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Università degli Studi di Milano-Bicocca

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A Milano-Bicocca un ERC Consolidator Grant da 2 milioni di euro al Progetto MATRICs, per studiare come le emissioni vulcaniche di CO2 abbiano influenzato l’evoluzione del clima

Con il finanziamento europeo vinto dal professore del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra Pietro Sternai, il progetto di ricerca MATRICs ricostruirà gli effetti delle emissioni vulcaniche di CO2 sul clima nel passato geologico della Terra per migliorare la comprensione delle conseguenze delle emissioni antropiche sul clima presente e futuro

Milano, 3 dicembre 2024 – Studiare come le emissioni di CO2 dai vulcani abbiano influenzato il clima nel passato geologico per migliorare le previsioni dei cambiamenti climatici futuri dovuti alle emissioni antropiche di anidride carbonica. È l’obiettivo del progetto di ricerca “MATRICs” (“Magmatic Triggering of Cenozoic Climate Changes”, tradotto: “Innesco magmatico dei cambiamenti climatici del Cenozoico), coordinato da Pietro Sternai, professore di Geofisica al dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università di Milano-Bicocca, che è stato appena premiato dall’Unione Europea con un ERC da 2 milioni di euro, della durata di 5 anni, nella categoria Consolidator Grant.

Gli ERC Consolidator Grant vengono assegnati dall’European Research Council a quei ricercatori che vantano una decina di anni di esperienza di riconosciuto valore alle spalle e che siano promotori di un progetto di ricerca ritenuto eccellente e particolarmente innovativo. Pietro Sternai coinvolgerà un’equipe di 3 dottorandi e 4 assegnisti di ricerca.

Il progetto “MATRICs” prende spunto da una constatazione.

«Conosciamo l’evoluzione del clima durante l’Era Cenozoica, da 60 milioni circa di anni fa fino a oggi, ma non sappiamo con certezza quali siano stati i motori dei suoi cambiamenti»,

afferma Pietro Sternai. Il primo obiettivo è fare luce sui possibili effetti di uno di questi: lo spegnimento di un arco vulcanico che si estendeva a sud del continente asiatico ma che scomparve dopo la collisione con il continente indiano per effetto della tettonica delle placche.

«La collisione tra India e Asia, tutt’ora in corso e iniziata tra 60 e 50 milioni di anni fa – prosegue il professore di Milano-Bicocca – oltre a portare alla formazione dell’Himalaya e del Tibet con grandi effetti a lungo termine sul clima globale provocò anche lo spegnimento di un arco magmatico che si estendeva per oltre 5mila chilometri, paragonabile a quello che c’è oggi nelle Ande. La domanda del progetto è: cosa succede al clima se cessano le emissioni di CO2 di un arco vulcanico di quel tipo? Il clima si raffredda? Si riscalda? Vogliamo capire come questo processo di variazione del magmatismo possa avere influenzato l’evoluzione del clima su scala globale, durante il Cenozoico inferiore».

Progetto MATRICs  Pietro Sternai nel suo ufficio con in mano un campione di Riolite proveniente dalle rocce magmatiche di Linzizong, nel Linzhou b​asin, in Tibet 
Pietro Sternai nel suo ufficio con in mano un campione di Riolite proveniente dalle rocce magmatiche di Linzizong, nel Linzhou b​asin, in Tibet

L’attività di ricerca prevede analisi petrografiche e geochimiche di campioni di roccia provenienti da tre zone situate lungo il margine collisionale e oggi oggetto di studio geologico: in Iran, nel Ladakh (India nord-occidentale) e in Tibet. «Andremo a campionare le rocce magmatiche – spiega Sternai – e misureremo il loro contenuto di CO2. Campioneremo anche rocce sedimentarie per rilevarne i valori di mercurio e tellurio, che possono dare informazioni indirette sull’attività magmatica in quelle tre zone. I valori misurati verranno interpretati con modelli numerici, integrandoli alla scala di tutto l’arco magmatico, per stimare l’effetto che potrebbe avere avuto sul clima e sul ciclo del carbonio la variazione di emissioni di CO2 dovuta alla cessazione dell’attività vulcanica».

Obiettivo finale: una volta validato il modello, comprendere cosa il passato possa rivelarci sul futuro. «Definita una correlazione tra le emissioni di CO2 vulcanica e le variazioni climatiche sul lungo periodo, l’ipotesi è quella di confrontare i valori ottenuti con le emissioni di anidride carboniche antropiche e i cambiamenti climatici attuali e in divenire. La conoscenza che produrremo sul ciclo geologico del carbonio ci consentirà di valutare meglio i fattori trainanti della variabilità climatica naturale e, per confronto, le conseguenze climatiche delle attuali emissioni antropiche.», conclude il geologo.

Dal 2014 l’Università di Milano-Bicocca ha ricevuto finanziamenti per 19 progetti ERC: 8 Consolidator Grant, compreso quello di “MATRICs”, 2 Advanced Grant, 5 Starting Grant, 2 Proof of Concept e 2 Synergy Grant.

«Lo studio e la comprensione dei meccanismi alla base dei cambiamenti climatici – afferma Guido Cavaletti, prorettore alla Ricerca dell’Università di Milano-Bicocca – rivestono una rilevanza che appare sempre più significativa e spingono ad applicare metodologie sempre più sofisticate. L’approccio proposto da questo progetto è sicuramente molto innovativo, pienamente in linea con lo spirito di una università come Milano-Bicocca».

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca

A TEMPO DI PULSAR CON MEERKAT: UNA NUOVA MAPPA DELL’UNIVERSO NELLE ONDE GRAVITAZIONALI

La collaborazione MeerKAT Pulsar Timing Array (MPTA) ha confermato l’evidenza di un fondo cosmico di onde gravitazionali, un segnale che si ritiene derivi da una popolazione di coppie di buchi neri supermassicci spiraleggianti. Grazie alla sua sensibilità senza precedenti, l’esperimento MPTA si distingue come il rivelatore più potente di onde gravitazionali a frequenza ultra bassa nell’emisfero australe. Questa caratteristica ha consentito di mappare con precisione la distribuzione delle onde gravitazionali nell’universo.

