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Tumore della vescica: scoperto un nuovo meccanismo molecolare; la proteina NUMB è un biomarcatore nell’evoluzione del tumore, l’interruttore per la diagnosi delle forme più aggressive

NUMB è la proteina che costituisce un biomarcatore nell’evoluzione del tumore alla vescica: la scoperta del meccanismo molecolare apre la strada a nuove strategie terapeutiche per combattere il cancro vescicale. Lo studio, condotto dal team di ricercatori dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) e dell’Università degli Studi di Milano e pubblicato su Nature Communications, dimostra inoltre che i tumori vescicali superficiali e quelli profondi rappresentano stadi differenti di un unico processo patologico che evolve nel tempo, contrariamente a quanto ritenuto fino ad ora.

Milano, 4 dicembre 2024. Una nuova speranza per la diagnosi e la cura dei tumori della vescica più aggressivi nasce dalle ricerche di un gruppo di scienziati dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) e dell’Università degli Studi di Milano. Lo studio sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro è stato coordinato da Salvatore Pece, professore ordinario di Patologia generale e vice-direttore del Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia dell’Università Statale di Milano, Direttore del Laboratorio “Tumori Ormono-Dipendenti e Patobiologia delle Cellule Staminali” dello IEO.

I risultati hanno condotto i ricercatori a scoprire un inedito meccanismo molecolare, alla base dell’aggressività biologica e clinica dei tumori della vescica, che determina le prognosi più sfavorevoli. I dati sono appena stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature Communications.

All’origine dell’intero processo sembra esserci la proteina NUMB, che è normalmente espressa nella vescica normale, ma viene perduta in oltre il 40% di tutti i tumori vescicali umani. Tale perdita causa una cascata di eventi molecolari che rendono il tumore altamente proliferativo e invasivo, consentendogli di oltrepassare gli strati superficiali della mucosa vescicale per raggiungere gli strati più profondi. Tale evento rappresenta il punto di svolta nella evoluzione clinica della malattia, determinando la progressione dei tumori vescicali superficiali, i cosiddetti non-muscolo-invasivi, verso tumori profondi, definiti muscolo-invasivi, che richiedono l’intervento di rimozione chirurgica totale della vescica. Nonostante l’operazione radicale, queste forme di malattia sono caratterizzate da un decorso clinico spesso sfavorevole.

Dunque la proteina NUMB – spiega il professor Pece – funziona come un interruttore molecolare. che, se è spento, accelera la progressione tumorale e influenza il decorso clinico della malattia. Rappresenta quindi un biomarcatore molecolare che consente di identificare i tumori superficiali a elevato rischio di progressione verso tumori muscolo-invasivi”.

La nostra scoperta ha un forte e immediato potenziale di applicazione nella pratica clinica – continua Salvatore Pece –. I criteri clinico-patologici utilizzati nella routine per predire il rischio di progressione dei tumori vescicali superficiali a tumori muscolo-invasivi sono infatti del tutto insufficienti e inadeguati a individuare i pazienti a basso rischio, che potrebbero beneficiare di trattamenti più mirati, di tipo conservativo, in protocolli di sorveglianza attiva. I pazienti ad alto rischio necessitano invece di trattamenti più aggressivi, quali la chemioterapia e l’asportazione chirurgica della vescica, che hanno purtroppo considerevoli effetti collaterali e un elevato impatto sulla qualità della vita”.

Abbiamo analizzato il profilo molecolare sia in cellule in coltura e animali di laboratorio, sia in campioni di tumori umani privi dell’espressione di NUMB – spiega il dottor Francesco Tuccidottorando di ricerca presso la Scuola Europea di Medicina Molecolare e primo autore dello studio –. Abbiamo così osservato che la perdita di NUMB attiva un complesso circuito molecolare che conduce all’attivazione di un potente oncogene, il fattore di trascrizione YAP. Quest’ultimo è alla base del potere proliferativo e invasivo delle cellule tumorali”.

Siamo andati oltre – aggiunge la dottoressa Daniela Tosoni, ricercatrice presso il Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia dell’Università di Milano e dello IEO, che ha contribuito alla supervisione dello studio –. In esperimenti di laboratorio abbiamo dimostrato che è possibile inibire la capacità proliferativa e invasiva delle cellule tumorali prive di NUMB, utilizzando farmaci in grado di colpire questo complesso circuito molecolare a diversi livelli”. “I tumori della vescica privi di NUMB – continua Daniela Tosoni – sono quindi molto aggressivi ma anche altamente vulnerabili”.

Sono infatti già disponibili alcuni farmaci molecolari impiegati in clinica per patologie differenti dal tumore vescicale, che potrebbero rapidamente essere sperimentati e adottati come trattamenti innovativi per prevenire la progressione clinica dei tumori vescicali superficiali ad alto rischio, privi della proteina NUMB.

Nel 2023, in Italia, sono stati stimati 29.700 nuovi casi di tumore della vescia (il quinto più frequente dopo quelli della mammella, colon-retto, polmone e prostata).

Al momento della diagnosi iniziale – spiega Salvatore Pece – i tumori della vescica si presentano in larga maggioranza come tumori superficiali non muscolo-invasivi, che sono generalmente caratterizzati da una buona prognosi. Solo in una percentuale ridotta si presentano invece sin dal principio come tumori profondi muscolo-invasivi, molto aggressivi e con decorso clinico meno favorevole. Per questo necessitano di chemioterapia e di intervento di cistectomia radicale. Questo ha fatto storicamente considerare i tumori superficiali e quelli profondi come due patologie differenti sin dal principio, guidate da differenti meccanismi molecolari. Tuttavia circa il 20-30% dei tumori superficiali possono evolvere in tumori muscolo-invasivi. L’esperienza clinica ci ha insegnato che i tumori muscolo-invasivi che derivano dalla progressione di tumori inizialmente superficiali rappresentano le forme più aggressive e potenzialmente letali di tumore vescicale”.

I nostri studi – continua Pece – dimostrano invece che i tumori vescicali superficiali e quelli profondi rappresentano stadi differenti di un unico processo patologico che evolve nel tempo, guidato già dal principio da specifici meccanismi molecolari che possono essere ostacolati con farmaci precisi e mirati. Diventa quindi fondamentale identificare i meccanismi biologici alla base di questa evoluzione e sviluppare nuovi marcatori molecolari per identificare i pazienti con caratteristiche specifiche di aggressività. In questo contesto, la nostra scoperta apre la strada a nuove strategie terapeutiche per combattere il cancro vescicale in una elevata percentuale di pazienti che presentano tumori privi di espressione della proteina NUMB”.

