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Lo stress termico prolungato ha un effetto drammatico sugli animali selvatici e sull’intero ecosistema: il caso del falco grillaio (Falco naumanni)

Pubblicata su Global Change Biology una ricerca che dimostra sperimentalmente l’effetto drammatico che le ondate di calore possono avere su alcune specie di uccelli selvatici nell’area mediterranea. Lo studio è stato coordinato dall’Università degli Studi di Milano e condotto in stretta collaborazione con Università di Padova, CNR-IRSA, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) e Provincia di Matera.

Milano/Padova – 27 luglio 2023 – Lo stress termico prolungato, connesso alla disidratazione e all’impossibilità di dissipare calore, può avere effetti drammatici sugli animali selvatici, in particolare sugli uccelli, fino a condurre alla morte. Per evitare questo esito infausto, basterebbe avere alcuni accorgimenti nella progettazione e costruzione delle strutture destinate ad ospitarli.

 

Lo stress termico prolungato ha un effetto drammatico sugli animali selvatici e sull’intero ecosistema: il caso del falco grillaio. Gallery, foto di Davorin Tome

Ecco la conclusione a cui sono giunti i ricercatori dell’Università degli Studi di Milano e dell’Università di Padova che, assieme all’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), al CNR-IRSA e alla Provincia di Matera, hanno appena pubblicato i risultati dell’esperimento empirico su Global Change Biology, in Open Access.

L’aumento di frequenza e intensità delle ondate di calore nell’area mediterranea negli anni recenti, una conseguenza della crisi climatica in atto, sta infatti avendo profonde ripercussioni sulla biodiversità di questa zona, ma lo studio degli effetti degli eventi estremi è tuttavia complicato dalla loro relativa imprevedibilità temporale e richiede studi di lungo periodo.

Lo studio è stato condotto a Matera durante le ondate di calore che hanno investito il sud Italia nel giugno 2021 e 2022, dove si sono registrate temperature superiori a 37°C per più giorni consecutivi, condizioni estreme di temperatura mai verificate in quest’area nei 20 anni precedenti. I ricercatori hanno sperimentato una metodologia innovativa di raffrescamento dei nidi, per quantificare sperimentalmente l’effetto dell’esposizione a ondate di calore intense e prolungate sul successo riproduttivo di una specie di uccello rapace coloniale caratteristico delle regioni mediterranee, il falco grillaio (Falco naumanni).

Matera ospita infatti ospita una delle maggiori colonie riproduttive mondiali di questa specie, con circa un migliaio di coppie nidificanti, ed è parte integrante del patrimonio culturale della città. Un tempo estremamente abbondante, il falco grillaio è un piccolo rapace migratore (circa 140 g) di interesse conservazionistico a livello europeo, tutelato dalla Direttiva Uccelli, che ha subito un drastico declino delle popolazioni nella seconda metà del secolo scorso, causato dall’intensificazione agricola e da eventi di siccità nella regione del Sahel dove trascorre l’inverno. Nelle regioni mediterranee, la specie nidifica in aree urbane, in cavità di edifici, monumenti e pareti rocciose, e frequenta spesso cassette nido posizionate appositamente dai ricercatori per studiarne l’ecologia e il comportamento riproduttivo e per favorirne la conservazione.

Il raffrescamento sperimentale è avvenuto mediante una semplice ombreggiatura delle cassette nido, che ha consentito di abbassare la temperatura interna delle cassette nido di circa 4°C rispetto a quelle non ombreggiate. Il successo riproduttivo della specie nelle cassette nido non schermate è stato drammaticamente ridotto: solo un terzo delle uova deposte ha generato pulcini pronti all’involo, mentre nelle cassette nido ombreggiate tale valore rientra nella norma (circa 70%). Nelle cassette nido non ombreggiate si sono verificati diffusi episodi di mortalità dei pulcini, tutti in corrispondenza con le giornate più calde (con temperatura dell’aria superiore a 37°C all’ombra e temperature interne delle cassette nido superiori a 44°C), mentre tali eventi sono risultati molto rari nelle cassette nido ombreggiate. Inoltre, i pulcini cresciuti in cassette nido schermate sono risultati essere in condizioni fisiche decisamente migliori e di taglia maggiore, caratteristiche che ne promuovono la sopravvivenza una volta involati.

“Questi risultati evidenziano come fenomeni di temperature estreme, in passato estremamente rari e in alcuni casi mai registrati prima, possano avere effetti profondi e molto rapidi sulle popolazioni di animali selvatici. Considerato che gli scenari di cambiamento climatico prevedono un ulteriore aumento della frequenza e intensità delle ondate di calore nei prossimi decenni, in particolare nella regione mediterranea, ciò potrebbe rappresentare una ulteriore grave minaccia per la biodiversità delle regioni colpite”spiega il prof. Diego Rubolini dell’Università Statale di Milano.

Tra l’altro, l’attuale persistenza dell’anticiclone africano ha determinato nel 2023 condizioni ancora più calde rispetto al 2021-2022 e i risultati preliminari delle nostre attività di monitoraggio indicano un effetto ancora peggiore sui falchi grillai rispetto a quanto osservato in precedenza.

“Questi risultati suggeriscono anche che limitati accorgimenti nella progettazione e costruzione di strutture destinate ad ospitare animali selvatici, come un incremento dell’isolamento termico delle cassette nido, debbano essere attentamente considerati in quanto possono favorire in maniera significativa il successo dei progetti di conservazione in uno scenario di riscaldamento globale”conclude il prof Andrea Pilastro, dell’Università di Padova.

Lo studio è stato realizzato con il parziale supporto del programma di finanziamento LIFE della Comunità Europea (progetto LIFE FALKON, www.lifefalkon.eu) e del MUR (PRIN 2017).

 

Testo dagli Uffici Stampa dell’Università Statale di Milano e dell’Università di Padova.

Sciami di insetti: gli ingredienti per il volo perfetto

Abilità di muoversi nello spazio e una buona dose di ‘pigrizia’. Sono le caratteristiche necessarie per mantenere unito il gruppo. Lo evidenzia un nuovo studio sul comportamento collettivo di un sistema biologico, come gli sciami di insetti, pubblicato sulla rivista Nature Physics dal CNR-ISC e dal Dipartimento di fisica della Sapienza Università di Roma.

sciami di insetti
Traiettorie tridimensionali del volo dei moscerini all’interno di uno sciame. Crediti: Gruppo CoBBS

Sciami di moscerini e stormi di uccelli sono esempi comuni di comportamenti collettivi biologici. Sebbene gli organismi che compongono tali gruppi siano molto diversi a livello individuale, spesso i comportamenti dei gruppi hanno caratteristiche simili a livello globale. Per esempio, gli sciami di moscerini, che osserviamo nei parchi, ci appaiono tutti uguali, ma in realtà sono spesso sciami di specie diverse. Sembrerebbe dunque che, nonostante le specificità degli individui che ne fanno parte, solo alcuni ingredienti determinano le proprietà collettive di un gruppo.

