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Università degli Studi di Milano-Bicocca

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Nuove immagini ad alta definizione dell’universo primordiale dall’Atacama Cosmology Telescope nel deserto cileno

Una nuova ricerca nell’ambito della collaborazione internazionale Atacama Cosmology Telescope (ACT), a cui ha preso parte anche la Sapienza, ha prodotto le immagini più chiare mai ottenute dell’universo primordiale, rivelando la formazione delle antiche nubi di idrogeno ed elio che presto si sarebbero trasformate nelle prime stelle e galassie.

La collaborazione dell’esperimento Atacama Cosmology Telescope (ACT), un progetto internazionale situato a 5200 m nel deserto di Atacama in Cile, che in Italia include i gruppi di Elia Battistelli presso l’Università Sapienza di Roma (di cui fanno parte anche Giovanni Isopi, Eleonora Barbavara, e Valentina Capalbo), e di Federico Nati presso l’Università di Milano-Bicocca, ha sottoposto il modello standard della cosmologia ad una nuova e rigorosa serie di test, dimostrandone la straordinaria solidità. Le nuove immagini dell’universo primordiale mostrano i dettagli della prima luce emersa dagli albori dell’Universo con una chiarezza senza precedenti, rivelando la formazione delle antiche nubi di idrogeno ed elio che presto si sarebbero trasformate nelle prime stelle e galassie.

 a sinistra la nuova mappa a mezzocielo, in intensità, della radiazione di fondo cosmico realizzata dall'Atacama Cosmology Telescope, in aggiunta a quelle di Planck. In basso, un ingrandimento della stessa di 10 x 10 gradi, in cui i punti rossi rappresentano galassie e i punti blu ammassi di galassie. È visibile anche la galassia dello Scultore. Il rosso e il blu indicano regioni più calde e più fredde.A destra la nuova mappa in polarizzazione con un ingrandimento (in basso) e la regione galattica della nebulosa di Orione (in alto). Il rosso e il blu indicano il movimento nelle antiche nubi di idrogeno ed elio. Il blu mostra dove i modelli di polarizzazione della luce sono radiali, con la materia che fluisce verso l'interno; il rosso traccia i modelli di polarizzazione tangenziali, dove la materia fluisce verso l'esterno. Crediti per le immagini: ACT Collaboration; ESA/Planck
a sinistra la nuova mappa a mezzocielo, in intensità, della radiazione di fondo cosmico realizzata dall’Atacama Cosmology Telescope, in aggiunta a quelle di Planck. In basso, un ingrandimento della stessa di 10 x 10 gradi, in cui i punti rossi rappresentano galassie e i punti blu ammassi di galassie. È visibile anche la galassia dello Scultore. Il rosso e il blu indicano regioni più calde e più fredde.
A destra la nuova mappa in polarizzazione con un ingrandimento (in basso) e la regione galattica della nebulosa di Orione (in alto). Il rosso e il blu indicano il movimento nelle antiche nubi di idrogeno ed elio. Il blu mostra dove i modelli di polarizzazione della luce sono radiali, con la materia che fluisce verso l’interno; il rosso traccia i modelli di polarizzazione tangenziali, dove la materia fluisce verso l’esterno.
Crediti per le immagini: ACT Collaboration; ESA/Planck

Le immagini più nitide dell’infanzia dell’universo

Una nuova ricerca della collaborazione Atacama Cosmology Telescope (ACT) ha prodotto le immagini più chiare mai ottenute dell’universo primordiale, provenienti dal tempo cosmico più lontano a cui l’umanità abbia mai avuto accesso. Misurando una luce che ha viaggiato per oltre 13 miliardi di anni prima di raggiungere il telescopio situato sulle Ande cilene, queste immagini rivelano l’universo quando aveva circa 380.000 anni – l’equivalente di fotografie di un neonato in un cosmo ormai maturo.

“Stiamo osservando i primi passi verso la formazione delle stelle e delle galassie più antiche”, ha dichiarato Suzanne Staggs, direttrice di ACT e docente di fisica all’Università di Princeton. “E non vediamo solo chiaro e scuro, ma anche la polarizzazione della luce ad alta risoluzione. Questo è un elemento distintivo che differenzia ACT da Planck e da altri telescopi precedenti.”

Le nuove immagini della radiazione cosmica di fondo (CMB) forniscono una risoluzione più alta rispetto a quelle ottenute più di un decennio fa dal telescopio spaziale Planck. Misurando sia l’intensità che la polarizzazione della luce con ACT, ora abbiamo una seconda immagine ad alta fedeltà dello stesso momento cosmico. L’immagine della polarizzazione svela il movimento dettagliato della materia nell’infanzia cosmica.

“Prima potevamo vedere dove si trovavano le cose, ora possiamo anche vedere come si muovono”, ha detto Staggs. “Proprio come le maree rivelano la presenza della Luna, il movimento tracciato dalla polarizzazione della luce ci dice quanto fosse forte l’attrazione gravitazionale in diverse regioni dello spazio.”

“Nelle prime centinaia di migliaia di anni dopo il Big Bang”, spiega Elia Battistelli, professore di fisica della Sapienza di Roma, “il plasma primordiale era così caldo che la luce non poteva propagarsi liberamente, rendendo l’universo di fatto opaco. La CMB rappresenta il primo stadio della storia dell’universo che possiamo osservare”.

“Le immagini forniscono una visione straordinariamente dettagliata delle variazioni, per quanto minime, nella densità e nella velocità dei gas. Quello che sembrano nuvole sfocate nell’intensità della luce sono in realtà regioni più e meno dense in un mare di idrogeno ed elio – colline e valli che si estendono per milioni di anni luce”, aggiunge Federico Nati, professore dell’Università di Milano-Bicocca. “Nei miliardi di anni successivi, la gravità ha attirato le regioni più dense di gas, dando origine a stelle e galassie”.

Queste immagini dettagliate dell’universo appena nato stanno aiutando gli scienziati a rispondere a domande di lunga data sulle origini del cosmo. “Osservando quel periodo, quando tutto era molto più semplice, possiamo ricostruire la storia di come l’universo si è evoluto fino alla complessità che vediamo oggi”, ha spiegato Jo Dunkley, docente di fisica e scienze astrofisiche a Princeton e responsabile dell’analisi di ACT.

“Abbiamo misurato con precisione che l’universo osservabile si estende per quasi 50 miliardi di anni luce in tutte le direzioni e contiene una quantità di massa equivalente a quasi 2 trilioni di trilioni di Soli”,

ha dichiarato Erminia Calabrese, docente di astrofisica all’Università di Cardiff. Di questi solo una minima parte rappresenta la materia normale – quella che possiamo osservare e misurare. Il resto è costituito da materia oscura e dall’energia oscura, le misteriose componenti che permeano il cosmo.

La tensione di Hubble

Negli ultimi anni, i cosmologi hanno ottenuto misure in leggero ma chiaro disaccordo sulla costante di Hubble, un parametro della teoria cosmologica che misura il tasso di espansione dello spazio. Le misurazioni basate sulla radiazione cosmica di fondo indicano costantemente un tasso di espansione di 67-68 km/s/Mpc, mentre le misure delle galassie vicine suggeriscono un valore più alto, fino a 73-74 km/s/Mpc. I nuovi dati di ACT confermano il valore più basso con una precisione persino maggiore.

Uno degli obiettivi principali dello studio era testare modelli alternativi che potessero spiegare la discrepanza, tuttavia i dati ACT non mostrano alcuna evidenza di nuove particelle o effetti non previsti dal modello standard e restringono ulteriormente il campo delle alternative possibili.