Abbiamo anche identificato – continua Salvatore Pece – una nuova firma molecolare che consentirà di identificare con accurata precisione i pazienti che potranno beneficiare di trattamenti mirati con nuovi farmaci che colpiscono in maniera specifica i meccanismi molecolari che sono attivati a seguito della perdita di NUMB”.

Questo studio sostenuto da AIRC rappresenta per noi motivo di grande soddisfazione – continua il professor Pece – non solo per la sua valenza scientifica ma anche per i risultati clinici. Rappresenta infatti uno di quei rari momenti della ricerca scientifica in cui, dopo molti anni di studio, è possibile effettuare il passaggio dalla ricerca di base all’applicazione in ambito clinico. Abbiamo ora a disposizione una nuova firma molecolare per misurare il rischio di progressione di malattia e al tempo stesso nuovi possibili bersagli di terapie più precise e mirate tramite l’uso di farmaci già disponibili nella pratica clinica”.

Questa ricerca è una ulteriore conferma della qualità dei nostri ricercatori – sottolinea il Direttore del Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia della Statale, Gianluca Vago – e dei risultati che otteniamo grazie alla stretta collaborazione, ormai ventennale, con l’Istituto Europeo di Oncologia e il sostegno, altrettanto fondamentale, di AIRC. Milano ha un potenziale unico per la ricerca nelle scienze della vita; fare rete è ancora più importante ora, come condizione necessaria per competere con le migliori realtà europee ed internazionali”.

Lo studio, che ha visto impegnati in uno sforzo comune scienziati e clinici del nostro istituto, – conclude il professor Roberto Orecchia, Direttore dello IEO di Milano – è un risultato straordinario e una ottima notizia per molti pazienti per i quali abbiamo oggi una nuova possibilità di cura. Abbiamo già brevettato la nuova firma molecolare emersa da queste ricerche e stiamo per avviare studi clinici per validarne l’utilizzo come marcatore, per identificare i pazienti ad alto rischio di progressione di malattia che potranno beneficiare nel prossimo futuro di una nuova prospettiva terapeutica con farmaci più precisi e mirati”.

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Foto PublicDomainPictures

Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

 

Cambiamento climatico: il ritiro dei ghiacciai indebolisce le interazioni tra piante e impollinatori, la biodiversità, l’ecosistema

Con il ritiro dei ghiacciai le interazioni tra piante e impollinatori diventano più fragili, rischiando di rendere l’intero ecosistema più vulnerabile ai cambiamenti ambientali in atto e meno resiliente.
È il risultato della ricerca di un’equipe internazionale di scienziati coordinato dall’Università Statale di Milano, effettuata nell’area del ghiacciaio del Monte Miné nelle Alpi Svizzere e pubblicata su
Ecography.

Milano, 12 novembre 2024 – I ghiacciai si stanno ritirando, questo ormai è noto. Ma che cosa succede alla terra una volta libera dal ghiaccio? Che tipo di nuovo ecosistema si viene a formare?

Per capire l’impatto del ritiro dei ghiacciai su biodiversità e funzionamento dei sistemi ecologici, un’équipe internazionale di scienziati dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con l’Università di Losanna, con l’Università Sapienza di Roma e con l’Università di Modena e Reggio Emilia, ha preso in esame le interazioni tra piante e impollinatori e ha scoperto che il ritiro dei ghiacciai mette a rischio la stabilità delle relazioni tra piante e impollinatori, fondamentali per la biodiversità.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Ecography è stato effettuato nell’area del ghiacciaio del Monte Miné nelle Alpi Svizzere, un luogo in cui i ghiacciai si sono costantemente ritirati a causa dell’aumento delle temperature globali.

Utilizzando una modellazione ecologica avanzata basata sulla teoria delle reti che analizza l’ecosistema sulla base delle interazioni tra molte specie diverse, i ricercatori hanno identificato i meccanismi chiave nell’evoluzione di queste interazioni su un arco temporale di 140 anni. È così emerso che le specie di piante in una prima fase formano connessioni altamente specializzate con i loro impollinatori, creano relazioni di mutua dipendenza e “mutua assistenza”. Ad esempio, piante pioniere come l’epilobio (Epilobium fleischeri) sono risultate avere relazioni forti e uniche con impollinatori specifici, assicurando il successo riproduttivo alla pianta e risorse alimentari agli impollinatori.

Tuttavia, con l’arretramento dei ghiacciai e l’aumento della colonizzazione da parte della foresta, hanno iniziato a dominare piante come il rododendro (Rhododendron ferrugineum), una pianta “super-generalista” che interagisce con una più ampia varietà di impollinatori, indebolendo la solidità della rete complessiva.

Nelle prime fasi del ritiro del ghiacciaio, abbiamo riscontrato che molte specie vegetali formavano interazioni specializzate con gli impollinatori, creando una rete molto fitta e robusta. Ma con l’avanzare del ritiro e la maturazione dell’ecosistema, in particolare con l’arrivo della foresta e la scomparsa delle praterie, abbiamo assistito a uno spostamento verso specie più generaliste. Se da un lato queste specie generaliste possono adattarsi a una gamma più ampia di partner, dall’altro formano con loro connessioni più deboli, che potrebbero rendere l’intero ecosistema più vulnerabile ad ulteriori cambiamenti ambientali” spiega Gianalberto Losapio, ricercatore del Dipartimento di Bioscienze dell’Università Statale di Milano e coordinatore della ricerca.

Il team ha utilizzato un approccio interdisciplinare unico, concentrandosi sui “motivi di rete”, piccoli schemi di interazione all’interno di una rete più ampia. Si è visto così che con l’arretramento dei ghiacciai e il cambiamento degli ecosistemi, questi piccoli motivi passano dall’essere altamente connessi a diventare più frammentati, il che è un indicatore critico di ridotta resilienza.

Questo studio è stato condotto sulla fronte di un ghiacciaio subalpino, ma il ritiro dei ghiacciai avviene in tutto il mondo. Per comprendere appieno gli impatti globali, abbiamo bisogno di studi simili in altre regioni” conclude Losapio.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

Con una nuova ricerca sul protoribosoma, scoperte le prime fasi dell’evoluzione del ribosoma all’origine della vita sulla Terra

Un team interdisciplinare di scienziati di cui fa parte l’Università degli Studi di Milano ha scoperto che l’interazione tra proteine e RNA nel ribosoma primordiale, un fossile molecolare ancora presente nella struttura cellulare attuale, ha prevenuto la degradazione dell’RNA stesso, permettendo l’emergere delle attuali e specifiche relazioni RNA-proteine, essenziali per l’integrità strutturale ribosomiale e quindi per la vita. La pubblicazione su Nucleic Acids Research

Con una nuova ricerca sul protoribosoma, scoperte le prime fasi dell’evoluzione del ribosoma all’origine della vita sulla Terra

Milano, 22 ottobre 2024 – La vita, come la conosciamo oggi, si basa sulla connessione tra gli acidi nucleici, che immagazzinano informazioni, le proteine, che svolgono innumerevoli compiti, e i lipidi che formano le membrane circostanti. Queste interazioni tra precursori molecolari iniziarono a verificarsi più di 4 miliardi di anni fa, prima che emergessero le prime forme di vita.