Uno studio, pubblicato su Nature Physics dal gruppo CoBBS – Collective Behavior in Biological Systems – composto da ricercatori dell’Istituto dei sistemi complessi del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isc) e del Dipartimento di fisica della Sapienza Università di Roma, identifica tali ingredienti grazie ad un approccio teorico mutuato dalla fisica dei sistemi complessi interagenti, permettendo di caratterizzare per la prima volta il comportamento collettivo di un sistema biologico.

“Gli sciami sono sistemi solo apparentemente disordinati e caotici; in realtà, al loro interno, gli insetti si comportano in modo altamente coordinato e fortemente correlato. Alla base di questa coordinazione vi è un meccanismo imitativo: ogni moscerino tende a voler imitare il comportamento dei propri vicini”, spiega Stefania Melillo, ricercatrice Cnr-Isc e afferente al gruppo CoBBS. “Sotto questo punto di vista, sciami di insetti e sistemi fisici come i magneti sembrano estremamente simili: in ambedue i casi gli agenti – atomi o animali che siano – provano ad allinearsi gli uni agli altri. Nei magneti questo allineamento permette di generare un campo magnetico stabile, nel caso degli animali invece l’allineamento permette al gruppo intero di coordinarsi anche a grandi distanze”.

Setup sperimentale per l’acquisizione dei dati in vivo sul moto degli sciami di insetti. Crediti: Gruppo CoBBS

Nel nuovo studio, i ricercatori del gruppo CoBBS introducono un modello che combina la capacità degli insetti di allineare la loro velocità a due nuovi ingredienti che derivano da osservazioni sperimentali precedentemente condotte.

“Il primo ingrediente, il più intuitivo e ovvio, è l’abilità degli individui di muoversi nello spazio, che in fisica è chiamata ‘attività’; al contrario dei ferromagneti, gli insetti non sono fermi su un reticolo ma sono liberi di muoversi spinti dalla loro velocità”, afferma Mattia Scandolo del Dipartimento di Fisica, Sapienza Università di Roma. “Il secondo ingrediente è invece quella che viene detta ‘inerzia comportamentale’: questa rappresenta la resistenza degli insetti nel modificare il loro comportamento, una sorta di ‘pigrizia’ che porta i singoli moscerini a non allinearsi istantaneamente al comportamento dei vicini”.

Lo studio rivela che la combinazione di questi due ingredienti aggiuntivi, attività e inerzia, spiega in modo accurato la dinamica dei comportamenti collettivi che emergono negli sciami di moscerini, indipendentemente dalla specie in questione, facendo chiarezza sui meccanismi messi in atto.

L’innovazione della ricerca, tuttavia, sta non solo nei risultati, ma anche nel metodo usato. È infatti la prima volta che un approccio mutuato dalla fisica dei sistemi interagenti predice i comportamenti collettivi di un sistema biologico con tale accuratezza.

“L’idea di fondo di questo approccio, noto come ‘gruppo di rinormalizzazione’, è simile a quanto accade nell’occhio umano, che vede i dettagli di un oggetto sfocarsi man mano che questo si allontana; così nell’ambito della fisica teorica è possibile ‘sfocare’ i dettagli di un sistema fisico, permettendo, al contempo, di apprezzare appieno le caratteristiche collettive su scala macroscopica”, prosegue Scandolo.

Il successo nell’applicazione di uno strumento così sofisticato, come il ‘gruppo di rinormalizzazione’, suggerisce come, anche nei sistemi biologici, un ruolo decisivo può essere giocato dalla “universalità”.

“Qualsiasi sistema che condivide con gli sciami di insetti le stesse caratteristiche generali esibirà comportamenti simili a quelli ora studiati”, conclude Melillo. “Non è stato, infatti, necessario un modello che descrivesse le interazioni biologiche tra gli insetti nel minimo dettaglio, ma è bastato individuare i pochi ingredienti fondamentali per comprendere i comportamenti collettivi negli sciami di insetti”.

Riferimenti:

Natural swarms in 3.99 dimensions – Andrea Cavagna, Luca Di Carlo, Irene Giardina, Tomàas S. Grigera, Stefania Melillo, Leonardo Parisi, Giulia Pisegna & Mattia Scandolo – Nature Physics (2023) https://www.nature.com/articles/s41567-023-02028-0

 

Testo, video e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

GLI EFFETTI DELLE VALANGHE NELLE ALPI OCCIDENTALI: CREANO HABITAT DIVERSIFICATI E INCREMENTANO LE SPECIE DI UCCELLI

Uno studio dell’Università di Torino appena pubblicato sul Journal of Ornithology evidenzia le conseguenze delle perturbazioni sulla flora e sulla fauna alpina.

valanghe Alpi Occidentali uccelli

Le valanghe nelle Alpi occidentali italiane contribuiscono a eliminare le aree boschive dense e a creare habitat più aperti e eterogenei che attraggono una maggiore diversità di specie di uccelli. Lo afferma lo studio intitolato “Avalanches create unique habitats for birds in the European Alps” pubblicato oggi, 14 febbraio, sul Journal of Ornithology.

Gli autori, guidati dal Dott. Riccardo Alba, dottorando del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi UniTo, hanno esaminato 240 siti nelle Alpi occidentali italiane (120 tracciati di valanga e 120 siti vicini usati come controllo) durante il periodo di riproduzione degli uccelli nella primavera del 2021. In questo lasso di tempo, nei siti interessati dalle valanghe, è stata riscontrata una percentuale significativamente più elevata di specie di uccelli rispetto ai siti di controllo vicini.

Stiaccino
Stiaccino

Nei tracciati delle valanghe presi in esame è stata riscontrata una maggiore diversità della vegetazione e una maggiore proporzione di specie di uccelli rispetto ai siti di controllo, in particolare quelli a quote più basse. I siti interessati dalle valanghe presentavano inoltre una maggiore copertura di rocce e arbusti e un numero più elevato di piccoli alberi, mentre i siti di controllo erano tipicamente foreste ad alta copertura.

Prispolone
Prispolone

Nello specifico, i tracciati delle valanghe presentavano percentuali più elevate di uccelli che nidificano in habitat aperti e di specie migratrici, come lo stiaccino  o il prispolone, che sono tra le categorie di uccelli più minacciate. Nei siti di controllo è stata osservata una percentuale maggiore di specie che nidificano in habitat forestali, come la cincia alpestre, il tordo bottaccio e il picchio rosso maggiore.

In futuro la frequenza delle valanghe potrebbe essere influenzata dai cambiamenti climatici, ma non è ancora chiaro se le valanghe diminuiranno a causa della minore copertura nevosa o se aumenteranno a causa di inverni più caldi e precipitazioni nevose in primavera. Gli autori concludono che questa potenziale perturbazione può avere implicazioni per la biodiversità montana, sia per gli habitat che per le specie di uccelli che vi fanno affidamento.

valanghe Alpi Occidentali uccelli

Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

I pipistrelli imitano i calabroni per tenere alla larga i predatori e salvarsi la vita. La scoperta è dei ricercatori federiciani Danilo Russo e Leonardo Ancillotto insieme a colleghi dell’Università di Torino, di Firenze e di Costa Rica. Lo studio pubblicato sulla rivista Current Biology.

pipistrelli calabroni
Vespertilio maggiore. Photo credits: Marco Scalisi

I pipistrelli imitano i calabroni per tenere alla larga i predatori e salvarsi la vita. La scoperta è dei federiciani Danilo Russo e Leonardo Ancillotto, del Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, che hanno condotto lo studio insieme ai colleghi Donatella Pafundi e Marco Gamba dell’Università di TorinoFederico Cappa e Rita Cervo dell’Università di Firenze, e Gloriana Chaverri dell’Universidad de Costa Rica.
I risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Current Biology.