Il futuro della cosmologia

La radiazione cosmica di fondo misurata da ACT trasporta segnali estremamente deboli, difficilissimi da isolare dalle possibili contaminazioni.

“Per ottenere queste nuove immagini, abbiamo effettuato un’esposizione di cinque anni con un telescopio sensibile alle lunghezze d’onda millimetriche”,

ha spiegato Mark Devlin, vicedirettore del progetto. ACT ha completato le sue osservazioni nel 2022 e l’attenzione si sta ora spostando verso il più avanzato Simons Observatory, situato nella stessa area del deserto di Atacama, in Cile, per il quale Federico Nati presso l’Università di Milano-Bicocca guida un ambizioso programma di calibrazione che fa uso di stelle artificiali trasportate da droni, grazie al prestigioso finanziamento europeo ERC Advanced.

Questa ricerca è supportata dalla U.S. National Science Foundation (AST-0408698, AST-0965625 e AST-1440226 per il progetto ACT, oltre ai grant PHY-0355328, PHY-0855887 e PHY-1214379), dall’Università di Princeton, dall’Università della Pennsylvania e da un grant della Canada Foundation for Innovation. Il progetto è guidato dall’Università di Princeton e dall’Università della Pennsylvania, con 160 collaboratori provenienti da 65 istituzioni. In Italia, le attività del gruppo di F. Nati presso l’Università di Milano Bicocca sono supportate dal finanziamento europeo ERC, POLOCALC, 101096035. ACT ha operato dal 2007 al 2022.

Atacama Cosmology Telescope sulle Ande Cilene. Crediti per la foto: Debra Kellner
Atacama Cosmology Telescope sulle Ande Cilene. Crediti per la foto: Debra Kellner

Riferimenti

The Atacama Cosmology Telescope: DR6 Maps https://doi.org/10.48550/arXiv.2503.14451

The Atacama Cosmology Telescope: DR6 Constraints on Extended Cosmological Models https://doi.org/10.48550/arXiv.2503.14454

The Atacama Cosmology Telescope: DR6 Power Spectra, Likelihoods and ΛCDM Parameters https://doi.org/10.48550/arXiv.2503.14452

Testi, video e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca

Big Wheel” (Ruota Panoramica), scoperta una galassia a disco sorprendentemente grande nell’universo primordiale

In un articolo su “Nature Astronomy”, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang, professore e post-doc del gruppo di ricerca “Cosmic Web” dell’Università di Milano-Bicocca, descrivono la rapida e inaspettata crescita di un enorme disco galattico nelle prime fasi di sviluppo dell’universo. Uno studio condotto grazie ai dati ricevuti dal James Webb Space Telescope e che apre una nuova finestra sulle fasi iniziali della formazione delle galassie.

La galassia Big Wheel (al centro) e il suo ambiente cosmico
La galassia Big Wheel (al centro) e il suo ambiente cosmico. La galassia è un gigantesco disco rotante a redshift z = 3,25, con chiari bracci a spirale. È finora unica per le sue grandi dimensioni del disco, che si estende per più di 30 kpc, più grande di qualsiasi altro disco di galassia confermato in questa epoca dell’universo

Milano, 17 marzo 2025 – Una galassia a disco sorprendentemente grande nell’universo primordiale, ovvero in un periodo cosmico iniziale – circa due miliardi di anni dopo il Big Bang – e che presenta quindi dimensioni più tipiche dei dischi galattici giganti dell’Universo attuale. È la scoperta del gruppo di ricerca “Cosmic Web”, nato all’interno dell’Unità di Astrofisica del dipartimento di Fisica dell’Università di Milano-Bicocca, riportata in un articolo pubblicato oggi su “Nature Astronomy” (“A giant disk galaxy two bilion years after the Big Bang”, DOI: 10.1038/s41550-025-02500-2), a firma di Weichen Wang e Sebastiano Cantalupo, rispettivamente assegnista di ricerca (post-doc) e professore ordinario dell’ateneo, oltre agli altri membri del gruppo “Cosmic Web” e collaboratori internazionali. Una scoperta basata sui dati ottenuti dai ricercatori di Milano-Bicocca dal James Webb Space Telescope (JWST), l’osservatorio spaziale più grande e potente mai costruito finora, erede di Hubble, frutto di una partnership tra la NASA, l’ESA e l’Agenzia spaziale canadese (Canadian Space Agency).

«Quando e come si formano i dischi galattici è ancora un enigma nell’astronomia moderna – afferma Sebastiano Cantalupo – I primi anni di osservazioni del James Webb Space Telescope hanno rivelato una pletora di dischi galattici nell’Universo primordiale, che corrisponde a un’epoca cosmica di undici miliardi di anni fa, o due miliardi di anni dopo il Big Bang. Prima della nostra osservazione, erano tuttavia stati scoperti da JWST solo dischi galattici molto più piccoli di quelli che vediamo nell’universo locale. Per questo motivo, si pensava fino ad ora che la formazione dei dischi più grandi avesse richiesto la maggior parte dell’età dell’universo. Per poter fare nuova luce sulla questione, abbiamo rivolto la nostra attenzione all’Universo primordiale e, in particolare, ad uno speciale ambiente cosmico».

Gli studiosi del Cosmic Web Group, hanno condotto il loro studio utilizzando nuove osservazioni dal JWST, integrate da dati provenienti da altre strutture come il telescopio spaziale Hubble, il Very Large Telescope (VLT) e l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA). Queste osservazioni erano mirate verso una specifica regione del cielo, che si trova a 11-12 miliardi di anni luce di distanza da noi e che è incorporata in una struttura su larga scala che probabilmente evolverà in un ammasso di galassie, una regione quasi unica nell’universo, eccezionalmente densa, con un’alta concentrazione di galassie, gas e buchi neri. «Un laboratorio nel quale si possono studiare i meccanismi di formazione delle galassie. Infatti, grazie alla velocità finita della luce, osservazioni e immagini del telescopio sono una foto di quella regione di cielo quando l’universo aveva “solo” 2 miliardi di anni».

«Utilizzando i dati di due strumenti – prosegue Weichen Wang – la Near-Infrared Camera e il Near-Infrared Spectrograph, a bordo del JWST, abbiamo identificato le galassie all’interno di questa regione iperdensa e abbiamo analizzato i loro redshift, la loro morfologia e la loro cinematica, tutti necessari per l’identificazione dei dischi galattici. Le osservazioni ci hanno portato alla scoperta di un disco sorprendentemente grande nella struttura su larga scala. Questa galassia, che abbiamo chiamato “Big Wheel”, o “Ruota Panoramica” in italiano date le sue enormi dimensioni (Figura 1), ha un raggio effettivo (cioè il raggio che contiene metà della luce totale) di circa 10 kiloparsec. “Big Wheel” è circa tre volte più grande delle galassie scoperte in precedenza con masse stellari e tempi cosmici simili, ed è anche almeno tre volte più grande di quanto previsto dalle attuali simulazioni cosmologiche. È invece paragonabile alle dimensioni della maggior parte dei dischi massicci visti nell’attuale Universo».

Ulteriori analisi spettroscopiche hanno confermato che “Big Wheel” è un disco che ruota come una galassia a spirale, ovvero come la Via Lattea, la nostra galassia».

La crescita precoce e rapida di questo disco potrebbe essere correlata al suo ambiente altamente sovradenso, che, a differenza di quanto dicano i modelli di formazione galattica più diffusi, potrebbe offrire condizioni fisiche favorevoli a questa formazione precoce.

