesso di definire la durata della fase fredda post-estinzione, pari a circa 2 milioni di anni e di indentificare un’alta variazione stagionale. Successivamente alla fase fredda, le conchiglie hanno registrato la presenza di condizioni climatiche più calde caratterizzate da una bassa variazione stagionale. Le associazioni di brachiopodi si sono dimostrate particolarmente resilienti al raffreddamento climatico e non hanno registrato significativi cambiamenti di biodiversità.
“Si tratta di uno studio straordinario poiché non solo ha permesso di ricostruire le variazioni stagionali di temperatura delle acque marine avvenute 260 milioni di anni fa, ma anche dimostra le potenzialità dei brachiopodi come archivi di cambiamenti climatici del passato” aggiunge Viaretti.
“Le metodologie impiegate in questo studio potranno costituire un punto di partenza per l’analisi di altri intervalli del tempo geologico caratterizzati da variazioni del clima e offrire strumenti preziosi per comprendere meglio i cambiamenti climatici attuali e il loro impatto sugli ecosistemi e sulla biodiversità” conclude Lucia Angiolini, docente del Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università degli Studi di Milano.
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.
ERC Proof of Concept per il progetto FLORA (Fusing LiDAR Observations with Remote-sensing Analysis)
Innovazione e benessere urbano: un progetto dell’Università degli Studi di Milano si aggiudica un finanziamento complessivo di 150mila euro
Il riconoscimento dell’European Research Council è stato assegnato a due docenti della Statale di Milano: Valentina Bollati, al suo quarto ERC, ed Elia Biganzoli, con FLORA (Fusing LiDAR Observations with Remote-sensing Analysis), un progetto interdisciplinare per rispondere alle necessità di benessere e alla salute dei cittadini. Lo studio coinvolgerà le istituzioni e i cittadini di Legnano, in provincia di Milano, per creare un modello replicabile a livello globale.
Milano, 23 gennaio 2025 – Migliorare l’estetica urbana e la vivibilità delle città, per tutelare e promuovere la salute dei cittadini: èl’obiettivo che si pone il progetto FLORA (Fusing LiDAR Observations with Remote-sensing Analysis), vincitore di un ERC Proof of Concept (PoC) di 150 mila euro. FLORA è guidato da Valentina Bollati, docente dei Medicina del Lavoro e responsabile dell’EPIGET Lab, il Laboratorio di Epidemiologia, Epigenetica e Tossicologia del Dipartimento Scienze Cliniche e di Comunità ed Elia Biganzoli, docente di Statistica Medica e responsabile del gruppo di Epidemiologia e Statistica Bioinformatica del Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche dello stesso Ateneo, cofondatori dell’iniziativaINES nella quale si colloca anche il progetto FLORA e componenti del Centro di Ricerca Coordinata DESIRE sulla Scienza delle Decisioni.
FLORA avrà come compito quello di analizzare con metodi di Intelligenza Artificiale il legame tra la salute e l’esposoma, ovvero l’insieme di tutte le esposizioni ambientali, comportamentali e occupazionali, non genetiche, cui un individuo è esposto nel corso della sua vita. Questo studio, che sarà svolto a Legnano (Mi), è un’importante applicazione del progetto MAMELI “MApping the Methylation of repetitive elements to track the Exposome effects on health: the city of Legnano as a LIving lab”, progetto guidato sempre da Valentina Bollati per il quale nel 2023 si è aggiudicata un ERC Consolidator Grantdi circa 3 milioni di euro, che si è avvalso della collaborazione con diversi gruppi di ricerca di Ateneo, tra cui quello coordinato da Elia Biganzoli. Il riconoscimento PoC viene infatti conferito ai progetti che si propongono di esplorare il potenziale commerciale e sociale delle ricerche già finanziate da un ERC iniziale, risultando così ancora più significativo.