Rappresentazione artistica delle onde gravitazionali e del cielo sopra una delle antenne del radiotelescopio sudafricano MeerKAT, gestito dall’Osservatorio SARAO. Crediti: Carl Knox, OzGrav, Swinburne University of Technology and South African Radio Astronomy Observatory (SARAO)
Rappresentazione artistica delle onde gravitazionali e del cielo sopra una delle antenne del radiotelescopio sudafricano MeerKAT, gestito dall’Osservatorio SARAO. Crediti: Carl Knox, OzGrav, Swinburne University of Technology and South African Radio Astronomy Observatory (SARAO)

Grazie a quasi 5 anni di osservazioni con il radiotelescopio sudafricano MeerKAT, un gruppo di ricerca guidato dalla collaborazione MeerKAT Pulsar Timing Array (MPTA) ha trovato ulteriori conferme all’ipotesi dell’esistenza di un fondo cosmico di onde gravitazionali aventi frequenze estremamente basse (1-10 nanoHertz), ottenendo la mappa finora più dettagliata della distribuzione di queste onde gravitazionali nell’Universo. Il segnale potrebbe provenire da una popolazione di coppie di buchi neri supermassicci spiraleggianti. Gli esiti di questo sforzo internazionale, che ha visto coinvolti anche ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università di Milano-Bicocca, hanno prodotto tre studi pubblicati oggi sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Le antenne che formano il radiotelescopio sudafricano MeerKAT. Crediti: Enrico Sacchetti / INAF

Il MeerKAT Pulsar Timing Array è un esperimento internazionale che utilizza il sensibilissimo radiotelescopio MeerKAT (gestito dal South African Radio Astronomy Observatory) proprio per osservare, circa ogni due settimane, decine e decine di pulsar e misurare il tempo di arrivo degli impulsi radio con una precisione che può raggiungere le decine di nanosecondi.

“Grazie a queste caratteristiche, MPTA costituisce il più potente rivelatore di onde gravitazionali di frequenza ultra bassa nell’intero emisfero australe”,

sottolinea Federico Abbate, ricercatore dell’INAF di Cagliari e tra gli autori di tutti e tre gli articoli pubblicati oggi.

Le pulsar, stelle di neutroni in rapida rotazione, fungono da orologi naturali e i loro impulsi radio regolari permettono agli scienziati di rilevare minime variazioni causate dal passaggio delle onde gravitazionali. Nel corso di questi anni abbiamo imparato a conoscere cosa sono queste onde gravitazionali, perturbazioni nel tessuto dello spazio-tempo teorizzate già negli anni venti dello scorso secolo da Albert Einstein e causate da alcuni degli eventi più potenti dell’Universo (per esempio la coalescenza di un sistema binario formato da due buchi neri). La sovrapposizione di queste onde, la cui rilevazione è particolarmente difficile, forma una sorta di ronzio cosmico che fornisce preziosi indizi sui processi nascosti che modellano la struttura dell’Universo.

Il team ha infatti trovato ulteriori forti indicazioni circa l’esistenza di segnali di onde gravitazionali provenienti dal lento spiraleggiare, uno attorno all’altro, di buchi neri supermassicci, catturando però un segnale più intenso rispetto a esperimenti simili in corso con altri strumenti. Ulteriori dati e tecniche di analisi ancora più avanzate sono adesso necessari per confermare tale ipotesi e individuare univocamente il sistema binario di buchi neri supermassicci.

“Siamo fortunati che la natura ci abbia fornito orologi così precisi distribuiti in tutta la nostra galassia, le cosiddette pulsar”,

aggiunge Kathrin Grunthal, ricercatrice del Max-Planck-Institut für Radioastronomie e prima autrice di uno degli articoli scientifici pubblicati oggi.

“Utilizzando MeerKAT, uno dei radiotelescopi più potenti al mondo, possiamo monitorare con precisione questi oggetti e cercare nel loro comportamento minuscoli cambiamenti causati dalle onde gravitazionali che risuonano attraverso l’Universo”.

 

“Studiare il ronzio delle onde gravitazionali ci permette di sintonizzarci sugli echi di eventi cosmici avvenuti nel corso di miliardi di anni”,

spiega Matthew Miles, ricercatore di OzGrav e della Swinburne University of Technology, nonché autore principale di due degli articoli pubblicati oggi su MNRAS.

Golam Shaifullah, ricercatore dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, a sua volta coinvolto nella ricerca, approfondisce:

“Rivelare onde gravitazionali a frequenze nell’ordine dei nanohertz ci permetterà non solo di cercare sistemi binari formati da buchi neri supermassicci, ma anche di aprire una finestra sulle fasi più antiche della formazione dell’Universo, oltre che su una varietà di processi fisici esotici.”

A 18 mesi di distanza dalla prima serie di pubblicazioni da parte di altri tre esperimenti internazionali (tra cui l’European Pulsar Timing Array, EPTA, in cui sono è coinvolto INAF, l’Università di Milano Bicocca e il Gran Sasso Science Institute), i risultati pubblicati oggi offrono nuove prospettive per la comprensione dei buchi neri più massicci dell’Universo, sul loro ruolo nella formazione del cosmo e sull’architettura cosmica che hanno lasciato dietro di sé.

mappa universo Rappresentazione artistica delle onde gravitazionali e del cielo sopra una delle antenne del radiotelescopio sudafricano MeerKAT, gestito dall’Osservatorio SARAO. Crediti: Carl Knox, OzGrav, Swinburne University of Technology and South African Radio Astronomy Observatory (SARAO)
A tempo di pulsar con MeerKAT: una nuova mappa dell’universo nelle onde gravitazionali con tre studi sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. Rappresentazione artistica delle onde gravitazionali e del cielo sopra una delle antenne del radiotelescopio sudafricano MeerKAT, gestito dall’Osservatorio SARAO. Crediti: Carl Knox, OzGrav, Swinburne University of Technology and South African Radio Astronomy Observatory (SARAO)

Caterina Tiburzi, ricercatrice dell’INAF di Cagliari coinvolta nella collaborazione EPTA, spiega:

“Comprendere e modellare il rumore di fondo che affligge il segnale delle pulsar, causato dagli effetti del gas ionizzato interposto tra le stelle, la Terra e il Sole, è l’elemento chiave per confermare definitivamente i risultati di MPTA, così come quelli di EPTA e degli altri esperimenti precedenti. I nuovi ricevitori a bassa frequenza di MeerKAT saranno strumenti straordinari per questo scopo”.

“Oltre all’entusiasmo per i nuovi esiti osservativi – conclude infine Andrea Possenti, dell’INAF Cagliari, e membro della collaborazione MPTA fin dalla sua fondazione nel 2018 – questo è un momento cruciale, che dimostra come la collaborazione internazionale negli esperimenti di tipo Pulsar Timing Array, nei quali INAF è coinvolto da oltre 20 anni, spalancherà infine le porte dell’astronomia delle onde gravitazionali di frequenza ultra bassa”.

prototipo SKA

 

Per altre informazioni:

I tre articoli pubblicati oggi su sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society:

  • “The MeerKAT Pulsar Timing Array: Maps of the gravitational-wave sky with the 4.5 year data release” di K. Grunthal et al.

  • “The MeerKAT Pulsar Timing Array: The 4.5-year data release and the noise and stochastic signals of the millisecond pulsar population” di Matthew T. Miles et al.

  • “The MeerKAT Pulsar Timing Array: The first search for gravitational waves with the MeerKAT radio telescope” di Matthew T. Miles et al.