Vespa crabro. Credits: Andrea Aiello

Si tratta di “mimetismo Batesiano”, ossia di una specie indifesa che ne imita una pericolosa o tossica per scoraggiare un predatoreMimetismo acustico, in questo caso, perché basato sui suoni e non sui colori, quindi relativamente raro in natura.

La potenziale preda indifesa, in tale circostanza un pipistrello, il vespertilio maggiore Myotis myotis, imita un’altra specie che rappresenta un pericolo per il predatore, come, appunto, un calabrone. Quando il pipistrello viene catturato da un uccello rapace, emette un ronzio che sconcerta il predatore e lo disorienta così può approfittare di questa frazione di secondo per fuggire.
Si tratta del primo caso conosciuto di un mammifero che imita un insetto e costituisce un elegante esempio di come l’evoluzione esprima adattamenti che spesso sono il frutto dell’interazione tra specie anche molto diverse, come, appunto, pipistrelli, gufi e insetti imenotteri.

Danilo Russo ebbe i primi sospetti già oltre vent’anni fa, quando per il suo lavoro di dottorato si trovò tra le mani uno di questi pipistrelli, e, dopo lungo tempo, il team internazionale ha potuto verificare che il suono prodotto dal pipistrello è effettivamente simile a quello emesso da questi insetti “armati”, soprattutto se si escludono le frequenze che un tipico predatore di pipistrelli come un barbagianni o un allocco non è in grado di udire.
Il passo successivo è stato verificare, usando proprio questi uccelli in cattività, quale effetto sortisse l’ascolto dei ronzii di pipistrelli, api e calabroni. Il risultato è stato sorprendente: allocchi e barbagianni si allontanano dagli altoparlanti che emettono ronzii di insetti come di pipistrelli, mentre sono attratti da altri suoni di pipistrelli, probabilmente considerati un indizio della presenza della preda.

I pipistrelli in questione non sono gli unici a emettere ronzii di questo tipo: lo fanno certi roditori, uccelli, e anche insetti totalmente indifesi. È perciò probabile che la strategia di imitazione di un insetto pericoloso come un calabrone sia molto più diffusa in natura di quanto si possa credere. La ricerca apre quindi una nuova, importante finestra sul comportamento animale e sui fenomeni di imitazione tra specie.

“Gli adattamenti espressi dagli animali in risposta alle forze della selezione naturale non smettono mai di sorprenderci”, commenta il professore Russo.

La notizia ha fatto il giro del mondo, è stata ripresa dalle più prestigiose testate internazionali, tra cui Nature, Science, New Scientist, il New York Times, il Telegraph, the Independent, The Economist, BBC, Sky News e National Geographic.

Per approfondire: Ancillotto, L., Pafundi, D., Cappa, F., Chaverri, G., Gamba, M., Cervo, R., & Russo, D. (2022). Bats mimic hymenopteran insect sounds to deter predators. Current Biology 32, PR408-R409

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Rettorato Università degli Studi di Napoli Federico II

IL SENSO DEL RITMO DEI “LEMURI CANTANTI” DEL MADAGASCAR, COSÌ SIMILI AGLI UMANI

Per 12 anni i ricercatori dell’Università di Torino hanno studiato i canti di questi primati a rischio estinzione, riscontrando categorie ritmiche simili a quelle della musica umana

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Il senso del ritmo negli indri, lemuri cantanti del Madagascar. Credits: Filippo Carugati

Oggi, lunedì 25 ottobre, sulla rivista scientifica Current Biology è stato pubblicato l’articolo “Categorical rhythms in a singing primate”, firmato dai ricercatori dell’Università di Torino, dell’ENES Lab di Saint-Etienne e dell’Istituto Max Planck di Psicolinguistica di Nijmegen. Attraverso questa ricerca gli autori hanno studiato gli indri, i ‘primati cantanti’ del Madagascar. I loro canti, registrati nelle foreste pluviali montane, possiedono categorie ritmiche simili a quelle della musica umana. La scoperta di tratti musicali condivisi da specie diverse può fare luce sulla biologia e l’evoluzione di ritmo e musica.

Credits: Filippo Carugati

Mentre gli uccelli canori possiedono, come l’uomo, il senso del ritmo, nei mammiferi questa è una caratteristica rara. Un team di ricerca internazionale guidato dai ricercatori senior Marco Gamba (Università di Torino) e Andrea Ravignani (Max Planck Institute) si è messo alla ricerca di abilità musicali nei primati.

 “C’è un interesse di lunga data nel cercare di capire come si è evoluta la musicalità umana – dichiara Andrea Ravignani – ma questo tratto non è in realtà presente solo negli esseri umani. Cercare abilità musicali in altre specie ci permette sia di costruire un albero evolutivo di queste caratteristiche, sia di capire come le capacità ritmiche si sono originate ed evolute negli umani”.

Per capire se altri mammiferi, oltre a noi, possiedono il senso del ritmo, il team ha deciso di studiare uno dei pochi primati “cantanti”, il lemure Indri indri, al momento in pericolo critico di estinzione. I ricercatori, in particolare, volevano capire se i canti di indri possedessero ritmi categorici, una caratteristica musicale universale presente nelle culture umane. Un ritmo si può definire categorico quando gli intervalli tra un suono e l’altro hanno esattamente la stessa durata (ritmo 1:1) o l’uno è il doppio dell’altro (ritmo 1:2). Nella musica, questo tipo di ritmo rende una melodia facilmente riconoscibile, anche se eseguita a velocità diverse. Gli indri, dunque, possiedono questi ritmi tipicamente umani?

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Il senso del ritmo negli indri, lemuri cantanti del Madagascar. Credits: Filippo Carugati

Per dodici anni i ricercatori di Torino hanno effettuato spedizioni nelle foreste pluviali del Madagascar, collaborando con un gruppo locale che si occupa della protezione e studio dei primati. I ricercatori hanno registrato i canti di venti diversi gruppi di indri (39 animali in tutto) nel loro habitat naturale. Ogni membro di un gruppo famigliare di indri canta insieme agli altri in duetti e cori coordinati. Il team ha scoperto che questi canti possiedono effettivamente le due classiche categorie ritmiche (1:1 e 1:2), insieme ad un peculiare ritandando tipico di diverse tradizioni musicali. Inoltre, nonostante maschi e femmine cantino secondo tempi diversi, essi possiedono lo stesso ritmo.