“Con FLORA avremo la possibilità di integrare alcune informazioni dettagliate sul paesaggio urbano – come spazi verdi, qualità dell’aria, flussi di traffico – con le percezioni dei cittadini. Inoltre si potranno creare metriche per quantificare la percezione estetica, la vivibilità e la salute urbana, identificando le aree che necessitano di interventi mirati. E soprattutto, coinvolgendo urbanisti, amministratori, comunità locali e abitanti, si potrà dare avvio a una nuova progettazione delle città che risponda alle esigenze di benessere e salute”,spiega Valentina Bollati, già vincitrice anche di un ERC Starting Grant nel 2011 e di un ERC PoC nel 2018.
Un team multidisciplinare di eccellenza, composto anche da Fabio Mosca (Università degli Studi di Milano), Pilar Guerrieri (Politecnico di Milano), Andrea Cattaneo (Università dell’Insubria) e Giovanni Sanesi (Università degli Studi di Bari) collaborerà con le autorità locali e i cittadini di Legnano per raccogliere dati e implementare un cruscotto di indicatori multidimensionali (FLORA dashboard), capace di integrare diverse tecnologie, come lo strumento laser LiDAR (Light Detection and Ranging) per rilevare la distanza di un oggetto, i sistemi GIS (Geographic Information System) e i sondaggi sulla percezione umana, con l’obiettivo finale di creare un modello replicabile e trasferibile a livello globale.
“La forza di FLORA risiede proprio nella capacità di unire competenze interdisciplinari, con l’uso responsabile e trasparente dell’Intelligenza Artificiale e della Scienza delle Decisioni, superando i tradizionali approcci settoriali e adottando una visione integrata e sostenibile del benessere urbano”, conclude Elia Biganzoli.
Università Statale di Milano: innovativo studio “in vivo” sulle metastasi, su come migrano le cellule tumorali
Un team di scienziati coordinati dall’Università Statale di Milano ha osservato “in vivo”, grazie a tecniche di imaging avanzate, la migrazione delle cellule tumorali nei tessuti viventi, rivelando il meccanismo con cui si spostano all’interno del corpo. Lo studio, pubblicato sulla rivistaProceedings of the National Academy of Sciences (PNAS)sarà cruciale per identificare nuove strategie di intervento sulle metastasi.
Milano, 15 gennaio 2025 – Il 90% delle morti da tumore sono dovute alle metastasi, cioè ai tumori secondari che si formano a distanza dal tumore iniziale e sono causati dalla migrazione delle cellule malate. Ecco perché comprendere i meccanismi di questa migrazione è fondamentale per cercare di identificare nuove strategie di intervento sulle metastasi. Ad oggi sappiamo che queste cellule possono muoversi individualmente o in gruppo, ma la maggior parte degli studi fatti finora sono stati svolti in vitro.
Ora, un gruppo di ricercatori del Centro per Complessità e Biosistemi dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con il Centro Medico dell’Università Radboud di Nimega (Radboud University Medical Centre), nei Paesi Bassi, ha pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) uno studio che mostra “in vivo” come avviene l’invasione collettiva di cellule tumorali nel derma.
Da questa osservazione, effettuata grazie alla microscopia intravitale a multifotone, una tecnica che consente l’osservazione dei tessuti ad alta risoluzione e su diversi piani focali consentendo una ricostruzione tridimensionale delle immagini, è risultato che le cellule si muovono usando una modalità di migrazione multicellulare poco coesiva,caratterizzata da un moto turbolento che si auto-organizza in percorsi alternati persistenti in cui le cellule si spostano avanti e indietro dal tumore originale, utilizzando interstizi già presenti nei tessuti.
“Abbiamo analizzato le deformazioni indotte dalle cellule nella matrice extracellulare e abbiamo osservato come le cellule si facessero largo tra i tessuti comprimendoli” spiega Stefano Zapperi, professore al Dipartimento di Fisica “Aldo Pontremoli” dell’Università degli Studi di Milano e coautore dello studio, “mostrando come la presenza di un tessuto che racchiude e comprime il tumoregioca un ruolo chiave nell’organizzazione e nel moto delle cellule tumorali”.