 

Testi, video e immagini dagli Uffici Stampa dell’Università di Milano-Bicocca e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

Milano-Bicocca lancia la mappa interattiva delle foche monache nel Mar Mediterraneo
Più di un terzo dei rilevamenti segnala tracce molecolari della loro presenza

Dalla collaborazione dei dipartimenti di Scienze dell’ambiente e della terra e di Psicologia nasce “Spot the Monk Observatory”, un osservatorio alla portata di tutti per monitorare le tracce di DNA dell’abitante più famoso dei nostri mari

Milano, 26 novembre 2024 – Una mappa interattiva e in continuo aggiornamento per monitorare la presenza della foca monaca nel Mar Mediterraneo, man mano che vengono raccolti, analizzati e caricati nel sistema i campioni di DNA provenienti da diversi punti del Mediterraneo centro-occidentale, dal Mar Egeo allo Stretto di Gibilterra, dal Mar Adriatico al Mar di Sicilia, seguendo le tracce lasciate dall’unico pinnipede endemico del Mare Nostrum.

Il sito web di riferimento si chiama “Spot the Monk Observatory” (https://www.spot-the-monk-observatory.com/) ed è frutto di una collaborazione tra il dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra e quello di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca. Il progetto si inserisce all’interno di “Spot the Monk”, iniziativa nata nel 2020 che si avvale di una metodologia di rilevamento innovativa ed assolutamente non invasiva per l’intercettazione di tracce di presenza della foca monaca da semplici campioni di acqua marina. In che cosa consiste? Nell’analisi del DNA ambientale (eDNA) ovvero quel DNA contenuto nelle tracce biologiche che ciascun organismo lascia al proprio passaggio.

Sulle tracce della foca monaca: mappare il suo ritorno col DNA ambientale

Il test molecolare consiste nell’utilizzare un piccolo filamento di DNA sintetico (primer), la cui sequenza è identica ad una stringa di nucleotidi (i piccoli mattoncini che costituiscono il DNA) che si trova solo ed esclusivamente nel genoma della specie target, in questo caso la foca monaca. La procedura, messa a punto nel 2019 nel laboratorio del MaRHE Center da Elena Valsecchi, ecologa molecolare del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università di Milano-Bicocca, sfrutta la naturale attitudine del singolo filamento di DNA di “cercare” ed “avvinghiarsi” al filamento complementare, ammesso che questo sia contenuto all’interno di un campione, ovvero se il campione contiene tracce di DNA della specie bersaglio.

Una volta reso disponibile, il test è stato utilizzato per analizzare un gran numero di campioni raccolti in un solo anno (2021) nel Mediterraneo centro-orientale grazie a una fitta rete di programmi di Citizen Science. Il loro coinvolgimento nella raccolta di campioni di acqua marina in punti diversi del Mediterraneo ha consentito di stilare una prima mappa sulla distribuzione delle aree visitate.

«Da allora la campagna di raccolta “partecipativa” non ha avuto sosta – spiega Elena Valsecchi – coinvolgendo un numero sempre maggiore di associazioni sensibili alla causa ambientale come la Fondazione Acquario di Genova (con il supporto finanziario di 11th Hour Racing) ed il WWF che, con l’imprescindibile apporto del Gruppo Foca Monaca (link: https://focamonaca.it), partner del progetto sin dai suoi esordi, ha messo in campo una folta squadra di “campionatori seriali”, non più solo dalla superficie del mare, ma anche formando campionatori subacquei, grazie all’adesione al progetto da parte di numerosi Diving Center».

Foca Monaca del Mediterrano, femmina adulta mentre dorme in spiaggia, Saccorgiana, Pola, Istria, Croazia Crediti per la foto: E.Coppola/PANDA PHOTO
Foca Monaca del Mediterrano, femmina adulta mentre dorme in spiaggia, Saccorgiana, Pola, Istria, Croazia Crediti per la foto: E.Coppola/PANDA PHOTO

Quest’anno “Spot the Monk” ha raccolto una nuova sfida:

«Tendere la mano al grande pubblico – specifica l’ecologa – e renderlo partecipe dei risultati ottenuti, strizzando l’occhio all’Open Science. Ho concepito l’idea di un Osservatorio dove sia possibile consultare i campioni man mano che vengono raccolti e analizzati». Dall’idea alla realizzazione, “Spot the Monk Observatory” è diventato realtà. Il sito web è stato progettato e sviluppato da Alessandro Gabbiadini, professore del dipartimento di Psicologia e vicedirettore del centro di ricerca sulle nuove tecnologie MIBTEC (www.mibtec.it) nello stesso ateneo. Nello specifico, «il sito del nuovo osservatorio è stato sviluppato seguendo la filosofia dello User Centered Design – afferma Gabbiadini – ponendo l’utente al centro di ogni scelta progettuale. La priorità è stata data alla visualizzazione immediata dei dati raccolti, per rendere le informazioni facilmente accessibili e fruibili. Inoltre, il sito web è concepito come un punto di contatto e di raccordo tra le diverse realtà che si occupano della tutela e della mappatura della presenza della foca monaca nel Mediterraneo, favorendo il mantenimento di una rete collaborativa».

L’obiettivo finale è potenziare la comunicazione con il pubblico, in linea con le esigenze della “terza missione” dell’Università di Milano-Bicocca, che mira a rafforzare il dialogo tra il mondo accademico e la società.

Al momento sono stati analizzati 412 dei 537 campioni raccolti da oltre un centinaio di collaboratori e 37 associazioni partner, dal 2018 a oggi. Di questi 412 campioni, 144 (più di un terzo) sono risultati positivi al test, segnalando la presenza o il recente passaggio della foca monaca. Sulla mappa consultabile online (che è anche riprodotta nella foto qui sotto), si può osservare la distribuzione nel Mediterraneo dei diversi rilevamenti e, cliccando su uno di essi, si possono ottenere l’anno, l’autore, la fascia del giorno (diurna/notturna) e altre informazioni del singolo campionamento. Oltre allo stato dell’analisi (effettuata o no) e al suo esito (positivo/negativo).

La mappa interattiva delle foche monache nel Mar Mediterraneo
La mappa interattiva delle foche monache nel Mar Mediterraneo: più di un terzo dei rilevamenti segnala tracce molecolari della loro presenza

Le caratteristiche e proprietà del nuovo sito sono state dettagliate nell’articolo recentemente pubblicato da Valsecchi e Gabbiadini sulla rivista scientifica “Biodiversity Data Journal” (“An Observatory to monitor range extension of the Mediterranean monk seal based on its eDNA traces: collecting data and delivering results in the Open Science era”, DOI: https://doi.org/10.3897/BDJ.12.e120201).