«Ambienti eccezionalmente densi come quello che ospita la Big Wheel rimangono un territorio relativamente inesplorato – conclude Sebastiano Cantalupo –. Sono necessarie ulteriori osservazioni mirate per costruire un campione statistico di dischi giganti nell’Universo primordiale e aprire così una nuova finestra sulle fasi iniziali della formazione delle galassie».

Il gruppo di ricerca Cosmic Web. Il quarto da sinistra Sebastiano Cantalupo. In piedi Weichen Wang
Il gruppo di ricerca Cosmic Web. Il quarto da sinistra Sebastiano Cantalupo. In piedi Weichen Wang

Sebastiano Cantalupo, Weichen Wang e il Cosmic Web Group

Classe 1980, Sebastiano Cantalupo è professore ordinario di Astrofisica all’Università di Milano-Bicocca. Vincitore di un finanziamento ERC (European Research Council) nel 2020, rientra in Italia dopo 17 anni all’estero (Politecnico di Zurigo,Università di CambridgeUniversità della California a Santa Cruz), scegliendo l’Università di Milano-Bicocca per proseguire le sue linee di ricerca. Cantalupo guida un team chiamato “Cosmic Web”, dal nome del suo progetto di ricerca, formato da otto ricercatori e, oltre all’ERC, ha ricevuto nel 2020 un finanziamento da Fondazione Cariplo (bando “Attrattività e competitività su strumenti dell’European Research Council”) e un ulteriore supporto, nel 2021, dal bando Fare, il programma MUR (Ministero Università e Ricerca) per la ricerca di eccellenza.

Weichen Wang è nato nel 1994. Si è laureato (bachelor degree) in Fisica nel 2016 alla Tsinghua University di Pechino e ha conseguito nel 2022 un dottorato in Astrofisica alla Johns Hopkins University di Baltimora. Dal 2022 è assegnista di ricerca (post-doc) all’Università di Milano-Bicocca.

Da sinistra, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang
Da sinistra, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang

Testo e immagini dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca

SOLARIS: LE PRIME IMMAGINI IN BANDA RADIO DEL SOLE DAL NUOVO OSSERVATORIO ITALIANO IN ANTARTIDE

Da oggi, l’osservazione del Sole alle alte frequenze radio si arricchisce dei dati di Solaris, progetto scientifico coordinato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica nell’ambito del Piano Nazionale di Ricerca in Antartide (PNRA). Partendo dal Polo Sud, Solaris punta a espandersi anche nell’emisfero settentrionale, creando una rete globale per un monitoraggio continuo del Sole, con importanti applicazioni per la meteorologia dello spazio.

Prima immagine del Sole in banda radio, osservato alla frequenza di 95 GHz in Antartide il 27 dicembre 2024. Crediti: Team Solaris
Prima immagine del Sole in banda radio, osservato alla frequenza di 95 GHz in Antartide il 27 dicembre 2024. Crediti: Team Solaris

Milano, 3 marzo 2025 – L’osservatorio Solaris è un innovativo progetto scientifico e tecnologico – frutto di una collaborazione tra diverse istituzioni scientifiche nazionali coordinate dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), dall’Università degli Studi di Milano e dall’Università di Milano-Bicocca nell’ambito del PNRA (Piano Nazionale di Ricerca in Antartide) – finalizzato allo sviluppo di un sistema di monitoraggio continuo del Sole alle alte frequenze radio, per studi di fisica fondamentale, climatologia spaziale e interazioni Terra-Sole.

Nonostante sia attivo da pochissimo tempo e ancora nelle fasi iniziali di sviluppo (è infatti passato poco più di un anno dalla sua costituzione), Solaris ha già prodotto dati interessanti dal punto di vista scientifico per applicazioni di climatologia spaziale, in particolare mappe solari che consentono di studiare in banda radio a 95 gigahertz l’evoluzione della regione attiva che ha prodotto le tempeste solari responsabili dell’aurora di capodanno, visibile anche alle nostre latitudini. Le immagini sono state ottenute nelle scorse settimane, e sono tuttora in fase di analisi e interpretazione da parte di un team multidisciplinare di esperti.

“La possibilità di monitorare, comprendere e prevedere la mutevole fenomenologia solare e il suo notevole impatto con l’ambiente spaziale e il nostro pianeta è una sfida che acquista sempre più importanza” dice Alberto Pellizzoni, astrofisico INAF e responsabile scientifico del progetto Solaris, che prosegue: “Per affrontare questa sfida è necessario investire per trasformare e potenziare strumenti già esistenti o crearne di nuovi in una efficiente rete solare internazionale, anche nel contesto degli accordi in essere tra diversi Enti in Italia (INAF, INGV, ASI, Aeronautica Militare e varie Università) per sviluppare servizi dedicati allo Space Weather, e capire come il Sole influisca sulle nostre tecnologie e la nostra vita sulla Terra”.

Il progetto Solaris prevede l’implementazione di ricevitori radioastronomici dedicati e intercambiabili su piccoli radiotelescopi della classe di 2.6 metri di diametro, già presenti in Antartide nelle basi italiane Mario Zucchelli e Concordia e adattati per osservazioni solari ad alta frequenza, dell’ordine delle decine di giga hertz (Ghz). Ciò consente di ricevere onde radio emesse dal Sole, la cui lunghezza d’onda varia da qualche centimetro a qualche millimetro. Con questo tipo di osservazioni è possibile avere una nuova “finestra” in cui studiare il Sole e i suoi fenomeni, rilevando con precisione la temperatura e i brillamenti della corona solare e fare previsioni sulle possibili tempeste geomagnetiche. Al progetto, oltre alle sedi INAF di Cagliari, Bologna, Trieste, Milano e alle Università degli Studi di Milano e Milano-Bicocca, partecipano le Università di Roma Sapienza, Tor Vergata e Roma Tre, l’Agenzia Spaziale Italiana, l’Aeronautica Militare Italiana, l’Università Cà Foscari di Venezia, il Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Francesco Cavaliere e Marco Potenza, del Dipartimento di Fisica dell’Università di Milano, affermano: “Vediamo finalmente venire alla luce i primi risultati di un lungo progetto a cui abbiamo lavorato per quasi dieci anni, dopo che il PNRA ci aveva chiesto di prenderci carico delle infrastrutture nelle due basi. Il lavoro da fare è ancora moltissimo, ma i primi risultati sono di grande soddisfazione anche in funzione delle scarsissime risorse che abbiamo avuto a disposizione. La riuscita di questa prima fase è anche una valorizzazione delle attività svolte proprio a Milano, dove abbiamo un telescopio prototipo con cui validare tutte le procedure e risolvere gran parte dei problemi prima di arrivare a lavorare al Polo”.

“Solaris rappresenta uno dei progetti di punta del PNRA in campo astrofisico ed uno tra i più promettenti programmi astrofisici che operano nelle aree polari a livello internazionale – sostiene Massimo Gervasi, docente dell’Università di Milano-Bicocca e membro del Physical Science Group dello SCAR (Scientific Committee on Antarctic Research) -. L’analisi delle immagini di Solaris, correlata con le immagini fornite dai satelliti a più alte energie da un lato e i dati sulle particelle energetiche solari dall’altro, aiuterà a comprendere meglio i fenomeni fisici che stanno alla base delle emissioni solari energetiche”.

Gallery, crediti per le foto: Luca Teruzzi – Università di Milano

In presenza di condizioni di visibilità del cielo ottimali come quelle antartiche, Solaris sarà l’unica installazione a offrire un monitoraggio continuo del Sole ad alte frequenze radio permettendo di osservare le variazioni che avvengono nella cromosfera solare, uno strato dell’atmosfera della nostra stella in cui si formano fenomeni altamente energetici come brillamenti ed espulsioni di massa coronale. Monitorare le variazioni in questa banda radio permette di identificare segnali precursori di tempeste geomagnetiche, che potrebbero interferire con le nostre tecnologie nello spazio e a terra.