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Il senso del ritmo negli indri, lemuri cantanti del Madagascar. Credits: Filippo Carugati

Secondo la prima autrice Chiara De Gregorio e i suoi colleghi, questa è la prima evidenza della presenza di un “universale musicale” in un mammifero che non sia l’uomo. Perché un altro primate, oltre a noi, produce ritmi categorici che somigliano a quelli che caratterizzano la musica umana? Visto che l’ultimo antenato comune tra indri e umani risale a 77.5 milioni di anni fa, questa abilità potrebbe essersi evoluta in maniera indipendente tra specie “cantanti”. Il ritmo, infatti, potrebbe rendere più semplice non solo la produzione e il processamento dei canti, ma anche il loro apprendimento.

“I ritmi categorici – spiega Ravignani – sono solo uno dei sei universali musicali che sono stati identificati fino ad ora. Ci piacerebbe andare alla ricerca di altri universali musicali in indri e altre specie, come ad esempio di una organizzazione gerarchica dei beat. Incoraggiamo anche lavori comparativi su indri e altre specie in pericolo per ottenere maggiori evidenze, prima che sia troppo tardi per ascoltare e ammirare i loro incredibili canti”.

Il senso del ritmo negli indri, lemuri cantanti del Madagascar. Credits: Filippo Carugati

Articolo:

Chiara De Gregorio, Daria Valente, Teresa Raimondi, Valeria Torti, Longondraza Miaretsoa, Olivier Friard, Cristina Giacoma, Andrea Ravignani & Marco Gamba (2021). “Categorical rhythms in a singing primate”. Current Biology, 31, R1–R3. https://doi.org/10.1016/j.cub.2021.09.032.

 

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino

COME GLI ESSERI UMANI, ANCHE I PINGUINI RICONOSCONO I LORO SIMILI ATTRAVERSO I SENSI

Uno studio dei ricercatori UniTo ha svelato l’interazione multisensoriale dei pinguini africani, aprendo nuove strade per la conservazione di questa specie a rischio estinzione

Pinguini africani

Oggi, mercoledì 13 ottobre, sulla rivista scientifica Proceeding of the Royal Society B, è stato pubblicato uno studio dei ricercatori dell’Università di Torino, dal titolo “Cross-modal individual recognition in the African penguin and the effect of partnership”, che mostra come i pinguini africani riconoscano i loro compagni di colonia attraverso i sensi. Gli autori della ricerca, Dott. Luigi BaciadonnaDott. Cwyn SolviSara La CavaDott.ssa Cristina PilengaProf. Marco Gamba e Dott. Livio Favaro, hanno scoperto che la capacità di riconoscere i propri simili utilizzando diversi sensi, caratteristica tipica dell’essere umano, è presente anche in questa specie di volatili a rischio estinzione.

Il cervello umano è in grado di memorizzare le informazioni in modo tale che possano essere recuperate da diversi sensi. Questa integrazione multisensoriale ci permette di formare immagini mentali del mondo ed è alla base della nostra consapevolezza cosciente e della nostra comunicazione sociale, fondamentale per l’interazione con i nostri simili. Le stesse modalità di interazione sono state osservate nei comportamenti dei pinguini africani.

Dopo che coppie di pinguini hanno trascorso del tempo insieme in una zona isolata, uno è stato rilasciato dalla zona, lasciando l’altro, pinguino focale, da solo. Una chiamata vocale è stata immediatamente riprodotta dalla direzione in cui il pinguino ha lasciato. Il pinguino focale ha risposto più velocemente alla chiamata se non corrispondeva all’identità del pinguino che aveva appena visto uscire. Questo comportamento dimostra che la chiamata ha violato le loro aspettative e indica che possono immaginare l’altro individuo nella loro mente e accedere a questa immagine attraverso diversi sensi.

pinguini africani sensi
Pinguini africani

“Questa forma di riconoscimento individuale – dichiara il Dott. Luigi Baciadonna, ricercatore del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi UniTo e autore principale dell’articolo – è stata precedentemente descritta solo in pochi mammiferi e nei corvi. Il fatto che un uccello filogeneticamente così distante, il pinguino africano, possa formare immagini mentali di altri individui suggerisce che questo complesso sistema di riconoscimento sociale possa essere molto più diffuso di quanto avessimo immaginato”.

“I nostri risultati – afferma il Dott. Livio Favaro, coautore senior della ricerca per l’Università di Torino – mostrano che questi pinguini non si affidano, come si pensava in precedenza, solo alle informazioni vocali per la comunicazione. Il nostro lavoro apre anche nuove strade per indagare la cognizione complessa in una specie di uccelli non precedentemente nota per la loro intelligenza”.

“I pinguini africani – prosegue la Dott.ssa Cristina Pilenga, coautrice della ricerca con sede allo ZooMarine di Roma, dove si è svolto lo studio – sono classificati come specie in pericolo dalla IUCN, e quindi la conoscenza delle loro capacità cognitive può essere particolarmente preziosa per aumentare la consapevolezza del loro stato di conservazione”.

“Estendere lo studio della cognizione a specie comportamentalmente distinte – conclude il Prof. Marco Gamba, docente di Zoologia all’Università di Torino – ha il potenziale di rivelare come i sistemi sociali e le pressioni ambientali in cui vivono gli animali abbiano modellato le differenze nella cognizione attraverso l’evoluzione”.

 

Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

Essere lunatici: le fasi lunari influenzano veramente la nostra psiche?

fasi lunari psiche
Fasi lunari e psiche, ma pure capelli. Foto di StockSnap

Qualche tempo fa mi sono trovato ad affrontare un discorso con degli amici su quello che in inglese viene chiamato “Lunar Effect”, ovvero sull’ipotesi che i cicli lunari possano influire sul nostro stato psicofisico. In particolare, si parlava dell’interazione tra le fasi lunari e la crescita dei capelli (quando tagliarli per farli crescere più velocemente) e delle colture agricole (quando seminare per favorire la crescita), per poi virare sul comportamento umano.

Già questa “traversata” (dalle maree ai capelli, alle piante fino al comportamento umano) farebbe storcere il naso, eppure l’idea che i cicli lunari influenzino la nostra psiche è sedimentata in tutto il globo (con le dovute variazioni) ma anche tra la maggior parte dei professionisti della salute mentale (Francis et al., 2017) con delle particolari credenze relative soprattutto alla luna piena. Ma parliamo appunto solo di credenze o c’è qualcosa di vero?

Nel ricercare sul rapporto tra fasi lunari e psiche, passiamo prima da discipline come astrologia e astronomia. Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, Personificazione dell’Astrologia, olio su tela. Foto di Daderot, in pubblico dominio

Queste teorie affondano le radici in due discipline che ci appaiono oggi nettamente distinte, ma che per secoli si sono sovrapposte, ovvero l’astrologia e l’astronomia. L’astrologia è un complesso di credenze e tradizioni che si prefiggono di interpretare influenze soprannaturali e quindi anche il futuro di un individuo o, più in generale, della collettività, sulla base di una serie di assunti riguardo le posizioni e i movimenti dei corpi celesti rispetto alla terra. Chi praticava questa disciplina in passato occupava un ruolo di spicco nella società, finché gli assunti sulla quale si fondava l’astrologia sono andati a divergere irrimediabilmente da quelli dell’astronomia, che invece si occupa con metodo scientifico di descrivere gli astri, l’universo e le loro proprietà fisiche.