Nato con lo scopo di rendere più partecipi gli amanti del mare allo studio della foca monaca, che per alcuni decenni sembrava essere scomparsa dalle acque centro occidentali del bacino mediterraneo, per poi ricomparire sporadicamente in alcuni siti, “Spot the Monk Observatory” si sta rivelando un’utile piattaforma anche per gli addetti ai lavori, sia in ambito scientifico che per gli enti preposti alla gestione e conservazione della specie.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca

Riprende lo scavo del Perucetus colossus, il cetaceo gigante scoperto in Perù

La ricerca, coordinata dall’Università di Pisa, ha l’obiettivo di riportare alla luce il resto dello scheletro, incluso il cranio

Nuova spedizione dei paleontologi dell’Università di Pisa nel deserto di Ica, in Perù, per ampliare lo scavo dove, nel 2023, è stato ritrovato parte dello scheletro di Perucetus colossus, il cetaceo vissuto circa 40 milioni di anni fa, che si stima possa essere stato l’animale più pesante mai esistito sulla Terra. Grazie all’uso di un grande escavatore, i ricercatori hanno potuto espandere significativamente l’area di ricerca: partendo dall’alto, sono stati rimossi parecchi metri cubi di roccia dalla collina, fino a giungere a circa un metro al di sopra dello strato fossilifero. In questo modo è stato creato un ampio terrazzo sul quale i paleontologi peruviani potranno lavorare con maggiore facilità, rimuovendo con martelli pneumatici gli strati di roccia che ancora celano il resto dello scheletro, incluso – si spera – il cranio.

Perucetus colossus: è un cetaceo l’animale più pesante mai vissuto

Alla spedizione, svolta nell’ambito del progetto ProArcheo cofinanziato dall’Università di Pisa, hanno partecipato il professor Giovanni Bianucci, coordinatore del progetto, e altri paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa (il professor Alberto Collareta, la dottoressa Giulia Bosio e il dottorando Francesco Nobile), insieme a geologi e micropaleontologi delle Università di Camerino e Milano Bicocca. Parte delle ricerche è stata svolta nell’ambito di un progetto PRIN coordinato da Alberto Collareta.

Ricostruzione artistica del Perucetus colossus: Credits: A. Gennari
Ricostruzione artistica del Perucetus colossus. Crediti per l’immagine: A. Gennari

Lo scorso anno, il ritrovamento dei resti del gigantesco mammifero aveva suscitato un grande clamore mediatico a livello mondiale, al punto da venir considerato una delle tre scoperte scientifiche più straordinarie del 2023Perucetus aveva catturato l’attenzione non solo per le sue imponenti dimensioni – si stima che potesse raggiungere i 20 metri di lunghezza – ma soprattutto perché potrebbe rappresentare l’animale più pesante mai esistito sulla Terra. La sua massa è stata infatti stimata poter raggiungere le 340 tonnellate, quasi il doppio di quella della più grande balenottera azzurra. I risultati dello studio del fossile erano stati pubblicati sulla rivista Nature.

“I precedenti scavi, andati avanti per oltre dieci anni, – spiega Bianucci – erano stati fortemente ostacolati dalle condizioni proibitive del sito. Il fossile era infatti parzialmente sepolto in una collina situata in una delle zone più inaccessibili e inospitali del deserto di Ica e la roccia che conteneva il fossile era estremamente dura. L’utilizzo dello scavatore – continua Bianucci – è stata pertanto una soluzione estrema dettata dall’eccezionale importanza del reperto e dall’impossibilità di procedere lo scavo con i mezzi tradizionali. Quando si recuperano i reperti fossili si fa infatti molta attenzione a limitare il più possibile l’impatto su queste aree desertiche, ancora incontaminate dall’uomo”.

“La frammentarietà dello scheletro ritrovato (composto da 13 vertebre, 4 costole e parte del bacino) – spiega Collareta – ha lasciato molti interrogativi aperti su vari aspetti della morfologia e dell’ecologia di Perucetus. In particolare, l’assenza del cranio e dei denti consente solo ipotesi speculative sulla sua alimentazione: era un erbivoro, come gli odierni lamantini, oppure uno spazzino che si nutriva di carcasse di vertebrati marini?”

“Il prossimo passo sarà dunque decisivo per ottenere nuovi indizi su come fosse fatto e su cosa si cibasse l’unico esemplare finora noto alla scienza di questo straordinario gigante marino di quasi 40 milioni di anni fa”, conclude Bianucci.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Un nuovo modello organoide per lo studio del cervello umano

Ricercatori di Milano-Bicocca, di Human Technopole e dell’Istituto di Biotecnologia Molecolare hanno messo a punto un nuovo metodo per assemblare organoidi cerebrali che consente di riprodurre in vitro aspetti salienti della polarità antero-posteriore della corteccia cerebrale umana e che apre nuove possibilità per lo studio delle malattie. Lo studio è pubblicato su Nature Methods.

 

Milano, 18 settembre 2024 – Lo studio del cervello umano da oggi ha uno strumento in più, efficace e dal design innovativo. Si tratta di un nuovo modello 3D di organoide cerebrale, che darà agli scienziati la possibilità di avere uno sguardo più approfondito sullo sviluppo e sui disturbi del cervello specifici dell’uomo, in particolare quelli che hanno radici nelle fasi precoci di sviluppo come l’autismo.

Il nuovo modello è illustrato nello studio “A polarized FGF8 source specifies frontotemporal signatures in spatially oriented cell populations of cortical assembloids” appena pubblicato su Nature Methods, ed è frutto del lavoro congiunto di un gruppo internazionale di ricercatori, guidato dalla dott.ssa Veronica Krenn, titolare della borsa di studio Human Technopole Early Career presso Milano-Bicocca, in collaborazione con il team guidato dal professore Jürgen Knoblich dell’Istituto di Biotecnologia Molecolare dell’Accademia Austriaca di Scienze (IMBA) di Vienna e il team guidato dal Professor Giuseppe Testa di Human Technopole di Milano.

Le tecnologie organoidi, inizialmente sviluppate dal team del Prof. Knoblich dell’IMBA, sono modelli tridimensionali derivati da cellule staminali pluripotenti e ad oggi ampiamente utilizzati in tutto il mondo per studiare lo sviluppo del cervello umano, per rispondere a domande fondamentali su come la corteccia umana possa raggiungere le sue grandi dimensioni e per conoscere l’origine delle malattie del cervello.

Fino ad oggi, gli organoidi corticali utilizzati erano sferici, come palloni da calcio in miniatura e relativamente omogenei. Questo tipo di struttura è molto diverso dalla corteccia umana oblunga e strutturata in una mappa di domini distinti andando dalla parte frontale a quella più posteriore. Per questo, ora i ricercatori hanno sviluppato un nuovo protocollo per generare organoidi allungati organizzati in domini distinti lungo l’asse longitudinale, in modo analogo alla polarità della corteccia.

La mappa del cervello in formazione è modellata da diverse molecole di segnalazione, i cosiddetti morfogeni, quindi è difficile capire in che modo ciascun componente contribuisce allo sviluppo individualmente. Nel nuovo metodo ora sviluppato, i ricercatori hanno prima progettato organoidi allungati utilizzando stampi appositamente disegnati da collaboratori presso l’Università di Parigi e Istituto Curie, e poi hanno aggiunto una fonte di un morfogeno chiamato FGF8.