Gallery, crediti per le foto: Francesco Cavaliere – Università di Milano

La scelta di posizionare a una latitudine così meridionale Solaris non è dovuta solo alla limpidezza dell’atmosfera, garantita dalla bassa umidità che altrimenti assorbirebbe i segnali radio ad alta frequenza, ma anche e soprattutto alla lunga persistenza del Sole nel cielo durante l’estate antartica (che corrisponde al nostro periodo invernale), seppure molto basso rispetto all’orizzonte. Nei pressi dei poli terrestri, infatti, è possibile – durante i rispettivi periodi estivi – osservare la nostra stella per oltre 20 ore al giorno.

Per poter offrire un monitoraggio solare costante durante tutto l’anno, il progetto Solaris sarà dunque implementato anche nell’emisfero settentrionale con lo sviluppo di una stazione sulle Alpi (presso l’Osservatorio climatico Testa Grigia del CNR, a 3500 metri s.l.m., in Valle D’Aosta) e altre in Scandinavia e regioni Artiche, grazie all’interesse internazionale destato da queste prospettive.

Il Sito web del progetto Solaris: https://sites.google.com/inaf.it/solaris

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano e dagli Uffici Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca

Nasce la Fondazione Bicocca, una nuova rete per l’alta formazione, la ricerca e il trasferimento tecnologico 

Presentata oggi, supporterà l’Università di Milano-Bicocca nelle attività didattiche e scientifiche e di terza missione, aumentando la competitività dell’ateneo e potenziandone l’impatto sul territorio e sul panorama accademico nazionale e internazionale.

Milano, 24 febbraio 2025 – Supportare e valorizzare le attività di alta formazione, ricerca e trasferimento tecnologico – attraverso iniziative di promozione e sostegno finanziario e strategie di cooperazione nazionale e internazionale – per contribuire alla crescita economica del Paese, mettendo in stretta connessione mondo accademico e produttivo. È la mission della Fondazione Bicocca, il nuovo ente costituito dall’Università di Milano-Bicocca presentato oggi nell’Aula Magna dell’ateneo, durante l’evento “Connessioni per il futuro”, alla presenza della rettrice Giovanna Iannantuoni, del presidente della Fondazione e prorettore vicario dell’ateneo Marco Orlandi, del sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri Alessandro Morelli, dell’assessore allo Sviluppo economico di Regione Lombardia Guido Guidesi e dell’assessora allo Sviluppo economico e politiche del lavoro del Comune di Milano Alessia Cappello.

La Fondazione Bicocca è una fondazione di partecipazione, senza scopo di lucro, e nasce per favorire la partnership tra ateneo e soggetti esterni, la collaborazione tra pubblico e privato.

Sue finalità principali sono:

  • Il sostegno all’imprenditorialità accademica e alla valorizzazione della proprietà intellettuale;

  • Il supporto ai servizi per gli studenti e alle iniziative di orientamento;

  • La partecipazione a progetti internazionali, europei e nazionali per attrarre finanziamenti a sostegno della ricerca e dell’innovazione.

Fondazione Bicocca avrà il suo quartier generale nella sede principale dell’Università, nell’Edificio U6 “Agorà”. A poca distanza, in BiM – il grande progetto di rigenerazione urbana promosso da Aermont Capital e Kervis SGR che sta trasformando un iconico edificio di Vittorio Gregotti in una work destination all’avanguardia – troverà casa il Bicocca Pavilion, il nuovo Innovation Hub della Fondazione Bicocca, che mette in relazione le eccellenze dell’Ateneo con il mondo delle imprese.

Il Bicocca Pavilion, l’innovation hub della fondazione
Il Bicocca Pavilion, l’innovation hub della fondazione

Il Pavilion, progettato da Piuarch e costruito al centro della piazza, immerso nel verde, sarà uno spazio polifunzionale dal design distintivo e flessibile, pensato per ospitare un ecosistema evoluto di imprese e professionisti, favorendo il dialogo e le sinergie. L’inaugurazione del Bicocca Pavilion avverrà il 14 aprile.

Nello specifico, la Fondazione opera nei seguenti ambiti:

  • Alta Formazione: Gestione e promozione di tutti i Master di I e II livello, corsi professionalizzanti, summer e winter school e convegni accademici, con l’obiettivo di aumentare del 10 per cento l’offerta formativa a partire dall’anno accademico 2025-2026;

  • Ricerca e trasferimento tecnologico: promozione e valorizzazione dei risultati della ricerca universitaria attraverso il supporto alla brevettazione e alla partnership con imprese ed enti pubblici, con lo scopo di incrementare del 10 per cento i proventi da collaborazioni con aziende;

  • Eventi e public engagement: coordinamento e organizzazione di hackathon, workshop e conferenze per promuovere la ricerca, condividerne la conoscenza con il pubblico e attrarre sponsorizzazioni private. È prevista l’organizzazione di almeno 10 eventi sponsorizzati all’anno.


«La creazione della Fondazione Bicocca rappresenta un passo strategico per il nostro ateneo – afferma la rettrice dell’Università di Milano-Bicocca Giovanna Iannantuoni – introducendo una serie di vantaggi operativi, gestionali e strategici che integrano e potenziano le attività già svolte. La Fondazione potenzia e amplifica l’impatto dell’Università sul territorio e nel panorama accademico nazionale e internazionale. Milano-Bicocca si pone all’avanguardia nella creazione di un ecosistema accademico-innovativo, in grado di rispondere alle sfide del futuro con strumenti più efficaci e competitivi».

«Grazie alla Fondazione – dichiara il presidente della Fondazione e prorettore vicario dell’ateneo, Marco Orlandi – potremo ottimizzare la gestione di iniziative chiave per la formazione, il trasferimento tecnologico e la valorizzazione della ricerca, consolidando il ruolo dell’Università di Milano-Bicocca come polo di eccellenza. Vogliamo che la Fondazione diventi un punto di riferimento per la valorizzazione della conoscenza e dell’innovazione tecnologica, promuovendo sinergie con il mondo imprenditoriale e con le istituzioni pubbliche».

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca

La “ragnatela cosmica” della materia oscura che forma l’Universo fotografata da ricercatori di Milano-Bicocca

Grazie a uno studio dell’Università di Milano-Bicocca, ottenute le prime immagini del filamento cosmico che unisce due galassie in formazione, risalente a quando l’Universo aveva solo 2 miliardi di anni

Milano, 30 gennaio 2025 – Le prime immagini ad alta definizione della “ragnatela cosmica” che struttura l’Universo sono state ottenute grazie a uno studio guidato da ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). Grazie a MUSE (Multi-Unit Spectroscopic Explorer), innovativo spettrografo installato presso il Very Large Telescope dell’European Southern Observatory, in Cile, il team ha catturato una struttura cosmica risalente a un Universo molto giovane. La scoperta è stata recentemente pubblicata su Nature Astronomy nell’articolo “High-definition imaging of a filamentary connection between a close quasar pair at z=3” e apre una nuova prospettiva per comprendere l’essenza della materia oscura.

Sfruttando le capacità offerte dal sofisticato strumento, il gruppo di ricerca coordinato da Michele Fumagalli e Matteo Fossati, professori nell’unità di Astrofisica dell’Università di Milano-Bicocca, ha condotto una delle più ambiziose campagne di osservazione con MUSE mai completata in una singola regione di cielo, acquisendo dati per centinaia di ore. 