“Un aspetto molto interessante”, aggiunge Caterina La Porta docente di Patologia Generale del dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Ateneo e coordinatrice dello studio, “è che la migrazione collettiva delle cellule tumorale sfrutta le vie utilizzate dai linfociti T del nostro sistema immunitario. Complessivamente” conclude La Porta, “i nostri risultati contribuiscono a chiarire i modelli di migrazione delle cellule tumorali in vivo e forniscono indicazioni quantitative per lo sviluppo di modelli realistici in vitro e in silico (simulazione matematica al computer)”.
Riferimenti bibliografici:
O. Chepizhko, J. Armengol-Collado, S. Alexander, E. Wagena, B. Weigelin, L. Giomi, P. Friedl, S. Zapperi, C.A.M. La Porta, Confined cell migration along extracellular matrix space in vivo, Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A. (2025) 122 (1) e2414009121, DOI: https://doi.org/10.1073/pnas.2414009121
Un innovativo studio “in vivo” sulle metastasi, su come migrano le cellule tumorali, pubblicato oggi sulla rivista PNAS. Foto di Konstantin Kolosov
Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.
I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico, 294 milioni di anni fa
Un team internazionale di scienziati di cui fanno parte l’Università degli Studi di Milano e l’Università Sapienza di Roma, analizzando fossili di brachiopodi ha dimostrato come nel Paleozoico l’incremento di anidride carbonica (CO2), dovuto a un’intensa attività vulcanica, sia risultato concomitante alla riduzione dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. Questo studio pubblicato su Nature Geoscience ci può aiutare a comprendere meglio i cambiamenti climatici attualmente in atto e le loro conseguenze.
1. Ricostruzione artistica della deglaciazione avvenuta nel Permiano Inferiore causata da un rapido incremento della CO2, avvenuta circa 294 milioni di anni fa (realizzato da Dawid Adam Iurino)
Studiare il riscaldamento globale del passato per capire i cambiamenti climatici del presente. Durante la sua lunga storia, la Terra ha sperimentato condizioni climatiche molto diverse, alternando fasi glaciali a periodi di riscaldamento globale che hanno plasmato il pianeta e influenzato l’evoluzione degli organismi. Ancor prima della comparsa dei dinosauri, durante il tardo Paleozoico (circa 300 milioni di anni fa) ebbe luogo una delle glaciazioni più estese, terminata con una fase di riscaldamento che portò alla scomparsa quasi completa dei ghiacciai e delle calotte polari con importanti conseguenze sulla biodiversità.
2. Variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera prima, durante e dopo la deglaciazione di fine Paleozoico
Un team internazionale di scienziati, tra cui ricercatori dell’Università Statale di Milano, dell’Università la Sapienza di Roma e dell’Università di St. Andrews in Scozia, ha preso in esame la glaciazione del tardo Paleozoico e il suo declino, seguito da un considerevole aumento delle temperature, per comprendere meglio l’attuale emergenza climatica.
I risultati di questo studio, pubblicati sulla rivista internazionale Nature Geoscience, ricostruiscono per la prima volta i livelli atmosferici di CO2 lungo un arco temporale di 80 milioni di anni.
L’atmosfera del passato viene spesso studiata attraverso l’analisi di piccole bolle d’aria inglobate nelle calotte polari, grazie alle quali siamo capaci di ricostruire con precisione le variazioni climatiche fino a circa 800 mila anni fa. Ma la sfida affrontata da questo studio è stata quella di sviluppare metodologie in grado di risalire a un intervallo compreso tra 340 e 260 milioni di anni fa. Sono stati così presi in oggetto i fossili brachiopodi, invertebrati marini con una conchiglia costituita da carbonato di calcio, molto abbondanti durante il Paleozoico e tuttora rappresentati da alcune specie viventi. Dalle analisi è emerso come i livelli di CO2 fossero intimamente connessi all’evoluzione della glaciazione e alla sua fine. I ricercatori hanno infatti misurato bassi livelli di anidride carbonica concomitanti alla formazione di estese calotte polari. Viceversa, l’incremento di CO2, che fu il prodotto di un’intensa attività vulcanica, è risultato contemporaneo a una riduzione globale dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. E oggi, proprio come è avvenuto 300 milioni di anni fa, il riscaldamento dell’atmosfera, causato dall’aumento della presenza di CO2 e di gas metano, ha innescato una evidente riduzione dei ghiacciai e delle calotte polari.