Ora un team interdisciplinare di scienziati dell’Università Statale di Milano, dell’Università Karlova di Praga, dell’Università di Chimica e Tecnologia di Praga e dell’Istituto di Scienze di Tokyo ha condotto una nuova ricerca sul protoribosoma, l’antenato dell’attuale ribosoma, ancora incorporato in esso. I risultati sono stati pubblicati su Nucleic Acids Research

Le cellule contengono i ribosomi, le macchine molecolari che producono le proteine. A causa della loro onnipresenza e dell’elevata conservazione in tutte le forme di vita sulla Terra, sono considerati dai biologi dell’evoluzione la migliore connessione con il nostro passato biologico” spiega Giuliano Zanchetta, docente di Fisica applicata del Dipartimento di Biotecnologie Mediche e Medicina Traslazionale dell’Università Statale di Milano e uno degli autori principali dello studio.

Il protoribosoma, una sorta di fossile molecolare, circonda il cosiddetto peptidyl transferase center (PTC), responsabile della formazione del legame peptidico, un processo essenziale nella sintesi proteica. Studi precedenti hanno dimostrato che l’RNA da solo potrebbe svolgere la funzione del PTC. Tuttavia, nella struttura ribosomiale, le “code” di diverse proteine ​​ribosomiali (rPeptidi) si trovano in prossimità del PTC e sono considerate residui delle più antiche specie peptidiche che probabilmente interagivano con il protoribosoma prima che il ribosoma si evolvesse nel complesso RNA-proteine come lo conosciamo oggi. Il ruolo di questi rPeptidi non era stato finora studiato.

Attraverso lo studio di due distinti stadi evolutivi dell’RNA protoribosomiale, i ricercatori hanno rivelato che gli rPeptidi hanno avuto una funzione fondamentale nel guidare la compartimentazione e quindi la stabilità del protoribosoma, proteggendo l’RNA dalla degradazione e permettendone lo sviluppo così come lo si conosce oggi.

I ricercatori hanno infatti studiato due costrutti tra i 100 e i 600 nucleotidi. Il costrutto piccolo è strutturalmente più flessibile: durante la sua interazione poco specifica con gli rPeptidi, si è notato che questi ultimi, in un ampio intervallo di concentrazioni, inducono coacervazione, un processo che porta alla formazione di goccioline liquide concentrate. È questo che protegge l’RNA dalla degradazione. Il costrutto grande, invece, è strutturalmente più definito, come dimostrano le simulazioni atomistiche al computer eseguite presso l’Università di Chimica e Tecnologia di Praga e la coacervazione è meno estesa rispetto al costrutto piccolo.

La formazione spontanea di gocce, che derivano dal processo di interazione dell’RNA con rPeptidi, dipende in modo sottile dalla sequenza e dalla struttura dell’RNA, il che implica che è piuttosto specifica per le particelle ribosomiali. Inoltre, la ricerca suggerisce che l’interazione tra RNA e proteine, ​​prima che emergessero le prime forme di vita, abbia offerto un significativo vantaggio biofisico, soprattutto fornendo compartimentalizzazione e prevenendo la degradazione dell’RNA. Queste prime interazioni RNA-proteine ​​possono essere considerate come precursori delle più complesse relazioni RNA-proteine ​​che sono oggi essenziali per l’integrità strutturale ribosomiale”, spiega Giuliano Zanchetta.

I nostri risultati evidenziano che i peptidi svolgono un ruolo vitale nel guidare la condensazione e nello stabilizzare il protoribosoma. Questo fa luce su come i processi vitali fondamentali potrebbero essere stati protetti e compartimentati in un mondo prebiotico” conclude Klára Hlouchová, dell’Università Karlova di Praga, una delle ricercatrici principali dello studio.

 

 

Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

Analizzato per la prima volta il DNA delle iene fossili della Sicilia

Le iene siciliane, che abitavano l’isola prima dell’arrivo di Homo sapiens, appartengono a un gruppo diverso da quelle africane: si tratta di una popolazione “relitta” di iene insulari, caratteristica che le rende uniche al mondo, il cui DNA fossile nei resti biologici è sopravvissuto al clima caldo del Mediterraneo. La pubblicazione su Quaternary Science Reviews.

Palermo, Milano, Roma, Firenze, 28 agosto 2024. Prima ancora che Homo sapiens arrivasse in Sicilia, circa 16 mila anni fa, sull’isola erano molto diffuse le iene del genere Crocuta.

Tra i più iconici carnivori delle savane, la iena macchiata è oggi presente in buona parte dell’Africa sub-sahariana, ma durante il Pleistocene, tra 800 e 16 mila anni fa, era diffusa in territori molto più ampi che includevano l’Europa e l’Asia, mentre l’unica isola dove la presenza di questa specie è stata documentata dai fossili, è la Sicilia. Questa caratteristica rende le iene siciliane uniche da un punto di vista paleobiologico e offre agli studiosi una rara opportunità per comprendere meglio sia gli adattamenti che i processi evolutivi legati all’isolamento geografico di un grande carnivoro, estremamente raro in contesti insulari.

Grazie ai recenti avanzamenti nello studio del DNA antico, negli ultimi anni i paleogenetisti sono stati in grado di analizzare porzioni di DNA di alcune iene fossili, ad oggi tutte provenienti da siti nord europei o dal nord della Russia e della Cina, dove le temperature basse favoriscono la conservazione del materiale genetico. In ambienti a clima caldo, come quello mediterraneo, nei resti antichi il DNA si conserva con maggiori difficoltà.

In un recente studio condotto dai ricercatori delle Università di Palermo, Statale di Milano, Firenze, Roma Sapienza, di Bangor e Cambridge, pubblicato sulla rivista internazionale Quaternary Science Reviews, è stato analizzato per la prima volta il DNA di una iena fossile della Sicilia. 