L’astronomia ci ha permesso di capire la relazione tra le fasi lunari e i cicli delle maree, alimentando così, l’idea che la luna possa avere effetti anche sulla fisiologia animale (Andreatta & Tessmar-Raible, 2020). Anche la psicologia ha contribuito (involontariamente) a queste tesi, soprattutto mediante le osservazioni che hanno evidenziato l’importanza dell’esposizione alla luce sull’umore e in generale sullo sviluppo neuropsicologico (Bodrosian & Nelson, 2017).

fasi lunari psiche
Fasi lunari influenzano veramente la nostra psiche? Foto di Free-Photos

Dunque, partiamo da lontano. La fisiologia animale (e dunque anche quella umana) è soggetta a ritmi stagionali e circadiani (Raible et al., 2017). Questo vuol dire che diverse funzioni fisiologiche si sono evolute in modo da “settarsi” con l’alternarsi delle stagioni e soprattutto con l’alternarsi del giorno e della notte (ad esempio il rilascio di melatonina, il principale ormone implicato nella regolazione del sonno, è massimo alla sera e raggiunge livelli minimi al mattino). Mentre questi ritmi biologici sono stati descritti abbastanza bene nell’uomo, poco si sa circa gli effetti del ciclo lunare sul nostro comportamento e sulla nostra fisiologia. In effetti, molti credono che non sia un caso che il ciclo mestruale duri esattamente (o meglio, mediamente) come un ciclo lunare. Ma a guardare bene sappiamo che questi cicli non sono sincronizzati (ogni donna ha un ciclo con durate specifiche e che iniziano e finiscono in giorni diversi), e non è chiaro perché debba essere proprio il ciclo mestruale dell’essere umano l’”eletto” della luna e non quello di altri animali, ben meno complessi a livello biologico.

Eppure, alcuni studi hanno sostenuto che i cicli lunari abbiano un impatto sulla fertilità degli esseri umani, sulle mestruazioni e sul tasso di natalità (alcuni medici tutt’ora cercano di sincronizzare le nascite con le fasi lunari; Criss & Marcum, 1981; Cutler et al., 1987). In effetti la luce lunare potrebbe influire sui livelli di melatonina, a loro volta implicati nel ciclo mestruale. Altri studi si sono spinti più avanti, ipotizzando una relazione tra ricoveri in ospedale/pronto soccorso dovuti a cause accidentali (eventi cardiovascolari o coronarici, emorragie, diarrea, ritenzione urinaria, incidenti stradali) e fasi lunari o tra queste ultime e il manifestarsi di comportamenti violenti (aggressioni, omicidi o suicidi, Zimecky, 2006).

fasi lunari psiche
Le fasi lunari influenzano veramente la nostra psiche? Foto di Florian Kurz

Tuttavia, questi studi sono sporadici e mostrano diversi limiti metodologici. In realtà, le ricerche più rigorose hanno trovato ben poche correlazioni tra i cicli lunari e gli aspetti precedentemente citati (Campbell & Beets, 1978; Kelly, 1981). Quanto agli studi sugli animali, invece (come prevedibile) un certo effetto dei cicli lunari sulla produzione degli ormoni è stato trovato, soprattutto negli insetti. Anche nei pesci l’”orologio lunare” sembra influire sulle dinamiche riproduttive e sull’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi che ne è alla base.

Le fasi lunari influenzano veramente la nostra psiche? Foto di Comfreak

Negli uccelli, le variazioni giornaliere di melatonina e corticosterone (un ormone steroideo prodotto dalle ghiandole surrenali principalmente in condizioni di stress) si riducono durante i giorni di luna piena. I cicli lunari influenzano anche la sensibilità al gusto e la struttura di organuli cellulari della ghiandola pineale in topi studiati in laboratorio. Sono state infine descritte variazioni cicliche relative alle fasi lunari nell’ampiezza della risposta immunitaria in diversi animali. È verosimile che alla base di queste variazioni fisiologiche ci siano modulazioni nel rilascio di melatonina e steroidi endogeni, che possono essere innescate dalle radiazioni elettromagnetiche e/o dall’attrazione gravitazionale della luna (Zimecky, 2006). Ma da qui come si arriva alla psicologia dell’essere umano?

Iniziamo l’indagine approfondendo un comportamento di base come il sonno, su cui la luna (o quantomeno la quantità di luce che riflette) è verosimile abbia una qualche influenza. In un’analisi del 2014 (Turányi et al., 2014) fatta da un centro del sonno su 319 persone, i ricercatori hanno scoperto che la luna piena era associata a un sonno meno profondo o comunque ad una maggiore latenza prima di addormentarsi profondamente. Studi successivi hanno anche riportato differenze di genere (Della Monica et al., 2015) con le donne che dormono meno e hanno una fase REM più breve nei periodi vicini alla luna piena, rispetto ai maschi che presentano una più lunga fase REM. Anche i bambini sembrano dormire leggermente meno nelle fasi di luna piena (Chaput et al., 2016). Questi risultati sono però stati messi in dubbio da uno studio avente un campione molto esteso (oltre 2000 partecipanti), che non ha trovato alcuna relazione tra fasi lunari e qualità/quantità del sonno (Haba-Rubio et al., 2015).

I dati contrastanti sul ciclo-sonno veglia portano a interrogarci sulla possibilità che la qualità del sonno possa avere, a sua volta, delle ricadute sui processi psicologici più complessi, partendo dalla considerazione che l’invenzione dell’energia elettrica ha comunque edulcorato gli effetti della luce naturale. In effetti l’oscillazione dei ritmi circadiani ha effetti significativi sui sintomi ansiosi, dell’umore e psicotici dei pazienti psichiatrici. Ma la luce lunare contribuisce a queste variazioni? Partiamo col dire che il contributo che dà la luna all’illuminazione del nostro ambiente è veramente scarso, visto che l’intensità luminosa della luna è minima rispetto, ad esempio, alla luce emessa dai nostri smartphone (considerato poi che la gran parte delle ore notturne siamo chiusi in casa). Ed in effetti la maggior parte delle ricerche è concorde con l’affermare che le fasi lunari non abbiano alcun effetto sulla sintomatologia psichiatrica. Nel 2017 Francis e collaboratori hanno dimostrato che gli accessi in pronto soccorso per sintomatologie psichiatriche erano del tutto comparabili indipendentemente dalle fasi lunari. Risultati simili sono stati ottenuti da altri studi con campioni enormi (McLay et al., 2006) o da revisioni di letteratura (Raison et al., 1999) che non hanno riscontrato alcuna relazione tra fasi lunari e variazione della sintomatologia psichiatrica.