«Questa singola fonte di morfogeno, posizionata asimmetricamente, è sufficiente a creare cellule con identità distinte lungo l’asse longitudinale di un singolo organoide allungato, formando una mappa simile a quella della corteccia umana negli stadi molto precoci di sviluppo – spiega la dott.ssa Veronica Krenn, uno dei principali autori dello studio – Utilizzando il nuovo modello, i ricercatori sono riusciti ad identificare uno dei fattori cruciali per la creazione di questa mappa della corteccia, il gene FGFR3, le cui mutazioni sono la causa di una displasia scheletrica – chiamata achondroplasia.»

 «Questi organoidi corticali polarizzati – conclude Krenn – rappresentano un importante passo avanti nella riproduzione in laboratorio delle prime fasi alla base dello sviluppo della corteccia. Siamo molto entusiasti di poter utilizzare questa nuova tecnologia per approfondire i meccanismi di geni malattia e come i fattori di rischio che contribuiscono all’insorgere di malattie mentali possono alterare questi processi cruciali.»

Un assembloide corticale polarizzato che mostra un gradiente spaziale di espressione lungo il suo asse longitudinale (da sinistra a destra, colori dal blu al giallo-rosso). Foto ©Camilla Bosone (IMBA)
Un nuovo modello organoide per lo studio del cervello umano. Un assembloide corticale polarizzato che mostra un gradiente spaziale di espressione lungo il suo asse longitudinale (da sinistra a destra, colori dal blu al giallo-rosso). Foto ©Camilla Bosone (IMBA)

Riferimenti bibliografici:

Bosone, C., Castaldi, D., Burkard, T.R. et al. A polarized FGF8 source specifies frontotemporal signatures in spatially oriented cell populations of cortical assembloids. Nat Methods (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41592-024-02412-5

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.

Malattie ematologiche, il ruolo fondamentale del dialogo medico-paziente-figli

La comunicazione condivisa tra medico, paziente e figli, utilizzando anche immagini e metafore, riveste un ruolo cruciale per una maggiore serenità in caso di diagnosi di malattie ematologiche. Lo rivela uno studio guidato dal reparto di ematologia della Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza.

 

Milano, 15 luglio 2024 – L’importanza del dialogo tra genitori e figli, in caso di diagnosi di malattia ematologica, e il ruolo chiave del medico. Questi gli aspetti principali che emergono dallo studio “Communicating the diagnosis of a hematological neoplastic disease to patients’ minor children: a multicenter prospective study “, guidato dal reparto di Ematologia adulti della Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori, diretto dal professor Carlo Gambacorti Passerini, ematologo di Milano-Bicocca.

La ricerca si è svolta anche attraverso il confronto con reparti ematologi di altre strutture (Ospedale Niguarda di Milano, Policlinico di Milano, Policlinico San Matteo di Pavia) e ha evidenziato come la comunicazione condivisa, ma con ruoli ben precisi, possa essere la chiave per una maggiore serenità di tutta la famiglia.

Una nuova diagnosi di malattia oncoematologica rappresenta infatti un evento in grado di modificare radicalmente la vita quotidiana di una persona e gli equilibri familiari. In questo contesto, i figli in età minore spesso rappresentano la “voce dimenticata” all’interno della famiglia: nel tentativo di proteggerli dalle situazioni dolorose, i genitori tendono ad evitare la comunicazione con i figli in merito alla malattia, nella convinzione che bambini e ragazzi non possano comprendere quanto succede.

Questo studio ora invece sottolinea, grazie ai «dati emersi dall’analisi dei questionari sottoposti (dal 2017 al 2021) a coppie di genitori – dice la dottoressa Beatrice Manghisi del gruppo di ricerca di Monza, prima autrice dello studio – che la comunicazione di diagnosi di malattia ematologica ai figli minori, seppur con modalità diverse nei quattro centri coinvolti, abbia un impatto positivo, senza cambiamenti allarmanti nei comportamenti di bambini e ragazzi. Una comunicazione sincera ed aperta, in merito a questa tematica difficile, promuove il dialogo all’interno della famiglia, senza necessità di tenere nascosti ai figli ricoveri ed effetti collaterali delle terapie.»

In particolare, presso la Clinica Ematologica dell’IRCCS San Gerardo dei Tintori, è attivo dal 2009 il “Progetto Emanuela” che offre aiuto ai genitori per parlare della loro malattia ai figli. Alla base di questo progetto, il colloquio di medico ematologo e psicologo insieme con i minori per spiegare loro cosa sta succedendo al genitore, offrendo così sia la competenza scientifica del medico sia la mediazione psicologica.

«Attraverso l’uso di immagini che illustrano con metafore e figure la malattia e la terapia – precisa la dottoressa Lorenza Borin, co-autrice dello studio – si preparano i bambini ai cambiamenti fisici che interverranno e si spiega il motivo per cui il genitore dovrà stare isolato. Durante il colloquio è presente una psicologa che sostiene il medico e guida la risposta alle domande, proponendo a seconda dell’età attività di dialogo, gioco o disegno.»

«Presso il nostro centro di Monza – prosegue Manghisi – è stata riscontrata una maggior apertura al dialogo tra figli e genitori, mentre nelle altre realtà, dove non esiste un progetto consolidato come il Progetto Emanuela, la comunicazione con i figli dei pazienti è affidata al supporto psicologico o ai genitori stessi.»

«La nostra esperienza con il progetto Emanuela ci convince fortemente del ruolo chiave che il medico ematologo può svolgere nella comunicazione con i figli dei pazienti. – conclude il prof. Carlo Gambacorti Passerini, direttore della Struttura Complessa Ematologia adulti del San Gerardo – I pazienti percepiscono le competenze mediche come complementari a quelle genitoriali, e identificano nell’ematologo un supporto indispensabile nella comunicazione, una figura in grado di prendersi cura anche degli aspetti familiari e relazionali. Questo nuovo ruolo del medico sembra avere un impatto positivo sui pazienti stessi, migliorando la comprensione della malattia, la fiducia nel personale sanitario e l’alleanza terapeutica medico-paziente.»

Malattie ematologiche: il ruolo fondamentale del dialogo medico-paziente-figli evidenziato da una ricerca su The Oncologist. Esempi di immagini usate per la comunicazione della diagnosi ai figli dei pazienti.

Riferimenti bibliografici:

Beatrice Manghisi, Lorenza Borin, Maria Rosaria Monaco, Gaia Giulia Angela Sacco, Laura Antolini, Raffaele Mantegazza, Monica Barichello, Umberto Mazza, Patrizia Zappasodi, Francesco Onida, Luca Arcaini, Roberto Cairoli, Carlo Gambacorti Passerini, Communicating the diagnosis of a hematological neoplastic disease to patients’ minor children: a multicenter prospective study, The Oncologist, 2024, DOI: oyae104, https://doi.org/10.1093/oncolo/oyae104

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.