Un solido pilastro della cosmologia moderna è l’esistenza della materia oscura che, costituendo circa il 90% di tutta la materia presente nell’Universo, determina la formazione e l’evoluzione di tutte le strutture che osserviamo su grandi scale nel Cosmo.

«Sotto l’effetto della forza di gravità, la materia oscura disegna un’intricata trama cosmica composta da filamenti, alle cui intersezioni si formano le galassie più brillanti», ha spiegato Michele Fumagalli. «Questa ragnatela cosmica è l’impalcatura su cui si creano tutte le strutture visibili nell’Universo: all’interno dei filamenti il gas scorre per raggiungere e alimentare la formazione di stelle nelle galassie».

«Per molti anni, le osservazioni di questa ragnatela cosmica sono state impossibili: il gas presente in questi filamenti è infatti così diffuso da emettere solo un tenue bagliore, indistinguibile dagli strumenti allora disponibili», commenta Matteo Fossati.

MUSE, grazie alla sua elevata sensibilità alla luce, ha consentito agli scienziati di ottenere immagini dettagliate di questa ragnatela cosmica. Lo studio – guidato da Davide Tornotti, dottorando dell’Università di Milano-Bicocca, e collaboratori – ha utilizzato questi dati ultrasensibili per produrre l’immagine più nitida mai ottenuta di un filamento cosmico che si estende su una distanza di 3 milioni di anni luce attraverso due galassie che ospitano ciascuna un buco nero supermassiccio.

«Catturando la debole luce proveniente da questo filamento, che ha viaggiato per poco meno di 12 miliardi di anni prima di giungere a Terra, siamo riusciti a caratterizzarne con precisione la forma e abbiamo tracciato, per la prima volta con misure dirette, il confine tra il gas che risiede nelle galassie e il materiale contenuto nella ragnatela cosmica», spiega Davide Tornotti. «Attraverso alcune simulazioni dell’Universo con i supercomputer, abbiamo inoltre confrontato le previsioni del modello cosmologico attuale con i nuovi dati, trovando un sostanziale accordo tra la teoria corrente e le osservazioni».

«Quando quasi 10 anni fa Michele Fumagalli mi ha proposto di partecipare a queste osservazioni ultra-profonde con lo strumento MUSE ho accettato con grande entusiasmo perché le potenzialità dello studio erano veramente moltissime», commenta Valentina D’Odorico, ricercatrice INAF e co-autrice del lavoro. «Abbiamo già pubblicato vari lavori basati su questi dati, ma il risultato ottenuto nell’articolo guidato da Tornotti può essere considerato il coronamento del progetto. Infatti, non solo vengono identificate le sovradensità occupate dai nuclei galattici attivi presenti nel campo e il filamento che li unisce, ma tali strutture confrontate in modo quantitativo con le predizioni di simulazioni numeriche sono in accordo con un modello di formazione delle strutture cosmiche che adotta materia oscura fredda».

La ricerca è stata supportata da Fondazione Cariplo e dal Ministero dell’Università e Ricerca attraverso il Progetto Dipartimenti di Eccellenza 2023-2027 (BiCoQ, Bicocca Centre for Quantitative Cosmology).

Riferimenti bibliografici:

Tornotti, D., Fumagalli, M., Fossati, M. et al. High-definition imaging of a filamentary connection between a close quasar pair at z = 3, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-024-02463-w

Testo e immagini dagli Uffici Stampa dell’Università di Milano-Bicocca e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica

Cancro ovarico: un nuovo alleato diagnostico grazie all’intelligenza artificiale

L’Intelligenza artificiale potrebbe affiancare i medici nella definizione ecografica del rischio di malignità di formazioni ovariche. Lo dimostra un nuovo studio a cui hanno partecipato l’Università di Milano-Bicocca e la Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori.

 

Milano, 22 gennaio 2025 – Individuare un tumore in fase precoce è fondamentale per garantire una prevenzione e una cura efficaci. Oggi c’è un alleato in più, che sta imparando molto in fretta ed è sempre più preciso: si tratta dell’intelligenza artificiale. Lo dice un recente studio, pubblicato sulla rivista Nature Medicine, a cui ha collaborato Robert Fruscio, professore associato in Ginecologia e Ostetricia dell’Università di Milano-Bicocca e direttore della Struttura semplice di Ginecologia Preventiva della Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori: la ricerca, condotta da un team del Karolinska Institutet in Svezia, ha coinvolto 20 centri in otto Paesi e ha analizzato un dataset di oltre 17.000 immagini ecografiche provenienti da più di 3.600 pazienti, tra cui alcune che si sono rivolte all’Ospedale San Gerardo di Monza. L’obiettivo è stato quello di addestrare un programma di Intelligenza artificiale a distinguere, in queste immagini, le lesioni ovariche benigne da quelle maligne e testare le potenzialità di questi modelli nel supportare le diagnosi mediche, ridurre il margine di errore diagnostico e migliorare la gestione clinica delle pazienti.

«Le lesioni ovariche sono comuni e spesso rilevate incidentalmente, per questo è fondamentale, al fine di impostare un trattamento corretto, definirne il più precisamente possibile il rischio di malignità», spiega Robert Fruscio. «Abbiamo sviluppato e validato un sistema di Intelligenza artificiale in grado di distinguere, a partire da un’immagine ecografica, le lesioni ovariche benigne e quelle maligne. Abbiamo poi confrontato le prestazioni dell’IA con quelle di operatori ecografici esperti (tra i quali io e altri colleghi da tutto il mondo) e di operatori non esperti. Il modello si è rivelato superiore, seppur di pochissimo, agli esperti e significativamente migliore dei non esperti».

I modelli basati sull’Intelligenza artificiale, nello specifico, hanno raggiunto un tasso di accuratezza nell’individuazione del cancro ovarico dell’86%, rispetto all’82% degli esperti umani e al 77% di quelli con minore esperienza. I risultati sono stati consistenti indipendentemente dall’età dei pazienti, dai dispositivi ecografici utilizzati e dai contesti clinici.

L’importanza di questa sperimentazione avviene in un contesto generale in cui gli operatori esperti scarseggiano in molte parti del mondo e non sono disponibili in tutti gli ospedali. La carenza di ecografisti esperti ha come conseguenza da una parte l’esecuzione di interventi chirurgici non necessari e dall’altra una diagnosi ritardata di cancro.

«I modelli di intelligenza artificiale potrebbero quindi costituire un ausilio per gli operatori meno esperti nel processo di selezione di pazienti da inviare a centri di secondo livello e, dall’altra parte, evitare chirurgie inutili in pazienti con lesioni a basso rischio», continua Robert Fruscio. «In generale, è il classico caso in cui la IA non si sostituisce all’uomo, ma potrebbe migliorare l’efficienza di tutto il sistema e la gestione delle pazienti».

Sempre secondo lo studio, in una simulazione di triage, il supporto diagnostico guidato dall’IA ridurrebbe del 63% i rinvii agli esperti, superando significativamente le prestazioni diagnostiche della pratica corrente. Pur sottolineando che sono necessari ulteriori studi prospettici e randomizzati per convalidare il beneficio clinico e le prestazioni diagnostiche dei modelli di Intelligenza artificiale, lo studio offre spunti di riflessione sull’applicabilità dei sistemi di supporto diagnostico guidati dall’IA per la diagnosi del cancro ovarico.