“I fossili e le caratteristiche geochimiche dei loro resti sono una preziosa fonte di informazioni, che ci permette di ricostruire il clima e gli ambienti in cui questi organismi sono vissuti, anche nel tempo profondo, e confrontare questi dati con i cambiamenti attualmente in atto” afferma Lucia Angiolini, docente del Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università degli Studi di Milano.
3. La prof. Lucia Angiolini osserva e campiona materiale fossile da alcuni affioramenti rocciosi del Carbonifero in Scozia
“Mentre l’organismo cresce, la sua conchiglia si espande ed incorpora numerosi elementi e composti chimici che vanno a costituire una sorta di archivio per tutto il suo ciclo vitale. Infatti è noto come le conchiglie siano legate alla composizione dell’acqua marina e alla variazione di molteplici parametri tra cui la temperatura e l’acidità (pH)”, sottolinea Claudio Garbelli, docente dell’Università Sapienza di Roma.
“Alcuni elementi presenti nel carbonato di calcio delle conchiglie sono determinati dai valori di pH dell’acqua marina che, a sua volta, dipende dalla quantità di CO2 atmosferica”, aggiunge Hana Jurikova, ricercatrice dell’Università di St. Andrews in Scozia e prima autrice dello studio. “Misurando alcuni degli elementi contenuti nelle conchiglie fossili (quali ad esempio il boro e lo stronzio) e con l’ausilio di sofisticati modelli matematici, siamo stati in grado di ricostruire con una certa precisione la quantità di CO2 presente in atmosfera lungo un arco temporale di 80 milioni di anni, tra 340 e 260 milioni di anni fa”, conclude Jurikova.
Studi come questo, oltre ad evidenziare l’importanza dei fossili come archivi di informazioni utili per comprendere le dinamiche dei cambiamenti climatici e ambientali avvenuti nel passato, rappresentano una fonte di dati indispensabile per sviluppare modelli predittivi dei fenomeni attualmente in atto e del loro impatto sulla biodiversità.
4. I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico: un brachiopode fossile del Permiano, chiamato Pachycyrtella, proveniente dal Permiano inferiore dell’Oman
Riferimenti bibliografici:
Jurikova, H., Garbelli, C., Whiteford, R. et al. Rapid rise in atmospheric CO2 marked the end of the Late Palaeozoic Ice Age, Nat. Geosci. (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41561-024-01610-2
Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.
Long COVID: scoperta la causa dei disturbi polmonari: il danno polmonare può essere causato da uno stato infiammatorio
I risultati di uno studio di Monzino e Università Statale di Milano, pubblicati sul Journal of American College of Cardiology Basic to Translational Science, identificano nell’infiammazione di basso grado e nell’attivazione piastrinica la causa dei danni polmonari, responsabili dei maggiori disturbi nella sindrome Long Covid, rendendo possibile una cura farmacologica personalizzata.
Milano, 12 dicembre 2024 – Un gruppo di ricercatori dell’IRCCSCentro Cardiologico Monzino e dell’Università degli Studi di Milano, guidati da Marina Camera, Responsabile dell’Unità di Ricerca di Biologia Cellulare e Molecolare Cardiovascolare del Monzino e Professore Ordinario di Farmacologia presso l’Università Statale di Milano, in collaborazione con i clinici del Centro Cardiologico Monzino e dell’Istituto Auxologico Italiano, ha individuato i meccanismi molecolari alla base dei disturbi polmonari nei pazienti che soffrono della sindrome Long COVID, aprendo la strada a una possibile terapia.