Il DNA nucleare è stato estratto con successo da un frammento di coprolite, un escremento fossilizzato di iena di oltre 20 mila anni, proveniente dal sito della Grotta San Teodoro (Messina). I risultati delle analisi hanno svelato che le iene siciliane possedevano caratteristiche genetiche molto particolari, uniche tra tutte le iene fossili di cui si conosce il DNA.

DNA delle iene fossili della Sicilia

Giulio Catalano, paleogenetista dell’Università di Palermo e primo autore dello studio, commenta: “Le analisi ci suggeriscono che le iene siciliane siano appartenute a un gruppo genetico molto antico, distinto dalle attuali iene africane e peculiare rispetto alle altre iene fossili”. Prosegue il ricercatore: “Questo insieme di caratteristiche ci fa ipotizzare che un tempo la popolazione di queste iene fosse ampiamente distribuita sul continente, circa 500mila anni fa. Ma arrivate in Sicilia, grazie all’isolamento geografico, questa popolazione ha conservato le proprie caratteristiche genetiche mentre nel resto d’Europa si è invece persa nel corso del tempo. Questo grazie anche al contributo dei diversi scambi genetici avvenuti con le iene africane”.

Questo tipo di analisi permette di ipotizzare che le iene pleistoceniche siciliane possano far parte di una popolazione genetica “relitta”, sopravvissuta sull’isola fino a circa 20 mila anni fa”, sottolinea Raffaele Sardella, paleontologo dell’Università Sapienza di Roma che ha partecipato alla ricerca.

Dawid A. Iurino, paleontologo dell’Università Statale di Milano e coautore dello studio, aggiunge: “Oltre al DNA di iena, nel coprolite abbiamo individuato tracce di DNA equino che ci ha permesso di rivelare il contenuto del pasto di una iena di 20 mila anni fa, costituito da Equus hydruntinus, l’unico equide vissuto in passato sull’isola. La scoperta e l’analisi di questo DNA fossile rappresentano una fonte inesauribile di ispirazione per nuove ricerche che rende il patrimonio geo-paleontologico della Sicilia una risorsa da preservare e valorizzare, in quanto unico nel suo genere”.

Luca Sineo, docente dell’Università di Palermo e responsabile del progetto, commenta: “Grotta San Teodoro, con il suo enorme patrimonio, si conferma tra i più importanti siti europei per lo studio del Pleistocene, ovvero gli ultimi 2.5 milioni di anni. Questa ricerca ha coinvolto studiosi internazionali ed è stata possibili grazie alla collaborazione con il Parco Archeologico di Tindari, la Proloco di Acquedolci e la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Messina”.

Questo studio dimostra come, ad oggi, lo sviluppo tecnologico consenta di ottenere informazioni genetiche anche da substrati biologici complessi, come i coproliti”, spiega la Dott.ssa Alessandra Modi dell’Università di Firenze che ha partecipato alla ricerca. “Grazie alla grande mole di dati che si possono ottenere da un numero sempre maggiore di resti appartenenti a specie diverse, siamo in grado di delineare con elevata precisione la storia evolutiva non solo dell’uomo, ma di molteplici forme viventi”, conclude David Caramelli, Professore Ordinario di Antropologia dell’Università di Firenze.

Testo e immagini dalla Direzione Comunicazione ed Eventi Istituzionali dell’Ufficio Stampa Università degli Studi di Milano

Biotecnologie e malattie neurologiche: un parassita opportunamente ingegnerizzato, Toxoplasma gondii, per trasportare proteine al sistema nervoso centrale a fini terapeutici

Un gruppo di scienziati internazionali dell’Università degli Studi di Milano e di Human Technopole ha studiato un metodo per l’ingegnerizzazione del parassita Toxoplasma gondii come veicolo per il trasporto di proteine terapeutiche al sistema nervoso centrale, offrendo una potenziale soluzione alle difficoltà del trattamento delle malattie neurologiche.

La pubblicazione su Nature Microbiology.

Milano, 29 luglio 2024 – Ingegnerizzare un parassita, il Toxoplasma gondii, naturalmente adatto ad attraversare la barriera emato-encefalica ed entrare nelle cellule neuronali, in modo che possa fornire proteine ​terapeutiche al sistema nervoso centrale: ecco il risultato dello studio di un gruppo di scienziati internazionali di cui fanno parte anche gli studiosi dell’Università degli Studi di Milano e di Human Technopole, appena pubblicata su Nature Microbiology.

Le proteine ​​possono infatti essere utilizzate come terapie o come strumenti per studiare i processi biologici, ma il loro trasferimento alle cellule e ai tessuti bersaglio è reso complesso dalle loro grandi dimensioni, dalle interazioni con il sistema immunitario ospite e dalla necessità di aggirare diverse barriere, come la barriera ematoencefalica. Gli scienziati sono partiti da studi precedenti sul Toxoplasma gondii, un parassita che viaggia naturalmente dall’intestino umano al sistema nervoso centrale, e che, grazie alla sua naturale capacità di attraversare la barriera emato-encefalica ed entrare nelle cellule neuronali, è un potenziale strumento trasformativo per il trattamento dei disturbi cerebrali.

Il gruppo di ricerca italiano è coordinato da Giuseppe Testa, docente di Biologia Molecolare presso il Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia della Statale di Milano, Head of Neurogenomics presso Human Technopole e Direttore del Laboratorio di Epigenetica delle Cellule Staminali presso IEO – Istituto Europeo di Oncologia.

 Attraverso una strategia di ingegnerizzazione per trasportare varie proteine umane ai neuroni sfruttando due organelli secretori (strutture specializzate che svolgono specifiche funzioni all’interno di una cellula) di Toxoplasma gondii gli autori hanno dimostrato con successo che le proteine potevano essere trasferite ai neuroni di topo e anche ai neuroni umani, grazie a esperimenti di laboratorio e analisi computazionali a risoluzione di singola cellula in organoidi cerebrali infettati dal parassita ingegnerizzato.

Diverse proteine di fusione, tra cui GDNF, PARK2, TFEB, SMN1 e MeCP2, sono state trasportate con successo nelle cellule ospiti. In particolare, MeCP2, una proteina implicata nella sindrome di Rett, un disordine del neurosviluppo, è stata trasportata con successo nei neuroni, e ha mostrato un’associazione funzionale con lacromatina, il complesso ecosistema di DNA, RNA, proteine e metaboliti nel nucleo delle cellule in cui si svolge l’espressione dei nostri geni. Lo studio ha dimostrato la somministrazione di MeCP2 agli organoidi cerebrali corticali differenziati da cellule staminali pluripotenti umane” spiega il professor Testa.