Un discorso a parte deve essere fatto per il disturbo bipolare, quello che più di tutti i disturbi psichiatrici sembra risentire dei ritmi circadiani. Due studi recenti hanno mostrato, infatti, una correlazione tra fasi lunari e umore. Il sonno dei pazienti bipolari risultava influenzato dalla luce emessa dalla luna (come osservato dagli studi precedentemente citati), e la minor quantità di sonno nelle fasi di luna piena favoriva la transizione dalla fase depressiva a quella maniacale (Wher, 2018). Questi cambiamenti potevano essere attutiti modificando la terapia farmacologica o mediante la terapia della luce (o fototerapia), ancora poco diffusa in Italia, ma ampiamente utilizzata all’estero per trattare i disturbi dell’umore (Avery et al., 2019). I pazienti presi in esame sono comunque molto pochi per trarre conclusioni definitive, ma di certo questi dati meritano di essere approfonditi.

E per quanto riguarda i tratti di personalità non patologici? Le nostre disposizioni emotivo-comportamentali e relazionali sono influenzate dalle fasi lunari? Le credenze popolari dicono di sì, ed esiste addirittura un termine coniato appositamente: “Lunatico/a” che indica una persona “che ha carattere strano, estroso, incostante, umore instabile e facile ad alterarsi” (https://www.treccani.it/vocabolario/lunatico/).

Nella realtà non vi è alcuna prova dell’influsso della luna sui nostri tratti di personalità. La maggior parte degli studi sul tema sono abbastanza vecchiotti, poiché ad oggi è data per assodata una mancanza di correlazione tra fasi lunari e personalità. Ciononostante, a fine anni ’70, Davenhill e Johnson (1979) pubblicarono un articolo in cui chiedevano a 12 maschi e 12 femmine di compilare l’Eysenck Personality Inventory (EPI) che misura i livelli di estroversione-introversione e neuroticismo-stabilità, e il 16PF di Cattell che misura 16 tratti di personalità identificati dal suo autore come “tratti originari”. Questi test venivano compilati da ogni individuo in diversi momenti, in modo tale da ottenere 4 punteggi per ogni questionario (e relativi fattori), uno per ogni quarto del ciclo sinodico lunare (novilunio, primo quarto, plenilunio e ultimo quarto). I ricercatori trovarono diverse interazioni abbastanza inspiegabili. Quei risultati si “spiegavano” col campione irrisorio (24 soggetti), ed erano con ogni probabilità casuali. Infatti, qualche anno più tardi, Startup e Russell (1984) replicarono lo studio con un campione molto più grande (circa 900 partecipanti). I ricercatori non osservarono alcuna interazione tra i tratti di personalità misurati con l’EPI e le 4 fasi lunari prese in esame. D’altra parte, qualche labile interazione significativa con le fasi lunari è stata riscontrata con alcuni fattori del 16PF (il risultato più interessante riguardava il fattore dell’ “l’intelligenza”), ma questi risultati non concordavano con quelli trovati nello studio precedente, confermando, di fatto, che fossero poco attendibili se non del tutto casuali.

Infine, parliamo dell’aggressività, visto che la parola “lunatico/a” tende anche a sottolineare la scontrosità di una persona che magari si è svegliata anche “con la luna storta”. L’idea che la luna piena renda (metaforicamente parlando) dei lupi mannari, per cui l’incidenza di traumi e lesioni o peggio di omicidi e suicidi possano aumentare durante questa fase, è stata ampiamente smentita dalla scienza (Coates et al., 1989), con qualche studio che riporta anche leggere diminuzioni di questi eventi (Näyhä, 2019; Stomp et al., 2009). Al contrario, la luna piena sembra aumentare il numero di incidenti fatali per i motociclisti (Redelmeier & Shafir, 2017). Quest’ultima osservazione controintuitiva (la luce dovrebbe aiutare alla guida) potrebbe essere spiegata dal fatto che la luna piena ben visibile in cielo, potrebbe essere una fonte di distrazione per il centauro, quando magari “spunta” nel suo campo visivo prima di un ostacolo o durante la percorrenza di una curva.

Le fasi lunari influenzano veramente la nostra psiche? Foto di Jean van der Meulen

Insomma, da un punto di vista psicologico, le fasi lunari non sembrano avere alcuna influenza sugli esseri umani. Solo il disturbo bipolare sembra risentire di un’influenza indiretta della luna piena sulla sintomatologia, causata dalla sua interazione col sonno. Sì, ma noi eravamo partiti dai capelli e dall’agricoltura! Vero, ma questo non è il mio campo. Ciononostante ho provato a fare delle ricerche. Per quanto riguarda la crescita delle piante in base alle fasi lunari, gli studi sono tanti e ve ne sono anche di antichi. Tutte le prove negano l’esistenza di queste relazioni (Mayoral et al., 2020).

 

E il taglio dei capelli? Di certo l’argomento è meno rilevante rispetto alla crescita delle colture, ma non meno diffuso. Eppure, non mi è parso di trovare alcuno studio sul tema. Il problema fondamentale è che sarebbe molto complicato stabilire un qualsivoglia meccanismo che possa spiegare perché è meglio tagliare i capelli durante una fase lunare piuttosto che un altra. Così come per le piante, un nostro capello ha una massa infinitamente minore dell’oceano per poter pensare che qualche tipo di forza gravitazionale, determinata dal ciclo lunare, possa influenzarne la crescita. Ma se per le piante una mezza influenza della luce emessa dalla luna nei primi giorni di “vita” poteva essere sensata, per i capelli degli esseri umani dei paesi industrializzati del XXI anche questa ipotesi appare quantomeno anacronistica. 

Se è vero che la luna ha qualche ruolo nella fisiologia del mondo animale (per cause elettromagnetiche o gravitazionali), è anche vero che noi esseri umani occidentali viviamo molto meno a contatto con la natura, la sua luce e i suoi ritmi (rispetto agli animali) e siamo continuamente circondati da stimoli, oggetti e ambienti artificiali (come le nostre stesse abitazioni) che “sporcano” gran parte dell’energia proveniente dal nostro ecosistema. Di certo astronomi e fisiologi potrebbero dirci qualcosa di più. Da parte mia penso che le credenze condivise (comprese quelle religiose) non di rado conservino una base normativa sociale e a volte scientifica implicita. Altre volte invece le credenze sono sole delle credenze, dei modi per illuderci di poter controllare o conoscere cose molto complesse che dipendono da un numero di variabili potenzialmente infinite e a volte sconosciute. In generale, per quanto fondata o no, una credenza popolare, nonostante qualsiasi smentita, rimane una culla ben più calda e comoda della scienza che offre ben poche risposte definitive, spesso costellate da sempre nuove e più complesse domande.

fasi lunari psiche
Le fasi lunari influenzano veramente la nostra psiche? Caspar David Friedrich, Mondaufgang am Meer (1822). 55 × 71 cm. Alte Nationalgalerie, Berlino. Foto di Francesco Bini, CC BY 3.0

Le fasi lunari influenzano veramente la nostra psiche?

Bibliografia:

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– Avery, D. H., Alexander, E. M., & Wehr, T. A. (2019). Synchrony between bipolar mood cycles and lunar tidal cycles ended after initiation of light treatment and treatment of hypothyroidism. Journal of Psychiatric Practice, 25(6), 475-480.