La natura “corporea” delle emozioni, Milano-Bicocca mappa le aree del cervello che si attivano durante la rievocazione emotiva: le aree corticali somatosensoriali e motorie vengono attivate anche da emozioni soggettive

Una ricerca dell’ateneo milanese, pubblicata su iScience, dimostra per la prima volta che le emozioni attivano regioni corticali che tipicamente rispondono a esperienze tattili e motorie.

Milano, 8 luglio 2024 – Una ricerca dell’Università di Milano-Bicocca ha dimostrato che nel cervello le aree corticali somatosensoriali e motorie (ovvero quelle aree della corteccia cerebrale che vengono tipicamente attivate dalla sensazione tattile o dal movimento di una parte del corpo) vengono attivate anche da emozioni soggettive. La natura delle emozioni si può quindi considerare fortemente “corporea”.

Lo studio, dal titolo “Mapping the Emotional Homunculus with fMRI” (“Mappare l’’Homunculus” emotivo tramite Risonanza Magnetica Funzionale”), è stato appena pubblicato sulla rivista scientifica iScience (DOI: 10.1016/j.isci.2024.109985).

«In passato diversi progetti di ricerca avevano dimostrato a livello comportamentale che le emozioni sono associate a specifiche parti del corpo. Tuttavia, rimaneva da capire quanto specifiche aree cerebrali, tipicamente coinvolte nell’elaborazione di sensazioni tattili e motorie partecipassero alla generazione di specifiche emozioni, quali la tristezza, la felicità, la paura.. Noi lo abbiamo dimostrato per la prima volta a livello neurofisiologico»,

spiega Elena Nava, professoressa del dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca, che ha firmato lo studio, insieme ai colleghi Michelle Giraud, Laura Zapparoli, Gianpaolo Basso, Marco Petilli ed Eraldo Paulesu, afferenti allo stesso dipartimento.

Grazie all’utilizzo della risonanza magnetica funzionale a 3 Tesla, situato presso l’Ospedale San Gerardo di Monza (grazie alla convenzione stipulata il 1° agosto 2019 con l’allora Asst Monza oggi Fondazione Irccs San Gerardo dei Tintori), su un campione di 26 soggetti sono state mappate le aree specifiche di risposta neuronale nel cervello a stimoli sia di tipo motorio e tattile, sia di tipo emotivo:

  1. I soggetti sono stati stimolati in diverse parti del corpo (mani, tronco, piedi, volto) con i “filamenti di Von Frey”, uno strumento formato da monofilamenti che permettono di stimolare parti del corpo utilizzando esattamente la stessa intensità

  2. I soggetti sono stati indotti a muovere singolarmente le stesse parti del corpo del primo test (es. aprivano chiudevano le mani, muovevano le labbra…)

  3. Recall emotivo: in base ad interviste svolte nei giorni precedenti, ai soggetti veniva chiesto di rivivere episodi autobiografici per loro stessi altamente emotivi, sia positivi, sia negativi (per es. giorno del matrimonio, lutto…)

Attraverso la risonanza magnetica funzionale, i ricercatori hanno registrato quale area del cervello venisse attivata da ogni stimolazione, motoria, tattile o emotiva, ricavando due mappe, tattile-motoria ed emotiva.

Sovrapponendo la mappa delle aree corticali attivate durante la rievocazione delle emozioni alla mappa delle aree corticali attivate durante le stimolazioni tattili e motorie, i ricercatori di Milano-Bicocca hanno scoperto che alcune aree si attivano con entrambe le due tipologie di stimolazione.

Nella figura B compaiono le aree comuni (se in blu si attivano per le emozioni e per le stimolazioni tattili, se in verde si attivano per le emozioni e per le stimolazioni motorie).

Le aree corticali somatosensoriali e motorie vengono attivate anche da emozioni soggettive

L’equipe di ricercatori di Milano-Bicocca ha così rilevato che «la generazione di emozioni si associa ad attività in aree corticali somatosensoriali e motorie, quelle che tipicamente rispondono al tatto o ad azioni motorie. Si dimostra così l’idea di un’esperienza “incarnata” delle emozioni, e quindi la necessità di esperire a livello tattile e motorio le emozioni per poterle generare e sentire consciamente», specifica Nava.

Questa ricerca supporta così l’associazione di emozioni a sensazioni corporee e l’utilizzo di alcune metafore che si utilizzano nel linguaggio comune come “sentire le farfalle nello stomaco” quando si è innamorati o “ribollire di rabbia”.

Le aree corticali somatosensoriali e motorie vengono attivate anche da emozioni soggettive

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.

La “plastisfera” di laghi e fiumi (Mekong) ospita organismi che minacciano l’ecosistema

Una nuova ricerca esplora le comunità di microorganismi che vivono sui rifiuti di plastica e il loro impatto sul Mekong inferiore in Cambogia, secondo fiume più ricco di biodiversità al mondo.

 

Milano, 21 giugno 2024 – Fiumi e laghi inquinati in tutto il mondo ospitano una popolazione nuova e in evoluzione di microrganismi e batteri che si sono insediati sulla superficie delle plastiche. Secondo una ricerca pubblicata nel numero di agosto 2024 della rivista Water Research, questo nuovo ecosistema legato ai rifiuti, soprannominato “plastisfera”, sta avendo molteplici conseguenze: dall’esaurimento dell’ossigeno nell’acqua, alla potenziale introduzione di patologie, e sta alterando la salute complessiva dei grandi sistemi fluviali.

“I fiumi offrono un’ampia gamma di servizi ecosistemici, dalla fornitura di acqua potabile, all’irrigazione per le colture, fino al sostegno alla pesca nelle acque interne, che centinaia di milioni di persone utilizzano come risorsa alimentare”,

dice Veronica Nava, ricercatrice dell’Università di Milano-Bicocca e autore principale dello studio.

“Il nostro studio è uno dei primi ad andare oltre la descrizione dei microrganismi che crescono sui diversi materiali plastici che inquinano i corsi d’acqua sul nostro pianeta, e giunge a dimostrare che essi stanno cambiando il ciclo dei nutrienti e la qualità delle acque nel fiume, causando una drammatica riduzione dell’ossigeno nel sistema fluviale. Questi cambiamenti hanno un impatto sulla salute di un fiume e sulla sua capacità di sostenere la biodiversità all’interno dei suoi ecosistemi”.

Un consorzio di istituti di ricerca ha analizzato la plastisfera del sistema del fiume Mekong inferiore in Cambogia, uno dei fiumi più diversificati e produttivi del mondo. Monitorando i diversi impatti sulla salute del fiume, i ricercatori hanno scoperto che le fiorenti popolazioni di batteri che vivono sulla superficie dei residui di plastica alteravano in modo significativo la qualità complessiva dell’acqua e incidevano sui servizi ecosistemici, soprattutto nelle aree con rifiuti mal gestiti. Inoltre, essi hanno osservato la presenza di organismi potenzialmente patogeni che potrebbero avere implicazioni per la salute umana, sebbene siano necessarie ulteriori analisi.