“Possono adesso prendere il via i prossimi passi per ottimizzare ulteriormente l’efficienza del sistema e affrontare i potenziali problemi di sicurezza associati all’utilizzo di un parassita come vettore. Siamo molto felici che una collaborazione internazionale così proficua fornisca un promettente nuovo approccio per il rilascio di proteine al sistema nervoso centrale mediante Toxoplasma gondii, offrendo una potenziale soluzione alle sfide poste dal trattamento delle malattie neuropsichiatriche, specialmente quelle dell’età evolutiva”, conclude Giuseppe Testa.

Toxoplasma gondii
Toxoplasma gondii. Foto di Danny S., CC BY-SA 4.0

Testo, video e foto dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

I contenitori di plastica per alimenti riscaldati al microonde possono rilasciare microplastiche

Uno studio, condotto dall’Università degli Studi di Milano in collaborazione con l’azienda Eos e l’Università di Milano-Bicocca, ha rilevato microplastiche nei contenitori alimentari riscaldati al microonde, che possono disperdersi nell’ambiente quando non utilizzati secondo le indicazioni. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista internazionale Particles and Particle Systems Characterization.

Milano, 23 maggio 2024 – Portarsi in ufficio il pranzo nella cosiddetta “schiscetta” e scaldarlo al microonde in maniera non appropriata può contribuire al rilascio di microplastiche nell’ambiente. È quanto emerso da uno studio coordinato dall’Università Statale di Milano, in collaborazione con l’Università di Milano-Bicocca e svolto presso EOS, un’azienda che sviluppa una tecnologia per la caratterizzazione ottica di polveri ideata nei laboratori di Fisica dell’Università Statale di Milano, chiamata “SPES” (Single Particle Extinction and Scattering).

L’idea di verificare se i contenitori alimentari in plastica scaldati al microonde rilasciassero micro e nanoplastiche è partita da EOS, che ha utilizzato la tecnologia “SPES” evidenziando la formazione sistematica di nano e micro-sfere di plastica durante il riscaldamento di acqua pura, un esperimento controllato volto a simulare quanto avviene durante il riscaldamento del cibo.

“SPES” è un metodo innovativo che permette di classificare nano e micro particelle in maniera molto precisa e completaspiega Marco Pallavera, Direttore Ricerca e sviluppo della EOS, ideatore del protocollo di misura utilizzato nello studio e primo autore dell’articolo. “Lo studio, iniziato quasi per curiosità, ha subito mostrato l’adeguatezza del nostro metodo a costruire un protocollo solido e affidabile per il problema in studio”, continua Tiziano Sanvito che amministra l’azienda fin dalla sua fondazione nel 2014.

“I dati presi da EOS hanno mostrato subito una forte solidità, fondamentale per approcciare un problema delicato come questo” 

aggiunge Marco Potenza, docente di Ottica del Dipartimento di Fisica dell’Università Statale di Milano, inventore della tecnica utilizzata nello studio e commercializzata da EOS, oltre che responsabile del Laboratorio di Strumentazione Ottica e Direttore del Centro di Eccellenza CIMAINA (Centro Interdipartimentale Materiali e Interfacce Nanostrutturati).

Dopo molti controlli incrociati sulle procedure sperimentali, i ricercatori sono arrivati alla conclusione che, in effetti, riscaldando acqua pura nei contenitori alimentari si liberano nano e microsfere composte del materiale di cui è costituito il contenitore stesso: il polipropilene, un materiale biocompatibile che ha la caratteristica di fondere tra i 90 e i 110 gradiPortando l’acqua a ebollizione, quindi, una piccola parte di polipropilene si fonde per poi solidificare nuovamente in acqua. Lo stesso processo, d’altra parte, che si utilizza per produrre industrialmente nanosfere di materiali polimerici, utilizzate in molti settori industriali dalla cosmetica allo sviluppo di materiali innovativi.

I risultati sono stati analizzati e studiati in dettaglio anche da Llorenç Cremonesi e Claudio Artoni del laboratorio EuroCold, presso il Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra dell’Università Milano-Bicocca e corredati di immagini al microscopio elettronico prese da Andrea Falqui, docente del Dipartimento di Fisica dell’Università Statale di Milano.

Sottolinea Sanvito: “È interessante notare che diversi produttori specificano di non portare i contenitori oltre i 90 °C, oppure di non riscaldarli per troppo tempo nel microonde, oppure ancora di non usare l’apparecchio alla massima potenza. Quindi, seguendo queste indicazioni, l’effetto non si verifica”. “Viceversa, le nano e micro-particelle prodotte andranno a contribuire alla dispersione di plastica in ambiente che caratterizza il mondo moderno”, conclude Potenza.

contenitori di plastica per alimenti riscaldati al microonde possono rilasciare microplastiche

Testo e immagini dagli Uffici Stampa dell’Università Statale di Milano e dell’Università di Milano-Bicocca.

“M-Wall”: un’attrazione da Luna Park per mantenere in forma gli astronauti sulla Luna

Un team di scienziati dell’Università Statale di Milano ha ideato come tenere in allenamento, all’interno dei moduli abitativi spaziali e attraverso una corsa che sembrerebbe impossibile, i futuri astronauti che stazioneranno a lungo sulla Luna, aiutandoli a mantenere le funzioni corporee a livello terrestre. La pubblicazione su Royal Society Open Science.

Milano, 2 maggio 2024 – L’uomo sta per tornare sulla Luna. E questa volta per restarci a lungo, come prevede il programma Artemis della NASA. Ma vivere in condizioni di microgravità come quelle presenti sul nostro satellite ha effetti negativi sul corpo umano: indebolimento muscolare, perdita di densità ossea, problemi di circolazione.

Ora però i ricercatori dell’Università degli Studi di Milano hanno individuato un sistema che potrà permettere agli astronauti di allenarsi anche sulla Luna e prevenire così l’insorgenza di questi disturbi fisici. 

Correre sulla Luna è infatti impossibilese un’astronauta ci provasse, finirebbe per saltellare più che muoversi in avanti. Ma la ricerca, pubblicata sulla rivista Royal Society Open Science, ha dimostrato che un astronauta potrebbe però correre orizzontalmente sulla parete verticale di un cilindro di 10 metri di diametro, come quelle all’interno dei cosiddetti Muri delle morte (Wall of Death) nei quali si esibiscono i motociclisti.