– Bedrosian, T. A., & Nelson, R. J. (2017). Timing of light exposure affects mood and brain circuits. Translational psychiatry, 7(1), e1017-e1017.

– Campbell, D. E., & Beets, J. L. (1978). Lunacy and the moon. Psychological bulletin, 85(5), 1123.

– Chaput, J. P., Weippert, M., LeBlanc, A. G., Hjorth, M. F., Michaelsen, K. F., Katzmarzyk, P. T., … & Sjödin, A. M. (2016). Are children like werewolves? Full moon and its association with sleep and activity behaviors in an international sample of children. Frontiers in pediatrics, 4, 24.

– Coates, W., Jehle, D., & Cottington, E. (1989). Trauma and the full moon: a waning theory. Annals of emergency medicine, 18(7), 763-765.

Criss, T. B., & Marcum, J. P. (1981). A lunar effect on fertility. Social Biology, 28(1-2), 75-80.

– Cutler, W. B., Schleidt, W. M., Friedmann, E., Preti, G., & Stine, R. (1987). Lunar influences on the reproductive cycle in women. Human biology, 959-972.

– Della Monica, C., Atzori, G., & Dijk, D. J. (2015). Effects of lunar phase on sleep in men and women in Surrey. Journal of sleep research, 24(6), 687-694.

– Davenhill, R., & Johnson, F. N. (1979). Scores on personality tests correlated with phase of the moon. IRCS Medical Sciences, 7, 124.

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– Haba-Rubio, J., Marques-Vidal, P., Tobback, N., Andries, D., Preisig, M., Kuehner, C., … & Heinzer, R. (2015). Bad sleep? Don’t blame the moon! A population-based study. Sleep medicine, 16(11), 1321-1326.

– Kelly, I. (1981). The Scientific Case against Astrology-Part Two-Cosmobiology and Moon Madness. Mercury, 10, 13.

– Mayoral, O., Solbes, J., Cantó, J., & Pina, T. (2020). What has been thought and taught on the lunar influence on plants in agriculture? perspective from physics and biology. Agronomy, 10(7), 955.

– McLay, R. N., Daylo, A. A., & Hammer, P. S. (2006). No effect of lunar cycle on psychiatric admissions or emergency evaluations. Military medicine, 171(12), 1239-1242.

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Raible, F., Takekata, H., & Tessmar-Raible, K. (2017). An overview of monthly rhythms and clocks. Frontiers in neurology, 8, 189.

-Raison, C. L., Klein, H. M., & Steckler, M. (1999). The moon and madness reconsidered. Journal of affective disorders, 53(1), 99-106.

– Redelmeier, D. A., & Shafir, E. (2017). The full moon and motorcycle related mortality: population based double control study. BMJ, 359.

– Startup, M. J., & Russell, R. J. H. (1985). Lunar effects on personality test scores: a failure to replicate. Personality and individual differences, 6(2), 267-269.

– Stomp, W., Fidler, V., ten Duis, H. J., & Nijsten, M. W. (2009). Relation of the weather and the lunar cycle with the incidence of trauma in the Groningen region over a 36-year period. Journal of Trauma and Acute Care Surgery, 67(5), 1103-1108.

– Turányi, C. Z., Rónai, K. Z., Zoller, R., Véber, O., Czira, M. E., Újszászi, Á., … & Novák, M. (2014). Association between lunar phase and sleep characteristics. Sleep medicine, 15(11), 1411-1416.

– Wehr, T. A. (2018). Bipolar mood cycles and lunar tidal cycles. Molecular psychiatry, 23(4), 923-931.

– Zimecki, M. (2006). The lunar cycle: effects on human and animal behavior and physiology. Postepy Hig Med Dosw (online), 60, 1-7.

Elefanti nani e piccioni giganti: regola o eccezione delle specie che abitano le isole?

 Uno studio internazionale, svolto in collaborazione con la Sapienza, spiega i meccanismi alla base dei fenomeni di gigantismo e nanismo che caratterizzano molte specie insulari, confermando anche l’influenza di fattori geografici e climatici. Tra questi le dimensioni dell’isola, la temperatura e la stagionalità. La ricerca è pubblicata sulla rivista Nature, Ecology and Evolution.

 Uno studio internazionale spiega i meccanismi alla base dei fenomeni di gigantismo e nanismo che caratterizzano molte specie nelle isole. Drago di Komodo. Foto di WolfmanSF, modificata da Midori, CC BY-SA 3.0

Le isole sono laboratori naturali di evoluzione, dove è possibile osservare traiettorie evolutive differenti da quelle che caratterizzano le masse continentali. Uno degli aspetti che da sempre suscita interesse e controversie tra gli esperti è la cosiddetta “regola dell’insularità” (o regola di Foster) proposta nel 1964, che tenta di spiegare i processi di gigantismo e nanismo che caratterizzano molte specie animali insulari.

Secondo tale principio biologico, i membri di una specie che popolano le isole tendono ad aumentare o a diminuire le proprie dimensioni nel tempo rispetto a quelli che vivono nei continenti: si pensi agli ormai estinti ippopotami ed elefanti nani nelle isole mediterranee, esempi di nanismo insulare. Così come ci sono specie di piccole dimensioni che possono evolvere in giganti dopo aver colonizzato le isole, dando vita a bizzarrie quali il topo dell’isola di St. Kilda in Scozia (due volte la dimensione dell’antenato continentale), il drago di Komodo, una grossa specie di lucertola diffusa nelle isole indonesiane, o il dodo, un piccione gigante delle isole Mauritious, estintosi nel diciassettesimo secolo a causa della presenza antropica.

Un gruppo di ricerca internazionale guidato Ana Benítez-López della stazione biologica della Doñana (EBD-CSIC) in Andalusia, a cui ha partecipato Luca Santini del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza Università di Roma, ha confrontato circa 2400 popolazioni di oltre 1000 specie insulari con le loro corrispettive popolazioni continentali, rivalutando il postulato alla base della regola dell’insularità e mostrando come questo principio sia fortemente influenzato da fattori geografici e climatici. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature, Ecology and Evolution.

In particolare, i ricercatori hanno dimostrato che l’entità del nanismo e del gigantismo insulare dipende dal grado di isolamento e dalla dimensione delle isole, con effetti più pronunciati in mammiferi e rettili in isole di piccole dimensioni e lontane dalla terraferma. I meccanismi che spiegano questi fattori sono molto probabilmente riconducibili all’esiguo numero di specie, da cui consegue una riduzione, sia dei livelli di predazione e competizione, sia dello scambio genico con le popolazioni continentali in isole distanti dalla terra ferma.

Inoltre è stata osservata l’influenza dei fattori climatici sull’entità degli effetti insulari: sia mammiferi che uccelli (animali a sangue caldo) mostrano gigantismi più accentuati e nanismi meno marcati in isole fredde, presumibilmente per ridurre la perdita di calore. Inoltre, la stagionalità è risultata un fattore importante per i rettili di piccole dimensioni che presentano un gigantismo più marcato in isole con forte stagionalità, probabilmente per far fronte a lunghi periodi di scarsità di risorse.