Il consorzio, parte del progetto Wonders of the Mekong, finanziato dall’USAID, comprendeva ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca, dell’Università del Nevada, Reno, dell’Istituto di Tecnologia della Cambogia, del Desert Research Institute e dell’Università reale di Phnom Penh.

L’attività di Veronica Nava è stata possibile grazie al finanziamento ricevuto dalla Società Italiana di Ecologia e dall’Università di Milano-Bicocca.

 Gallery sulla “plastisfera” con foto del progetto Wonders of the Mekong

Lo studio si è articolato esaminando l’accumulo di microrganismi sui residui di plastica trovati nei fiumi e valutando in laboratorio l’impatto sulla qualità delle acque legato alla presenza di questi microrganismi sulla plastica stessa. In particolare, il gruppo ha esaminato la selezione dei microrganismi per cercare di capire meglio se il tipo di rifiuti abbia un impatto sulla loro crescita e produttività.

“La combinazione dello studio di quattro diverse plastiche in tre diversi fiumi con i vari tipi di misurazione rende questo studio unico”,

sostiene Monica Arienzo, professore associato presso la Divisione di Scienze Idrologiche al Desert Research Institute.

“Riunire questi dati è importante per comprendere i potenziali impatti della plastica sugli ecosistemi acquatici”.

Sebbene il fiume Mekong fornisca sostentamento a oltre 60 milioni di persone, è anche uno dei fiumi più stressati del pianeta a causa dei cambiamenti idrologici dovuti alla costruzione di dighe e all’impatto degli usi del territorio, tra cui la deforestazione, la pesca eccessiva e il commercio illegale di pesci giganti ambiti in tutta la regione. Il fiume ospita il più grande pesce d’acqua dolce scoperto recentemente al mondo, una pastinaca gigante, oltre ad altre specie rare in via di estinzione. I rifiuti di plastica gettati nel fiume stanno diventando sempre più comuni, con un potenziale impatto sulla ricca diversità fluviale e sulla produttività della pesca.

 

“Il fiume Mekong e i suoi affluenti sono ricchi di biodiversità, ma l’inquinamento da plastica è un problema crescente nel bacino del Mekong, così come nei corpi d’acqua dolce di tutto il mondo”

afferma il professor Sudeep Chandra, uno degli autori dello studio e direttore del Global Water Center dell’Università del Nevada, Reno.

“Se si amplia questo lavoro, è possibile che, a causa dei microrganismi che popolano le isole di plastica galleggianti che stanno riducendo l’ossigeno nel fiume, inizieremo a trovare “zone morte” dove i pesci e altri animali non possono sopravvivere, specialmente durante la stagione secca.”

Si ipotizza che la riduzione dell’ossigeno contribuisca anche alla produzione di gas serra come l’anidride carbonica e il metano.

 

“Elevati livelli di inquinamento da plastica potrebbero creare punti caldi biogeochimici che produrrebbero gas serra all’interno dei fiumi”, continua Chandra. “Semplicemente, non possiamo prendere alla leggera il carico di plastica nelle acque dolci poiché potrebbe innescare tanti cambiamenti nei fiumi e avere un impatto su ciò che stiamo cercando di conservare”.

I corsi d’acqua sono stati spesso studiati come fonte dei residui di plastica nell’oceano, con i fiumi del mondo che trasportano ogni anno fino a 265.000 tonnellate di scarti di plastica in mare. Questa ricerca, la prima nel suo genere, porta alla luce una nuova serie di sfide che devono essere affrontate per proteggere i fiumi e i servizi ecosistemici che forniscono.

Questa nuova e crescente plastisfera d’acqua dolce potrebbe avere impatti di vasta portata secondo i ricercatori:

• La qualità dell’acqua, il calo dell’ossigeno e dei nutrienti potrebbero avere un impatto sulla salute dei pesci e degli altri abitanti dei fiumi. Ciò è particolarmente preoccupante in fiumi come il Mekong, uno dei più ricchi di biodiversità e importanti dal punto di vista funzionale al mondo.

• La colonizzazione di batteri e minuscole alghe che formano il biofilm sulla plastica può spingere organismi più grandi a ingerire i rifiuti di plastica “insaporiti”.

• I microorganismi potenzialmente patogeni, che vivono sulla plastica, possono compromettere l’accesso all’acqua potabile per gli esseri umani.

• I resti di plastica rivestiti con biofilm possono percorrere potenzialmente lunghe distanze, espandendo l’impatto geografico della plastisfera che si sposta lungo il fiume per le correnti.

Nel 2023, Nava e Chandra insieme ad altri co-autori hanno pubblicato una ricerca su Nature sulle alte concentrazioni di microplastiche nei laghi d’acqua dolce di tutto il mondo.. Questa nuova ricerca fornisce la prima prova degli impatti ecologici più ampi dei residui di plastica nei sistemi fluviali ed è un primo passo per comprendere meglio gli impatti della plastisfera sugli ecosistemi di acqua dolce del mondo.

“Questo studio evidenzia le sorprendenti interconnessioni tra l’inquinamento da plastica e gli ecosistemi acquatici e sottolinea la necessità di sviluppare soluzioni per ridurre i rifiuti di plastica”

afferma Zeb Hogan, professore associato di ricerca presso il Dipartimento di Biologia dell’Università del Nevada, Reno e Direttore del Progetto Wonders of the Mekong.

“Politiche che riducano i rifiuti di plastica andranno a beneficio delle persone, attraverso una migliore funzionalità dell’ecosistema, acqua migliore e più pesci”.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.

Un nuovo materiale sostenibile per il restauro delle barriere coralline

L’Università degli Studi di Milano-Bicocca e l’Istituto Italiano di Tecnologia, in collaborazione con l’Acquario di Genova, hanno sviluppato un nuovo materiale per restaurare le barriere coralline danneggiate dai cambiamenti climatici.

7 giugno 2024, Milano – I cambiamenti climatici stanno danneggiando le barriere coralline. In un video realizzato alle Maldive nell’aprile 2023, un gruppo di ricerca italiano mostra le proprietà di un nuovo materiale biodegradabile e indurente ideato per le operazioni sottomarine di recupero delle barriere.

Questo nuovo materiale è stato realizzato dall’Istituto Italiano di Tecnologia e l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Acquario di Genova, ed è stato descritto sulla rivista Advanced Sustainable Systems nel giugno 2024.

Il recupero attivo delle barriere coralline è un’operazione che consiste nel far crescere nuove colonie di corallo in ambienti protetti, di solito vivai sommersi chiamati “nurseries”, per poi trasferirli nuovamente nelle porzioni di barriera danneggiate. Per eseguire questo trapianto, vengono di norma utilizzati dei materiali che permettano l’adesione del corallo alle superfici sottomarine e, nello stesso tempo, garantiscano tempi di esecuzione ottimale. I prodotti attualmente in commercio derivano spesso dall’industria del petrolio e possono perciò risultare tossici per l’ambiente. Inoltre, il loro indurimento può richiedere tempi lunghi, da un’ora a un giorno intero, periodo nel quale il corallo deve mantenersi in posizione contro le correnti marine che potrebbero spostarlo e ridurre il successo del trapianto.