“Sulla Terra, per un uomo è impossibile correre dentro questi cilindri perché la potenza muscolare della corsa è insufficiente a raggiungere prestazioni tali da contrastare la gravità terrestre e rimanere ‘attaccati’ alla parete” spiega Alberto Minetti, professore ordinario di Fisiologia all’Università Statale di Milano e coordinatore dello studio. Nella nostra sperimentazione, invece, abbiamo simulato le condizioni gravitarie lunari, che sono 1/6 di quelle terrestri. Abbiamo noleggiato un’attrazione simile a quelle che si trovano al Luna Park, ribattezzata “M-Wall” dal gruppo di ricerca su suggerimento ESA (European Space Agency), e un braccio telescopico per edilizia, estensibile fino a 40 metri di altezza. A questo braccio abbiamo sospeso alcuni volontari con un’imbragatura a bande elastiche, tese al punto di sgravare il peso corporeo di 5/6 del valore terrestre. Dopo una breve familiarizzazione, i volontari sono riusciti a correre orizzontalmente ad altezza costante sul muro verticale, proprio come i motociclisti acrobatici sulla Terra, continua Minetti, con una velocità dai 19 ai 22 km/ora.

“M-Wall”: un’attrazione da Luna Park per mantenere in forma gli astronauti sulla Luna. Gallery

Un astronauta, correndo su una parete anche a velocità leggermente inferiori, genera una gravità artificiale laterale ben più alta di quella che agisce verticalmente sul nostro satellite. Questo, sulla Luna, gli permetterebbe di tenersi in allenamento e combattere così lo scadimento delle condizioni osteomuscolari, cardiocircolatorie e di controllo neuromotorio indotte dalla permanenza prolungata in ipogravità. Infatti, l’analisi biomeccanica e, indirettamente, energetica della corsa hanno mostrato che l’intensità della locomozione e le forze di impatto al contatto possono mantenere la massa muscolare e la densità ossea a livelli ‘terrestri’. Inoltre questo esercizio a corpo libero coinvolgerà il senso dell’equilibrio e quindi anche il controllo motorio.

“Si prevede che saranno sufficienti due sessioni di pochi minuti al giorno e che si potranno utilizzare le pareti dei moduli abitativi degli astronauti (che sono previsti circolari), riducendo al minimo l’extra spazio necessario al soggiorno sul nostro satellite”, conclude Alberto Minetti.

Testo, video e foto dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

ERC Advanced Grant – Storia dell’etica e genoma: due progetti della Statale di Milano, 18Ethics e Topomech, si aggiudicano un finanziamento complessivo di quasi 4 milioni di euro

Il riconoscimento dell’European Research Council è stato assegnato a due progetti guidati da docenti dell’Università Statale di Milano: Stefano Bacin con “18Ethics”, una ricerca sull’etica filosofica nel diciottesimo secolo e Marco Foiani con “Topomech”, uno studio sulla topologia genomica e lo stress meccanico.

Milano, 11 aprile 2024 – Stefano Bacin, professore di Storia della filosofia del Dipartimento di Filosofia, e Marco Foiani, professore di Biologia molecolare presso il Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia, dell’Università Statale di Milano, si sono aggiudicati entrambi un ERC Advanced Grant, il prestigioso finanziamento dell’European Research Council (ERC) per i rispettivi progetti: 18Ethics e Topomech.

Il progetto 18Ethics, finanziato con quasi 1,5 milioni di euro nell’area delle Social Sciences and Humanitiesstudierà l’etica del XVIII secolo mostrando come sviluppasse un’idea oggi molto discussa, ovvero che i filosofi possano assumere il ruolo di esperti morali, dando indicazioni di condotta su questioni pratiche. Il progetto esaminerà i confronti tra le diverse teorie settecentesche sui doveri che ciascuno ha verso se stesso e verso gli altri; inoltre una linea di ricerca specifica sarà dedicata ai dibattiti sulla moralità nel modo di trattare gli animali.

18ETHICS intende far emergere con quali metodi e strumenti le teorie morali del XVIII secolo, nel corso di un dibattito intenso, abbiano mostrato in che modo e fino a che punto i filosofi possano assumersi il ruolo di esperti di questioni morali. Le discussioni di etica nel XVIII secolo verranno analizzate, perciò, come una serie di tentativi di rispondere a problemi morali difficili e di superare il disaccordo su tali questioni”, spiega Stefano Bacin.

Stefano Bacin ERC Advanced Grant
Stefano Bacin

Il progetto Topomech appartiene invece all’area delle Life sciences e si focalizzerà sullo studio delle proprietà meccaniche del genoma e, in particolare, su come le cellule tumorali modulano meccanicamente i cromosomi durante la migrazione metastatica, generando instabilità genomica ed espressione di alcuni oncogeni.

“Le cellule ed i tessuti sono infatti continuamente esposti a stress meccanico, e le forze meccaniche possono generare compressione e stretching cellulare, ad esempio durante lo sviluppo e quando le cellule migrano, ma anche in condizioni patologiche nei tumori solidi e in certe patologie neurodegenerative. Tuttavia il nucleo delle cellule riesce ad adattarsi allo stress meccanico grazie a sofisticati processi cellulari che ne controllano le proprietà visco-elastiche”,

spiega Marco Foiani. Topomech è stato finanziato con quasi 2,5 milioni di euro. La ricerca sarà condotta in Statale, a cui va il finanziamento principale di oltre 2,1 milioni di euro, e in IFOM.

Marco Foiani
Marco Foiani

Il bando ERC Advanced premia ogni anno circa 250 progetti di ricerca in ogni disciplina con un finanziamento fino a 2,5 milioni euro ciascuno. I progetti sono guidati da un ricercatore con almeno 10 anni di carriera scientifica ai massimi livelli internazionali e il solo criterio di valutazione è l’eccellenza.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano

Un fiore mai visto prima è sbocciato in montagna: scoperta una nuova specie di Campanula nelle Prealpi bergamasche, la Campanula bergomensis

Un gruppo di ricercatori dell’Università degli Studi di Milano, dell’Università di Siena e del gruppo Flora Alpina Bergamasca (FAB) ha scoperto una nuova specie di pianta, che cresce in un territorio ristretto delle Prealpi lombarde. La specie appartiene al genere Campanula ed è stata denominata Campanula bergomensis, ovvero di Bergamo, dal nome della provincia di cui è esclusiva. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Phytotaxa.

Campanula bergomensis

Milano, 28 febbraio 2024 – Una nuova campanula, mai scoperta prima, è stata identificata nelle Prealpi Bergamasche da un gruppo di ricerca coordinato dall’Università degli Studi di Milano, assieme all’Università di Siena e al gruppo Flora Alpina Bergamasca – FAB.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista internazionale Phytotaxa.

Si tratta di Campanula bergomensis, la cui caratteristica è che cresce in ambienti molto particolari: su conoidi detritici carbonatici di bassa quota e si trova solo in poche valli nei pressi della città di Clusone (BG).