Utilizzando sofisticate tecniche statistiche, gli autori sono stati in grado di controllare una serie di problemi intrinsechi ai dati relativi alla biodiversità, quali la variabilità degli errori nei dati di partenza e la relazione evolutiva fra le specie, riuscendo a ottenere così chiare evidenze a favore delle nuove ipotesi.

“I processi di gigantismo e nanismo insulare hanno una lunga storia di ricerca in biogeografia, eppure incredibilmente non si era ancora giunti a un consenso tra gli esperti se questi processi potessero essere effettivamente considerati una regola – spiega Luca Santini della Sapienza. “Il nostro studio affronta questo quesito, mostrando non solo che il gigantismo e il nanismo insulare sono meccanismi generali che agiscono consistentemente su tutti i vertebrati, e quindi che non si tratta di singoli eventi evolutivi in poche specie note, ma anche che ci sono molti processi che contribuiscono a spiegare la diversità di dimensioni nelle specie”.

Riferimenti:

Benítez-López, A., Santini, L., Gallego-Zamorano, J., Milá, B., Walkden, P., Huijbregts, M. A. J., Tobias, J. A.  The island rule explains consistent patterns of body size evolution in terrestrial vertebrates. (2021) Nature, Ecology and Evolution. doi: 10.1038/s41559-021-01426-y

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione dell’Università Sapienza di Roma sui fenomeni di gigantismo e nanismo nelle isole.

 

28 salvi tutti! Così le politiche di conservazione hanno evitato l’estinzione di molti mammiferi e uccelli a rischio

Un nuovo studio internazionale, a cui ha preso parte la Sapienza, ha valutato l’impatto dei programmi di conservazione dal 1993 a oggi. I risultati del lavoro, pubblicati su Conservation Letters, hanno mostrato che sono state sottratte all’estinzione globale almeno 28 specie di uccelli e mammiferi, fra cui il pony della Mongolia, la lince pardina, l’amazzone di Portorico e il cavaliere nero

Il pony della Mongolia o cavallo di Przewalski, una delle 28 specie tra mammiferi e uccelli a rischio per le quali le politiche di conservazione stanno evitando l’estinzione. Foto di Henryhartley, CC BY-SA 3.0

La vita sulla Terra è il risultato di complessi equilibri dinamici che permettono i processi evolutivi e l’incredibile diversità biologica del pianeta. Le comunità biologiche però sono sempre più sottoposte a processi di deterioramento e impoverimento, principalmente dovuti all’azione dell’uomo, con effetti su scala globale e locale.

Numerosi studi hanno confermato che la maggior parte delle estinzioni di specie autoctone avvenute negli ultimi decenni è imputabile alle attività antropiche, tra le quali lo sviluppo di infrastrutture di comunicazione, l’espansione di produzioni industriali e agricole intensive e, più in generale, allo sfruttamento delle risorse non rinnovabili.

È su questi fattori che agiscono in tutto mondo le politiche e i programmi di conservazione per ristabilire una relazione di coevoluzione tra i sistemi naturali e quelli umani. Ma qual è realmente il loro impatto sulla tutela della biodiversità?

Oggi un nuovo studio internazionale coordinato dall’Università di Newcastle (Regno Unito) con la partecipazione di un team di 137 esperti da tutto il mondo, tra i quali Carlo Rondinini del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, ha identificato i programmi di protezione che più si sono dimostrati capaci di prevenire le estinzioni fra le specie di uccelli e animali a maggiore rischio di estinzione secondo la Red List della International Union for Conservation of Nature (IUCN). I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista Conservation Letters, hanno mostrato che dal 1993 a oggi sono state salvate dall’estinzione globale almeno 28 specie di uccelli e mammiferi, fra queste il pony della Mongolia (cavallo di Przewalski Equus ferus), la lince pardina (lince iberica Lynx pardinus), l’amazzone di Portorico (Amazona vittata) e il cavaliere nero (Himantopus novaezelandia).

Carlo Rondinini, che dirige il Global Mammal Assessment – un’iniziativa in partnership tra Sapienza e IUCN – ha coordinato l’analisi dei dati relativi ai mammiferi. “Senza programmi di conservazione – spiega Rondinini – a oggi il tasso di estinzione delle specie analizzate sarebbe stato dalle 3 alle 4 volte superiore a quello osservato: grazie a tali azioni, tra le numerose specie di mammiferi a rischio, quattordici di queste hanno beneficiato di interventi di carattere legislativo, come restrizioni sul commercio, e nove sono state soggette a interventi di reintroduzione e conservazione ex-situ in giardini zoologici. Si pensi al pony della Mongolia, estinto in natura negli anni ‘60 del secolo scorso. Nel 1990 sono iniziati gli interventi di reintroduzione, e nel 1996 il primo individuo è nato in ambiente selvatico. Ora oltre 760 cavalli di Przewalski vivono liberi nelle steppe della Mongolia”.

Per quanto riguarda gli uccelli, lo studio ha evidenziato che ventuno specie hanno beneficiato del controllo delle specie invasive, 20 della conservazione ex-situ e 19 della circoscrizione di aree protette. Uno dei volatili valutati dal team è l’amazzone di Portorico, un piccolo pappagallo endemico dell’isola di Portorico. La sua popolazione, un tempo abbondante, ha raggiunto la dimensione minima nel 1975, quando solo 13 individui erano sopravvissuti in ambiente selvatico. Dal 2006 sono stati prodotti ingenti sforzi per reintrodurre la specie in un secondo sito, nella Riserva Statale del Rio Abajo, unico areale oggi popolato.

Purtroppo per alcune delle specie incluse nello studio, come la focena (o vaquita) del Golfo di California, sebbene le azioni di conservazione abbiano determinato un rallentamento del declino, potrebbe essere impossibile prevenire l’estinzione in natura.

“La crisi della biodiversità è di ampiezza tale che non possiamo permetterci altri fallimenti. Comprendere quali azioni di conservazione abbiano più speranza di successo nei diversi scenari è fondamentale per pianificare il futuro della biodiversità e del pianeta – afferma Carlo Rondinini. “In ogni caso, investire per evitare l’estinzione delle specie più a rischio è importante, ma queste specie sono solo la punta dell’iceberg. La maggior parte delle specie è in drammatico declino e molte rischieranno l’estinzione nei prossimi decenni. Per invertire la tendenza e supportare la diversità della vita sul nostro pianeta è necessario ridurre l’impatto quotidiano e pervasivo dei nostri sistemi di produzione e consumo di cibo ed energia, adottando stili di vita realmente sostenibili”.

 

Riferimenti

Bolam, F.C, Mair, L., Angelico, M., Brooks, T.M, Burgman, M., McGowan, P. J. K & Hermes, C. et al. (2020). How many bird and mammal extinctions has recent conservation action prevented? Conservation Letters, e12762. doi: https://doi.org/10.1101/2020.02.11.943902

 

Testo dall’Ufficio Stampa Sapienza Università di Roma sulle 28 specie tra mammiferi e uccelli a rischio per le quali le politiche di conservazione stanno evitando l’estinzione.