Riferimenti bibliografici:

Christiansen, F., Konuk, E., Ganeshan, A.R. et al. International multicenter validation of AI-driven ultrasound detection of ovarian cancer, Nat Med 31, 189–196 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41591-024-03329-4

causa rischio metastasi tumore al seno
Foto di StockSnap

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca

Benessere socioeconomico e tutela dell’ambiente: nessun Paese al mondo li garantisce entrambi

Un nuovo studio dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Ecological Indicators conferma che nessuna nazione rientra nella “ciambella”, la teoria che definisce lo “spazio sicuro e giusto” per l’umanità

C’è uno “spazio sicuro e giusto” per l’umanità che si definisce a partire da indicatori ambientali e socioeconomici, è la teoria economica della cosiddetta “ciambella” lanciata da Kate Raworth, studiosa delle Università di Oxford e di Cambridge. Nessun paese al mondo oggi ci starebbe dentro. Da qui è partita la scommessa di due ricercatori, Tommaso Luzzati dell’Università di Pisa e Gianluca Gucciardi dell’Università degli studi di Milano-Bicocca: cosa succederebbe se si adottassero criteri meno rigidi rispetto a quelli impiegati dagli studi esistenti? Il risultato, come mostra un articolo pubblicato sulla rivista Ecological Indicators, è che, purtroppo, non cambierebbe niente. Nessun paese si salverebbe ancora.

Lo studio di Gucciardi e Luzzati ha analizzato la performance di 81 nazioni stilando anche diverse graduatorie. Come linea generale è emerso che i paesi ricchi sforano i limiti ambientali planetari, mentre quelli poveri non riescono a garantire i livelli minimi di benessere.

“Come è normale che sia, specie per le classifiche, le cose non sono mai bianche o nere, ciò premesso – dice Luzzati – abbiamo trovato che 26 paesi rispettano i parametri socioeconomici. Ai primi posti, come immaginabile, ci sono i paesi scandinavi, ma anche Belgio e Svizzera. L‘Italia raggiunge la “sufficienza” e si colloca al 19mo posto, superando fra le più grandi nazioni europee solo Portogallo, Spagna e Ungheria”.

“Per quanto riguarda gli indicatori ambientali – continua Luzzatti – rispettano i parametri 31 paesi del sud globale, tra cui Malawi, Bangladesh, Tajikistan, Nigeria e Mozambico. Infine, non stanno nella ciambella ma si avvicinano ad essa diversi paesi del Centro e Sud America, quali Messico, Costa Rica, Panama, Ecuador, Colombia, Perù e Cile, in Europa Croazia e Bulgaria e in Asia Cina e Thailandia”.

In totale, lo studio ha preso in considerazione 6 indicatori ambientali (emissioni di CO2, fosforo, azoto, uso del suolo, impronta ecologica e impronta materiale, ovvero il peso complessivo di tutti i materiali  estratti dall’ambiente per sostenere la crescita economica) e 11 indicatori socioeconomici (soddisfazione nella vita, aspettativa di vita sana, alimentazione,  servizi igienico-sanitari, reddito, accesso all’energia, istruzione, sostegno sociale, qualità della democrazia, uguaglianza, occupazione).

“Abbiamo affrontato la questione costruendo due serie separate di indicatori compositi per le dimensioni sociale e ambientale – conclude Luzzati – ma anche con criteri meno rigorosi, nessun paese attualmente si salverebbe, il che indica ancora un divario sostanziale da colmare sia nelle politiche sociali che ambientali”.

Tommaso Luzzati è professore Economia politica al Dipartimento di Economia e Management e fa parte del REMARC Responsible Management Research Center dell’Ateneo pisano.

il professor Tommaso Luzzati
Benessere socioeconomico e tutela dell’ambiente: nessun Paese al mondo li garantisce entrambi; lo studio pubblicato su Ecological Indicators. In foto, il professor Tommaso Luzzati

Link all’articolo scientifico: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1470160X24013219

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.

Ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca scoprono una nuova emoglobina grazie alla tecnologia più avanzata: è l’Emoglobina Monza

Si chiama Emoglobina Monza ed è una nuova variante di emoglobina instabile associata ad anemia emolitica acuta in età pediatrica: è stata identificata alla Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza e studiata grazie all’intelligenza artificiale e ad altre tecniche avanzate.

Milano, 19 dicembre 2024 – Una nuova variante emoglobinica, denominata “Emoglobina Monza”, è stata individuata da un gruppo di ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca. Questa variante, causata da una duplicazione di 23 aminoacidi nel gene dell’emoglobina (HBB), comporta instabilità della proteina, provocando episodi di anemia emolitica acuta, soprattutto in occasione di episodi febbrili. La scoperta, pubblicata sulla rivista Med di Cell Press, apre il campo a nuove prospettive per lo studio di queste rare patologie grazie all’utilizzo di tecniche di Intelligenza artificiale.

Il caso clinico che ha portato alla scoperta è stato quello di una bambina di origine cinese che, a seguito di un episodio febbrile, ha sviluppato una grave anemia emolitica, condizione patologica caratterizzata da una distruzione accelerata dei globuli rossi, a un ritmo superiore alla capacità del midollo osseo di produrli. Le conseguenze della patologia possono essere gravi, specialmente in età pediatrica quando gli episodi acuti possono compromettere seriamente lo stato di salute dei piccoli pazienti.

«Esistono varianti emoglobiniche, note come “emoglobine instabili”, che tendono a essere degradate (ovvero distrutte) sotto stress fisici, come gli episodi febbrili, scatenando così crisi emolitiche. A causarle generalmente sono alterazioni puntiformi nella sequenza amminoacidica dell’emoglobina, che modifica la stabilità e la funzionalità della proteina stessa», spiega Carlo Gambacorti-Passerini, direttore del reparto di Ematologia della Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza e professore presso l’Università di Milano-Bicocca, che ha coordinato il progetto di ricerca.

La piccola paziente è stata seguita presso la Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza dalla pediatra Paola Corti e dal tecnico Amedeo Messina, che hanno realizzato che l’anemia era dovuta a una variante anomala di emoglobina con un comportamento instabile in situazioni di stress. Indagini successive hanno rivelato che anche la madre e i due fratelli della bambina possedevano la stessa variante e manifestavano episodi simili nel corso di episodi febbrili. Un’analisi genetica specifica ha mostrato che la variante non solo era inedita, ma era anche caratterizzata da una duplicazione molto lunga (23 aminoacidi) del gene che codifica la catena beta dell’Emoglobina (HBB), una caratteristica mai osservata prima in altre emoglobine instabili.

Le duplicazioni lunghe nel gene HBB sono molto rare e sono state sempre associate a un’altra malattia, la beta-talassemia. Infatti, si è sempre ritenuto che le lunghe duplicazioni comportino un’alterata interazione tra le due catene che compongono l’emoglobina, Beta e Alfa. Il dottor Ivan Civettini, ematologo, ora dottorando presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele, e la dottoressa Arianna Zappaterra, medico presso la divisione di Ematologia della Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza, si sono quindi chiesti come una mutazione di tale portata potesse comunque consentire all’emoglobina di mantenere una funzionalità normale, almeno in condizioni fisiologiche. 

«La struttura della variante emoglobinica è stata ricreata utilizzando tecniche di modeling tridimensionale e intelligenza artificiale (reti neurali), recentemente premiate con il Nobel per la chimica», precisa Ivan Civettini. «In condizioni normali, il legame tra le due catene dell’emoglobina è preservato e la duplicazione si presenta come una lunga protrusione che sbatte un po’ come una banderuola nel vento, al di fuori della struttura proteica dell’emoglobina. Inoltre abbiamo osservato che questa mutazione non compromette il centro attivo dell’emoglobina, dove avviene il legame con ossigeno e ferro. In sintesi, in condizioni normali, l’emoglobina Monza resta stabile e il legame preservato tra le catene dell’emoglobina non causa beta-talassemia».