I dati della ricerca, pubblicati su JACC BTS (Journal of American College of Cardiology Basic to Translational Science) evidenziano che in questi pazienti il danno polmonare può essere causato da uno stato infiammatorio con attivazione delle piastrine che legandosi ai leucociti formano nel sangue degli etero-aggregati. Questi etero-aggregati, entrando nel microcircolo polmonare, possono determinare danno vascolare e alveolare promuovendo deposizione di tessuto fibrotico responsabile dei principali sintomi riferiti dai pazienti con Long COVID (dispnea, dolore toracico, astenia etc etc). Mediante esperimenti in vitro effettuati con il plasma di questi pazienti, lo studio suggerisce anche che i farmaci antiinfiammatori e antiaggreganti sono in grado di contrastare questi processi e rappresentano dunque una potenziale opzione terapeutica.
Benché l’emergenza pandemica COVID-19 sia terminata, il virus persiste nella popolazione e gli effetti di lungo termine dell’infezione – il cosiddetto Long COVID appunto – hanno ancora un forte impatto negativo sulla qualità di vita di un’alta percentuale di soggetti che hanno contratto la malattia in forma più o meno grave. I sintomi più preoccupanti del Long COVID sono riconducibili alla compromissione del parenchima polmonare e possono durare anche un anno dopo la fase acuta dell’infezione. Per questo la ricerca cardiovascolare internazionale si è concentrata sulle cause della persistenza dei sintomi post-COVID.
Diversi studi sostengono l’ipotesi che il danno polmonare sia causato dalla prolungata disfunzione endoteliale e dall’attivazione delle cellule immunitarie, con produzione di citochine che sostengono il processo infiammatorio. Tuttavia la fisiopatologia dei sintomi e le ragioni dello stato infiammatorio e della conseguente disfunzione polmonare non sono state del tutto chiarite.
“I nostri studi hanno identificato un ruolo centrale, che nessuno aveva ancora considerato, sia dell’infiammazione cronica di basso grado che delle piastrine. Livelli anche di poco superiori ai limiti di normalità di proteina C reattiva e di interleuchina 6 possono infatti sinergizzare e sostenere l’attivazione delle piastrine. Gli aggregati che esse formano con i leucociti potrebbero dunque spiegare la disfunzione polmonare promuovendo deposizione di tessuto fibrotico che compromette la funzionalità polmonare”, dichiara Marina Camera.
“Nell’era COVID, fra luglio e ottobre 2020, abbiamo reclutato presso il Centro Cardiologico Monzino e l’Istituto Auxologico Italiano 204 pazienti che avevano contratto il COVID nei mesi precedenti. Escludendo chi soffriva di gravi malattie pregresse o stava assumendo una terapia anticoagulante, abbiamo identificato 34 pazienti con sintomi di Long COVID che sono stati quindi confrontati con altrettanti soggetti che non presentavano sintomi dopo l’infezione da COVID-19. A questi soggetti è stato effettuato un prelievo di sangue per la valutazione dello stato di attivazione delle piastrine. I dati ottenuti hanno chiaramente indicato come nei soggetti sintomatici il danno polmonare evidenziato dagli esami TAC sia significativamente associato a un fenotipo piastrinico pro-infiammatorio”, spiega Marta Brambilla, ricercatrice del centro Cardiologico Monzino e prima firma del lavoro.
La ricerca pubblicata su JACC va a completare gli studi sull’impatto cardiovascolare del COVID-19, confermando l’eccellenza, riconosciuta a livello internazionale, del Centro Cardiologico Monzino su questo fronte. “Abbiamo dapprima identificato nel profilo procoagulante piastrinico il meccanismo responsabile delle complicanze trombotiche nei pazienti con infezione acuta da COVID-19. Abbiamo anche evidenziato che i quattro vaccini anti-COVID utilizzati durante la pandemia, pur inducendo un transiente stato infiammatorio tipico della stimolazione immunitaria, non inducono attivazione piastrinica e dunque non aumentano il rischio trombotico nella popolazione generale. Questo ultimo lavoro evidenzia infine non solo i meccanismi fisiopatologici, ma anche i biomarcatori utili per personalizzare la terapia farmacologica nella gestione della sindrome del Long COVID”, conclude Marina Camera.