Il nuovo materiale è biodegradabile e non inquina perché composto da due componenti di origine vegetale. Una volta unite le due parti, il tempo di indurimento è di soli 20-25 minuti, caratteristica che permette di aumentare il successo del trapianto e accelerare il restauro delle barriere coralline.

Le capacità del materiale sono state verificate in esperimenti condotti all’Acquario di Genova e alle Maldive presso il MaRHE Center (Marine Research and Higher Education Center) – diretto dal prof. Paolo Galli –  dove, durante il periodo di osservazione, i coralli sono cresciuti senza che fosse rilevato alcun segnale di stress.

La ricerca del nuovo materiale, oltre che nell’importantissimo lavoro di coral restoration in natura, nasce anche dalla volontà delle strutture come l’Acquario di Genova di introdurre tecniche e procedure di mantenimento delle specie in ambiente controllato e utilizzate nei progetti di ricerca e conservazione che siano sempre più sostenibili e rispettose dell’ambiente.

Il materiale è oggetto di una domanda di brevetto depositata ed è stato sviluppato anche grazie a finanziamenti del progetto “Futuro Centro Nazionale per la Biodiversità” del PNRR.

Per approfondimenti, l’articolo online su Advanced Sustainable Systems.

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.

Riscoperta la figura di Carlo Antonio Tortoni, pioniere della microscopia che sviluppò il primo farmaco battericida 

Una ricerca, pubblicata dall’Università di Milano-Bicocca su Internal and Emergency Medicine, riporta alla luce le scoperte pionieristiche del naturalista italiano che nacque a Recanati nel Seicento.

Milano, 29 maggio 2024 – Inventò un microscopio che gli consentì di individuare nel pulviscolo atmosferico quelli che lui chiamava “animalucci”, ovvero microorganismi contro cui sviluppò il primo farmaco battericida della storia. Questi primati appartengono a Carlo Antonio Tortoni la cui figura è stata riscoperta nel recente articolo, Carlo Tortoni (1640–1700) and the Early Use of Microscope in Medical Experimentation, pubblicato sulla rivista internazionale Internal and Emergency Medicine a firma di Michele Augusto Riva, professore di Storia della medicina dell’Università di Milano-Bicocca, e dell’esperto di storia recanatese Vincenzo Buontempo. L’articolo parte proprio dalle ricerche di Buontempo, il primo a scoprire e approfondire la figura del suo conterraneo, finora dimenticata, pur essendo così importante nella storia della scienza. Carlo Antonio Tortoni (1640-1700), nato a Recanati, diede infatti un contributo pionieristico alla microscopia scientifica e alla sperimentazione farmacologica anche se il suo carattere diffidente lo fece rimanere nell’ombra in un’epoca di grandi sviluppi tecnologici.

«Il Seicento segnò l’introduzione del microscopio nella medicina, grazie al contributo di figure rinomate come il bolognese Marcello Malpighi (1628-1694) e l’olandese Antonj van Leeuwenhoek (1632-1723). I primordiali microscopi utilizzati da questi ultimi erano però molto diversi da quelli odierni e il loro impiego era spesso molto complesso», spiega Michele Augusto Riva. «Fu nel 1685 che il naturalista recanatese Tortoni presentò all’Accademia FisicoMatematica di Roma un nuovo modello di microscopio portatile a vite (tipo screw-barrel): si tratta di un microscopio molto simile al modello che viene utilizzato ancora oggi. Questo dispositivo combinava cinque lenti e permetteva osservazioni ad alto ingrandimento anche in condizioni di bassa luminosità. Questa nuova tipologia di microscopio, che rendeva possibili osservazioni più dettagliate, divenne presto noto in tutta Europa, anche se il suo inventore venne dimenticato».

Il progetto del microscopio di Tortoni tratto da Istruzione delle due sorti di MicroscopiiTortoniani nuovamente inventati di Carlo Antonio Tortoni CA (1687, Gio Giacomo Komarek,
Roma)
Il progetto del microscopio di Tortoni tratto da Istruzione delle due sorti di Microscopii
Tortoniani nuovamente inventati di Carlo Antonio Tortoni CA (1687, Gio Giacomo Komarek,
Roma)

Ma quell’innovativo microscopio non fu l’unica scoperta di Tortoni: lo scienziato, che era anche un religioso, fu infatti il primo a osservare nell’aria la presenza di microrganismi, invisibili all’occhio umano, che lui chiamò “animalucci”. Ritenendo che fossero coinvolti nei processi patologici, sviluppò anche un farmaco per eliminarli, da lui definito “Balsamo Tortoriano”: la loro distruzione avrebbe comportato la guarigione della persona dalla malattia. 

Per confermare l’efficacia del suo rimedio, nel corso degli anni Tortoni effettuò numerosi esperimenti con il suo microscopio. Geloso delle sue scoperte e timoroso dei plagi, lo scienziato non rivelò mai la composizione del balsamo terapeutico, rendendo impossibile comprenderne oggi la natura e valutarne l’efficacia e le proprietà battericide. Nonostante ciò, il Balsamo Tortoriano può essere considerato il primo farmaco microbicida sperimentato nella storia.

«Tortoni non era dunque semplicemente uno scienziato tecnico che studiava e perfezionava la forma delle lenti e come dovessero essere posizionate nei microscopi che progettava», continua il professor Michele Augusto Riva. «Egli appare anche come un acuto osservatore, con una apertura culturale verso nuove scoperte. Tortoni potrebbe essere stato il primo scienziato a osservare microrganismi nell’aria con il proprio microscopio e il primo a usare il microscopio per condurre un esperimento sull’efficacia di un farmaco, il balsamo di sua invenzione».

Se la natura diffidente di Tortoni probabilmente portò il suo balsamo a rimanere sconosciuto e quindi non utilizzato in ambito clinico, Vincenzo Buontempo con le sue iniziali ricerche ci ricorda che va al sacerdote recanatese il merito di aver condotto uno dei primi esempi di sperimentazione farmacologica usando un microscopio. Facendo conquistare a Tortoni un posto di rilievo nella storia della medicina e della scienza.

Carlo Antonio Tortoni ritratto in un documento del 1685 (Acta Eruditorum, Apud J.Grossium et J.F. Gletitschium, Leipzig)
Carlo Antonio Tortoni ritratto in un documento del 1685 (Acta Eruditorum, Apud J.
Grossium et J.F. Gletitschium, Leipzig)

Informazioni bibliografiche:

Riva, M.A., Buontempo, V. Carlo Tortoni (1640–1700) and the Early Use of Microscope in Medical Experimentation, Intern Emerg Med (2024), DOI: https://doi.org/10.1007/s11739-024-03642-3

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.