Che cosa avviene dunque nel sangue durante l’episodio febbrile? Per ricreare questa condizione sono state utilizzate ulteriori tecniche computazionali avanzate, note come “dinamica molecolare”. È stato ricreato un fluido con la stessa “salinità” del sangue umano, dove è stata inserita l’emoglobina normale e l’emoglobina Monza e che è stato portato alla temperatura di 38°C, come durante un episodio febbrile. Risultato? L’Emoglobina Monza si degrada più velocemente di quella normale, perdendo il contatto con l’atomo di ferro. Questi esperimenti sono stati eseguiti in collaborazione col professor Alfonso Zambon dell’Università di Modena e Reggio Emilia.

«La scoperta offre nuovi spunti per comprendere meglio varianti rare di emoglobina, ma che diverranno sempre più frequenti in Italia con l’aumento di etnie diverse da quella caucasica», aggiunge Carlo Gambacorti-Passerini. «L’uso di tecniche computazionali moderne e l’ausilio dell’intelligenza artificiale hanno reso questo tipo di studi più rapido ed economico rispetto a metodi tradizionali come, per esempio, la cristallografia a raggi X. Un’ulteriore prova dell’importanza della collaborazione tra diverse istituzioni nella medicina moderna».

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca

A Milano-Bicocca un ERC Consolidator Grant da 2 milioni di euro al Progetto MATRICs, per studiare come le emissioni vulcaniche di CO2 abbiano influenzato l’evoluzione del clima

Con il finanziamento europeo vinto dal professore del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra Pietro Sternai, il progetto di ricerca MATRICs ricostruirà gli effetti delle emissioni vulcaniche di CO2 sul clima nel passato geologico della Terra per migliorare la comprensione delle conseguenze delle emissioni antropiche sul clima presente e futuro

Milano, 3 dicembre 2024 – Studiare come le emissioni di CO2 dai vulcani abbiano influenzato il clima nel passato geologico per migliorare le previsioni dei cambiamenti climatici futuri dovuti alle emissioni antropiche di anidride carbonica. È l’obiettivo del progetto di ricerca “MATRICs” (“Magmatic Triggering of Cenozoic Climate Changes”, tradotto: “Innesco magmatico dei cambiamenti climatici del Cenozoico), coordinato da Pietro Sternai, professore di Geofisica al dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università di Milano-Bicocca, che è stato appena premiato dall’Unione Europea con un ERC da 2 milioni di euro, della durata di 5 anni, nella categoria Consolidator Grant.

Gli ERC Consolidator Grant vengono assegnati dall’European Research Council a quei ricercatori che vantano una decina di anni di esperienza di riconosciuto valore alle spalle e che siano promotori di un progetto di ricerca ritenuto eccellente e particolarmente innovativo. Pietro Sternai coinvolgerà un’equipe di 3 dottorandi e 4 assegnisti di ricerca.

Il progetto “MATRICs” prende spunto da una constatazione.

«Conosciamo l’evoluzione del clima durante l’Era Cenozoica, da 60 milioni circa di anni fa fino a oggi, ma non sappiamo con certezza quali siano stati i motori dei suoi cambiamenti»,

afferma Pietro Sternai. Il primo obiettivo è fare luce sui possibili effetti di uno di questi: lo spegnimento di un arco vulcanico che si estendeva a sud del continente asiatico ma che scomparve dopo la collisione con il continente indiano per effetto della tettonica delle placche.

«La collisione tra India e Asia, tutt’ora in corso e iniziata tra 60 e 50 milioni di anni fa – prosegue il professore di Milano-Bicocca – oltre a portare alla formazione dell’Himalaya e del Tibet con grandi effetti a lungo termine sul clima globale provocò anche lo spegnimento di un arco magmatico che si estendeva per oltre 5mila chilometri, paragonabile a quello che c’è oggi nelle Ande. La domanda del progetto è: cosa succede al clima se cessano le emissioni di CO2 di un arco vulcanico di quel tipo? Il clima si raffredda? Si riscalda? Vogliamo capire come questo processo di variazione del magmatismo possa avere influenzato l’evoluzione del clima su scala globale, durante il Cenozoico inferiore».

Progetto MATRICs  Pietro Sternai nel suo ufficio con in mano un campione di Riolite proveniente dalle rocce magmatiche di Linzizong, nel Linzhou b​asin, in Tibet 
Pietro Sternai nel suo ufficio con in mano un campione di Riolite proveniente dalle rocce magmatiche di Linzizong, nel Linzhou b​asin, in Tibet

L’attività di ricerca prevede analisi petrografiche e geochimiche di campioni di roccia provenienti da tre zone situate lungo il margine collisionale e oggi oggetto di studio geologico: in Iran, nel Ladakh (India nord-occidentale) e in Tibet. «Andremo a campionare le rocce magmatiche – spiega Sternai – e misureremo il loro contenuto di CO2. Campioneremo anche rocce sedimentarie per rilevarne i valori di mercurio e tellurio, che possono dare informazioni indirette sull’attività magmatica in quelle tre zone. I valori misurati verranno interpretati con modelli numerici, integrandoli alla scala di tutto l’arco magmatico, per stimare l’effetto che potrebbe avere avuto sul clima e sul ciclo del carbonio la variazione di emissioni di CO2 dovuta alla cessazione dell’attività vulcanica».

Obiettivo finale: una volta validato il modello, comprendere cosa il passato possa rivelarci sul futuro. «Definita una correlazione tra le emissioni di CO2 vulcanica e le variazioni climatiche sul lungo periodo, l’ipotesi è quella di confrontare i valori ottenuti con le emissioni di anidride carboniche antropiche e i cambiamenti climatici attuali e in divenire. La conoscenza che produrremo sul ciclo geologico del carbonio ci consentirà di valutare meglio i fattori trainanti della variabilità climatica naturale e, per confronto, le conseguenze climatiche delle attuali emissioni antropiche.», conclude il geologo.

Dal 2014 l’Università di Milano-Bicocca ha ricevuto finanziamenti per 19 progetti ERC: 8 Consolidator Grant, compreso quello di “MATRICs”, 2 Advanced Grant, 5 Starting Grant, 2 Proof of Concept e 2 Synergy Grant.

«Lo studio e la comprensione dei meccanismi alla base dei cambiamenti climatici – afferma Guido Cavaletti, prorettore alla Ricerca dell’Università di Milano-Bicocca – rivestono una rilevanza che appare sempre più significativa e spingono ad applicare metodologie sempre più sofisticate. L’approccio proposto da questo progetto è sicuramente molto innovativo, pienamente in linea con lo spirito di una università come Milano-Bicocca».

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca

A TEMPO DI PULSAR CON MEERKAT: UNA NUOVA MAPPA DELL’UNIVERSO NELLE ONDE GRAVITAZIONALI

La collaborazione MeerKAT Pulsar Timing Array (MPTA) ha confermato l’evidenza di un fondo cosmico di onde gravitazionali, un segnale che si ritiene derivi da una popolazione di coppie di buchi neri supermassicci spiraleggianti. Grazie alla sua sensibilità senza precedenti, l’esperimento MPTA si distingue come il rivelatore più potente di onde gravitazionali a frequenza ultra bassa nell’emisfero australe. Questa caratteristica ha consentito di mappare con precisione la distribuzione delle onde gravitazionali nell’universo.