Gli studiosi hanno trovato delle affinità con Campanula cespitosa, che fiorisce sulle Alpi orientali in Italia, Austria e Slovenia. Ma attraverso analisi genetiche, morfologiche e palinologiche, hanno visto che le due specie sono in realtà ben distinte e che Campanula bergomensis rappresenta un’entità autonoma rispetto alle campanule conosciute. Alcuni esemplari della nuova specie sono stati cresciuti da seme e ora sono in coltivazione all’Orto Botanico Città Studi della Statale di Milano.

Secondo i ricercatori, la distribuzione ristretta della nuova specie, che solo in minima parte ricade all’interno di aree protette, rende necessarie appropriate iniziative di tutela.

“La specie”, spiega Barbara Valle, ricercatrice dell’Università di Siena e prima firmataria dell’articolo “ha un areale limitato ed è gravemente minacciata dalle attività umane. È quindi urgente adottare delle misure di protezione e conservazione”.

Questa scoperta dimostra come la biodiversità italiana riservi ancora molte sorprese e che le conoscenze sulla nostra flora e fauna siano tutt’altro che complete, oltre a confermare la straordinaria ricchezza floristica delle zone prealpine. Per affrontare la perdita di biodiversità attualmente in corso è necessario innanzitutto conoscerla a fondo, indagando anche territori apparentemente ben conosciuti” conclude Marco Caccianiga, docente di Botanica del Dipartimento di Bioscienze dell’Università Statale di Milano e coordinatore della ricerca.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano

Tumori, nel 2024 in diminuzione i tassi di mortalità nell’Unione Europea e nel Regno Unito, ma obesità e alcol tra i fattori che contribuiscono all’aumento dell’incidenza del tumore al colon-retto tra i giovani adulti

Le predizioni dei decessi per tumore indicano una diminuzione dei tassi di mortalità del 6,5% negli uomini e del 4% nelle donne nell’Unione Europea, tra il 2018 e il 2024. Seppur in diminuzione nei dati assoluti, il cancro del colon-retto è in aumento del 26% negli uomini e del 36% nelle donne tra i 25 e i 49 anni nel Regno Unito, probabilmente a causa di un aumento dell’obesità e del consumo di alcol e superalcolici. I risultati dello studio, coordinato dall’Università degli Studi di Milano assieme all’Università di Bologna e sostenuto da Fondazione AIRC, sono stati pubblicati sulla rivista “Annals of Oncology”.

 

Milano e Bologna, 29 gennaio 2024 – Un aumento di mortalità per tumore al colon-retto tra i giovani adulti di 25-49 anni emerge dai risultati, di uno studio, pubblicato oggi sulla rivista Annals of Oncology [1] nel quale si prevedono i tassi di mortalità per tumore nell’Unione Europea (UE) e nel Regno Unito per il 2024. La crescita conferma una tendenza già rilevata nel Regno Unito, che potrebbe dipendere da fattori di rischio quali sovrappeso e l’obesità. Ciononostante, la mortalità prevista per questo tipo di tumore risulta complessivamente in calo in tutta Europa.

Il gruppo di ricercatori, guidati da Carlo La Vecchia, docente di Statistica Medica ed Epidemiologia presso l’Università Statale di Milano, stima che il maggiore aumento dei tassi di mortalità per tumore al colon-retto tra i giovani si registrerà nel Regno Unito, dove nel 2024 ci sarà un aumento del 26% rispetto al 2018 negli uomini e di quasi 39% nelle donne. Si stimano aumenti anche in alcuni paesi della UE compresa l’Italia.

“I fattori chiave che contribuiscono all’aumento dei tassi di mortalità per tumore al colon-retto tra i giovani includono il sovrappeso, l’obesità e le condizioni di salute correlate, come alti livelli di glucosio nel sangue o il diabete”, ha dichiarato il professor La Vecchia.

L’aumento del consumo di superalcolici nell’Europa centrale e settentrionale e nel Regno Unito e la riduzione dell’attività fisica costituiscono ulteriori fattori di rischio. Il consumo di alcol è stato associato al tumore al colon-retto a insorgenza precoce e, infatti, nei Paesi in cui è stata riportata una riduzione del consumo di alcol (ad esempio Francia e Italia), non si è registrato un aumento marcato dei tassi di mortalità per questo tumore. Rispetto ai più anziani, il cancro al colon-retto diagnosticato nei giovani adulti tende a essere più aggressivo e con tassi di sopravvivenza più bassi.

“Si dovrebbe considerare l’adozione di politiche che promuovano l’aumento dell’attività fisica, la riduzione del numero di individui in sovrappeso o obesi e la limitazione del consumo di alcol. Inoltre, in termini di prevenzione, si dovrebbe valutare anche l’estensione dello screening per il tumore al colon-retto avviando la campagna a partire dai 45 anni. I programmi di screening variano in Europa, ma il crescente aumento dell’incidenza tra i giovani adulti negli Stati Uniti ha spinto la US Preventive Service Task Force a raccomandare la riduzione dell’età di inizio dello screening a 45 anni”, ha continuato La Vecchia.

I ricercatori hanno analizzato, per il quattordicesimo anno consecutivo, i tassi di mortalità per tumore nell’UE [2] e nel Regno Unito, esaminando gli stessi tassi anche nei cinque Paesi più popolosi dell’Unione Europea, ossia Francia, Germania, Italia, Polonia e Spagna. Sono stati raccolti i dati di mortalità dai database dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dell’Eurostat. È stata analizzata la mortalità per diversi tumori, stomaco, colon-retto, pancreas, polmone, mammella, utero (compresa la cervice), ovaio, prostata, vescica e leucemie, sia per uomini che per donne[3].

 

Tutti i tumori

Si stima che nell’Unione Europea i tassi di mortalità standardizzati per età [4] per tumore diminuiranno del 6,5% negli uomini, passando da 132 per 100.000 nel 2018 a 123 per 100.000 nel 2024, e del 4% nelle donne, passando da 82,5 a 79 per 100.000. Nel Regno Unito, per il 2024 si prevede una diminuzione della mortalità per tumore di quasi il 14% negli uomini, passando da un tasso di 120 a 104 per 100.000, e del 10% nelle donne, passando da 92,5 a 83 per 100.000. Tuttavia, a causa dell’invecchiamento della popolazione, nell’UE si prevede un aumento del numero di decessi per tumore da 675.265 nel 2018 a oltre 705.100 nel 2024 negli uomini, e da 535.291 a oltre 565.700 nelle donne, arrivando a 1.270.800. Nel Regno Unito si stima un aumento da 91.059 a 92.000 negli uomini e da 79.631 a 80.900 nelle donne, per un totale di 172.900 morti attese per il 2024. I ricercatori hanno, inoltre, calcolato il numero di decessi per tumore evitati nel periodo compreso tra il 1989 e il 2024, ipotizzando che i tassi rimanessero costanti rispetto ai livelli del 1988. Hanno stimato che complessivamente sono stati evitati 6.183.000 decessi nell’UE (4.244.000 negli uomini e 1.939.000 nelle donne) e 1.325.000 nel Regno Unito (899.000 negli uomini e 426.000 nelle donne).

Tumore del polmone

Sebbene si registri un andamento favorevole negli uomini, il tumore al polmone è caratterizzato dai tassi più elevati per entrambi i sessi, sia nell’Unione Europea che nel Regno Unito. Per il 2024 i ricercatori stimano tassi di mortalità di 28 uomini e 13,6 donne ogni 100.000 abitanti nell’UE, con una riduzione rispetto al 2018 del 15% negli uomini e senza alcuna riduzione nelle donne. Nel Regno Unito si stimano tassi di mortalità per il cancro ai polmoni di 19 uomini e 16 donne ogni 100.000, con una riduzione del 22% negli uomini e del 17% nelle donne rispetto al 2018.

Tumore del colon-retto

Sia nell’UE che nel Regno Unito, attualmente, il cancro al colon-retto è per gli uomini la seconda causa di morte dopo il tumore ai polmoni e per le donne la terza causa di morte dopo il tumore alla mammella e ai polmoni. Gli andamenti di mortalità per questo tipo di tumore sono favorevoli, tranne che nelle donne nel Regno Unito. Tra i non fumatori, il tumore al colon-retto è la prima causa di morte per tumore sia nell’UE che nel Regno Unito. Nell’UE, per il 2024 si stima una diminuzione rispetto al 2018 di mortalità per tumore al colon-retto del 5% negli uomini, con un tasso previsto di 15 per 100.000, e del 9% nelle donne, con un tasso di 8 per 100.000. Nel Regno Unito si prevede un calo del 3% negli uomini, con un tasso di 14 per 100.000, mentre i tassi resteranno stabili nelle donne, con un tasso di 10 per 100.000.

“Queste tendenze complessivamente favorevoli possono essere spiegate dal miglioramento delle diagnosi e del trattamento del tumore al colon-retto. I tassi di mortalità tendono a diminuire nei Paesi con un migliore accesso ai programmi di screening e diagnosi precoce. Tuttavia l’aumento della mortalità tra i giovani è preoccupante”, ha commentato Carlo La Vecchia.

 

Tumore della mammella

Gli andamenti di mortalità per tumore alla mammella continuano a essere favorevoli nell’EU e nel Regno Unito. Nel 2024 si prevede una diminuzione del 6% nell’UE, passando da 14 per 100.000 donne nel 2018 a 13 nel 2024, e dell’11% nel Regno Unito, passando da 15 a 13 per 100.000 donne.

La professoressa Eva Negri, docente di Epidemiologia Ambientale e Medicina del Lavoro al Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche dell’Università di Bologna e co-leader della ricerca, ha proseguito:

“I progressi nella diagnosi del tumore alla mammella hanno un ruolo fondamentale nel sostanziale calo dei tassi di mortalità, ma i progressi nei trattamenti e nella gestione della malattia sono le ragioni principali dell’aumento del numero di persone che sopravvivono”.

 

Tumore del pancreas

Il tumore al pancreas, molto difficile sia da individuare che da trattare con successo, è l’unico tumore per il quale non si prevede un andamento favorevole nella mortalità nell’Unione Europea (ma non nel Regno Unito) per entrambi i sessi. Rappresenta oltre il 3% delle nuove diagnosi di tumore in Europa, ma circa il 7% dei decessi per cancro, ed è la quarta causa di morte per tumore. Si prevede che i tassi di mortalità nell’UE aumenteranno dell’1,6% negli uomini e del 4% nelle donne. Le tendenze sono migliori nel Regno Unito, dove si stima un calo del 7% negli uomini e del 2% nelle donne.

“Il fumo è il principale fattore di rischio per il cancro al pancreas, ma spiega solo in parte l’aumento dei tassi di mortalità. Anche il sovrappeso, l’obesità, il diabete come anche l’eccessivo consumo di alcolici possono avere un ruolo importante”, ha aggiunto Eva Negri.

E Carlo La Vecchia ha aggiunto: “Queste previsioni sottolineano l’importanza di controllare e, in ultima analisi, di eliminare il consumo di tabacco. Il tabacco rimane responsabile del 25% di tutti i decessi per tumore tra gli uomini e del 15% tra le donne nell’Unione Europea. Non solo è il principale fattore di rischio per i decessi per tumore ai polmoni, ma anche per altri tipi di tumore, tra cui quello al pancreas. Un ulteriore problema è rappresentato dall’aumento del consumo di superalcolici nell’Europa centrale e settentrionale”.

“Le nostre previsioni evidenziano anche l’importanza di colmare i divari tra i Paesi Europei per quanto riguarda i programmi di diagnosi e trattamento del tumore. I tassi di mortalità continuano a essere più elevati in Polonia e in altri Paesi dell’Europa centrale e orientale, e ciò è dovuto in parte all’inadeguatezza dei programmi di screening per individuare tumori come quello alla mammella, al collo dell’utero e al colon-retto, nonché alla mancanza di accesso alle terapie più moderne”, hanno concluso i ricercatori.

Note

[1] “European cancer mortality predictions for the year 2024 with focus on colorectal cancer”, by C. Santucci et al. Annals of Oncologyhttps://www.annalsofoncology.org/article/S0923-7534(23)05110-4/fulltext

; doi: 10.1016/j.annonc. 2023.12.003

[2] Quando queste analisi sono state condotte, l’UE contava 27 Stati membri, con l’uscita del Regno Unito nel 2020. La Repubblica di Cipro è stata esclusa dalle analisi a causa dell’eccessiva mancanza di dati.

[3] Il manoscritto contiene tabelle dei tassi di mortalità per ogni sede tumorale analizzata per ciascuno dei sei Paesi.

[4] I tassi standardizzati per età (ed espressi per 100.000 abitanti) riflettono la probabilità annuale di morire aggiustata per struttura per età mondiale per fini comparativi.

 

causa rischio metastasi tumore al seno
Tumori, nel 2024 in diminuzione i tassi di mortalità nell’Unione Europea e nel Regno Unito. Foto di StockSnap

 

Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano sulla diminuzione de tassi di mortalità dei tumori nel 2024 nell’Unione Europea e nel Regno Unito.