Rappresentazione artistica delle onde gravitazionali e del cielo sopra una delle antenne del radiotelescopio sudafricano MeerKAT, gestito dall’Osservatorio SARAO. Crediti: Carl Knox, OzGrav, Swinburne University of Technology and South African Radio Astronomy Observatory (SARAO)
Rappresentazione artistica delle onde gravitazionali e del cielo sopra una delle antenne del radiotelescopio sudafricano MeerKAT, gestito dall’Osservatorio SARAO. Crediti: Carl Knox, OzGrav, Swinburne University of Technology and South African Radio Astronomy Observatory (SARAO)

Grazie a quasi 5 anni di osservazioni con il radiotelescopio sudafricano MeerKAT, un gruppo di ricerca guidato dalla collaborazione MeerKAT Pulsar Timing Array (MPTA) ha trovato ulteriori conferme all’ipotesi dell’esistenza di un fondo cosmico di onde gravitazionali aventi frequenze estremamente basse (1-10 nanoHertz), ottenendo la mappa finora più dettagliata della distribuzione di queste onde gravitazionali nell’Universo. Il segnale potrebbe provenire da una popolazione di coppie di buchi neri supermassicci spiraleggianti. Gli esiti di questo sforzo internazionale, che ha visto coinvolti anche ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università di Milano-Bicocca, hanno prodotto tre studi pubblicati oggi sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Le antenne che formano il radiotelescopio sudafricano MeerKAT. Crediti: Enrico Sacchetti / INAF

Il MeerKAT Pulsar Timing Array è un esperimento internazionale che utilizza il sensibilissimo radiotelescopio MeerKAT (gestito dal South African Radio Astronomy Observatory) proprio per osservare, circa ogni due settimane, decine e decine di pulsar e misurare il tempo di arrivo degli impulsi radio con una precisione che può raggiungere le decine di nanosecondi.

“Grazie a queste caratteristiche, MPTA costituisce il più potente rivelatore di onde gravitazionali di frequenza ultra bassa nell’intero emisfero australe”,

sottolinea Federico Abbate, ricercatore dell’INAF di Cagliari e tra gli autori di tutti e tre gli articoli pubblicati oggi.

Le pulsar, stelle di neutroni in rapida rotazione, fungono da orologi naturali e i loro impulsi radio regolari permettono agli scienziati di rilevare minime variazioni causate dal passaggio delle onde gravitazionali. Nel corso di questi anni abbiamo imparato a conoscere cosa sono queste onde gravitazionali, perturbazioni nel tessuto dello spazio-tempo teorizzate già negli anni venti dello scorso secolo da Albert Einstein e causate da alcuni degli eventi più potenti dell’Universo (per esempio la coalescenza di un sistema binario formato da due buchi neri). La sovrapposizione di queste onde, la cui rilevazione è particolarmente difficile, forma una sorta di ronzio cosmico che fornisce preziosi indizi sui processi nascosti che modellano la struttura dell’Universo.

Il team ha infatti trovato ulteriori forti indicazioni circa l’esistenza di segnali di onde gravitazionali provenienti dal lento spiraleggiare, uno attorno all’altro, di buchi neri supermassicci, catturando però un segnale più intenso rispetto a esperimenti simili in corso con altri strumenti. Ulteriori dati e tecniche di analisi ancora più avanzate sono adesso necessari per confermare tale ipotesi e individuare univocamente il sistema binario di buchi neri supermassicci.

“Siamo fortunati che la natura ci abbia fornito orologi così precisi distribuiti in tutta la nostra galassia, le cosiddette pulsar”,

aggiunge Kathrin Grunthal, ricercatrice del Max-Planck-Institut für Radioastronomie e prima autrice di uno degli articoli scientifici pubblicati oggi.

“Utilizzando MeerKAT, uno dei radiotelescopi più potenti al mondo, possiamo monitorare con precisione questi oggetti e cercare nel loro comportamento minuscoli cambiamenti causati dalle onde gravitazionali che risuonano attraverso l’Universo”.

 

“Studiare il ronzio delle onde gravitazionali ci permette di sintonizzarci sugli echi di eventi cosmici avvenuti nel corso di miliardi di anni”,

spiega Matthew Miles, ricercatore di OzGrav e della Swinburne University of Technology, nonché autore principale di due degli articoli pubblicati oggi su MNRAS.

Golam Shaifullah, ricercatore dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, a sua volta coinvolto nella ricerca, approfondisce:

“Rivelare onde gravitazionali a frequenze nell’ordine dei nanohertz ci permetterà non solo di cercare sistemi binari formati da buchi neri supermassicci, ma anche di aprire una finestra sulle fasi più antiche della formazione dell’Universo, oltre che su una varietà di processi fisici esotici.”

A 18 mesi di distanza dalla prima serie di pubblicazioni da parte di altri tre esperimenti internazionali (tra cui l’European Pulsar Timing Array, EPTA, in cui sono è coinvolto INAF, l’Università di Milano Bicocca e il Gran Sasso Science Institute), i risultati pubblicati oggi offrono nuove prospettive per la comprensione dei buchi neri più massicci dell’Universo, sul loro ruolo nella formazione del cosmo e sull’architettura cosmica che hanno lasciato dietro di sé.

mappa universo Rappresentazione artistica delle onde gravitazionali e del cielo sopra una delle antenne del radiotelescopio sudafricano MeerKAT, gestito dall’Osservatorio SARAO. Crediti: Carl Knox, OzGrav, Swinburne University of Technology and South African Radio Astronomy Observatory (SARAO)
A tempo di pulsar con MeerKAT: una nuova mappa dell’universo nelle onde gravitazionali con tre studi sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. Rappresentazione artistica delle onde gravitazionali e del cielo sopra una delle antenne del radiotelescopio sudafricano MeerKAT, gestito dall’Osservatorio SARAO. Crediti: Carl Knox, OzGrav, Swinburne University of Technology and South African Radio Astronomy Observatory (SARAO)

Caterina Tiburzi, ricercatrice dell’INAF di Cagliari coinvolta nella collaborazione EPTA, spiega:

“Comprendere e modellare il rumore di fondo che affligge il segnale delle pulsar, causato dagli effetti del gas ionizzato interposto tra le stelle, la Terra e il Sole, è l’elemento chiave per confermare definitivamente i risultati di MPTA, così come quelli di EPTA e degli altri esperimenti precedenti. I nuovi ricevitori a bassa frequenza di MeerKAT saranno strumenti straordinari per questo scopo”.

“Oltre all’entusiasmo per i nuovi esiti osservativi – conclude infine Andrea Possenti, dell’INAF Cagliari, e membro della collaborazione MPTA fin dalla sua fondazione nel 2018 – questo è un momento cruciale, che dimostra come la collaborazione internazionale negli esperimenti di tipo Pulsar Timing Array, nei quali INAF è coinvolto da oltre 20 anni, spalancherà infine le porte dell’astronomia delle onde gravitazionali di frequenza ultra bassa”.

prototipo SKA

 

Per altre informazioni:

I tre articoli pubblicati oggi su sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society:

  • “The MeerKAT Pulsar Timing Array: Maps of the gravitational-wave sky with the 4.5 year data release” di K. Grunthal et al.

  • “The MeerKAT Pulsar Timing Array: The 4.5-year data release and the noise and stochastic signals of the millisecond pulsar population” di Matthew T. Miles et al.

  • “The MeerKAT Pulsar Timing Array: The first search for gravitational waves with the MeerKAT radio telescope” di Matthew T. Miles et al.

 

Testi, video e immagini dagli Uffici Stampa dell’Università di Milano-Bicocca e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF